Corriere della Sera 20.3.05
Le connessioni non sono casuali: prevalgono le più forti
La scoperta appena pubblicata sull’ultimo numero dell’autorevole mensile elettronico «Public Library of Science Biology» sull’organizzazione anatomica e funzionale della corteccia cerebrale sconvolge non pochi preconcetti. Un’équipe mista, inglese e americana (del Cold Spring Harbor Laboratory, nello Stato di New York, del Dipartimento di Biologia e del Volen National Center for Complex Systems, della Brandeis University, a Waltham, Massachusetts, e del Wolfson Institute for Biomedical Research e il Dipartimento di Fisiologia dell’University College, a Londra), guidata da Dmitri B. Chklovskii, ha scoperto che le connessioni tra i neuroni non seguono uno schema casuale, ma sono pilotate da un piccolo numero di connessioni forti. Le parole testuali di questi autori sono: «La rete di connessioni della corteccia cerebrale deve essere concepita come uno scheletro di connessioni forti in un mare di connessioni deboli». Occorre fare un passo indietro, per apprezzare la novità di questa scoperta. Il passo è che, in media, nel cervello di un mammifero, uomo compreso, ogni neurone è in contatto con mille altri neuroni, ma vi sono anche molti neuroni che sono in contatto con centomila altri neuroni. Il numero totale di contatti tra neurone e neurone (chiamati in gergo tecnico sinapsi) in un cervello umano è 1 seguito da ben quattordici zeri (un milione di miliardi). Nessun sistema nell’universo è complesso quanto un cervello umano (ma nemmeno quanto il cervello di un topo). Nemmeno i più potenti calcolatori si avvicinano a questo record naturale.
SINAPSI - Supponiamo pure che ogni contatto, ogni sinapsi, «conti», in qualche modo, nel funzionamento di ogni singolo cervello e che una qualche minima diversità tra le mie e le vostre sinapsi faccia sì, per esempio, che io ricordi cosa ho fatto ieri, mentre voi ricordate cosa voi avete fatto, che voi riconosciate vostra zia, mentre io riconosco la mia. E’ ovvio che il patrimonio genetico della nostra specie basta solo a precisare una infima minoranza di questi contatti, diciamo l’anatomia globale del cervello e alcune direttive di massima su come stabilire questa immensa rete. Tutto il resto è frutto, in parte, dell’esperienza individuale e in parte di fattori spontanei e aleatori che hanno sì dei nomi, ma non una vera teoria. I nomi sono «rumore dello sviluppo», «leggi della forma», «auto-organizzazione», «stabilizzazione selettiva» e altri ancora.
FASI - Fino ad ora, l’idea prevalente era che sbocciassero a caso mille e mille fiori (si creassero spontaneamente tante sinapsi) e che poi sopravvivessero solo quelle che venivano attivate spesso nel tempo. Se così davvero fosse, si dovrebbero osservare nelle prime fasi di sviluppo della corteccia cerebrale tutti i tipi di contatti possibili, con la stessa frequenza statistica. I tipi di contatti possibili tra tre neuroni sono tredici, tra quattro neuroni centonovantanove e così via, in un crescendo esponenziale. Ebbene, Chklovskii e collaboratori hanno definitivamente mostrato che questa idea è falsa. Con l’osservazione diretta e con modelli matematici sofisticati si è potuto concludere che solo poche delle possibilità di contatto tra neurone e neurone sono veramente presenti e sono loro a fare la parte del leone, cioè sono loro a pilotare lo sviluppo dell’intero sistema. Guarda caso, questi «moduli» di connessione sono anche quelli entro i quali i segnali nervosi sono più intensi, ma viene prima la gallina dell’uovo, cioè prima si creano queste connessioni robuste (lo scheletro o impalcatura, secondo le metafore usate da questi autori) entro le quali poi circolano intensi segnali nervosi. E’ l’inverso si quanto si era fino ad ora supposto. La domanda adesso aperta è: cosa determina la costituzione di questa impalcatura? La risposta ancora non è nota, ma si sa che questi «moduli» funzionali si ripetono e si ripetono in diverse parti del cervello, in ogni specie vivente, dall’umile verme al più intelligente essere umano.
MECCANISMI - Sono geneticamente determinati, oppure sono il frutto di meccanismi cellulari e inter-cellulari spontanei, di un qualche principio di organizzazione che emerge quando un apparato come un cervello si sviluppa? Forse l’opera dei geni, il lavorio raffinato del Dna, cavalca (per così dire) la tigre di fattori chimici fisici e organizzativi indipendenti, contribuendo solo, ma in modo cruciale, di volta in volta, a indirizzare il percorso della tigre in uno o due tra i possibili sentieri. Il matematico inglese Alan Mathison Turing, più noto per la sua teoria degli automi, aveva anche pubblicato un articolo teorico, oggi rispolverato, sui principi dello sviluppo dell’embrione. In essenza, una delle sue riflessioni era che l’evoluzione darwiniana classica può solo selezionare la struttura più adatta tra quelle che possono esistere. Non può certo selezionare delle strutture anatomiche e fisiologiche che la fisica e la chimica della vita escludono come impossibili. In tempi più recenti, simili considerazioni sono state ribadite con forza da due grandi evoluzionisti: il compianto Stephen Jay Gould e Richard Lewontin. Un semplice esempio, da loro spesso usato a lezione, è che nessun gene specifica la forma delle nostre ascelle. La dinamica dello sviluppo delle braccia e del torso, e i fattori genetici che pilotano questo sviluppo, producono inevitabilmente anche le ascelle. Nessun gene in un batterio determina la sua forma (grosso modo) sferica in condizioni di riposo. Il batterio la assume perché la sfera ha la massima superficie a parità di volume. Il Dna non determina le leggi della geometria, nè quelle della fisica, ma le sfrutta in modo abile. Il succo dell’articolo di Chklovskii sull’impalcatura modulare del cervello è che qualcosa di simile potrebbe essersi verificato anche per la corteccia cerebrale, la parte più nobile del cervello. Si tratta ora di scoprire quali leggi determinano l’impalcatura, un compito non facile. Abbiamo sentito dire, fino alla nausea, che l’evoluzione darwiniana ha scolpito il cervello delle diverse specie secondo la legge della sopravvivenza del più adatto. E che la nostra intelligenza, il prodotto del nostro cervello, è il risultato di questa lenta evoluzione. Probabilmente, ma selezione di che cosa?
POSSIBILITÀ - L’evoluzione non ha pescato in un mare di contatti deboli, tra tutte le possibilità casuali, ma ha piuttosto colto al volo una buona impalcatura tra le poche possibili, già ben organizzate da altri tipi di forze naturali. Due illustri immunologi, Antonio Coutinho e Pierre-Andrè Cazenave, amano raccontare la seguente istruttiva barzelletta. Pinocchio chiede a Geppetto: "Babbo, come mai i sassi, quando cadono, vanno tutti in basso?". Geppetto, che è un darwiniano perfetto, risponde: "Semplice, perché tutti i sassi che tendevano ad andare in alto sono stati eliminati dall’evoluzione naturale milioni di anni fa".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 20 marzo 2005
la manifestazione per la pace di ieri a Roma
L'Unità 20.3.05
A Roma «Bella ciao» per dire «no war». Tensione con la polizia
Associazioni, centri sociali, Prc, Pdci e Verdi: sfilano in 15mila. «Verità e giustizia per Sgrena e Calipari». Vietato arrivare a Palazzo Chigi
Wanda Marra
ROMA La musica scandita dai tamburi, un gruppo di ragazze vestite in azzurro e arancione eseguono una coreografia scatenata e decisa. C'è anche la «Malamurga», danza di protesta argentina, nel corteo pacifista che ieri ha sfilato a Roma. Come ci sono le note di «Bella Ciao» e del «Pueblo Unido», il sound dei Centri sociali, la musica delle bande popolari. È stata una manifestazione rumorosissima e colorata quella di ieri nella Capitale, a due anni dall'inizio della guerra in Iraq, per chiedere ancora una volta il ritiro delle truppe, per dire l'ennesimo no alla guerra. Come a New York e a Bruxelles. Come in tutto il mondo. In Italia, però, la manifestazione indetta dai Cobas e dai Cub, da Action, dal Comitato per il ritiro dei militari in Iraq e da numerosi centri sociali, alla quale hanno aderito il Prc, il Pdci e i Verdi, ha anche un significato in più: chiede «verità e giustizia» per Giuliana Sgrena, chiede il perché della morte di Nicola Calipari. Così in testa al corteo c'è uno striscione che recita «Il 70% degli italiani vuole: ritiro delle truppe subito! L'Iraq agli iracheni», preceduto da un camion che mostra le foto dei bambini colpiti dalle cluster bomb, scattate dalla Sgrena, alcune di quelle mostrate durante la manifestazione per chiedere la liberazione dell'inviata del Manifesto. Ai due lati del camion, una frase commenta queste immagini eloquenti «Missione di pace».
Il corteo parte alle 15 e 20, mentre i fotografi fanno a gara per fotografare una bambina piccolissima su una carrozzina, che si guarda intorno un po' spaurita. Tra i circa 15mila manifestanti ci sono anche Paolo Cento dei Verdi, Elettra Deiana e Giovanni Russo Spena del Prc. E i Direttori di Liberazione, Piero Sansonetti, e del Manifesto, Gabriele Polo. «Siamo qui per manifestare contro la guerra che è la morte della politica e della democrazia, ma anche per chiedere di conoscere la verità su ciò che è successo la sera del 4 marzo, quando è stata liberata Giuliana. Temo però che non ce lo diranno mai», dichiara Polo.
Tantissime le bandiere dei Cobas, molte anche quelle della pace. E tante anche le bandiere rosse del Prc e del Pdci. E poi ci sono gli striscioni per il popolo curdo, come quelli che chiedono la pace in Medio Oriente. Sono moltissimi i giovani, in primis quelli dei Collettivi Studenteschi. «Noi paghiamo le tasse universitarie. E i soldi servono anche a finanziare la missione in Iraq», spiega Marco. Nutrito anche il gruppetto di americani contro la guerra. «Vogliamo ribadire che non tutti gli americani stanno con Bush», spiega Barbara. Tantissimi i bambini. E appare anche uno striscione tutto loro: «La vita è bella, ma non la guerra». Nel frattempo, i Disobbedienti dal loro camion, preannunciano battaglia. Infatti, era stata chiesta l'autorizzazione ad arrivare a Palazzo Chigi. Ma è stata negata. «Non accettiamo zone rosse. Vogliamo dare un segnale in questa direzione», spiega uno dei leader, Francesco Caruso.
Sono le 16 e 20, quando la testa del corteo arriva a Piazza Venezia. La presenza di forze dell'ordine schierate è imponente: presidiano tutta la piazza, ma in particolare sono concentrare all'imbocco di via del Corso, strada diretta per Palazzo Chigi. Il camion dei Disobbedienti si porta proprio davanti agli uomini schierati. «Stop stop stop the war», continuano a scandire i microfoni. E: «Questo è l'unico paese dove non si può manifestare sotto i palazzi del potere». In mezzo, i parlamentari presenti tentano una trattativa per convincere le forze dell'ordine a far passare il corteo. Ma non c'è niente da fare. I manifestanti spingono da una parte, vengono contrastati. C'è un breve fuggi fuggi, non succede niente. I Disobbedienti e gli altri che vogliono forzare il blocco sono troppo pochi. «Andiamo a Largo Argentina, e cerchiamo delle strade alternative», dice Guido Lutrario dal camion. Così in un migliaio si dirigono verso la fine del corteo autorizzato, a piazza Navona. Mentre percorrono Corso Vittorio arriva la notizia che qualcuno sta sotto Palazzo Chigi a manifestare. Molti si infilano nei vicoli del centro per raggiungerli alla spicciolata. In via degli Orfani, prima di Piazza Capranica, vengono bloccati dalla polizia. Anche se la Questura di Roma racconta che non c'è stata alcuna carica, i manifestanti raccontano che in realtà le cariche ci sono state, anche se leggere. Alla fine due gruppetti separati riescano ad arrivare sotto Palazzo Chigi, ai due lati di piazza Colonna, ma la polizia impedisce tutte le entrate alla piazza. Quando loro «festeggiano» l'obiettivo centrato cantando «Bella ciao», sono quasi le 19.
A Roma «Bella ciao» per dire «no war». Tensione con la polizia
Associazioni, centri sociali, Prc, Pdci e Verdi: sfilano in 15mila. «Verità e giustizia per Sgrena e Calipari». Vietato arrivare a Palazzo Chigi
Wanda Marra
ROMA La musica scandita dai tamburi, un gruppo di ragazze vestite in azzurro e arancione eseguono una coreografia scatenata e decisa. C'è anche la «Malamurga», danza di protesta argentina, nel corteo pacifista che ieri ha sfilato a Roma. Come ci sono le note di «Bella Ciao» e del «Pueblo Unido», il sound dei Centri sociali, la musica delle bande popolari. È stata una manifestazione rumorosissima e colorata quella di ieri nella Capitale, a due anni dall'inizio della guerra in Iraq, per chiedere ancora una volta il ritiro delle truppe, per dire l'ennesimo no alla guerra. Come a New York e a Bruxelles. Come in tutto il mondo. In Italia, però, la manifestazione indetta dai Cobas e dai Cub, da Action, dal Comitato per il ritiro dei militari in Iraq e da numerosi centri sociali, alla quale hanno aderito il Prc, il Pdci e i Verdi, ha anche un significato in più: chiede «verità e giustizia» per Giuliana Sgrena, chiede il perché della morte di Nicola Calipari. Così in testa al corteo c'è uno striscione che recita «Il 70% degli italiani vuole: ritiro delle truppe subito! L'Iraq agli iracheni», preceduto da un camion che mostra le foto dei bambini colpiti dalle cluster bomb, scattate dalla Sgrena, alcune di quelle mostrate durante la manifestazione per chiedere la liberazione dell'inviata del Manifesto. Ai due lati del camion, una frase commenta queste immagini eloquenti «Missione di pace».
Il corteo parte alle 15 e 20, mentre i fotografi fanno a gara per fotografare una bambina piccolissima su una carrozzina, che si guarda intorno un po' spaurita. Tra i circa 15mila manifestanti ci sono anche Paolo Cento dei Verdi, Elettra Deiana e Giovanni Russo Spena del Prc. E i Direttori di Liberazione, Piero Sansonetti, e del Manifesto, Gabriele Polo. «Siamo qui per manifestare contro la guerra che è la morte della politica e della democrazia, ma anche per chiedere di conoscere la verità su ciò che è successo la sera del 4 marzo, quando è stata liberata Giuliana. Temo però che non ce lo diranno mai», dichiara Polo.
Tantissime le bandiere dei Cobas, molte anche quelle della pace. E tante anche le bandiere rosse del Prc e del Pdci. E poi ci sono gli striscioni per il popolo curdo, come quelli che chiedono la pace in Medio Oriente. Sono moltissimi i giovani, in primis quelli dei Collettivi Studenteschi. «Noi paghiamo le tasse universitarie. E i soldi servono anche a finanziare la missione in Iraq», spiega Marco. Nutrito anche il gruppetto di americani contro la guerra. «Vogliamo ribadire che non tutti gli americani stanno con Bush», spiega Barbara. Tantissimi i bambini. E appare anche uno striscione tutto loro: «La vita è bella, ma non la guerra». Nel frattempo, i Disobbedienti dal loro camion, preannunciano battaglia. Infatti, era stata chiesta l'autorizzazione ad arrivare a Palazzo Chigi. Ma è stata negata. «Non accettiamo zone rosse. Vogliamo dare un segnale in questa direzione», spiega uno dei leader, Francesco Caruso.
Sono le 16 e 20, quando la testa del corteo arriva a Piazza Venezia. La presenza di forze dell'ordine schierate è imponente: presidiano tutta la piazza, ma in particolare sono concentrare all'imbocco di via del Corso, strada diretta per Palazzo Chigi. Il camion dei Disobbedienti si porta proprio davanti agli uomini schierati. «Stop stop stop the war», continuano a scandire i microfoni. E: «Questo è l'unico paese dove non si può manifestare sotto i palazzi del potere». In mezzo, i parlamentari presenti tentano una trattativa per convincere le forze dell'ordine a far passare il corteo. Ma non c'è niente da fare. I manifestanti spingono da una parte, vengono contrastati. C'è un breve fuggi fuggi, non succede niente. I Disobbedienti e gli altri che vogliono forzare il blocco sono troppo pochi. «Andiamo a Largo Argentina, e cerchiamo delle strade alternative», dice Guido Lutrario dal camion. Così in un migliaio si dirigono verso la fine del corteo autorizzato, a piazza Navona. Mentre percorrono Corso Vittorio arriva la notizia che qualcuno sta sotto Palazzo Chigi a manifestare. Molti si infilano nei vicoli del centro per raggiungerli alla spicciolata. In via degli Orfani, prima di Piazza Capranica, vengono bloccati dalla polizia. Anche se la Questura di Roma racconta che non c'è stata alcuna carica, i manifestanti raccontano che in realtà le cariche ci sono state, anche se leggere. Alla fine due gruppetti separati riescano ad arrivare sotto Palazzo Chigi, ai due lati di piazza Colonna, ma la polizia impedisce tutte le entrate alla piazza. Quando loro «festeggiano» l'obiettivo centrato cantando «Bella ciao», sono quasi le 19.
opposti estremismi?
Ariana Faranda e Francesco Cossiga
L'Unità 20 Marzo 2005
Adriana Faranda a colloquio con Francesco Cossiga
Cossiga: «Avevo una visione che poi mi è costata molte critiche. Io sono quello che insieme a Pecchioli ha fatto una propaganda con una truffa semantica; chiamandovi criminali, ma questo serviva per mobilitare maggiormente contro di voi l’opinione pubblica, ma non ci ho mai creduto».
F. «Come persone come ci immaginava: tristi, allegri?».
C. «Normali».
F. «Io la immaginavo estremamente austero».
C. «Io sono cresciuto a pane, latte e politica. Io sono nato in una famiglia antifascista, repubblicana, piuttosto massonica, ma della massoneria risorgimentale e anti-giolittiana e quindi sono nato con questa passione».
F. «Io non sono nata con questa passione, mi è venuta dopo, all’università».
(...)
C. «Lei se si fosse dovuta iscrivere ad un partito, a parte il fatto che lei ha fatto una scelta alternativa, in che partito si sarebbe iscritta? Il partito comunista?».
F. «Non ne sono così sicura perché io all’inizio non avevo una particolare attrazione per la politica».
C. «La sua è stata più una scelta civile che politica. Quello che gli amici ex Pci non vogliono sentirsi dire da me, o i santoni paracomunisti, è che in voi è stato fortissimo l’elemento della resistenza incompiuta».
F. «Sicuramente. C’era, ma culturalmente».
C. «Cioè la resistenza tradita».
F. «Si il fatto che non si era riusciti a concludere il sogno rivoluzionario durante la guerra. Ma questo è già un motivo più ragionato, intellettuale. Lo sa che una delle cose che mi avevano più colpito, un film: Cristo fra i muratori. Questa cosa dei morti del lavoro mi ha accompagnato sempre. Come fanno gli altri esseri umani e lo Stato a permetterlo».
C. «Le morti sul lavoro sono una delle colpe maggiori delle società borghesi. Cioè della scelta della produttività evitando il costo delle precauzioni per la tutela del lavoro».
F. «Sento difficoltà a parlare delle mie motivazioni politiche con il Presidente Cossiga, in parte perché le mie motivazioni sono personali. Ho paura che il Presidente possa scambiarle con quelle di gruppo e poi ho paura che ripercorrere le mie motivazioni possa dar l’impressione di giustificare. Io ero partita da sentimenti civili, ho sempre avuto con la violenza un rapporto contraddittorio. Pur abbracciandola come male inevitabile. Quando c’è stato il primo ferimento a cui ho partecipato, che era quello del marchese Teodoli, io l’ho sognato notti dopo vestito di bianco con i pantaloni insanguinati. Perche io non avevo visto nulla durante il ferimento, non avevo visto sangue. Soltanto che dopo avevo sentito alla radio che essendo lui seduto un colpo gli aveva reciso l’arteria femorale. Questa cosa mi sconvolse molto».
C. «In un conflitto due giovani sottufficiali dei Carabinieri ammazzarono due di voi di Prima linea. Vennero ricevuti da me e questo giovane Carabiniere era la prima volta che aveva sparato in vita sua e continuava a ripetermi “mi creda non volevo uccidere, ho sparato per difendermi”».
« Il giorno prima che Moro venisse rapito mi fece questa chiamata: “Ma tu sei ben tutelato? Ricordati che hai moglie e figli”. Il giorno prima, si rende conto?».
F. «Più preoccupato forse di quanto non lo fosse lei stesso. Ma Moro si sentiva protetto?».
C. «Moro non ha mai pensato di correre pericoli, mai. E non è vero che aveva chiesto la macchina corazzata, si figuri se gli avrei rifiutato la macchina, gli avrei dato la mia. Ad un certo punto gli ho detto prendi il telefono in macchina, lui prima mi ha detto di sì, poi quando è venuto il momento di istallargli il telefono ha detto di no, forse perché non voleva essere seccato in macchina».
«Io ho creduto per lungo tempo che le lettere di Moro fossero frutto di una coercizione psicologica e diretta dovuta all’isolamento. La frase di Andreotti “che le lettere non erano realmente autentiche” l’ho scritta io, e invece erano la proiezione della concezione che Moro aveva della società e dello Stato. Dopo molto e leggendo alcune sue opere di filosofia giovanile, ho capito che non vi era debolezza, ma…».
F. «Coerenza».
C. «Era la coerenza. Nella lettera che mi scrive “Se riuscissi a parlare con Cossiga, riuscirei a persuaderlo e però, non mi dice, lui è influenzato dal suo conterraneo e cugino Berlinguer e poi crede troppo nel compromesso storico».
F. «E dice anche un’altra cosa che aveva colpito molto, riguardo alla linea della fermezza, dice sicuramente c’è lo schiacciamento di questa situazione da una parte il Pci dall’altra la Dc, però c’è anche il suo essere sardo. Cosa intendeva?».
C. «Il suo essere sardo è il suo essere implacabile».
F. «Rispetto alla fermezza perché lei ha avuto questa posizione?».
C. «Io ho assunto questa posizione perché il nostro non era uno Stato forte, può trattare uno Stato forte. Uno Stato debole non è in condizioni di trattare, per me la linea della fermezza è stata molto dolorosa, mi è costata una depressione, io mi svegliavo dicendo: Io ho ammazzato Moro, ed era vero».
F. «Anche io mi svegliavo la notte e dicevo ho ucciso Moro, anche se mi sono sempre battuta per…».
C. «Si ma l’ho ucciso più io che lei! Perché lei si e’ dissociata ed era contraria alle esecuzioni».
(...)
C. «La sera prima che lui fosse ucciso andai da Andreotti e lo trovai ottimista perché come lui poi mi ha detto, la cosa era troppo delicata e lui ritenne di non dirla nemmeno al suo Ministro dell’Interno, lui seguiva trattative sbagliate, non sbagliate, ma che faceva il Vaticano che riteneva di essere arrivato attraverso i cappellani delle carceri alle Br. È un errore storico ritenere che una cosa del genere possa essere risolta con il denaro. Come quelli che pensano di liberare oggi in Irak un ostaggio con il denaro, lei pensi se un estremista islamico o uno che si sente occupato se vuole denaro per i prigionieri. Ma vuole un prezzo politico».
F. «A me devo dire che mi ha riportato indietro nel tempo perché l’uccisione di un prigioniero e una cosa che mi riscaraventa nell’angoscia».
C. «Sa una cosa che mi ha riscaraventato nell’angoscia è vedere i prigionieri torturati dai britannici e dagli americani».
«Avessero gli americani o i britannici preso dieci irakeni insorti e fucilati, siamo nell’ambito della guerra, ma torturare i prigionieri… no! La tortura è la cosa più infame che esista. Lei vuole sapere la cosa peggiore che le Br hanno fatto. La tortura e l’uccisione del fratello di Peci».
F. «Io ho dei rimorsi per non aver tentato di fare di più».
C. «Io ho il rimorso di non averlo saputo salvare trovandolo, con la forza. Di essere stato insufficiente come Ministro dell’Interno. Io mi sono dimesso perché ero colpevole della sua morte di non essere riuscito a trovarlo. Secondo, perché bisognava affermare il principio politico, che il politico deve rispondere se no, non risponde mai nessuno. Ed è vile far rispondere i propri dipendenti e non rispondere in prima persona. L’altro motivo, ed è quello meno nobile, è che non volevo far saltare il compromesso storico».
F. «C’è stato qualche spiraglio nella linea della fermezza?».
C. «C’è stato. Una delle domande che ho fatto a Gallinari era - ma non avete capito che avevate vinto? La mia impressione è che non avessero capito e questo è il deficit politico della gestione del sequestro. Su questa vicenda sono d’accordo con Andreotti tranne che su un punto: a mio avviso quelli di Via Fani non avevano capito di avere già vinto, se avessero ritardato di 24 ore l’uccisione di Moro, la Dc avrebbe convocato su proposta di Fanfani, il Consiglio Nazionale che aveva aperto le porte alle trattative. Non dimentichiamoci che le Br alla fine avevano chiesto il riconoscimento solo della Dc. Era sufficiente che era la Dc che avesse trattato con loro».
«Io le dirò che il giorno che c’era la Direzione della Dc, quando poi hanno ucciso Moro, ero andato con la lettera delle dimissioni perché se la Dc avesse preso questa decisione mi sarei dimesso non per protesta ma perché il Ministro dell’Interno, che aveva gestito la linea della fermezza, non poteva essere lo stesso che avrebbe gestito la linea delle trattative».
F. «Da parte nostra ci sentivamo il fiato sul collo».
C. La fretta nell’uccidere Moro è stata dovuta al fatto che avevate capito che eravamo vicino».
F. «Io ritenevo che andasse liberato e basta, perché questa era la prima prova di forza delle Br».
C. «Sarebbe stata la prova di umanità che avrebbe turbato i vostri avversari e l’opinione pubblica e poi sarebbe saltata l’alleanza tra Pci e Dc.
(...)
F. «Ma se lei avesse incontrato uno di noi?».
C. «Avrei dialogato. Ho parlato con molti di voi».
F. «Ma lei ha cercato queste persone, perché?».
C. «Perché ero spinto a capire quale fosse la causa di quello che era accaduto. Andai a trovare Gallinari. Il fatto che cercassi di spiegarmi perché è avvenuta questa sorta di guerra civile non mi ha fatto molti amici nella Dc e anche in alcuni settori della sinistra. Loro temono che se si trovasse una motivazione a questo movimento rivoluzionario, verrebbe meno la loro legittimazione e quindi tutte le invenzioni che voi eravate strumento della P2 e degli americani, degli israeliani, l’ultima sciocchezza del Kgb».
(...)
F. «In carcere ho riacquistato la mia libertà. Ho letto e ho ricominciato a dipingere in carcere. In clandestinità sono stata dal ’76 al ’79. Avevo 26 anni».
«La libertà può essere un dono individuale o una conquista personale».
C. «La libertà deve essere una conquista individuale. Può essere un dono, ma solo di Dio».
F. «Secondo lei ha un senso che adesso noi siamo qui?».
Adriana Faranda a colloquio con Francesco Cossiga
Va in onda domani sera, alle 22,50 su Raidue, il dialogo tra Francesco Cossiga e Adriana Faranda del quale, in questa pagina, anticipiamo una parte. «A risentirci più tardi» è il titolo di una trasmissione che ha per tema il sequestro Moro, realizzata da Alex Infascelli per la serie «La storia siamo noi» di Giovanni Minoli. A dialogare sono da un lato il politico che all’epoca ricopriva il ruolo di ministro dell’Interno, schierato per il «partito della fermezza», benché consapevole che questo, al 99%, avrebbe significato la condanna a morte del presidente della Dc, e dimissionario il giorno dopo quello in cui ne fu rinvenuto il cadavere; dall’altro una brigatista della colonna romana, partecipe di numerose iniziative terroriste, ma, durante il sequestro, ostile all’idea di uccidere l’ostaggio. Il terreno, talora assai scivoloso, sul quale il dialogo si svolge è appunto questo: a parlare sono un ex-ministro non a pieno convinto della linea che sostenne allora e una brigatista che durante il sequestro maturò la sua rottura con l’organizzazione. Faranda ha scontato 16 anni di prigione. Dal 1995 è libera ed esercita la professione di fotografa.Faranda: «Come immaginava noi brigatisti?».
Cossiga: «Avevo una visione che poi mi è costata molte critiche. Io sono quello che insieme a Pecchioli ha fatto una propaganda con una truffa semantica; chiamandovi criminali, ma questo serviva per mobilitare maggiormente contro di voi l’opinione pubblica, ma non ci ho mai creduto».
F. «Come persone come ci immaginava: tristi, allegri?».
C. «Normali».
F. «Io la immaginavo estremamente austero».
C. «Io sono cresciuto a pane, latte e politica. Io sono nato in una famiglia antifascista, repubblicana, piuttosto massonica, ma della massoneria risorgimentale e anti-giolittiana e quindi sono nato con questa passione».
F. «Io non sono nata con questa passione, mi è venuta dopo, all’università».
(...)
C. «Lei se si fosse dovuta iscrivere ad un partito, a parte il fatto che lei ha fatto una scelta alternativa, in che partito si sarebbe iscritta? Il partito comunista?».
F. «Non ne sono così sicura perché io all’inizio non avevo una particolare attrazione per la politica».
C. «La sua è stata più una scelta civile che politica. Quello che gli amici ex Pci non vogliono sentirsi dire da me, o i santoni paracomunisti, è che in voi è stato fortissimo l’elemento della resistenza incompiuta».
F. «Sicuramente. C’era, ma culturalmente».
C. «Cioè la resistenza tradita».
F. «Si il fatto che non si era riusciti a concludere il sogno rivoluzionario durante la guerra. Ma questo è già un motivo più ragionato, intellettuale. Lo sa che una delle cose che mi avevano più colpito, un film: Cristo fra i muratori. Questa cosa dei morti del lavoro mi ha accompagnato sempre. Come fanno gli altri esseri umani e lo Stato a permetterlo».
C. «Le morti sul lavoro sono una delle colpe maggiori delle società borghesi. Cioè della scelta della produttività evitando il costo delle precauzioni per la tutela del lavoro».
F. «Sento difficoltà a parlare delle mie motivazioni politiche con il Presidente Cossiga, in parte perché le mie motivazioni sono personali. Ho paura che il Presidente possa scambiarle con quelle di gruppo e poi ho paura che ripercorrere le mie motivazioni possa dar l’impressione di giustificare. Io ero partita da sentimenti civili, ho sempre avuto con la violenza un rapporto contraddittorio. Pur abbracciandola come male inevitabile. Quando c’è stato il primo ferimento a cui ho partecipato, che era quello del marchese Teodoli, io l’ho sognato notti dopo vestito di bianco con i pantaloni insanguinati. Perche io non avevo visto nulla durante il ferimento, non avevo visto sangue. Soltanto che dopo avevo sentito alla radio che essendo lui seduto un colpo gli aveva reciso l’arteria femorale. Questa cosa mi sconvolse molto».
C. «In un conflitto due giovani sottufficiali dei Carabinieri ammazzarono due di voi di Prima linea. Vennero ricevuti da me e questo giovane Carabiniere era la prima volta che aveva sparato in vita sua e continuava a ripetermi “mi creda non volevo uccidere, ho sparato per difendermi”».
« Il giorno prima che Moro venisse rapito mi fece questa chiamata: “Ma tu sei ben tutelato? Ricordati che hai moglie e figli”. Il giorno prima, si rende conto?».
F. «Più preoccupato forse di quanto non lo fosse lei stesso. Ma Moro si sentiva protetto?».
C. «Moro non ha mai pensato di correre pericoli, mai. E non è vero che aveva chiesto la macchina corazzata, si figuri se gli avrei rifiutato la macchina, gli avrei dato la mia. Ad un certo punto gli ho detto prendi il telefono in macchina, lui prima mi ha detto di sì, poi quando è venuto il momento di istallargli il telefono ha detto di no, forse perché non voleva essere seccato in macchina».
«Io ho creduto per lungo tempo che le lettere di Moro fossero frutto di una coercizione psicologica e diretta dovuta all’isolamento. La frase di Andreotti “che le lettere non erano realmente autentiche” l’ho scritta io, e invece erano la proiezione della concezione che Moro aveva della società e dello Stato. Dopo molto e leggendo alcune sue opere di filosofia giovanile, ho capito che non vi era debolezza, ma…».
F. «Coerenza».
C. «Era la coerenza. Nella lettera che mi scrive “Se riuscissi a parlare con Cossiga, riuscirei a persuaderlo e però, non mi dice, lui è influenzato dal suo conterraneo e cugino Berlinguer e poi crede troppo nel compromesso storico».
F. «E dice anche un’altra cosa che aveva colpito molto, riguardo alla linea della fermezza, dice sicuramente c’è lo schiacciamento di questa situazione da una parte il Pci dall’altra la Dc, però c’è anche il suo essere sardo. Cosa intendeva?».
C. «Il suo essere sardo è il suo essere implacabile».
F. «Rispetto alla fermezza perché lei ha avuto questa posizione?».
C. «Io ho assunto questa posizione perché il nostro non era uno Stato forte, può trattare uno Stato forte. Uno Stato debole non è in condizioni di trattare, per me la linea della fermezza è stata molto dolorosa, mi è costata una depressione, io mi svegliavo dicendo: Io ho ammazzato Moro, ed era vero».
F. «Anche io mi svegliavo la notte e dicevo ho ucciso Moro, anche se mi sono sempre battuta per…».
C. «Si ma l’ho ucciso più io che lei! Perché lei si e’ dissociata ed era contraria alle esecuzioni».
(...)
C. «La sera prima che lui fosse ucciso andai da Andreotti e lo trovai ottimista perché come lui poi mi ha detto, la cosa era troppo delicata e lui ritenne di non dirla nemmeno al suo Ministro dell’Interno, lui seguiva trattative sbagliate, non sbagliate, ma che faceva il Vaticano che riteneva di essere arrivato attraverso i cappellani delle carceri alle Br. È un errore storico ritenere che una cosa del genere possa essere risolta con il denaro. Come quelli che pensano di liberare oggi in Irak un ostaggio con il denaro, lei pensi se un estremista islamico o uno che si sente occupato se vuole denaro per i prigionieri. Ma vuole un prezzo politico».
F. «A me devo dire che mi ha riportato indietro nel tempo perché l’uccisione di un prigioniero e una cosa che mi riscaraventa nell’angoscia».
C. «Sa una cosa che mi ha riscaraventato nell’angoscia è vedere i prigionieri torturati dai britannici e dagli americani».
«Avessero gli americani o i britannici preso dieci irakeni insorti e fucilati, siamo nell’ambito della guerra, ma torturare i prigionieri… no! La tortura è la cosa più infame che esista. Lei vuole sapere la cosa peggiore che le Br hanno fatto. La tortura e l’uccisione del fratello di Peci».
F. «Io ho dei rimorsi per non aver tentato di fare di più».
C. «Io ho il rimorso di non averlo saputo salvare trovandolo, con la forza. Di essere stato insufficiente come Ministro dell’Interno. Io mi sono dimesso perché ero colpevole della sua morte di non essere riuscito a trovarlo. Secondo, perché bisognava affermare il principio politico, che il politico deve rispondere se no, non risponde mai nessuno. Ed è vile far rispondere i propri dipendenti e non rispondere in prima persona. L’altro motivo, ed è quello meno nobile, è che non volevo far saltare il compromesso storico».
F. «C’è stato qualche spiraglio nella linea della fermezza?».
C. «C’è stato. Una delle domande che ho fatto a Gallinari era - ma non avete capito che avevate vinto? La mia impressione è che non avessero capito e questo è il deficit politico della gestione del sequestro. Su questa vicenda sono d’accordo con Andreotti tranne che su un punto: a mio avviso quelli di Via Fani non avevano capito di avere già vinto, se avessero ritardato di 24 ore l’uccisione di Moro, la Dc avrebbe convocato su proposta di Fanfani, il Consiglio Nazionale che aveva aperto le porte alle trattative. Non dimentichiamoci che le Br alla fine avevano chiesto il riconoscimento solo della Dc. Era sufficiente che era la Dc che avesse trattato con loro».
«Io le dirò che il giorno che c’era la Direzione della Dc, quando poi hanno ucciso Moro, ero andato con la lettera delle dimissioni perché se la Dc avesse preso questa decisione mi sarei dimesso non per protesta ma perché il Ministro dell’Interno, che aveva gestito la linea della fermezza, non poteva essere lo stesso che avrebbe gestito la linea delle trattative».
F. «Da parte nostra ci sentivamo il fiato sul collo».
C. La fretta nell’uccidere Moro è stata dovuta al fatto che avevate capito che eravamo vicino».
F. «Io ritenevo che andasse liberato e basta, perché questa era la prima prova di forza delle Br».
C. «Sarebbe stata la prova di umanità che avrebbe turbato i vostri avversari e l’opinione pubblica e poi sarebbe saltata l’alleanza tra Pci e Dc.
(...)
F. «Ma se lei avesse incontrato uno di noi?».
C. «Avrei dialogato. Ho parlato con molti di voi».
F. «Ma lei ha cercato queste persone, perché?».
C. «Perché ero spinto a capire quale fosse la causa di quello che era accaduto. Andai a trovare Gallinari. Il fatto che cercassi di spiegarmi perché è avvenuta questa sorta di guerra civile non mi ha fatto molti amici nella Dc e anche in alcuni settori della sinistra. Loro temono che se si trovasse una motivazione a questo movimento rivoluzionario, verrebbe meno la loro legittimazione e quindi tutte le invenzioni che voi eravate strumento della P2 e degli americani, degli israeliani, l’ultima sciocchezza del Kgb».
(...)
F. «In carcere ho riacquistato la mia libertà. Ho letto e ho ricominciato a dipingere in carcere. In clandestinità sono stata dal ’76 al ’79. Avevo 26 anni».
«La libertà può essere un dono individuale o una conquista personale».
C. «La libertà deve essere una conquista individuale. Può essere un dono, ma solo di Dio».
F. «Secondo lei ha un senso che adesso noi siamo qui?».
Terri Schiavo
Corriere della Sera 20.3.05
Margherita Hack, astrofisica: «E’ morta molto tempo fa» «Tenere in vita un vegetale è barbarie»
Mariolina Iossa
Margherita Hack, astrofisica, laica, una delle menti più brillanti della comunità scientifica italiana, non teme gli attacchi dei cattolici. Secondo lei, staccare il tubo a Terri era la cosa più sensata che si potesse fare. Il marito della Schiavo alla fine ha vinto la sua battaglia, nonostante la forte avversione dei genitori della povera donna.
«Tenere in vita un vegetale è una barbarie. È assurdo, una cosa inutile e senza senso».
I genitori della Schiavo si sono opposti con tutte le loro forze a questa forma di eutanasia.
«Io francamente penso che sia improprio parlare di eutanasia. La povera Terri è una persona già morta, tenerla in vita a forza è un’assurdità. Chissà, forse i genitori sperano ancora vanamente di poterla riabbracciare, di vederla risvegliarsi. O forse sono sedotti da qualche fondamentalismo religioso. Ma loro sono i genitori, è facile comprenderli».
Se però la scienza permette di mantenere la vita con una macchina, pur nella remota speranza di un risveglio, perché rifiutare questa opportunità?
«Quella di Terri è un’esistenza senza senso. Lei dice le macchine, la scienza. Rovesciamo il ragionamento: senza le macchine moderne Terri sarebbe già morta e la speranza di un risveglio è praticamente nulla. Ripeto, è inutile prolungare un battito del cuore quando la vita se n’è già andata via molto tempo fa».
Margherita Hack, astrofisica: «E’ morta molto tempo fa» «Tenere in vita un vegetale è barbarie»
Mariolina Iossa
Margherita Hack, astrofisica, laica, una delle menti più brillanti della comunità scientifica italiana, non teme gli attacchi dei cattolici. Secondo lei, staccare il tubo a Terri era la cosa più sensata che si potesse fare. Il marito della Schiavo alla fine ha vinto la sua battaglia, nonostante la forte avversione dei genitori della povera donna.
«Tenere in vita un vegetale è una barbarie. È assurdo, una cosa inutile e senza senso».
I genitori della Schiavo si sono opposti con tutte le loro forze a questa forma di eutanasia.
«Io francamente penso che sia improprio parlare di eutanasia. La povera Terri è una persona già morta, tenerla in vita a forza è un’assurdità. Chissà, forse i genitori sperano ancora vanamente di poterla riabbracciare, di vederla risvegliarsi. O forse sono sedotti da qualche fondamentalismo religioso. Ma loro sono i genitori, è facile comprenderli».
Se però la scienza permette di mantenere la vita con una macchina, pur nella remota speranza di un risveglio, perché rifiutare questa opportunità?
«Quella di Terri è un’esistenza senza senso. Lei dice le macchine, la scienza. Rovesciamo il ragionamento: senza le macchine moderne Terri sarebbe già morta e la speranza di un risveglio è praticamente nulla. Ripeto, è inutile prolungare un battito del cuore quando la vita se n’è già andata via molto tempo fa».
la depressione di un bambino-prodigio
La Stampa 20 Marzo 2005
A TRE ANNI SUONAVA IL PIANO E A UNDICI AVEVA COMINCIATO L'UNIVERSITÀ
Si spara il piccolo genio americano, aveva 14 anni
La famiglia: ormai qui sulla terra la sua esperienza era finita, lo diceva sempre
NEW YORK. Quando aveva 18 mesi, Brandenn Bremmer sapeva già leggere. A tre anni suonava il piano, a 10 aveva preso la licenza liceale, a 11 aveva cominciato l'università, e a 14 si è ucciso con un colpo di pistola alla testa. Che cosa si è infranto nella mente di questo bambino prodigio? La corsa al successo sta spingendo i ragazzini americani sull'orlo di precipizi che portano solo alla depressione?
Brandenn era nato 14 anni fa a Venango, paesino del Nebraska con 175 anime, al confine col Colorado. Secondo la madre, Patti, a un anno e mezzo aveva imparato a leggere da solo. A tre anni si era seduto dietro il pianoforte, ispirato dalla musica di Yanni, e lunedì scorso aveva finito di incidere il suo secondo cd di musica new age. Quando gli avevano messo davanti un difficilissimo test per l'intelligenza si era annoiato a completarlo, perchè gli era costata pochissima fatica raggiungere il punteggio di 178. I geni, normalmente, arrivano solo a 130 in questo tipo di esame, facile capire le proporzioni delle doti di Bremmer.
Ai genitori era sembrato ovvio iscriverlo alle scuole superiori, che aveva completato a 10 anni nella University of Nebraska-Lincoln Independent Study High School. Quindi l'anno dopo era entrato all'università nella Colorado State di Fort Collins, poi si era trasferito in un college più vicino a casa. Il suo obiettivo era laurearsi in medicina, specializzandosi in anestesiologia entro i 21 anni. Nel frattempo era diventato una celebrità nazionale, pedinato dai giornali e dagli show televisivi. Martedì scorso sembrava contento, aveva finito il cd. I genitori erano andati al supermercato per fare la spesa, quando sono tornati lo hanno trovato morto.
Avevano diverse pistole, com’è normale fra la gente del West, il ragazzo si era sparato un colpo in testa. La madre, Patti, non si sente colpevole: «Ha scelto tutto da sè, non siamo noi che lo abbiamo spinto a leggere quando aveva 18 mesi, o suonare il piano e andare all'università. Semmai avevamo cercato di rallentarlo. Ma chi dice che era un disadattato si sbaglia: non aveva età, e poteva stare tanto con i bambini quanto con i novantenni».
La mamma è convinta che Brandenn si sia ucciso perchè aveva esaurito il suo viaggio sulla Terra: «Era una persona molto spirituale, deve essersi convinto che era arrivato il momento di passare ad altro. Aveva già espresso il desiderio di donare i suoi organi, quando sarebbe morto, e abbiamo concesso il cuore, il fegato e i reni». Patti, del resto, non lo aveva mai sentito completamente suo: «Quando nacque i medici non riuscivano a trovare il battito del suo polso. Forse il mio bambino era morto, e un angelo aveva preso il suo posto».
I genitori di Bremmer hanno creato un'associazione per aiutare i bambini prodigio, il National Gifted Children’s Fund, e continueranno a gestirlo. «Questi ragazzi - ha spiegato Patti - hanno bisogno di assistenza. Dobbiamo sostenerli perchè sono loro che daranno all'umanità le grandi conquiste, come la cura per il cancro o l'Aids». Ce ne sono parecchi, in America. Dai fenomeni dello sport, come i golfisti Tiger Woods e Michelle Wie, ai musicisti come Jay Greenberg, che passa per il nuovo Mozart.
Jay ha 12 anni, studia al prestigioso Conservatorio Juilliard di New York, ha già composto cinque sinfonie. Dice che si siede al computer e gli vengono da sole, come se fossero gia' scritte. Sono così buone da essere suonate in tutte le sale per concerti nazionali, l'ultima, «The Storm», gli è stata commissionata dalla New Haven Symphony del Connecticut. Greg Smith, invece, ha 15 anni e sta prendendo un dottorato in Matematica all’università della Virginia. Il suo piano è studiare fino a 34 anni, e poi candidarsi alla Casa Bianca.
Sono storie curiose, ma ci sono anche casi che fanno pensare. Come quello di Marla Olmstead, una bambina di 4 anni che dipinge tele alla Jackson Pollock, vendute per migliaia di dollari. La psicologa Ellen Winner ha accusato i genitori di aver forzato Marla a disegnare, e forse anche di aver manipolato i suoi quadri. Secondo la National Mental Health Association, ogni anno cinquemila ragazzi americani si tolgono la vita. E non tutti sono geni spremuti dai genitori.
A TRE ANNI SUONAVA IL PIANO E A UNDICI AVEVA COMINCIATO L'UNIVERSITÀ
Si spara il piccolo genio americano, aveva 14 anni
La famiglia: ormai qui sulla terra la sua esperienza era finita, lo diceva sempre
NEW YORK. Quando aveva 18 mesi, Brandenn Bremmer sapeva già leggere. A tre anni suonava il piano, a 10 aveva preso la licenza liceale, a 11 aveva cominciato l'università, e a 14 si è ucciso con un colpo di pistola alla testa. Che cosa si è infranto nella mente di questo bambino prodigio? La corsa al successo sta spingendo i ragazzini americani sull'orlo di precipizi che portano solo alla depressione?
Brandenn era nato 14 anni fa a Venango, paesino del Nebraska con 175 anime, al confine col Colorado. Secondo la madre, Patti, a un anno e mezzo aveva imparato a leggere da solo. A tre anni si era seduto dietro il pianoforte, ispirato dalla musica di Yanni, e lunedì scorso aveva finito di incidere il suo secondo cd di musica new age. Quando gli avevano messo davanti un difficilissimo test per l'intelligenza si era annoiato a completarlo, perchè gli era costata pochissima fatica raggiungere il punteggio di 178. I geni, normalmente, arrivano solo a 130 in questo tipo di esame, facile capire le proporzioni delle doti di Bremmer.
Ai genitori era sembrato ovvio iscriverlo alle scuole superiori, che aveva completato a 10 anni nella University of Nebraska-Lincoln Independent Study High School. Quindi l'anno dopo era entrato all'università nella Colorado State di Fort Collins, poi si era trasferito in un college più vicino a casa. Il suo obiettivo era laurearsi in medicina, specializzandosi in anestesiologia entro i 21 anni. Nel frattempo era diventato una celebrità nazionale, pedinato dai giornali e dagli show televisivi. Martedì scorso sembrava contento, aveva finito il cd. I genitori erano andati al supermercato per fare la spesa, quando sono tornati lo hanno trovato morto.
Avevano diverse pistole, com’è normale fra la gente del West, il ragazzo si era sparato un colpo in testa. La madre, Patti, non si sente colpevole: «Ha scelto tutto da sè, non siamo noi che lo abbiamo spinto a leggere quando aveva 18 mesi, o suonare il piano e andare all'università. Semmai avevamo cercato di rallentarlo. Ma chi dice che era un disadattato si sbaglia: non aveva età, e poteva stare tanto con i bambini quanto con i novantenni».
La mamma è convinta che Brandenn si sia ucciso perchè aveva esaurito il suo viaggio sulla Terra: «Era una persona molto spirituale, deve essersi convinto che era arrivato il momento di passare ad altro. Aveva già espresso il desiderio di donare i suoi organi, quando sarebbe morto, e abbiamo concesso il cuore, il fegato e i reni». Patti, del resto, non lo aveva mai sentito completamente suo: «Quando nacque i medici non riuscivano a trovare il battito del suo polso. Forse il mio bambino era morto, e un angelo aveva preso il suo posto».
I genitori di Bremmer hanno creato un'associazione per aiutare i bambini prodigio, il National Gifted Children’s Fund, e continueranno a gestirlo. «Questi ragazzi - ha spiegato Patti - hanno bisogno di assistenza. Dobbiamo sostenerli perchè sono loro che daranno all'umanità le grandi conquiste, come la cura per il cancro o l'Aids». Ce ne sono parecchi, in America. Dai fenomeni dello sport, come i golfisti Tiger Woods e Michelle Wie, ai musicisti come Jay Greenberg, che passa per il nuovo Mozart.
Jay ha 12 anni, studia al prestigioso Conservatorio Juilliard di New York, ha già composto cinque sinfonie. Dice che si siede al computer e gli vengono da sole, come se fossero gia' scritte. Sono così buone da essere suonate in tutte le sale per concerti nazionali, l'ultima, «The Storm», gli è stata commissionata dalla New Haven Symphony del Connecticut. Greg Smith, invece, ha 15 anni e sta prendendo un dottorato in Matematica all’università della Virginia. Il suo piano è studiare fino a 34 anni, e poi candidarsi alla Casa Bianca.
Sono storie curiose, ma ci sono anche casi che fanno pensare. Come quello di Marla Olmstead, una bambina di 4 anni che dipinge tele alla Jackson Pollock, vendute per migliaia di dollari. La psicologa Ellen Winner ha accusato i genitori di aver forzato Marla a disegnare, e forse anche di aver manipolato i suoi quadri. Secondo la National Mental Health Association, ogni anno cinquemila ragazzi americani si tolgono la vita. E non tutti sono geni spremuti dai genitori.
il male del secolo
BresciaOggi 20.3.05
Un commento
Il male del secolo non è più il cancro
Nel Paese si accentuano le patologie psichiatriche
di Pietro Nonis
Capita di sentir parlare del cancro come del «male del secolo». In realtà esso afflisse l’umanità fin dai tempi più antichi. Di recente è andata aumentando, per profondità e vastità, la conoscenza sia delle forme sia delle cause. E la serie degli interventi, medici o chirurgici o di altro genere, ha portato non solo ad una conoscenza più produttiva ed efficace, ma anche al miglioramento, se non alla guarigione radicale, di un numero di casi che si sta avvicinando al cinquanta per cento. E le prospettive volgono al «meglio ancora».
A nostro parere, tuttavia, il «male del secolo» - che si presenta come l’altro sotto forme diverse, a volte difficilmente diagnosticabili - è, con la depressione, il triste corteo delle patologie psichiche, psichiatriche, psicologiche o come chiamar le si voglia.
Qui si è avuto negli ultimi decenni un fatto nuovo, insperato. Sulla psichiatria praticata solo repressivamente, o mediante reclusione ed isolamento deprimente, ha preso un certo piede, col valore di una profezia morale e sociale, il nuovo modo di pensare e di fare che si lega solitamente al professor Basaglia, operante in Trieste, il quale ha fatto in tempo, prima di scomparire prematuramente, a costituire non solo una vera e propria «scuola», ma anche a promuovere cambiamenti sensibili sia nella legislazione psichiatrica sia nelle provvidenze terapeutiche, la prima delle quali esigeva la chiusura, se non la vera e propria demolizione, delle tristi case di salute chiamate «manicomi», che a volte erano gulag di marca italiana.
All’attenzione ed agli entusiasmi degli inizi, fatti presenti a vari livelli, da quello parlamentare a quello sociale, clinico, operativo, ha fatto gradualmente seguito un greve muro di ostacoli, primo dei quali (motivato come succede in politica dalla mancanza di mezzi necessari, del personale specificamente preparato) fu la discarica - altro nome non merita - di gran parte degli ammalati, gravi compresi, sulle famiglie e sulle piccole comunità locali, del tutto sprovvedute per affrontare i problemi gravissimi sia delle diagnosi sia delle terapie sia del contenimento di possibili violenze - facilmente legate alla presenza del morbo mentale - riguardanti gli infelici malati e le persone con le quali avevano a che fare, in primo luogo familiari - mamme anziane, padri problematici, fratelli insensibili - impossibilitati ad affrontare problemi così gravi.
Lo svuotamento o alleggerimento della popolazione manicomiale assunse, almeno qualche volta, il carattere di una beffa, un’atroce presa in giro che diffondeva in tutto il territorio gravissimi interrogativi e acute sofferenze sino ad allora concentrati forzosamente nel sistema detentivo. Si cercò di farvi fronte aumentando, qualche volta senza alte garanzie per la preparazione scientifica, il numero dei diplomati psicologi, che effettivamente si diramarono un po’ dappertutto, con risultati che è arduo definire conformi alle speranze. Chi scrive ebbe modo di firmare, come preside d’una delle due facoltà di psicologia (si trattava anzi di un corso di laurea inserito in magistero, gravato di 13.600 studenti, obbligati a lavorare in spazi per i quali erano previsti solo 850 iscritti) molte centinaia di diplomi di laurea, la reale validità dei quali solo Dio conosce.
Oggi sembra accentuata, nel nostro paese, la patologia psichiatrica, o comunque legata a quel doloroso male che chiamiamo «depressione», specialmente all’interno delle famiglie, Non più tardi della settimana scorsa lo stesso giornale riportava, con allucinanti dettagli, la notizia della morte che un padre ha dato prima al figlio, pare malato di depressione, poi a se stesso. Possiamo solo immaginare quali gironi infernali avvolgano, giorno dopo giorno, la vita di tante famiglie, molte delle quali vivono ancora la malattia mentale come motivo di vergogna, o non hanno coraggio di chiedere aiuto.
Un aiuto che, nonostante la «distrazione» - chiamiamola così - della classe politica (della quale entra a far parte, in questo caso, anche parte della classe medica) oggi non è impossibile suscitare e promuovere, specialmente se si congiungono con rispetto e generosità più persone, a cominciare dalle famiglie e dal vicinato.
Un commento
Il male del secolo non è più il cancro
Nel Paese si accentuano le patologie psichiatriche
di Pietro Nonis
Capita di sentir parlare del cancro come del «male del secolo». In realtà esso afflisse l’umanità fin dai tempi più antichi. Di recente è andata aumentando, per profondità e vastità, la conoscenza sia delle forme sia delle cause. E la serie degli interventi, medici o chirurgici o di altro genere, ha portato non solo ad una conoscenza più produttiva ed efficace, ma anche al miglioramento, se non alla guarigione radicale, di un numero di casi che si sta avvicinando al cinquanta per cento. E le prospettive volgono al «meglio ancora».
A nostro parere, tuttavia, il «male del secolo» - che si presenta come l’altro sotto forme diverse, a volte difficilmente diagnosticabili - è, con la depressione, il triste corteo delle patologie psichiche, psichiatriche, psicologiche o come chiamar le si voglia.
Qui si è avuto negli ultimi decenni un fatto nuovo, insperato. Sulla psichiatria praticata solo repressivamente, o mediante reclusione ed isolamento deprimente, ha preso un certo piede, col valore di una profezia morale e sociale, il nuovo modo di pensare e di fare che si lega solitamente al professor Basaglia, operante in Trieste, il quale ha fatto in tempo, prima di scomparire prematuramente, a costituire non solo una vera e propria «scuola», ma anche a promuovere cambiamenti sensibili sia nella legislazione psichiatrica sia nelle provvidenze terapeutiche, la prima delle quali esigeva la chiusura, se non la vera e propria demolizione, delle tristi case di salute chiamate «manicomi», che a volte erano gulag di marca italiana.
All’attenzione ed agli entusiasmi degli inizi, fatti presenti a vari livelli, da quello parlamentare a quello sociale, clinico, operativo, ha fatto gradualmente seguito un greve muro di ostacoli, primo dei quali (motivato come succede in politica dalla mancanza di mezzi necessari, del personale specificamente preparato) fu la discarica - altro nome non merita - di gran parte degli ammalati, gravi compresi, sulle famiglie e sulle piccole comunità locali, del tutto sprovvedute per affrontare i problemi gravissimi sia delle diagnosi sia delle terapie sia del contenimento di possibili violenze - facilmente legate alla presenza del morbo mentale - riguardanti gli infelici malati e le persone con le quali avevano a che fare, in primo luogo familiari - mamme anziane, padri problematici, fratelli insensibili - impossibilitati ad affrontare problemi così gravi.
Lo svuotamento o alleggerimento della popolazione manicomiale assunse, almeno qualche volta, il carattere di una beffa, un’atroce presa in giro che diffondeva in tutto il territorio gravissimi interrogativi e acute sofferenze sino ad allora concentrati forzosamente nel sistema detentivo. Si cercò di farvi fronte aumentando, qualche volta senza alte garanzie per la preparazione scientifica, il numero dei diplomati psicologi, che effettivamente si diramarono un po’ dappertutto, con risultati che è arduo definire conformi alle speranze. Chi scrive ebbe modo di firmare, come preside d’una delle due facoltà di psicologia (si trattava anzi di un corso di laurea inserito in magistero, gravato di 13.600 studenti, obbligati a lavorare in spazi per i quali erano previsti solo 850 iscritti) molte centinaia di diplomi di laurea, la reale validità dei quali solo Dio conosce.
Oggi sembra accentuata, nel nostro paese, la patologia psichiatrica, o comunque legata a quel doloroso male che chiamiamo «depressione», specialmente all’interno delle famiglie, Non più tardi della settimana scorsa lo stesso giornale riportava, con allucinanti dettagli, la notizia della morte che un padre ha dato prima al figlio, pare malato di depressione, poi a se stesso. Possiamo solo immaginare quali gironi infernali avvolgano, giorno dopo giorno, la vita di tante famiglie, molte delle quali vivono ancora la malattia mentale come motivo di vergogna, o non hanno coraggio di chiedere aiuto.
Un aiuto che, nonostante la «distrazione» - chiamiamola così - della classe politica (della quale entra a far parte, in questo caso, anche parte della classe medica) oggi non è impossibile suscitare e promuovere, specialmente se si congiungono con rispetto e generosità più persone, a cominciare dalle famiglie e dal vicinato.
bullismo
La Stampa 20 Marzo 2005
CONVEGNO SUL TEPPISMO A VERCELLI
«Una felpa sbagliata e diventi vittima»
VERCELLI. Rapido e indolore. Il convegno sul disagio giovanile, che ha fatto registrato due assenze illustri, la giornalista della Stampa Loewenthal (39 di febbre), e il neuropsichiatra infantile Eugenio Torre (impegni inderogabili), è terminato alle 11, almeno un’ora prima del previsto, passerella delle autorità compresa.
Gremita comunque la sala Pastore della Camera di commercio di coloratissimi giovani delle scuole superiori di Vercelli. Ragazzi attenti e capaci di silenzio, anche quando don Osvaldo Carlino, in rappresentanza del vescovo, ha detto con candore: «Sono contento di avere l’occasione di sentir parlare dei problemi dei giovani. Da quando non insegno più, l’unica immagine che ho è quella di una gioventù con l’ombelico scoperto e il cellulare sempre acceso». Più materna e diplomatica l’assessore comunale Ketty Politi: «Ho anch’io due figli, e mi dico che li devo ascoltare di più, senza giudicare e senza eccedere nei consigli». Interessante la relazione della psicologa Federica Silvano: i bulli maschi sono in percentuale più numerosi (85 per cento), ma le ragazze sanno essere più subdole e cattive. Come si diventa vittime? «Basta indossare la felpa sbagliata». Poi a parlare l’assessore Giuseppe Masini, il provveditore Antonio Catania, il dirigente della Squadra mobile Giovanni Denaro e la scrittrice Sandrina Gasperoni.
CONVEGNO SUL TEPPISMO A VERCELLI
«Una felpa sbagliata e diventi vittima»
VERCELLI. Rapido e indolore. Il convegno sul disagio giovanile, che ha fatto registrato due assenze illustri, la giornalista della Stampa Loewenthal (39 di febbre), e il neuropsichiatra infantile Eugenio Torre (impegni inderogabili), è terminato alle 11, almeno un’ora prima del previsto, passerella delle autorità compresa.
Gremita comunque la sala Pastore della Camera di commercio di coloratissimi giovani delle scuole superiori di Vercelli. Ragazzi attenti e capaci di silenzio, anche quando don Osvaldo Carlino, in rappresentanza del vescovo, ha detto con candore: «Sono contento di avere l’occasione di sentir parlare dei problemi dei giovani. Da quando non insegno più, l’unica immagine che ho è quella di una gioventù con l’ombelico scoperto e il cellulare sempre acceso». Più materna e diplomatica l’assessore comunale Ketty Politi: «Ho anch’io due figli, e mi dico che li devo ascoltare di più, senza giudicare e senza eccedere nei consigli». Interessante la relazione della psicologa Federica Silvano: i bulli maschi sono in percentuale più numerosi (85 per cento), ma le ragazze sanno essere più subdole e cattive. Come si diventa vittime? «Basta indossare la felpa sbagliata». Poi a parlare l’assessore Giuseppe Masini, il provveditore Antonio Catania, il dirigente della Squadra mobile Giovanni Denaro e la scrittrice Sandrina Gasperoni.
donne nell'Islam
Corriere della Sera 20.3.05
Dopo Amina Wadud a New York, ecco le altre predicatrici musulmane
La riscossa illuminista delle donne imam
di MAGDI ALLAM
È esplosa la rivoluzione delle donne dell’Islam. L’americana Amina Wadud, la prima donna imam nella storia dell’Islam dall’epoca del profeta Mohammad (Maometto) 1.400 anni fa, rappresenta molto più di una riformatrice del culto perché la sua predicazione investe aspetti qualificanti della teologia, così come la sua figura trascende l’ambito squisitamente religioso perché abbraccia quello giuridico, culturale e politico. (Nella foto, a sinistra, la predicatrice Fariha al Jerrahi) Si tratta di un autentico rinnovamento dei valori fondanti della persona umana che scaturisce all’interno stesso dell’islam. Grazie alle donne.
E che, in concomitanza con i fermenti democratici esplosi in Medio Oriente, dà una spallata forte al pensiero teocratico, misogino e assolutista. Esprimendo il riscatto della società civile musulmana dall’infamia dell’11 settembre, l’apoteosi dell’orrore del terrorismo islamico e il frutto più deleterio della cultura della morte. Perché il 18 marzo 2005, con l’immagine di una donna musulmana che guida la preghiera collettiva mista, simboleggia l’inizio di un risorgimento islamico all’insegna della riscoperta del diritto individuale, del recupero della ragione e della conquista della libertà. Paradossalmente l’islam, proprio perché si basa sul rapporto diretto tra il fedele e Dio e disconosce la figura del sacerdote, del clero o di un papa, consente in virtù dell’interpretazione anche arbitraria dei singoli sia la deriva terroristica sia la riscossa illuminista.
Non si era mai visto nulla di simile in un luogo di culto islamico.
Prima una giovane donna di origine egiziana, Suheyla al-Attar, senza copricapo, che recita l’azan, l’appello alla preghiera, intonando con voce stupenda l’invocazione «Allahu Akbar!», Dio è l’Altissimo! Poi la cerimonia officiata dall’afro-americana Wadud, che porta il velo per propria scelta, davanti a file miste di fedeli dei due sessi, un fatto inedito nei luoghi di culto islamici. La stessa Wadud ha infranto un altro tabù quando ha pronunciato la khutba, il sermone: «Mentre il Corano pone uomini e donne sullo stesso piano, gli uomini hanno distorto i suoi insegnamenti per lasciare alle donne l’unico ruolo di partner sessuale». La Wadud, docente di islamistica alla Virginia Commonwealth University, si è spinta fino a contestare l’interpretazione tradizionale dell’identità di Dio, definendolo sia come «lui», sia come «lei», sia infine come «esso» perché, ha precisato, «dal momento che Allah non è creato, allora non può essere sottomesso o limitato da caratteristiche create quali il genere maschile, femminile o neutro». Alla cerimonia ha preso parte una terza donna, Saleemah Abdul-Ghafur, che ha guidato la recita del zikr, il ricordo di Dio. Una gestione della preghiera tutta al femminile che ha consacrato, per la prima volta nell’islam, la parità tra i due sessi sul piano cultuale, religioso, ideale e politico.
E che ha avuto una prima importantissima benedizione del gran mufti d’Egitto, lo sheikh Ali Gom’a. In un’intervista alla televisione Al Arabiya , il mufti, che è il massimo giureconsulto islamico del Paese, ha sentenziato: «La maggioranza dei teologi non consente a una donna di svolgere la funzione di imam per i fedeli maschi. Ma alcuni teologi, quali Al Tabari e Ibn Arabi, lo consentono. Ebbene quando non vi è concordanza su tali questioni, la decisione spetta ai diretti interessati. Se loro accettano di farsi guidare nella preghiera collettiva da una donna, sono fatti loro». Il responso del mufti non è però condiviso né dallo sheikh di Al Azhar, la più prestigiosa università islamica, né tantomeno dal radicale sheikh Youssef Qaradawi dei Fratelli Musulmani. Alla base dei loro veti c’è la sessuofobia: la donna non può fare l’imam perché il suo corpo ecciterebbe gli uomini che le stanno dietro. Il fatto che la Wadud sia stata costretta a fare svolgere la preghiera musulmana in una chiesa, la dice lunga sull’ostilità dei gruppi integralisti che controllano la gran parte delle moschee.
Comunque Wadud non sarà l’unica donna-imam. Salmi Kureishi, britannica di origine kenyana, ha annunciato che tra due mesi officerà la preghiera collettiva in una moschea di Londra anche se di fronte a un pubblico di donne e bambini. La sheikha Fariha al Jerrahi, americana, direttrice della confraternita sufi Jerrahi-Halveti, conduce la preghiera delle adepte donne.
E’ significativo il fatto che è nell’America di Bush che si registra l’evento della prima donna-imam, da quando il profeta Maometto autorizzò una sua compagna, Umm Waraqa, a guidare la preghiera presso la sua comunità. Perché è da quest’America profondamente segnata dall’esperienza e dalla paura del terrorismo islamico che è partita sia la rivolta contro i regimi tirannici sponsor del terrore sia la riforma interna dell’islam. Si tratta di un fenomeno epocale reso possibile, piaccia o meno, dalla poderosa reazione militare e dalla forza dei valori che, al di là di tutte le legittime critiche, l’America incarna.
Dopo Amina Wadud a New York, ecco le altre predicatrici musulmane
La riscossa illuminista delle donne imam
di MAGDI ALLAM
È esplosa la rivoluzione delle donne dell’Islam. L’americana Amina Wadud, la prima donna imam nella storia dell’Islam dall’epoca del profeta Mohammad (Maometto) 1.400 anni fa, rappresenta molto più di una riformatrice del culto perché la sua predicazione investe aspetti qualificanti della teologia, così come la sua figura trascende l’ambito squisitamente religioso perché abbraccia quello giuridico, culturale e politico. (Nella foto, a sinistra, la predicatrice Fariha al Jerrahi) Si tratta di un autentico rinnovamento dei valori fondanti della persona umana che scaturisce all’interno stesso dell’islam. Grazie alle donne.
E che, in concomitanza con i fermenti democratici esplosi in Medio Oriente, dà una spallata forte al pensiero teocratico, misogino e assolutista. Esprimendo il riscatto della società civile musulmana dall’infamia dell’11 settembre, l’apoteosi dell’orrore del terrorismo islamico e il frutto più deleterio della cultura della morte. Perché il 18 marzo 2005, con l’immagine di una donna musulmana che guida la preghiera collettiva mista, simboleggia l’inizio di un risorgimento islamico all’insegna della riscoperta del diritto individuale, del recupero della ragione e della conquista della libertà. Paradossalmente l’islam, proprio perché si basa sul rapporto diretto tra il fedele e Dio e disconosce la figura del sacerdote, del clero o di un papa, consente in virtù dell’interpretazione anche arbitraria dei singoli sia la deriva terroristica sia la riscossa illuminista.
Non si era mai visto nulla di simile in un luogo di culto islamico.
Prima una giovane donna di origine egiziana, Suheyla al-Attar, senza copricapo, che recita l’azan, l’appello alla preghiera, intonando con voce stupenda l’invocazione «Allahu Akbar!», Dio è l’Altissimo! Poi la cerimonia officiata dall’afro-americana Wadud, che porta il velo per propria scelta, davanti a file miste di fedeli dei due sessi, un fatto inedito nei luoghi di culto islamici. La stessa Wadud ha infranto un altro tabù quando ha pronunciato la khutba, il sermone: «Mentre il Corano pone uomini e donne sullo stesso piano, gli uomini hanno distorto i suoi insegnamenti per lasciare alle donne l’unico ruolo di partner sessuale». La Wadud, docente di islamistica alla Virginia Commonwealth University, si è spinta fino a contestare l’interpretazione tradizionale dell’identità di Dio, definendolo sia come «lui», sia come «lei», sia infine come «esso» perché, ha precisato, «dal momento che Allah non è creato, allora non può essere sottomesso o limitato da caratteristiche create quali il genere maschile, femminile o neutro». Alla cerimonia ha preso parte una terza donna, Saleemah Abdul-Ghafur, che ha guidato la recita del zikr, il ricordo di Dio. Una gestione della preghiera tutta al femminile che ha consacrato, per la prima volta nell’islam, la parità tra i due sessi sul piano cultuale, religioso, ideale e politico.
E che ha avuto una prima importantissima benedizione del gran mufti d’Egitto, lo sheikh Ali Gom’a. In un’intervista alla televisione Al Arabiya , il mufti, che è il massimo giureconsulto islamico del Paese, ha sentenziato: «La maggioranza dei teologi non consente a una donna di svolgere la funzione di imam per i fedeli maschi. Ma alcuni teologi, quali Al Tabari e Ibn Arabi, lo consentono. Ebbene quando non vi è concordanza su tali questioni, la decisione spetta ai diretti interessati. Se loro accettano di farsi guidare nella preghiera collettiva da una donna, sono fatti loro». Il responso del mufti non è però condiviso né dallo sheikh di Al Azhar, la più prestigiosa università islamica, né tantomeno dal radicale sheikh Youssef Qaradawi dei Fratelli Musulmani. Alla base dei loro veti c’è la sessuofobia: la donna non può fare l’imam perché il suo corpo ecciterebbe gli uomini che le stanno dietro. Il fatto che la Wadud sia stata costretta a fare svolgere la preghiera musulmana in una chiesa, la dice lunga sull’ostilità dei gruppi integralisti che controllano la gran parte delle moschee.
Comunque Wadud non sarà l’unica donna-imam. Salmi Kureishi, britannica di origine kenyana, ha annunciato che tra due mesi officerà la preghiera collettiva in una moschea di Londra anche se di fronte a un pubblico di donne e bambini. La sheikha Fariha al Jerrahi, americana, direttrice della confraternita sufi Jerrahi-Halveti, conduce la preghiera delle adepte donne.
E’ significativo il fatto che è nell’America di Bush che si registra l’evento della prima donna-imam, da quando il profeta Maometto autorizzò una sua compagna, Umm Waraqa, a guidare la preghiera presso la sua comunità. Perché è da quest’America profondamente segnata dall’esperienza e dalla paura del terrorismo islamico che è partita sia la rivolta contro i regimi tirannici sponsor del terrore sia la riforma interna dell’islam. Si tratta di un fenomeno epocale reso possibile, piaccia o meno, dalla poderosa reazione militare e dalla forza dei valori che, al di là di tutte le legittime critiche, l’America incarna.
Barbara Spinelli:
«la tirannide della salute»
La Stampa 20 Marzo 2005
IL MITO DELLA SOCIETÀ TERAPEUTICA
LA TIRANNIDE DELLA SALUTE
di Barbara Spinelli
TUTTO è avvenuto così rapidamente, che quasi non ce ne siamo accorti: una cosa da mozzare il fiato, come s’è detto della presunta sveltezza (ventott’anni) con cui è caduto il Muro di Berlino. La tirannide della salute si è insediata nelle nostre società, con effetti che fanno pensare a una rivoluzione non solo sociale, ma antropologica. E’ cominciato negli Anni 90 con l’aumento esponenziale delle malattie che ci affliggono o possono affliggerci, se non cambiamo stile di vita al più presto sotto la frusta della legge. E’ una tirannide che ha invaso le famiglie e i rapporti con gli altri, gli spazi pubblici e quasi per intero le vite private. Ha trasformato l’intera umanità in un gregge di malati e malaticci potenziali, dando vita a quell’ibrido che è il cittadino-minorenne e perennemente invalido, incapace di disciplinare da solo l’esistenza: il cittadino infantilizzato, che non viene informato o convinto, come accade in democratiche discussioni d’adulti, ma che lo Stato deve educare, persuadere, raddrizzare come legno storto.
Alla Repubblica dei filosofi sognata da Platone s’è sostituita la Repubblica dei medici e ministri della Sanità: i soli abilitati a dire in cosa consistano il viver-bene, la convivenza sociale, e perfino l’ultima roccaforte dell’individuo - l’intimità - di cui lo Stato vorrebbe appropriarsi. Società terapeutica è il nome dato a simile Repubblica sanitaria, e in essa gli uomini non dipendono più gli uni dagli altri, solidalmente, ma tutti dipendono da autorità superiori e da professionisti medici, nutrizionisti, ginnasti, e via medicalizzando il comando. Le società occidentali non sono mai state meglio dal punto di vista sanitario, i loro abitanti non hanno mai vissuto così a lungo. Ma ecco che questo lungo diventa insopportabilmente breve, quasi che l’immortalità terrena fosse desiderabile e a portata di mano. Promettendo di raggiungere quest’ennesima utopia, lo Stato si arroga la supervisione delle vite private e in cambio finge di promettere una vita quantitativamente più lunga, anche se non migliorata. Migliorare l’individuo o la società è un’aspirazione di ieri, un’opportunità grandiosa che solo il Papa evoca ancora. Adesso ci si accontenta di congelare lo status quo biologico, e massimamente virtuoso è chi sopravvive, più di chi fa qualcosa di buono della vita. È anzi eroico sopravvivere, è la nostra nuova religione. Lo scrive Michael Fitzpatrick, critico della società terapeutica inaugurata dal laburismo di Tony Blair. «Ai sette peccati mortali si son sostituiti i quattro capisaldi della tirannide della salute»: non fumare, non bere, mangiar sano, fare esercizi (Michael Fitzpatrick, Tiranny of Health, Routledge 2001).
Morale è chi persegue questi quattro traguardi, non chi osserva i comandamenti biblici più scabrosi come quelli che ordinano di onorare il padre e la madre, di non uccidere, di non rubare, di non dire falsa testimonianza, di non desiderare la roba d'altri (rispettivamente il quarto, quinto, settimo, ottavo, decimo comandamento). Può accadere - accade in Italia - che un ministro della Sanità specialmente rivoluzionario nell'ideare leggi terapeutiche si riveli poi molto meno incorruttibile, a seguito di indagini sui suoi conti all'estero. Può accadere che un parlamentare Usa indagato per malversazioni, Tom DeLay, diventi il più strenuo difensore della «cultura della vita» e neghi la morte assistita alla povera Terri Schiavo, ridotta da 15 anni allo stato vegetativo. Il moralizzatore del nostro corpo non ha da esser morale nell'anima, perché il corpo è divenuto infinitamente più prezioso ed etico dello spirito. La politica è ormai un'arte difficile, mal regolata da politici sempre più a corto di progetti trasformatori: appropriarsi delle scelte private dei cittadini, comprese le più tragiche, è l'ultima loro opportunità e la più potente delle loro aspirazioni.
È così che il viver sano ha sostituito il viver bene delle antiche filosofie, che la divisione tra sano-non sano ha soppiantato il bene-male. Finora accadeva nella fantapolitica, oggi realizzata. In un delizioso romanzo del 1872, lo scrittore Samuel Butler descrive un mondo in cui tutti i valori sono capovolti, e gli dà il nome di Erewhon, anagramma di Nowhere (nessun-luogo). A Erewhon i malati son trattati come criminali, processati, trascinati in prigione. Un raffreddore è disgrazia da nascondere: qualsiasi concittadino può denunciarci. Ben altro trattamento riceve il vero crimine, curato come mera indisposizione. Ladri e assassini sono medicati in ospedali dove regnano le buone maniere. Con affettuosa premura, i parenti s'informano: a che punto è la cura? Come si sente il ladro? (Butler, Erewhon e Ritorno a Erewhon, Adelphi 1975).
Butler criticava l'Inghilterra vittoriana, ossessionata dalle malattie soprattutto veneree. Non sapeva che qualche decennio dopo, agli inizi del nazismo, la religione del salutismo fondamentalista avrebbe reclutato nuovi sacerdoti. È all'epoca del nazionalsocialismo che risale la prima guerra preventiva contro il cancro, tramite il divieto di fumare: ogni individuo ha «il dovere di essere sano», dice Hitler, e con lui ha inizio, scrive lo storico Robert Proctor, «il primato del bene pubblico sulle libertà individuali». Giovani e donne, più soggetti alle mode, sono le categorie che più interessano il regime. Le prime ricerche sul nesso fra fumo e cancro polmonare (rivelatesi attendibili negli Anni 50) sono di quell'epoca. Nel mirino della campagna è il capitalismo del tabacco, detto anche «nemico del popolo». Per la prima volta si denunciano i pericoli del fumo passivo (Robert Proctor, The Nazi War on Cancer, Princeton University Press, 1999). Eva Braun, amante del Führer, fumava di nascosto.
Con questo non si vuol dire che la società terapeutica sia totalitaria per il solo fatto che anche Hitler la voleva. Hitler amava anche Wagner o Böcklin: un grande musicista e un pittore notevole. Si vuol solo dire che i vantaggi di simile società (l'apprendimento di una disciplina del corpo, anche se imposta dall'alto e non frutto di auto-nomia) non superano gli inconvenienti. Se ogni condotta sanitaria viene criminalizzata, se il comportamento del fumatore è causa sicura - anche se non provata - della morte di chi il fumo lo subisce, allora la società si fonderà sulla sfiducia, sulla diffidenza dell'altro, e su un immenso dogmatico conformismo che esclude ogni diverso. Ne verrà sfigurata anche la politica, che in cambio di una chimerica sopravvivenza biologica interverrà negli spazi più reconditi della vita privata. In questo l'Italia è più simile all'America che non agli europei. Basta andare a Parigi, a Londra, a Berlino, e il fumatore non avrà la netta impressione d'essere un lebbroso.
È una singolare obbedienza alla legge, quella degli italiani. È come se venissero spazzati via secoli di insubordinazione, di allergia allo Stato forte, alle regole. Ma l'Italia non è stata mai allergica ai conformismi di massa, alle mode di chi s'attruppa, alle prigioni del «comune sentire». Oggi vanno di moda il salutismo, il sesso sano, il mangiar sano, e finché regnerà questa moda tutti ci comporteremo come agnelli. L'Italia è poi un Paese dove fare e cambiare è divenuto impresa politica ingrata, dopo la crisi dei partiti e della sinistra libertaria: tanto più tracotante e invasiva si fa l'ambizione del potere a tutelare il privato di ciascuno.
È ancora da studiare il fascino che la dittatura della salute esercita sugli italiani. Così come è da studiare il potere che esercitano da noi i paladini del sopravvivere più a lungo possibile, sia di destra sia di sinistra. Un giorno è la sigaretta, che ci uccide. Poi siamo trafitti dal pollo, o dal bacio. Qualche giorno fa ci è stato detto che ben più mortiferi della polluzione automobilistica sono il latte, la farina. La verità - scrive ancora Fitzpatrick - è che nella dittatura della salute si rovina la vita dei sani, che dovrebbero esser lasciati in pace, mentre non ci si occupa dei malati. Può darsi che le spese sanitarie ne profitteranno: ma non ne profitteranno gli esseri umani, alla cui natura antropologica si sta attentando con politiche che dilatano la paura di tutto e di tutti.
L'11 settembre 2001 abbiamo appreso che il mondo è abitato da bombe umane, pronte a uccidere noi e la nostra civiltà. Ma praticamente ciascuno di noi è oggi bomba umana, con tutti i malanni che ci portiamo dentro, e sempre più difficile è sapere la civiltà che difendiamo: se una società in cui non si muore mai e al nostro lato cammina sempre qualcuno che ci vuol male, o una società in cui tutti i nomi delle nuove malattie (stress, obesità, depressione) sono in realtà i nomi di altrettante colpe morali. A Erewhon ci fu un tempo in cui si comminava la pena di morte, a chi s'ammalava oltre misura. Noi non siamo ancora a quel punto. Ma già oggi il corpo di ciascuno di noi ha preso il posto della nazione, della classe, della razza. È lui, adesso, a dover essere puro, sottratto al destino di vittima. Lo Stato si assume questa responsabilità, cancellando le ultime frontiere tra pubblico e privato. Era il sogno dei vittoriani e poi delle dittature, come s'è visto. Rischia di divenire il nuovo sogno eugenetico dei regimi democratici.
IL MITO DELLA SOCIETÀ TERAPEUTICA
LA TIRANNIDE DELLA SALUTE
di Barbara Spinelli
TUTTO è avvenuto così rapidamente, che quasi non ce ne siamo accorti: una cosa da mozzare il fiato, come s’è detto della presunta sveltezza (ventott’anni) con cui è caduto il Muro di Berlino. La tirannide della salute si è insediata nelle nostre società, con effetti che fanno pensare a una rivoluzione non solo sociale, ma antropologica. E’ cominciato negli Anni 90 con l’aumento esponenziale delle malattie che ci affliggono o possono affliggerci, se non cambiamo stile di vita al più presto sotto la frusta della legge. E’ una tirannide che ha invaso le famiglie e i rapporti con gli altri, gli spazi pubblici e quasi per intero le vite private. Ha trasformato l’intera umanità in un gregge di malati e malaticci potenziali, dando vita a quell’ibrido che è il cittadino-minorenne e perennemente invalido, incapace di disciplinare da solo l’esistenza: il cittadino infantilizzato, che non viene informato o convinto, come accade in democratiche discussioni d’adulti, ma che lo Stato deve educare, persuadere, raddrizzare come legno storto.
Alla Repubblica dei filosofi sognata da Platone s’è sostituita la Repubblica dei medici e ministri della Sanità: i soli abilitati a dire in cosa consistano il viver-bene, la convivenza sociale, e perfino l’ultima roccaforte dell’individuo - l’intimità - di cui lo Stato vorrebbe appropriarsi. Società terapeutica è il nome dato a simile Repubblica sanitaria, e in essa gli uomini non dipendono più gli uni dagli altri, solidalmente, ma tutti dipendono da autorità superiori e da professionisti medici, nutrizionisti, ginnasti, e via medicalizzando il comando. Le società occidentali non sono mai state meglio dal punto di vista sanitario, i loro abitanti non hanno mai vissuto così a lungo. Ma ecco che questo lungo diventa insopportabilmente breve, quasi che l’immortalità terrena fosse desiderabile e a portata di mano. Promettendo di raggiungere quest’ennesima utopia, lo Stato si arroga la supervisione delle vite private e in cambio finge di promettere una vita quantitativamente più lunga, anche se non migliorata. Migliorare l’individuo o la società è un’aspirazione di ieri, un’opportunità grandiosa che solo il Papa evoca ancora. Adesso ci si accontenta di congelare lo status quo biologico, e massimamente virtuoso è chi sopravvive, più di chi fa qualcosa di buono della vita. È anzi eroico sopravvivere, è la nostra nuova religione. Lo scrive Michael Fitzpatrick, critico della società terapeutica inaugurata dal laburismo di Tony Blair. «Ai sette peccati mortali si son sostituiti i quattro capisaldi della tirannide della salute»: non fumare, non bere, mangiar sano, fare esercizi (Michael Fitzpatrick, Tiranny of Health, Routledge 2001).
Morale è chi persegue questi quattro traguardi, non chi osserva i comandamenti biblici più scabrosi come quelli che ordinano di onorare il padre e la madre, di non uccidere, di non rubare, di non dire falsa testimonianza, di non desiderare la roba d'altri (rispettivamente il quarto, quinto, settimo, ottavo, decimo comandamento). Può accadere - accade in Italia - che un ministro della Sanità specialmente rivoluzionario nell'ideare leggi terapeutiche si riveli poi molto meno incorruttibile, a seguito di indagini sui suoi conti all'estero. Può accadere che un parlamentare Usa indagato per malversazioni, Tom DeLay, diventi il più strenuo difensore della «cultura della vita» e neghi la morte assistita alla povera Terri Schiavo, ridotta da 15 anni allo stato vegetativo. Il moralizzatore del nostro corpo non ha da esser morale nell'anima, perché il corpo è divenuto infinitamente più prezioso ed etico dello spirito. La politica è ormai un'arte difficile, mal regolata da politici sempre più a corto di progetti trasformatori: appropriarsi delle scelte private dei cittadini, comprese le più tragiche, è l'ultima loro opportunità e la più potente delle loro aspirazioni.
È così che il viver sano ha sostituito il viver bene delle antiche filosofie, che la divisione tra sano-non sano ha soppiantato il bene-male. Finora accadeva nella fantapolitica, oggi realizzata. In un delizioso romanzo del 1872, lo scrittore Samuel Butler descrive un mondo in cui tutti i valori sono capovolti, e gli dà il nome di Erewhon, anagramma di Nowhere (nessun-luogo). A Erewhon i malati son trattati come criminali, processati, trascinati in prigione. Un raffreddore è disgrazia da nascondere: qualsiasi concittadino può denunciarci. Ben altro trattamento riceve il vero crimine, curato come mera indisposizione. Ladri e assassini sono medicati in ospedali dove regnano le buone maniere. Con affettuosa premura, i parenti s'informano: a che punto è la cura? Come si sente il ladro? (Butler, Erewhon e Ritorno a Erewhon, Adelphi 1975).
Butler criticava l'Inghilterra vittoriana, ossessionata dalle malattie soprattutto veneree. Non sapeva che qualche decennio dopo, agli inizi del nazismo, la religione del salutismo fondamentalista avrebbe reclutato nuovi sacerdoti. È all'epoca del nazionalsocialismo che risale la prima guerra preventiva contro il cancro, tramite il divieto di fumare: ogni individuo ha «il dovere di essere sano», dice Hitler, e con lui ha inizio, scrive lo storico Robert Proctor, «il primato del bene pubblico sulle libertà individuali». Giovani e donne, più soggetti alle mode, sono le categorie che più interessano il regime. Le prime ricerche sul nesso fra fumo e cancro polmonare (rivelatesi attendibili negli Anni 50) sono di quell'epoca. Nel mirino della campagna è il capitalismo del tabacco, detto anche «nemico del popolo». Per la prima volta si denunciano i pericoli del fumo passivo (Robert Proctor, The Nazi War on Cancer, Princeton University Press, 1999). Eva Braun, amante del Führer, fumava di nascosto.
Con questo non si vuol dire che la società terapeutica sia totalitaria per il solo fatto che anche Hitler la voleva. Hitler amava anche Wagner o Böcklin: un grande musicista e un pittore notevole. Si vuol solo dire che i vantaggi di simile società (l'apprendimento di una disciplina del corpo, anche se imposta dall'alto e non frutto di auto-nomia) non superano gli inconvenienti. Se ogni condotta sanitaria viene criminalizzata, se il comportamento del fumatore è causa sicura - anche se non provata - della morte di chi il fumo lo subisce, allora la società si fonderà sulla sfiducia, sulla diffidenza dell'altro, e su un immenso dogmatico conformismo che esclude ogni diverso. Ne verrà sfigurata anche la politica, che in cambio di una chimerica sopravvivenza biologica interverrà negli spazi più reconditi della vita privata. In questo l'Italia è più simile all'America che non agli europei. Basta andare a Parigi, a Londra, a Berlino, e il fumatore non avrà la netta impressione d'essere un lebbroso.
È una singolare obbedienza alla legge, quella degli italiani. È come se venissero spazzati via secoli di insubordinazione, di allergia allo Stato forte, alle regole. Ma l'Italia non è stata mai allergica ai conformismi di massa, alle mode di chi s'attruppa, alle prigioni del «comune sentire». Oggi vanno di moda il salutismo, il sesso sano, il mangiar sano, e finché regnerà questa moda tutti ci comporteremo come agnelli. L'Italia è poi un Paese dove fare e cambiare è divenuto impresa politica ingrata, dopo la crisi dei partiti e della sinistra libertaria: tanto più tracotante e invasiva si fa l'ambizione del potere a tutelare il privato di ciascuno.
È ancora da studiare il fascino che la dittatura della salute esercita sugli italiani. Così come è da studiare il potere che esercitano da noi i paladini del sopravvivere più a lungo possibile, sia di destra sia di sinistra. Un giorno è la sigaretta, che ci uccide. Poi siamo trafitti dal pollo, o dal bacio. Qualche giorno fa ci è stato detto che ben più mortiferi della polluzione automobilistica sono il latte, la farina. La verità - scrive ancora Fitzpatrick - è che nella dittatura della salute si rovina la vita dei sani, che dovrebbero esser lasciati in pace, mentre non ci si occupa dei malati. Può darsi che le spese sanitarie ne profitteranno: ma non ne profitteranno gli esseri umani, alla cui natura antropologica si sta attentando con politiche che dilatano la paura di tutto e di tutti.
L'11 settembre 2001 abbiamo appreso che il mondo è abitato da bombe umane, pronte a uccidere noi e la nostra civiltà. Ma praticamente ciascuno di noi è oggi bomba umana, con tutti i malanni che ci portiamo dentro, e sempre più difficile è sapere la civiltà che difendiamo: se una società in cui non si muore mai e al nostro lato cammina sempre qualcuno che ci vuol male, o una società in cui tutti i nomi delle nuove malattie (stress, obesità, depressione) sono in realtà i nomi di altrettante colpe morali. A Erewhon ci fu un tempo in cui si comminava la pena di morte, a chi s'ammalava oltre misura. Noi non siamo ancora a quel punto. Ma già oggi il corpo di ciascuno di noi ha preso il posto della nazione, della classe, della razza. È lui, adesso, a dover essere puro, sottratto al destino di vittima. Lo Stato si assume questa responsabilità, cancellando le ultime frontiere tra pubblico e privato. Era il sogno dei vittoriani e poi delle dittature, come s'è visto. Rischia di divenire il nuovo sogno eugenetico dei regimi democratici.
Pierluigi Odifreddi:
«quanto sentimento nelle equazioni...»
Corriere della Sera 20.3.05
DAL VERME
Domani il matematico incontra il pubblico per il ciclo Pier Lombardo Culture
Quanto sentimento nelle equazioni
Odifreddi: «I-Ching, politica, amore: la logica guida la vita quotidiana»
Ida Bozzi
Che la matematica sembri afferrare affascinanti misteri, lo hanno spiegato anche di recente l'arte e il cinema: a Torino, la curva della Mole Antonelliana s'illumina di notte con Il volo dei numeri , opera dell'artista Mario Merz che riproduce i numeri di Fibonacci, in cui ogni terzo numero è la somma dei d ue precedenti; tra i film, Dopo mezzanotte di Ferrario , che proprio nella Mole torinese intreccia una storia d'amore e la passione per la matematica, ma anche un classico colmo di riferimenti come L'anno scorso a Marienbad di Resnais. Di più: perfino il sesso, i sentimenti o l'etica, proprio nei numeri trovano affascinanti «rispecchiamenti», se non spiegazioni e modelli.
PLATONE E BUSH - Se ne parla lunedì al Teatro Dal Verme con il matematico Piergiorgio Odifreddi, nella lezione «La logica dei sentimenti», per i Lunedì filosofici del ciclo Pier Lombardo Culture.
«Non esistono scorciatoie per la matematica - spiega Odifreddi - ma in effetti, quanto più le situazioni della vita sono complicate, tanto più val la pena di studiarle razionalmente. Per andare sulla Luna servono conoscenze fisiche e matematiche, perché non usarle anche per altri sistemi complessi? Platone diceva che la matematica non va imparata perché serve e basta, ma perché porta esempi di razionalità che servono a comportarsi eticamente». L'esempio più noto, di cui si parlerà domani, è la teoria dei giochi, sviluppata da John Nash , quello del film A beautiful mind, per intendersi. «La teoria dei giochi - prosegue Odifreddi - è una teoria razionale dei conflitti tra persone o gruppi. Tanto che esiste un team di consiglieri della presidenza degli Stati Uniti che studia la situazione internazionale attraverso tale teoria... che poi i Presidenti seguano i suoi indirizzi o meno, è un altro discorso».
SOLUZIONI DI COPPIA - Ma anche le relazioni di coppia possono essere descritte da modelli matematici: «Ci sono molti modi di analizzare un rapporto di coppia, gli stati di equilibrio, le equazioni differenziali... Si possono fare modelli: esistono persone che alle maggiori attenzioni del partner rispondono con più amore, altre invece si tirano indietro. Così è anche possibile cercare soluzioni, e scoprire perfino che in certi casi, di soluzioni, non ce n'è». La razionalità, insomma, entra in molti aspetti della vita: «Esempio classico è la sezione aurea, un numero che si ritrova in natura e in opere che giudichiamo "belle", dalle proporzioni del Partenone a quelle del corpo umano. E l'I-Ching? Il celebre psicoanalista Jung scrisse una prefazione di questo libro, parlando della sua "sincronicità". Ora, l'I-Ching non è molto matematico, ma Jung aveva scritto con il fisico Pauli un testo, Spiegazione della natura e psiche, in cui diceva che tra il determinismo e il caos c'è una specie di via di mezzo, le coincidenze significative, cioè la sincronicità. E la fisica di oggi ha trovato molti fenomeni che si spiegano proprio con questi stessi principi».
LA LOGICA DEI SENTIMENTI. Dal Verme, domani, ore 18.30, via S. Giovanni sul Muro 2, ingr. 8/5 euro, tel. 02.87.905.
DAL VERME
Domani il matematico incontra il pubblico per il ciclo Pier Lombardo Culture
Quanto sentimento nelle equazioni
Odifreddi: «I-Ching, politica, amore: la logica guida la vita quotidiana»
Ida Bozzi
Che la matematica sembri afferrare affascinanti misteri, lo hanno spiegato anche di recente l'arte e il cinema: a Torino, la curva della Mole Antonelliana s'illumina di notte con Il volo dei numeri , opera dell'artista Mario Merz che riproduce i numeri di Fibonacci, in cui ogni terzo numero è la somma dei d ue precedenti; tra i film, Dopo mezzanotte di Ferrario , che proprio nella Mole torinese intreccia una storia d'amore e la passione per la matematica, ma anche un classico colmo di riferimenti come L'anno scorso a Marienbad di Resnais. Di più: perfino il sesso, i sentimenti o l'etica, proprio nei numeri trovano affascinanti «rispecchiamenti», se non spiegazioni e modelli.
PLATONE E BUSH - Se ne parla lunedì al Teatro Dal Verme con il matematico Piergiorgio Odifreddi, nella lezione «La logica dei sentimenti», per i Lunedì filosofici del ciclo Pier Lombardo Culture.
«Non esistono scorciatoie per la matematica - spiega Odifreddi - ma in effetti, quanto più le situazioni della vita sono complicate, tanto più val la pena di studiarle razionalmente. Per andare sulla Luna servono conoscenze fisiche e matematiche, perché non usarle anche per altri sistemi complessi? Platone diceva che la matematica non va imparata perché serve e basta, ma perché porta esempi di razionalità che servono a comportarsi eticamente». L'esempio più noto, di cui si parlerà domani, è la teoria dei giochi, sviluppata da John Nash , quello del film A beautiful mind, per intendersi. «La teoria dei giochi - prosegue Odifreddi - è una teoria razionale dei conflitti tra persone o gruppi. Tanto che esiste un team di consiglieri della presidenza degli Stati Uniti che studia la situazione internazionale attraverso tale teoria... che poi i Presidenti seguano i suoi indirizzi o meno, è un altro discorso».
SOLUZIONI DI COPPIA - Ma anche le relazioni di coppia possono essere descritte da modelli matematici: «Ci sono molti modi di analizzare un rapporto di coppia, gli stati di equilibrio, le equazioni differenziali... Si possono fare modelli: esistono persone che alle maggiori attenzioni del partner rispondono con più amore, altre invece si tirano indietro. Così è anche possibile cercare soluzioni, e scoprire perfino che in certi casi, di soluzioni, non ce n'è». La razionalità, insomma, entra in molti aspetti della vita: «Esempio classico è la sezione aurea, un numero che si ritrova in natura e in opere che giudichiamo "belle", dalle proporzioni del Partenone a quelle del corpo umano. E l'I-Ching? Il celebre psicoanalista Jung scrisse una prefazione di questo libro, parlando della sua "sincronicità". Ora, l'I-Ching non è molto matematico, ma Jung aveva scritto con il fisico Pauli un testo, Spiegazione della natura e psiche, in cui diceva che tra il determinismo e il caos c'è una specie di via di mezzo, le coincidenze significative, cioè la sincronicità. E la fisica di oggi ha trovato molti fenomeni che si spiegano proprio con questi stessi principi».
LA LOGICA DEI SENTIMENTI. Dal Verme, domani, ore 18.30, via S. Giovanni sul Muro 2, ingr. 8/5 euro, tel. 02.87.905.
Raymond Aron e Karl Marx
Corriere della Sera 20.3.05
DIBATTITO L’attrazione del sociologo per l’autore del «Capitale».
Non era un liberista e non fece in tempo a vedere i frutti del «reaganismo»
Marx secondo Aron, uno scandalo per i marxisti
di ANGELO PANEBIANCO
A differenza del pensiero di Jean-Paul Sartre, che continua ad attrarre l’attenzione di tanti (per le ragioni indicate da Pierluigi Battista nell’articolo che sul Corriere della Sera ha dato l’avvio a una serrata discussione, rimbalzata poi anche su molte altre testate), quello di Raymond Aron rimane in un cono d’ombra, poco conosciuto e discusso. L’ennesima conferma viene dal fatto che nel dibattito innescato dal Corriere solo pochi interventi hanno toccato aspetti rilevanti della teoria politica e sociale di Aron. Mi riferisco alle acute osservazioni di Luciano Canfora (Corriere) sul rapporto fra Aron e Marx, e agli interessanti articoli di Marco Dolcetta (l’Unità) e di Domenico Quirico (La Stampa) sul liberalismo del pensatore francese. Temi che meritano di essere approfonditi, anche per mostrare quanto sbaglino coloro che pensano di non avere niente da imparare da Aron. Per quanto riguarda Marx, Canfora ha ragione. Aron è stato un agguerritissimo conoscitore dell’opera di Marx. Se i classici a cui ispirava la sua sociologia erano soprattutto Montesquieu, Tocqueville e Max Weber, tuttavia, Aron non smise mai di confrontarsi con Marx e di trarre ispirazione da questo o quel passaggio della sua opera. Nell’autore del Capitale Aron non apprezzava il filosofo hegeliano o il profeta della rivoluzione, ma lo «scienziato», il sociologo della società capitalista. Per molti anni coltivò il progetto (mai realizzato) di scrivere un libro su Marx.
Il punto interessante è che l’uso che Aron faceva del filosofo di Treviri scandalizzava i marxisti dell’epoca sua. Aron lo trattava infatti come un importante autore classico e ne faceva, come si deve fare con i classici, un uso strumentale. Si serviva cioè dell’una o dell’altra tesi di Marx per porre domande interessanti sulla società contemporanea. In una Francia in cui mietevano successi forme esasperate di scolasticismo marxista come, ad esempio, gli scritti di Louis Althusser (chi rileggerebbe oggi libri come Pour Marx o Lire «Le Capital »?), l’attenzione di Aron per Marx, lungi dal suscitare apprezzamento, infastidiva i marxisti: per i quali l’opera del loro maestro non era quella di un «importante classico» (fra gli altri), ma una sorta di Bibbia, e il marxismo stesso, come amava dire Aron, una religione secolare.
Marx interessava ad Aron anche perché nelle sue analisi egli trovava spunti utili per indagare le cause di quella «passione per l’uguaglianza» che pervade le democrazie occidentali. Ciò aiuta anche a spiegare, in parte, il liberalismo di Aron. Se sul piano filosofico Aron subiva l’influenza di Immanuel Kant, filtrato attraverso l’insegnamento dei suoi professori dell’École Normale, sul piano politico si ispirava a Montesquieu e a Tocqueville. Era, quello di Aron, un liberalismo intriso di realismo, che riservava, anche al prezzo di qualche contraddizione, uno spazio centrale alla politica (i liberali, spesso, sono portati a sottovalutarne l’importanza).
Le differenze fra il liberalismo realista di Aron ed altre varianti della dottrina sono ben rispecchiate, ad esempio, nelle analisi critiche che Aron dedicò al più importante teorico del liberalismo del XX secolo: Friedrich von Hayek. La centralità che nella sua teoria della società contemporanea rivestiva la politica spiega anche perché Aron fosse portato a riconoscere l’inevitabilità di un compromesso fra le ragioni della libertà e le ragioni dell’uguaglianza. Le democrazie del XX secolo, secondo il realista Aron, non potevano evitare, per garantirsi stabilità, di assecondare, entro certi limiti, le spinte ridistributive connesse allo sviluppo del welfare state .
L’atteggiamento realista, che pervade i suoi studi sulla società industriale, influenzò anche i suoi giudizi politici. Aron, negli anni Cinquanta e Sessanta, si dichiarava keynesiano perché in Keynes trovava allora, da pragmatico, un’utile ricetta per dare stabilità alle democrazie. Non fu (secondo il gergo italiano) un «liberista»: accettò che lo Stato svolgesse, rispetto all’economia di mercato, un ruolo maggiore di quello ammesso dalla maggior parte dei liberali. Personalmente, credo che questo sia stato un suo limite, anche se è certamente connesso alla centralità che egli attribuiva alla politica. È però ingiusto accusarlo di non avere capito la portata delle rivoluzioni liberali della Thatcher e di Reagan. La Thatcher va al governo nel 1979. Reagan vince le elezioni presidenziali nell’80. Aron muore nell’83. I frutti della rivoluzione reaganian-thatcheriana non sono ancora maturati.
Non possiamo sapere che cosa Aron avrebbe scritto di quelle rivoluzioni se fosse vissuto più a lungo. Sappiamo però con quale «metodo» le avrebbe esaminate: mettendo insieme i fatti conosciuti, soppesandone aspetti positivi e negativi, ed esprimendo, solo alla fine, le sue valutazioni.
Liberalismo a parte, Aron è soprattutto lo studioso della politica nella società industriale e della guerra (che indagò in tutte le sue dimensioni). Chi ha familiarità con quest’opera sa che ha tuttora molto da insegnarci. Ma è normale che Aron interessi a pochi e che continui invece ad avere più successo quella «politica dei letterati», produttrice di «visioni» (tanto false quanto brillanti), anziché di analisi serie e fondate, contro cui si indirizzavano gli strali di Max Weber e dello stesso Aron. Come mostra anche il successo pubblico del Sartre «politico», chi è affamato di «visioni» non si limita ad andare al cinematografo (secondo lo sprezzante consiglio di Weber). Pretende di trovarle anche in politica.
DIBATTITO L’attrazione del sociologo per l’autore del «Capitale».
Non era un liberista e non fece in tempo a vedere i frutti del «reaganismo»
Marx secondo Aron, uno scandalo per i marxisti
di ANGELO PANEBIANCO
A differenza del pensiero di Jean-Paul Sartre, che continua ad attrarre l’attenzione di tanti (per le ragioni indicate da Pierluigi Battista nell’articolo che sul Corriere della Sera ha dato l’avvio a una serrata discussione, rimbalzata poi anche su molte altre testate), quello di Raymond Aron rimane in un cono d’ombra, poco conosciuto e discusso. L’ennesima conferma viene dal fatto che nel dibattito innescato dal Corriere solo pochi interventi hanno toccato aspetti rilevanti della teoria politica e sociale di Aron. Mi riferisco alle acute osservazioni di Luciano Canfora (Corriere) sul rapporto fra Aron e Marx, e agli interessanti articoli di Marco Dolcetta (l’Unità) e di Domenico Quirico (La Stampa) sul liberalismo del pensatore francese. Temi che meritano di essere approfonditi, anche per mostrare quanto sbaglino coloro che pensano di non avere niente da imparare da Aron. Per quanto riguarda Marx, Canfora ha ragione. Aron è stato un agguerritissimo conoscitore dell’opera di Marx. Se i classici a cui ispirava la sua sociologia erano soprattutto Montesquieu, Tocqueville e Max Weber, tuttavia, Aron non smise mai di confrontarsi con Marx e di trarre ispirazione da questo o quel passaggio della sua opera. Nell’autore del Capitale Aron non apprezzava il filosofo hegeliano o il profeta della rivoluzione, ma lo «scienziato», il sociologo della società capitalista. Per molti anni coltivò il progetto (mai realizzato) di scrivere un libro su Marx.
Il punto interessante è che l’uso che Aron faceva del filosofo di Treviri scandalizzava i marxisti dell’epoca sua. Aron lo trattava infatti come un importante autore classico e ne faceva, come si deve fare con i classici, un uso strumentale. Si serviva cioè dell’una o dell’altra tesi di Marx per porre domande interessanti sulla società contemporanea. In una Francia in cui mietevano successi forme esasperate di scolasticismo marxista come, ad esempio, gli scritti di Louis Althusser (chi rileggerebbe oggi libri come Pour Marx o Lire «Le Capital »?), l’attenzione di Aron per Marx, lungi dal suscitare apprezzamento, infastidiva i marxisti: per i quali l’opera del loro maestro non era quella di un «importante classico» (fra gli altri), ma una sorta di Bibbia, e il marxismo stesso, come amava dire Aron, una religione secolare.
Marx interessava ad Aron anche perché nelle sue analisi egli trovava spunti utili per indagare le cause di quella «passione per l’uguaglianza» che pervade le democrazie occidentali. Ciò aiuta anche a spiegare, in parte, il liberalismo di Aron. Se sul piano filosofico Aron subiva l’influenza di Immanuel Kant, filtrato attraverso l’insegnamento dei suoi professori dell’École Normale, sul piano politico si ispirava a Montesquieu e a Tocqueville. Era, quello di Aron, un liberalismo intriso di realismo, che riservava, anche al prezzo di qualche contraddizione, uno spazio centrale alla politica (i liberali, spesso, sono portati a sottovalutarne l’importanza).
Le differenze fra il liberalismo realista di Aron ed altre varianti della dottrina sono ben rispecchiate, ad esempio, nelle analisi critiche che Aron dedicò al più importante teorico del liberalismo del XX secolo: Friedrich von Hayek. La centralità che nella sua teoria della società contemporanea rivestiva la politica spiega anche perché Aron fosse portato a riconoscere l’inevitabilità di un compromesso fra le ragioni della libertà e le ragioni dell’uguaglianza. Le democrazie del XX secolo, secondo il realista Aron, non potevano evitare, per garantirsi stabilità, di assecondare, entro certi limiti, le spinte ridistributive connesse allo sviluppo del welfare state .
L’atteggiamento realista, che pervade i suoi studi sulla società industriale, influenzò anche i suoi giudizi politici. Aron, negli anni Cinquanta e Sessanta, si dichiarava keynesiano perché in Keynes trovava allora, da pragmatico, un’utile ricetta per dare stabilità alle democrazie. Non fu (secondo il gergo italiano) un «liberista»: accettò che lo Stato svolgesse, rispetto all’economia di mercato, un ruolo maggiore di quello ammesso dalla maggior parte dei liberali. Personalmente, credo che questo sia stato un suo limite, anche se è certamente connesso alla centralità che egli attribuiva alla politica. È però ingiusto accusarlo di non avere capito la portata delle rivoluzioni liberali della Thatcher e di Reagan. La Thatcher va al governo nel 1979. Reagan vince le elezioni presidenziali nell’80. Aron muore nell’83. I frutti della rivoluzione reaganian-thatcheriana non sono ancora maturati.
Non possiamo sapere che cosa Aron avrebbe scritto di quelle rivoluzioni se fosse vissuto più a lungo. Sappiamo però con quale «metodo» le avrebbe esaminate: mettendo insieme i fatti conosciuti, soppesandone aspetti positivi e negativi, ed esprimendo, solo alla fine, le sue valutazioni.
Liberalismo a parte, Aron è soprattutto lo studioso della politica nella società industriale e della guerra (che indagò in tutte le sue dimensioni). Chi ha familiarità con quest’opera sa che ha tuttora molto da insegnarci. Ma è normale che Aron interessi a pochi e che continui invece ad avere più successo quella «politica dei letterati», produttrice di «visioni» (tanto false quanto brillanti), anziché di analisi serie e fondate, contro cui si indirizzavano gli strali di Max Weber e dello stesso Aron. Come mostra anche il successo pubblico del Sartre «politico», chi è affamato di «visioni» non si limita ad andare al cinematografo (secondo lo sprezzante consiglio di Weber). Pretende di trovarle anche in politica.
Lietta Tornabuoni:
il dvd de «I sovversivi», dei fratelli Taviani
La Stampa TuttoLibri 19.3.05
Videoclub
È usito il DVD de "I sovversivi" (1967) dei fratelli Taviani
Quei sovversivi senza padre
Lietta Tornabuoni
LE definizioni politico - poliziesche sono sempre più bizzarre (Anarchici insurrezionalisti, Anarchici liberisti eccetera) ed è curioso ripensare all'uso del semplice termine «sovversivi» nel 1967. Però nel film di Paolo e Vittorio Taviani la parola viene adoperata come aggettivo: sono «sovversivi» non i militanti armati contro lo Stato, ma coloro che sovvertono la propria esistenza mutando lavoro, pensieri, modo di essere. Non è forse il film più bello e perfetto dei Taviani, ma è il più caldo e smarrito, il più umano, incerto: e ci sono cose molto interessanti. C'è il grande funerale popolare di Togliatti a Roma nell'agosto del 1964, filmato pure da Pasolini. C'è Lucio Dalla giovane, nella parte di un laureato in filosofia tentato dalla possibilità di decifrare la realtà che lo circonda attraverso la fotografia. C'è la moglie di un funzionario del partito comunista che s'innamora di un'amica. Ci sono l'aria di quel momento e le avvisaglie del futuro Sessantotto, c'è un'atmosfera di crisi ideologica, di asfissia morale e di mancanza di certezze segnata simbolicamente dalla morte del padre politico. Dissero i Taviani: «Nel momento in cui ci si libera del padre, si dà l'addio a qualcuno che si è amato oppure odiato, a contatto del quale ci siamo formati, che ci ha portato a essere quelli che siamo (magari in opposizione a lui). Tutto questo rappresenta anche la propria giovinezza ed è il primo incontro con la propria morte». Durante quel funerale a Roma, si intrecciano le vicende dei personaggi che, senza mai incontratrsi, vivono i sintomi di una medesima crisi.
I Taviani avevano allora trentacinque, trentasette anni. Avevano già realizzato molti documentari e due lungometraggi, Un uomo da bruciare e I fuorilegge del matrimonio. Non avevano ancora maturato quel loro grande stile capace della fusione tra realtà ed estetica, non avevano ancora affinato la sicurezza nella scelta e direzione degli attori. Eppure I sovversivi (accompagnato nel DVD da una intervista agli autori e da una loro biofilmografia, da una sintesi della critica all'epoca) è un'opera commovente e intelligente, lungimirante, molto bella.
Videoclub
È usito il DVD de "I sovversivi" (1967) dei fratelli Taviani
Quei sovversivi senza padre
Lietta Tornabuoni
LE definizioni politico - poliziesche sono sempre più bizzarre (Anarchici insurrezionalisti, Anarchici liberisti eccetera) ed è curioso ripensare all'uso del semplice termine «sovversivi» nel 1967. Però nel film di Paolo e Vittorio Taviani la parola viene adoperata come aggettivo: sono «sovversivi» non i militanti armati contro lo Stato, ma coloro che sovvertono la propria esistenza mutando lavoro, pensieri, modo di essere. Non è forse il film più bello e perfetto dei Taviani, ma è il più caldo e smarrito, il più umano, incerto: e ci sono cose molto interessanti. C'è il grande funerale popolare di Togliatti a Roma nell'agosto del 1964, filmato pure da Pasolini. C'è Lucio Dalla giovane, nella parte di un laureato in filosofia tentato dalla possibilità di decifrare la realtà che lo circonda attraverso la fotografia. C'è la moglie di un funzionario del partito comunista che s'innamora di un'amica. Ci sono l'aria di quel momento e le avvisaglie del futuro Sessantotto, c'è un'atmosfera di crisi ideologica, di asfissia morale e di mancanza di certezze segnata simbolicamente dalla morte del padre politico. Dissero i Taviani: «Nel momento in cui ci si libera del padre, si dà l'addio a qualcuno che si è amato oppure odiato, a contatto del quale ci siamo formati, che ci ha portato a essere quelli che siamo (magari in opposizione a lui). Tutto questo rappresenta anche la propria giovinezza ed è il primo incontro con la propria morte». Durante quel funerale a Roma, si intrecciano le vicende dei personaggi che, senza mai incontratrsi, vivono i sintomi di una medesima crisi.
I Taviani avevano allora trentacinque, trentasette anni. Avevano già realizzato molti documentari e due lungometraggi, Un uomo da bruciare e I fuorilegge del matrimonio. Non avevano ancora maturato quel loro grande stile capace della fusione tra realtà ed estetica, non avevano ancora affinato la sicurezza nella scelta e direzione degli attori. Eppure I sovversivi (accompagnato nel DVD da una intervista agli autori e da una loro biofilmografia, da una sintesi della critica all'epoca) è un'opera commovente e intelligente, lungimirante, molto bella.
dal rapporto Kinsey a oggi
ansia e Viagra..?
Corriere della Sera 17 marzo 2005
A 20 anni con il Viagra per battere l’ansia
Kinsey, il sesso, le nuove trasgressioni
Come siamo cambiati: la libertà delle donne (che non credono più alla coppia) paralizza i loro compagni
Angela Frenda
Kinsey e i suoi rapporti oramai dovrebbero essere considerati preistoria, visto che negli anni sono usciti altri studi sull’argomento (da quello di Shire Hite a Masters and Johnson). Invece è stato sufficiente questo film per risvegliare i conservatori americani, che con picchetti e volantinaggi hanno cercato di boicottarlo, ritenendo Kinsey un eroe negativo. Polemiche molto simili a quelle che i due rapporti suscitarono nell’America perbenista degli anni ’50, quando si pensò che quelle teorie minassero le basi del matrimonio e della società. Mentre una commissione congressuale guidata dal senatore Mc Carthy ipotizzò che Kinsey facesse parte di un complotto comunista per indebolire i valori americani. Risultato: nel 1954 la Fondazione Rockefeller gli negò i fondi per altre ricerche. Ma intanto, grazie ai suoi rapporti, l’America cominciò a parlare di sesso. I due libri divennero bestseller e abbatterono molti tabù, aprendo le porte alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e all’accettazione dell’omosessualità.
Una vera sorpresa per questo scienziato, figlio di un pastore metodista, che dopo essersi specializzato nella ricerca sulle vespe delle galle arrivò a scoprire che, a partire da lui, i giovani americani degli anni ’40 non sapevano nulla di sesso. Intervistando 5.300 maschi e 5.940 femmine tracciò un quadro rivoluzionario per l’epoca: il 46 per cento degli uomini aveva avuto esperienze bisessuali; il 69 per cento era stato con prostitute; il 92 per cento praticava la masturbazione; le donne adolescenti sostenevano di avere tre rapporti a settimana; le trentenni almeno due a settimana, prima del matrimonio; il 29 per cento delle donne e il 21 per cento degli uomini confessava l’adulterio.
In Italia i due rapporti Kinsey furono portati da Valentino Bompiani, che ne comprò i diritti e li pubblicò rispettivamente nel 1950 e nel 1955. Entrambi accompagnarono una ventata di trasgressione, in un periodo in cui le donne italiane andavano ancora in prigione per adulterio. Soprattutto aiutarono a capire che di sesso anche gli italiani sapevano poco o niente. «Dopo il rapporto Kinsey, parlare di orgasmo divenne quasi una banalità — racconta l’avvocato matrimonialista Annamaria Bernardini De Pace —, e noi ragazze, che ci nutrivamo al massimo di giornaletti come Duepiù, finalmente riuscimmo a porci domande su argomenti considerati proibiti». Per la psicoanalista Vera Slepoj, l’effetto di quel rapporto sugli italiani fu ancora più profondo: «Modificò i comportamenti sessuali di uomini e donne, avviando una grande rivoluzione culturale». In più col rapporto Kinsey, secondo il sessuologo Willy Pasini, «i cattolicissimi italiani scoprirono che il sesso non era solo procreativo, ma poteva avere anche varianti normali o addirittura patologiche».
Ma che cosa hanno imparato le donne e gli uomini italiani da quei due rapporti? In realtà, interrogando gli addetti ai lavori, molto poco. Nel senso che se dal punto di vista tecnico e informativo si sa tanto, ora, della sessualità, dall’altro si assiste a una regressione dei sentimenti e dei rapporti interpersonali. Va peggio soprattutto per la generazione dei ventenni. Le ragazze pensano, secondo Bernardini De Pace, «che il rapporto sessuale è solo uno scambio, un modo di essere. Hanno conoscenza delle nozioni base. E usano il sesso con facilità estrema, senza prestare attenzione alla cura dei rapporti. Anzi, spesso abbandonando ogni progetto di coppia».
Risultato? Che i maschi ventenni si trovano davanti a un bivio. O «infarcire i rapporti di romanticismo, in modo da tenere sotto controllo la paura che provano per il sesso», spiega Slepoj. Oppure, secondo Pasini, «affrontare le coetanee ricorrendo ad aiuti farmaceutici. Non è un caso che io abbia sempre più pazienti ventenni che non riescono ad avere rapporti sessuali sereni con le loro coetanee. Troppa ansia, troppa paura di non essere all’altezza. Così mi chiedono medicine come il Cialis, che è il nuovo Viagra».
Ma non va bene neppure per la generazione dei trenta-quarantenni. «Le donne italiane di questa età — racconta Bernardini De Pace — banalizzano il sesso e hanno abbandonato il progetto di coppia. L’effetto, per quello che vedo dal mio osservatorio, sono matrimoni che vanno in frantumi grazie a donne che nella storia a due credono sempre meno e a uomini terrorizzati da un’eccessiva consapevolezza femminile». Che la vita sessuale degli italiani, dagli anni ’50 a oggi, non sia migliorata, lo sostiene anche Vera Slepoj, per la quale si può parlare addirittura di «un’involuzione. Perché se da un lato è aumentata la conoscenza, dall’altro non si conoscono gli strumenti giusti per vivere i rapporti in maniera matura. Le quaranta-cinquantenni hanno raggiunto solo una visione teorica del sesso. E gli uomini, spaventati da questa consapevolezza, sono attenti in maniera nevrotica al piacere femminile». Di questo è convinto anche Willy Pasini: «La sessualità delle donne italiane in questi anni è migliorata tecnicamente. Mentre quella degli uomini è solo peggiorata, perché sono paralizzati dall’ansia».
A 20 anni con il Viagra per battere l’ansia
Kinsey, il sesso, le nuove trasgressioni
Come siamo cambiati: la libertà delle donne (che non credono più alla coppia) paralizza i loro compagni
Angela Frenda
1970 - Rivoluzione a letto. Sono gli anni del boom del sesso, in totale libertà, senza paure, senza tabù. Pasolini ne «I racconti di Canterbury».MILANO — Sono passati 57 anni dalla pubblicazione della sua prima ricerca, «Il comportamento sessuale dell’uomo», e 52 dalla seconda, «Il comportamento sessuale della donna». Ma il professor Alfred Kinsey, Prok per gli amici, continua a far parlare di sé. Dopodomani esce nelle sale italiane la cinebiografia dello zoologo-sessuologo dell’Indiana, per la regia di Bill Condon (già autore di «Demoni e Dei»), attore protagonista Liam Neeson (l’eroe di «Schindler’s list»).
Kinsey e i suoi rapporti oramai dovrebbero essere considerati preistoria, visto che negli anni sono usciti altri studi sull’argomento (da quello di Shire Hite a Masters and Johnson). Invece è stato sufficiente questo film per risvegliare i conservatori americani, che con picchetti e volantinaggi hanno cercato di boicottarlo, ritenendo Kinsey un eroe negativo. Polemiche molto simili a quelle che i due rapporti suscitarono nell’America perbenista degli anni ’50, quando si pensò che quelle teorie minassero le basi del matrimonio e della società. Mentre una commissione congressuale guidata dal senatore Mc Carthy ipotizzò che Kinsey facesse parte di un complotto comunista per indebolire i valori americani. Risultato: nel 1954 la Fondazione Rockefeller gli negò i fondi per altre ricerche. Ma intanto, grazie ai suoi rapporti, l’America cominciò a parlare di sesso. I due libri divennero bestseller e abbatterono molti tabù, aprendo le porte alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e all’accettazione dell’omosessualità.
Una vera sorpresa per questo scienziato, figlio di un pastore metodista, che dopo essersi specializzato nella ricerca sulle vespe delle galle arrivò a scoprire che, a partire da lui, i giovani americani degli anni ’40 non sapevano nulla di sesso. Intervistando 5.300 maschi e 5.940 femmine tracciò un quadro rivoluzionario per l’epoca: il 46 per cento degli uomini aveva avuto esperienze bisessuali; il 69 per cento era stato con prostitute; il 92 per cento praticava la masturbazione; le donne adolescenti sostenevano di avere tre rapporti a settimana; le trentenni almeno due a settimana, prima del matrimonio; il 29 per cento delle donne e il 21 per cento degli uomini confessava l’adulterio.
In Italia i due rapporti Kinsey furono portati da Valentino Bompiani, che ne comprò i diritti e li pubblicò rispettivamente nel 1950 e nel 1955. Entrambi accompagnarono una ventata di trasgressione, in un periodo in cui le donne italiane andavano ancora in prigione per adulterio. Soprattutto aiutarono a capire che di sesso anche gli italiani sapevano poco o niente. «Dopo il rapporto Kinsey, parlare di orgasmo divenne quasi una banalità — racconta l’avvocato matrimonialista Annamaria Bernardini De Pace —, e noi ragazze, che ci nutrivamo al massimo di giornaletti come Duepiù, finalmente riuscimmo a porci domande su argomenti considerati proibiti». Per la psicoanalista Vera Slepoj, l’effetto di quel rapporto sugli italiani fu ancora più profondo: «Modificò i comportamenti sessuali di uomini e donne, avviando una grande rivoluzione culturale». In più col rapporto Kinsey, secondo il sessuologo Willy Pasini, «i cattolicissimi italiani scoprirono che il sesso non era solo procreativo, ma poteva avere anche varianti normali o addirittura patologiche».
Ma che cosa hanno imparato le donne e gli uomini italiani da quei due rapporti? In realtà, interrogando gli addetti ai lavori, molto poco. Nel senso che se dal punto di vista tecnico e informativo si sa tanto, ora, della sessualità, dall’altro si assiste a una regressione dei sentimenti e dei rapporti interpersonali. Va peggio soprattutto per la generazione dei ventenni. Le ragazze pensano, secondo Bernardini De Pace, «che il rapporto sessuale è solo uno scambio, un modo di essere. Hanno conoscenza delle nozioni base. E usano il sesso con facilità estrema, senza prestare attenzione alla cura dei rapporti. Anzi, spesso abbandonando ogni progetto di coppia».
Risultato? Che i maschi ventenni si trovano davanti a un bivio. O «infarcire i rapporti di romanticismo, in modo da tenere sotto controllo la paura che provano per il sesso», spiega Slepoj. Oppure, secondo Pasini, «affrontare le coetanee ricorrendo ad aiuti farmaceutici. Non è un caso che io abbia sempre più pazienti ventenni che non riescono ad avere rapporti sessuali sereni con le loro coetanee. Troppa ansia, troppa paura di non essere all’altezza. Così mi chiedono medicine come il Cialis, che è il nuovo Viagra».
Ma non va bene neppure per la generazione dei trenta-quarantenni. «Le donne italiane di questa età — racconta Bernardini De Pace — banalizzano il sesso e hanno abbandonato il progetto di coppia. L’effetto, per quello che vedo dal mio osservatorio, sono matrimoni che vanno in frantumi grazie a donne che nella storia a due credono sempre meno e a uomini terrorizzati da un’eccessiva consapevolezza femminile». Che la vita sessuale degli italiani, dagli anni ’50 a oggi, non sia migliorata, lo sostiene anche Vera Slepoj, per la quale si può parlare addirittura di «un’involuzione. Perché se da un lato è aumentata la conoscenza, dall’altro non si conoscono gli strumenti giusti per vivere i rapporti in maniera matura. Le quaranta-cinquantenni hanno raggiunto solo una visione teorica del sesso. E gli uomini, spaventati da questa consapevolezza, sono attenti in maniera nevrotica al piacere femminile». Di questo è convinto anche Willy Pasini: «La sessualità delle donne italiane in questi anni è migliorata tecnicamente. Mentre quella degli uomini è solo peggiorata, perché sono paralizzati dall’ansia».
IN MORTE DI PHILIP LAMANTIA
APCOM 20.3.05
USA/ MORTO IL "POETA MALEDETTO" PHILIP LAMANTIA
Partecipò alla nascita della Beat generation
San Francisco, 20 mar. (Ap) - Il poeta americano Philip Lamantia, che fu amico di Allen Ginsberg e Jeck Keruac e fu figura chiave nella nascita dei letterati della "Beat generation", è morto per un attacco di cuore nella propria casa a San Francisco lo scorso 7 marzo. Lo ha annunciato il suo editore. Aveva 77 anni.
Lamantia partecipò alla leggendaria "lettura poetica" nella Sixth Gallery di San Francisco che diede il via alla Beat generation.
Pubblicò le prime liriche ad appena sedici anni, incontrò l'apprezzamento della critica con la raccolta "Erotic Poems" (1949), ma in seguito condusse vita sregolata, prigioniero della depressione e della tossicodipendenza.
Fu il primo poeta Usa a fare ricorso al modello di versificazione dei surrealisti francesi, dopo aver conosciuto André Breton, che ne pubblicò le opere. Altri suoi libri sono Ekstasis ('59), Destroyed Woks ('62), Touch of the Marvelous ('66), The Blood of the Air ('70), Becoming Visible ('81), Meadowlark West ('86).
USA/ MORTO IL "POETA MALEDETTO" PHILIP LAMANTIA
Partecipò alla nascita della Beat generation
San Francisco, 20 mar. (Ap) - Il poeta americano Philip Lamantia, che fu amico di Allen Ginsberg e Jeck Keruac e fu figura chiave nella nascita dei letterati della "Beat generation", è morto per un attacco di cuore nella propria casa a San Francisco lo scorso 7 marzo. Lo ha annunciato il suo editore. Aveva 77 anni.
Lamantia partecipò alla leggendaria "lettura poetica" nella Sixth Gallery di San Francisco che diede il via alla Beat generation.
Pubblicò le prime liriche ad appena sedici anni, incontrò l'apprezzamento della critica con la raccolta "Erotic Poems" (1949), ma in seguito condusse vita sregolata, prigioniero della depressione e della tossicodipendenza.
Fu il primo poeta Usa a fare ricorso al modello di versificazione dei surrealisti francesi, dopo aver conosciuto André Breton, che ne pubblicò le opere. Altri suoi libri sono Ekstasis ('59), Destroyed Woks ('62), Touch of the Marvelous ('66), The Blood of the Air ('70), Becoming Visible ('81), Meadowlark West ('86).
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