una segnalazione di Lucia Ianniello
Repubblica 26.1.04
NOI, LIBERI DI NON CREDERE
la religione degli americani/2
Ha lavorato al fianco del presidente Kennedy è considerato un eminente studioso di questioni internazionali Vede con preoccupazione l'uso strumentale che oggi si fa della religione
di ANTONIO MONDA
NEW YORK. Le finestre dell´appartamento di Arthur Schlesinger Jr. sono coperte dal ghiaccio generato dalla più grande ondata di gelo che si è abbattuta in America negli ultimi decenni, e la riflessione sul suo rapporto personale con la religione avviene in un ambiente che appare estremo nella realtà esterna e intimo nel rifugio della casa. Non sembra particolarmente interessato di sapere quali siano le altre persone che hanno accettato di discutere su questo tema, ma è incuriosito da un argomento «da cui è impossibile scappare». «Tempo fa non mi sarei aspettato che avrebbero chiesto proprio a me di parlare di un argomento del genere», mi dice dopo aver controllato le ultime notizie politiche internazionali, «ma mi rendo conto che quello che a volte ci sembra antico è in realtà eterno, e che ogni scelta politica nasce da convinzioni intime».
Ritiene che sia giusto che un governo abbia un´ispirazione religiosa?
«Dipende cosa si intende per ispirazione. Io ho un approccio laico e secolare, e personalmente mi troverei in forte disagio in un paese in cui la religione ha un ruolo centrale. La fede è un dato intimo, che deve rimanere tale. Questo ovviamente non significa che non creda nell´assoluta libertà di culto. Abbiamo visto troppe dittature in cui la religione è stata bandita. In molti di quei casi la religione finiva per identificarsi con la libertà».
Ritiene che in America un´ispirazione religiosa sia imprescindibile?
«Direi che è inevitabile. In questi ultimi tempi poi la religione ha acquisito un ruolo centrale, non so con quanta buona fede da coloro che ci governano. Credo nella separazione assoluta tra lo Stato e la Chiesa, e sono tra coloro che condividono ad esempio le recenti scelte fatte dal presidente Chirac. Un paese moderno deve garantire la libertà religiosa, ma, tanto per fare un esempio sotto gli occhi di tutti, bandire dalle scuole il velo portato dalle donne musulmane».
Qual è il limite tra ispirazione religiosa e fondamentalismo?
«I fondamentalisti credono in una interpretazione letterale del loro libro di culto. Questo è un fenomeno che negli Stati Uniti ha avuto caratteristiche meno dirompenti che in altri paesi, e certamente meno violenti. Basta pensare al fondamentalismo musulmano o Hindu. Tuttavia abbiamo avuto la nostra dose di orrori e di discriminazioni. Il fanatismo protestante dei paesi della cosiddetta Bible Belt si è caratterizzato per atteggiamenti antisemiti ed anticattolici. Ricordo in prima persona l´ostilità nei confronti di John Fitzgerald Kennedy, che riproponeva quanto era successo nel 1928 con Earl Smith, il primo candidato democratico cattolico, al quale venne preferito Hoover».
Ritiene che ai nostri giorni la situazione sia cambiata?
«Ricordo che nella mia gioventù i fondamentalisti cristiani erano considerati poco più che un´oscura setta. Oggi hanno stretto un´alleanza con la destra cattolica e la destra ebraica. Da un punto di vista politico si valuta che questa alleanza consenta di controllare circa il quaranta per cento dei voti, e non esito a dirle che la mia reazione è di inquietudine e sgomento».
Nel Discorso allo Stato dell´Unione, il presidente Bush ha fatto continui riferimenti alla religione, ed ha anche deciso di agevolare finanziariamente le associazioni religiose che si distinguono in opere di carità.
«I riferimenti a Dio non sono molto più numerosi di quelli che hanno fatto i suoi predecessori, ma nel caso di Bush, proprio per l´appoggio che egli ha da parte dei gruppi evangelici, assumono un rilievo particolare. Riguardo alle agevolazioni finanziarie, chi pratica la carità compie ovviamente qualcosa di benemerito, ma colpisce l´esigenza di sottolinearlo in un discorso del genere».
C´è chi dipinge l´America come un paese che oscilla tra il puritanesimo ed il consumismo.
«Non bisogna mai confondere le degenerazioni di una realtà con la vera essenza di questa stessa realtà. Rigetto gli schematismi propagandistici, ma non voglio nascondermi il rischio».
Ritiene che gli Stati Uniti siano il luogo i cui si è realizzata la libertà religiosa o un paese in cui è dominante l´influenza calvinista?
«La libertà di culto che si gode negli Stati Uniti è tuttora un modello, ed i tragici conflitti che stiamo vivendo sono dovuti anche a questa caratteristica. Detto questo non si può negare l´influenza della cultura protestante ed in particolare del calvinismo, che ha influenzato la politica, la società e il capitalismo».
Può farmi un esempio di un politico che ha tratto giovamento dalla propria ispirazione religiosa?
«Se è vissuta con un approccio laico l´ispirazione religiosa non può che avere un effetto positivo. Non c´è presidente americano che non manifesti il proprio credo, e la domenica prima delle elezioni non sia immortalato mentre si reca a pregare con la famiglia. Io le rispondo con una battuta di Lincoln, che diceva: "l´Onnipotente ha i suoi scopi e le sue intenzioni"».
Mi faccia un esempio in negativo.
«Anche in questo caso sono restio a fare dei nomi. Le posso dire che non c´è nulla di più pericoloso di chi in politica è convinto di agire in nome di Dio. Mi è sempre piaciuta la definizione del fanatico data da Mr. Dooley, il personaggio inventato da Finley Peter Dunne: "Una persona che è sicura che Dio farebbe proprio quello che sta facendo lui se solo fosse a conoscenza dei fatti"».
Lei ha lavorato fianco a fianco con Kennedy, che fece scalpore anche per il fatto di essere il primo presidente cattolico.
«Devo dirle che non ho visto negli atti pubblici nulla che evidenziasse il suo credo. Da questo punto di vista eravamo simili: Kennedy manteneva la religione nella sfera intima».
Allora, Mr. Schlesinger: lei crede in Dio?
«No».
Come si definisce da un punto di vista religioso?
«Un agnostico».
Mi parli della sua educazione religiosa.
«Sono cresciuto in una famiglia congregazionalista, che si è convertita alla dottrina unitaria quando si è trasferita a Cambridge. Io ho cominciato a non credere più nell´esistenza di Dio all´epoca del liceo».
Qual e stato il momento di svolta?
«La lettura di un libro che mi colpì in maniera irreversibile: An agnostic apology di Leslie Stephen. Oggi si tratta di un pensatore che non è studiato come meriterebbe, ed ai più è noto soprattutto per essere stato il padre di Virginia Woolf, ma l´influenza che ha avuto su molte persone della mia generazione è stata enorme, in particolare per quel libro e per il termine agnostico, che era stato coniato qualche anno prima da Thomas Huxley ma che fu Stephen a rendere un riferimento fondamentale nella cultura e nelle scelte personali».
Nei Fratelli Karamazov, Ivan dichiara con sgomento: «Se Dio non esiste è possibile tutto».
«E´ uno dei passaggi di Dostoevskij che mi hanno sempre turbato maggiormente, e che mi portano inevitabilmente a riflettere sul mistero dell´esistenza, e sulla presenza del bene e del male. Io voglio tuttavia dissentire: l´uomo è stato in grado di darsi le leggi e le regole della convivenza civile. E´ in grado di essere tollerante e di amare. Sono tra coloro che non vuole credere che l´assenza di Dio porti inevitabilmente alla tragedia, e non possiamo dimenticare che la storia dell´uomo ci ha insegnato che in nome di Dio sono stati commessi un´infinità di errori ed orrori».
Ma in quel caso si è trattato di fanatismi, e del tradimento di quello che per i credenti Dio ha comunicato all´uomo manifestandosi. Invece gli orrori di un mondo senza Dio sembrano nascere, come sostiene Dostoevskij, proprio dalla sua assenza.
«E´ una cosa su cui si deve certamente riflettere, mentre si lotta per affermare le regole di civiltà e tolleranza che l´uomo è in grado di darsi da solo».
Un credente potrebbe dirle che quelle regole e quella capacità di amare riflettono la scintilla del divino che è in ogni essere umano.
«Un agnostico come me sa di avere questi principi e questa tensione dentro di sé, e ha il dovere di perseguirli».
Come si pone un agnostico come lei di fronte alla morte?
«Non può esistere un paradiso senza un inferno. Ma io non credo in entrambe le cose. Io credo che la morte sia semplicemente la fine».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
lunedì 26 gennaio 2004
ma sarà vero?
(o Deirdre Bair non sarà magari un'analista junghiana?)
una segnalazione di Teresa Coltellese, Lucia Ianniello, Filippo Trojano
Corriere della Sera 26.1.04
Una biografia ricostruisce con documenti inediti la vita dell’allievo di Freud. E mostra la collaborazione con Allen Dulles
La spia Jung. Psicoanalisi al servizio degli Usa
dal nostro corrispondente ENNIO CARETTO
WASHINGTON - E’ il 3 febbraio del 1943. David Bruce, il capo dello spionaggio Usa in Europa, riceve un dispaccio dell’agente 110 da Berna. "L’agente 488 - dice il dispaccio - riferisce che Hitler si nasconde in un bunker sotterraneo nella Prussia dell’Est e che chiunque voglia vederlo deve passare ai raggi X". L’agente 488, continua il dispaccio, "conosce bene i tratti psicopatici di Hitler e crede che adotterà le più disperate misure fino all’ultimo, ma non esclude che si suicidi". Il dispaccio esorta lo spionaggio americano "a prestare la massima attenzione alle analisi dell’agente 488 dei sinistri leader del nazismo tedesco e del fascismo italiano: il suo giudizio sulle loro possibili reazioni agli eventi mi è di grande aiuto nel valutare la situazione".
L’agente 110 è Allen Dulles, il fido di William Donovan (Bill il selvaggio), il fondatore dell’Oss, il servizio segreto Usa. L’agente 488 è Carl Gustav Jung, un maestro del pensiero europeo, l’ex "principe ereditario" di Sigmund Freud nel regno della psicoanalisi. La collaborazione degli agenti 110 e 488, vagamente nota ma di cui s’ignorava la profondità, è l’oggetto di un capitolo di una biografia affascinante di Deirdre Bair, già vincitrice del premio National per un’altra di Samuel Beckett e un’altra ancora di Simone de Beauvoir. Jung - così s’intitola il libro di quasi 900 pagine pubblicato da Little Brown - si rivolge innanzitutto agli studiosi, è la monumentale ricostruzione di una vita e un insegnamento straordinari. Ma apre anche uno squarcio inatteso sulle simpatie politiche del grande e discusso psicoanalista.
Come il filosofo tedesco Martin Heidegger, lo svizzero Jung, morto nel '61 all'età di 85 anni, fu accusato di antisemitismo e di collaborazionismo. Secondo i critici, il padre della teoria seminale dell’inconscio collettivo, che coniò termini celebri come "la nuova età", si prestò alla propaganda ariana. Bair lo contesta. E' vero, afferma, che Jung, forse per antagonismo a Freud, rilasciò dichiarazioni sulla "psicologia degli ebrei" che vennero strumentalizzate dai nazisti e che fino al '40 fu presidente della Società medica di psicoterapia da essi controllata. Ma in quella veste, "cercò di salvare i colleghi ebrei, li aiutò a iscriversi ad associazioni di altri Paesi per proteggerli e aiutò finanziariamente i pochi che riuscirono a riparare in Svizzera". Dulles lo giudicò "genuinamente ostile al nazismo e al fascismo".
Sulla base di documenti inediti e di interviste con i discendenti di Jung, Deirdre Bair ne ha ricostruito il percorso politico. Per qualche tempo, forse nell'illusione di potere influenzare gli eventi, scrive, Jung collabora con Matthias Heirich Goering, il cugino del gerarca Hermann Goering. Ma dal '18 Jung teme che "la bestia bionda si svegli e qualcosa accada in Germania" e l'ascesa di Hitler - e di Mussolini in Italia - glielo conferma.
L'incontro dei due leader a Berlino nel '37, incontro a cui assiste, aumenta il suo disagio. Sostiene la Bair: Jung, che ha accomunato il presidente americano Franklin Roosevelt ai due dittatori e a Stalin, si augura che la Germania venga divisa: a suo parere, sarebbe l'unico modo di preservare la pace in Europa. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Jung ha 65 anni, è malato. Nel '42, respinge la richiesta di un medico tedesco di andare in Germania a psicoanalizzare Hitler. "Il medico gli dice apertamente che un gruppo di alti ufficiali è preoccupato del comportamento irrazionale del Führer, che si è messo a bere - spiega la Bair -. Ma non gli dice che gli ufficiali sperano in una diagnosi che convinca i vertici a deporre Hitler e a finire una guerra che sanno di perdere". Pochi mesi dopo, Jung è invitato a partecipare a un altro complotto. Tramite un amico comune, lo psichiatra Wilhelm Bitter, il generale Walter Schnellenberg, il capo dei servizi segreti nazisti all'estero, gli chiede di comunicare agli alleati che la Germania vuole disfarsi del Führer: è pronta all'armistizio per rimanere libera di battersi sul fronte russo.
Questa volta Jung acconsente, ma il suo emissario a Londra viene intercettato. E' il momento dell'ingresso in scena di Allen Dulles come assistente all'ambasciatore americano a Berna. Dulles contatta un'americana sposata a uno svizzero, Mary Bancroft, che diverrà la sua amante e che appartiene alla cerchia di Jung. Il suo obiettivo è di arruolare un agente segreto nazista, Hans Berndt Givesius, distaccato alla ambasciata tedesca. Givesius è un uomo dell’ammiraglio Wilhelm Canaris, il capo dell'opposizione a Hitler. Bancroft ne diventa l'interprete e Givesius accetta di collaborare. Ma la donna è convinta che Jung, che riceve continue informazioni dalla Germania, possa essere altrettanto utile a Dulles. Grazie a lei, i due lavoreranno assieme.
A guerra terminata, l'agente 110 dichiarerà che "le attività dell’agente 488 devono rimanere riservate" e rifiuterà di scendere nei particolari. Deirdre Bair è convinta che siano state preziose. Rivela che persino il generale Dwight Eisenhower, il futuro presidente degli Stati Uniti, si è avvalso del servizio di Jung: nel '45, gli ha sottoposto i volantini per la popolazione civile lanciati dai suoi aerei sulla Germania affinché si arrenda pacificamente. "Dovete appellarvi al lato migliore dei tedeschi - suggerisce Jung - al loro idealismo, al loro amore della verità, alla loro decenza. E' importante che colmiate il buco della inferiorità morale, è molto più efficace della propaganda distruttiva".
Jung non lo sa, ma quello stesso anno a Washington l'Fbi, la polizia federale americana, chiuderà il dossier aperto su di lui alcuni anni prima per sospette simpatie fasciste e naziste.
Corriere della Sera 26.1.04
Una biografia ricostruisce con documenti inediti la vita dell’allievo di Freud. E mostra la collaborazione con Allen Dulles
La spia Jung. Psicoanalisi al servizio degli Usa
dal nostro corrispondente ENNIO CARETTO
WASHINGTON - E’ il 3 febbraio del 1943. David Bruce, il capo dello spionaggio Usa in Europa, riceve un dispaccio dell’agente 110 da Berna. "L’agente 488 - dice il dispaccio - riferisce che Hitler si nasconde in un bunker sotterraneo nella Prussia dell’Est e che chiunque voglia vederlo deve passare ai raggi X". L’agente 488, continua il dispaccio, "conosce bene i tratti psicopatici di Hitler e crede che adotterà le più disperate misure fino all’ultimo, ma non esclude che si suicidi". Il dispaccio esorta lo spionaggio americano "a prestare la massima attenzione alle analisi dell’agente 488 dei sinistri leader del nazismo tedesco e del fascismo italiano: il suo giudizio sulle loro possibili reazioni agli eventi mi è di grande aiuto nel valutare la situazione".
L’agente 110 è Allen Dulles, il fido di William Donovan (Bill il selvaggio), il fondatore dell’Oss, il servizio segreto Usa. L’agente 488 è Carl Gustav Jung, un maestro del pensiero europeo, l’ex "principe ereditario" di Sigmund Freud nel regno della psicoanalisi. La collaborazione degli agenti 110 e 488, vagamente nota ma di cui s’ignorava la profondità, è l’oggetto di un capitolo di una biografia affascinante di Deirdre Bair, già vincitrice del premio National per un’altra di Samuel Beckett e un’altra ancora di Simone de Beauvoir. Jung - così s’intitola il libro di quasi 900 pagine pubblicato da Little Brown - si rivolge innanzitutto agli studiosi, è la monumentale ricostruzione di una vita e un insegnamento straordinari. Ma apre anche uno squarcio inatteso sulle simpatie politiche del grande e discusso psicoanalista.
Come il filosofo tedesco Martin Heidegger, lo svizzero Jung, morto nel '61 all'età di 85 anni, fu accusato di antisemitismo e di collaborazionismo. Secondo i critici, il padre della teoria seminale dell’inconscio collettivo, che coniò termini celebri come "la nuova età", si prestò alla propaganda ariana. Bair lo contesta. E' vero, afferma, che Jung, forse per antagonismo a Freud, rilasciò dichiarazioni sulla "psicologia degli ebrei" che vennero strumentalizzate dai nazisti e che fino al '40 fu presidente della Società medica di psicoterapia da essi controllata. Ma in quella veste, "cercò di salvare i colleghi ebrei, li aiutò a iscriversi ad associazioni di altri Paesi per proteggerli e aiutò finanziariamente i pochi che riuscirono a riparare in Svizzera". Dulles lo giudicò "genuinamente ostile al nazismo e al fascismo".
Sulla base di documenti inediti e di interviste con i discendenti di Jung, Deirdre Bair ne ha ricostruito il percorso politico. Per qualche tempo, forse nell'illusione di potere influenzare gli eventi, scrive, Jung collabora con Matthias Heirich Goering, il cugino del gerarca Hermann Goering. Ma dal '18 Jung teme che "la bestia bionda si svegli e qualcosa accada in Germania" e l'ascesa di Hitler - e di Mussolini in Italia - glielo conferma.
L'incontro dei due leader a Berlino nel '37, incontro a cui assiste, aumenta il suo disagio. Sostiene la Bair: Jung, che ha accomunato il presidente americano Franklin Roosevelt ai due dittatori e a Stalin, si augura che la Germania venga divisa: a suo parere, sarebbe l'unico modo di preservare la pace in Europa. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Jung ha 65 anni, è malato. Nel '42, respinge la richiesta di un medico tedesco di andare in Germania a psicoanalizzare Hitler. "Il medico gli dice apertamente che un gruppo di alti ufficiali è preoccupato del comportamento irrazionale del Führer, che si è messo a bere - spiega la Bair -. Ma non gli dice che gli ufficiali sperano in una diagnosi che convinca i vertici a deporre Hitler e a finire una guerra che sanno di perdere". Pochi mesi dopo, Jung è invitato a partecipare a un altro complotto. Tramite un amico comune, lo psichiatra Wilhelm Bitter, il generale Walter Schnellenberg, il capo dei servizi segreti nazisti all'estero, gli chiede di comunicare agli alleati che la Germania vuole disfarsi del Führer: è pronta all'armistizio per rimanere libera di battersi sul fronte russo.
Questa volta Jung acconsente, ma il suo emissario a Londra viene intercettato. E' il momento dell'ingresso in scena di Allen Dulles come assistente all'ambasciatore americano a Berna. Dulles contatta un'americana sposata a uno svizzero, Mary Bancroft, che diverrà la sua amante e che appartiene alla cerchia di Jung. Il suo obiettivo è di arruolare un agente segreto nazista, Hans Berndt Givesius, distaccato alla ambasciata tedesca. Givesius è un uomo dell’ammiraglio Wilhelm Canaris, il capo dell'opposizione a Hitler. Bancroft ne diventa l'interprete e Givesius accetta di collaborare. Ma la donna è convinta che Jung, che riceve continue informazioni dalla Germania, possa essere altrettanto utile a Dulles. Grazie a lei, i due lavoreranno assieme.
A guerra terminata, l'agente 110 dichiarerà che "le attività dell’agente 488 devono rimanere riservate" e rifiuterà di scendere nei particolari. Deirdre Bair è convinta che siano state preziose. Rivela che persino il generale Dwight Eisenhower, il futuro presidente degli Stati Uniti, si è avvalso del servizio di Jung: nel '45, gli ha sottoposto i volantini per la popolazione civile lanciati dai suoi aerei sulla Germania affinché si arrenda pacificamente. "Dovete appellarvi al lato migliore dei tedeschi - suggerisce Jung - al loro idealismo, al loro amore della verità, alla loro decenza. E' importante che colmiate il buco della inferiorità morale, è molto più efficace della propaganda distruttiva".
Jung non lo sa, ma quello stesso anno a Washington l'Fbi, la polizia federale americana, chiuderà il dossier aperto su di lui alcuni anni prima per sospette simpatie fasciste e naziste.
Shirin Ebadi, premio Nobel: la donna in Iran
e la responsabilità delle madri
una segnalazione di Filippo Trojano
Corriere della Sera 26.1.04
Shirin la dolce spiega il maschilismo «Malattia trasmessa da noi madri»
di Paolo Conti
TEHERAN - Il premio Nobel per la Pace non ha cambiato carattere e abitudini di Shirin Ebadi, che arriverà a Roma il 20 febbraio per tre giorni di seminari e incontri all'università: stesso microscopico studio legale accampato in un umido seminterrato nel centro-nord della città, stessa ironia, stessa amichevole disponibilità. Unica visibile novità le due massicce guardie del corpo che il ministero dell'Interno le ha imposto dopo le minacce (anche di morte) puntualmente arrivate dopo la cerimonia di Oslo. Anche la sua combattività è rimasta identica. Altro che «dolce», traduzione letterale della parola Shirin. La Ebadi era, e resta, d'acciaio.
In Marocco è stato approvato il nuovo diritto di famiglia che prevede parità di diritti e doveri tra uomo e donna. In Afghanistan le donne cantano di nuovo in tv... Si sta muovendo qualcosa nella condizione della donna islamica?
«Certo che sì. Le donne musulmane cominciano a credere in loro stesse. Prendono coscienza di essere state oppresse da una cultura maschilista. E capiscono che non c'è bisogno di abbandonare la religione per liberarsi. Perché il problema è l'interpretazione che ne hanno dato per secoli gli uomini. Infatti dico e ripeto che l'Islam è compatibile con i diritti delle donne, seguendo il Corano, così come lo è con la democrazia».
Qualche esempio?
«Certo. Il Corano prevede delle leggi primarie, mettiamo l'obbligo di digiunare dall'alba al tramonto nel mese di Ramadan. Poi ci sono le leggi secondarie ideate dagli uomini per adattare le regole alla realtà quotidiana senza rinnegare lo spirito islamico. Torniamo al digiuno. In talune circostanze si può dividere la giornata in tre blocchi di otto ore: si digiuna in tempi diversi, rispettando la regola ma adeguandosi alla vita di oggi. Altri esempi? Per secoli la musica è stata proibita come gli scacchi. E invece oggi... Il punto è che nessuno si è occupato delle leggi secondarie per le donne semplicemente perché gli uomini non hanno voluto. Né le donne, per generazioni, ne hanno conosciuto l'esistenza».
E oggi, soprattutto nel suo Iran, cosa sta accadendo?
«Le donne sono forti, consapevoli, combattive. E ormai più colte. Il 63% delle iscrizioni alle nostre università sono di ragazze. Con una simile struttura sociale sarà impossibile mantenere certe leggi. Giorno per giorno il movimento femminista si sta rafforzando. Ormai sono centinaia le donne impegnate nelle battaglie per i diritti. E tra poco diranno a questi uomini sempre più ignoranti: ma cosa state facendo?».
Pensa che Internet, le tv satellitari, le nuove tecnologie contribuiscano a questo mutamento di mentalità?
«Moltissimo. Rappresentano una svolta. E tutto questo arriverà ai figli. Ogni uomo oppressivo e prepotente ha avuto una madre che gli ha trasmesso una cultura: per me il maschilismo è come l'emofilia, che attacca gli uomini ma è trasmessa dalle donne che ne sono portatrici sane».
Quali sono i diritti femminili più violati in Iran?
«La poligamia. E l'intero diritto di famiglia. Ancora oggi i parenti di un marito morto sorvegliano l'economia della casa del defunto e l'educazione dei figli. Poi il peso della donna davanti a un giudice: una testimonianza maschile ne "vale" due femminili. Ma alcune cose stanno cambiando. Venti giorni fa il Consiglio delle opportunità, presieduto da Hashemi Rafsanjani, ha approvato dopo un anno di attesa una legge votata dal Parlamento e bloccata dal Consiglio religioso dei Guardiani. Finalmente la donna che si separa avrà il diritto di custodia dei figli fino all'età di sette anni indipendentemente dal loro sesso. Poi il giudice convocherà le parti, moglie inclusa, e deciderà per il bene dei figli. Prima i maschi erano affidati alla madre solo fino ai due anni. Poi decideva il giudice... sentendo il solo padre! Da vent'anni, io ero tra loro, le donne gridavano: vogliamo i nostri figli! Abbiamo vinto».
Avrà pesato anche il suo Nobel, la ribalta internazionale...
(Sorride) «Forse sì. Ma la vittoria è di tutte le donne d'Iran».
Pensa che gli uomini iraniani si sentano aggrediti?
«Alcunì sì, sicuramente. E hanno paura. Infatti, intorno al dibattito sui diritti delle donne, sono scoppiati forti contrasti politici. La cultura maschilista è antidemocratica proprio perché esclude il diritto di tutti a partecipare nello stesso modo alle decisioni politiche. Se un uomo pensa che in casa una donna valga meno di lui, sarà anche convinto che nella società una élite abbia diritto di decidere per tutti».
Gli Stati Uniti ora sono presenti sia in Iraq che in Afghanistan. Ritiene che la loro influenza culturale possa contribuire al cambiamento nei rapporti tra uomo e donna proprio con l'esempio di una società paritaria?
«Non credo proprio. La democrazia è un processo lento che non si realizza in una notte: occorre un cammino spesso anche lungo. E lo stesso vale per l'uguaglianza tra uomo e donna. E' una intera cultura, anzi il cuore di quella cultura, che deve modificarsi. Con gli stranieri non risolviamo nulla».
Quando arriverà in Iran un diritto civile simile a quello varato poche settimane fa in Marocco?
«Le cose, come abbiamo visto, stanno cambiando grazie alla presa di coscienza delle donne. In molti campi, per la verità, la nostra legislazione non è cattiva: per esempio la tutela del posto di lavoro delle donne. Ma resta il nodo della bassa occupazione femminile: molti imprenditori continuano a preferire mano d'opera maschile e troppi mariti impediscono ancora oggi alle mogli di lavorare liberamente».
A Parigi, Oslo e Bombay lei si è presentata a testa scoperta e ha stretto le mani agli uomini provocando l'ira dei conservatori iraniani. Qui usa sempre il velo. Perché?
«Io sono una donna di legge e in Iran una legge impone il velo e altre regole a tutte le donne, islamiche e non. A Parigi, Oslo e Bombay questa legge non c'è... E poi io sono per la libertà. Ogni donna dovrebbe decidere come vestirsi o coprirsi senza obblighi. Per questo sono ostile alle nuove disposizioni francesi che hanno vietato il velo nelle università».
Allora sarebbe bene garantire la stessa libertà alle donne iraniane rendendo facoltativo ogni chador...
«Certamente sì».
La situazione politica in Iran, in vista delle elezioni del 20 febbraio, oggi è molto confusa. Qual è il suo giudizio sull'èra Khatami, sull'azione di questo presidente?
«E' stato sicuramente il migliore di tutti. Però lo critico. Quando presentò la riforma elettorale disse: o la approvano o io non potrò più lavorare. La legge è stata bocciata dai Guardiani. E la situazione è quella che vediamo, con le liste dei candidati bloccate sempre dai Guardiani. Ma Khatami è rimasto al suo posto. Avrebbe dovuto essere più deciso».
Molti, in Europa, pensano a lei come al futuro presidente dell'Iran. Cosa ne pensa Shirin Ebadi?
«Che non accadrà mai. Proprio mai».
Lei è sposata. Dopo tutto questo discorso, può dirci chi comanda a casa sua? Lei o suo marito?
«Nessuno dei due. Comandano le nostre due figlie».
Da una cella di Teheran al Nobel
Shirin Ebadi, 56 anni, un marito e due figlie di 20 e 23 anni, ha vinto il Nobel per la Pace 2003 con questa motivazione: «Per i suoi sforzi per la democrazia, i diritti umani, in particolare delle donne e dei bambini. In un'èra di violenza ha sostenuto la non-violenza».
Era già una stella di prima grandezza nell'Iran dello Scià. Era una delle prime donne-giudici e nel 1979 fu la prima a presiedere una sezione del Tribunale di Teheran. Poi, dopo la rivoluzione, il governo religioso stabilì che nessuna donna avrebbe potuto giudicare un uomo. Lei rifiutò di restare nell'amministrazione in una condizione inferiore al suo grado e aprì uno studio legale.
Da allora si è occupata di violazione dei diritti soprattutto delle donne e dei bambini. Ha fondato un telefono azzurro iraniano. E' stata parte civile contro gli agenti dei servizi segreti accusati di aver ucciso nel 1998 il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie Parvaneh. Nel 2000 è stata in prigione per 25 giorni, accusata di aver estorto e registrato la confessione di un ex componente pentito della polizia religiosa coinvolta nella repressione delle proteste studentesche del 1999: in realtà l'uomo si era presentato spontaneamente nel suo studio. Si è recentemente occupata del caso di Zahara Kazemi, la fotografa iraniano-canadese morta a luglio dopo le percosse subìte in una cella di detenzione.
Corriere della Sera 26.1.04
Shirin la dolce spiega il maschilismo «Malattia trasmessa da noi madri»
di Paolo Conti
TEHERAN - Il premio Nobel per la Pace non ha cambiato carattere e abitudini di Shirin Ebadi, che arriverà a Roma il 20 febbraio per tre giorni di seminari e incontri all'università: stesso microscopico studio legale accampato in un umido seminterrato nel centro-nord della città, stessa ironia, stessa amichevole disponibilità. Unica visibile novità le due massicce guardie del corpo che il ministero dell'Interno le ha imposto dopo le minacce (anche di morte) puntualmente arrivate dopo la cerimonia di Oslo. Anche la sua combattività è rimasta identica. Altro che «dolce», traduzione letterale della parola Shirin. La Ebadi era, e resta, d'acciaio.
In Marocco è stato approvato il nuovo diritto di famiglia che prevede parità di diritti e doveri tra uomo e donna. In Afghanistan le donne cantano di nuovo in tv... Si sta muovendo qualcosa nella condizione della donna islamica?
«Certo che sì. Le donne musulmane cominciano a credere in loro stesse. Prendono coscienza di essere state oppresse da una cultura maschilista. E capiscono che non c'è bisogno di abbandonare la religione per liberarsi. Perché il problema è l'interpretazione che ne hanno dato per secoli gli uomini. Infatti dico e ripeto che l'Islam è compatibile con i diritti delle donne, seguendo il Corano, così come lo è con la democrazia».
Qualche esempio?
«Certo. Il Corano prevede delle leggi primarie, mettiamo l'obbligo di digiunare dall'alba al tramonto nel mese di Ramadan. Poi ci sono le leggi secondarie ideate dagli uomini per adattare le regole alla realtà quotidiana senza rinnegare lo spirito islamico. Torniamo al digiuno. In talune circostanze si può dividere la giornata in tre blocchi di otto ore: si digiuna in tempi diversi, rispettando la regola ma adeguandosi alla vita di oggi. Altri esempi? Per secoli la musica è stata proibita come gli scacchi. E invece oggi... Il punto è che nessuno si è occupato delle leggi secondarie per le donne semplicemente perché gli uomini non hanno voluto. Né le donne, per generazioni, ne hanno conosciuto l'esistenza».
E oggi, soprattutto nel suo Iran, cosa sta accadendo?
«Le donne sono forti, consapevoli, combattive. E ormai più colte. Il 63% delle iscrizioni alle nostre università sono di ragazze. Con una simile struttura sociale sarà impossibile mantenere certe leggi. Giorno per giorno il movimento femminista si sta rafforzando. Ormai sono centinaia le donne impegnate nelle battaglie per i diritti. E tra poco diranno a questi uomini sempre più ignoranti: ma cosa state facendo?».
Pensa che Internet, le tv satellitari, le nuove tecnologie contribuiscano a questo mutamento di mentalità?
«Moltissimo. Rappresentano una svolta. E tutto questo arriverà ai figli. Ogni uomo oppressivo e prepotente ha avuto una madre che gli ha trasmesso una cultura: per me il maschilismo è come l'emofilia, che attacca gli uomini ma è trasmessa dalle donne che ne sono portatrici sane».
Quali sono i diritti femminili più violati in Iran?
«La poligamia. E l'intero diritto di famiglia. Ancora oggi i parenti di un marito morto sorvegliano l'economia della casa del defunto e l'educazione dei figli. Poi il peso della donna davanti a un giudice: una testimonianza maschile ne "vale" due femminili. Ma alcune cose stanno cambiando. Venti giorni fa il Consiglio delle opportunità, presieduto da Hashemi Rafsanjani, ha approvato dopo un anno di attesa una legge votata dal Parlamento e bloccata dal Consiglio religioso dei Guardiani. Finalmente la donna che si separa avrà il diritto di custodia dei figli fino all'età di sette anni indipendentemente dal loro sesso. Poi il giudice convocherà le parti, moglie inclusa, e deciderà per il bene dei figli. Prima i maschi erano affidati alla madre solo fino ai due anni. Poi decideva il giudice... sentendo il solo padre! Da vent'anni, io ero tra loro, le donne gridavano: vogliamo i nostri figli! Abbiamo vinto».
Avrà pesato anche il suo Nobel, la ribalta internazionale...
(Sorride) «Forse sì. Ma la vittoria è di tutte le donne d'Iran».
Pensa che gli uomini iraniani si sentano aggrediti?
«Alcunì sì, sicuramente. E hanno paura. Infatti, intorno al dibattito sui diritti delle donne, sono scoppiati forti contrasti politici. La cultura maschilista è antidemocratica proprio perché esclude il diritto di tutti a partecipare nello stesso modo alle decisioni politiche. Se un uomo pensa che in casa una donna valga meno di lui, sarà anche convinto che nella società una élite abbia diritto di decidere per tutti».
Gli Stati Uniti ora sono presenti sia in Iraq che in Afghanistan. Ritiene che la loro influenza culturale possa contribuire al cambiamento nei rapporti tra uomo e donna proprio con l'esempio di una società paritaria?
«Non credo proprio. La democrazia è un processo lento che non si realizza in una notte: occorre un cammino spesso anche lungo. E lo stesso vale per l'uguaglianza tra uomo e donna. E' una intera cultura, anzi il cuore di quella cultura, che deve modificarsi. Con gli stranieri non risolviamo nulla».
Quando arriverà in Iran un diritto civile simile a quello varato poche settimane fa in Marocco?
«Le cose, come abbiamo visto, stanno cambiando grazie alla presa di coscienza delle donne. In molti campi, per la verità, la nostra legislazione non è cattiva: per esempio la tutela del posto di lavoro delle donne. Ma resta il nodo della bassa occupazione femminile: molti imprenditori continuano a preferire mano d'opera maschile e troppi mariti impediscono ancora oggi alle mogli di lavorare liberamente».
A Parigi, Oslo e Bombay lei si è presentata a testa scoperta e ha stretto le mani agli uomini provocando l'ira dei conservatori iraniani. Qui usa sempre il velo. Perché?
«Io sono una donna di legge e in Iran una legge impone il velo e altre regole a tutte le donne, islamiche e non. A Parigi, Oslo e Bombay questa legge non c'è... E poi io sono per la libertà. Ogni donna dovrebbe decidere come vestirsi o coprirsi senza obblighi. Per questo sono ostile alle nuove disposizioni francesi che hanno vietato il velo nelle università».
Allora sarebbe bene garantire la stessa libertà alle donne iraniane rendendo facoltativo ogni chador...
«Certamente sì».
La situazione politica in Iran, in vista delle elezioni del 20 febbraio, oggi è molto confusa. Qual è il suo giudizio sull'èra Khatami, sull'azione di questo presidente?
«E' stato sicuramente il migliore di tutti. Però lo critico. Quando presentò la riforma elettorale disse: o la approvano o io non potrò più lavorare. La legge è stata bocciata dai Guardiani. E la situazione è quella che vediamo, con le liste dei candidati bloccate sempre dai Guardiani. Ma Khatami è rimasto al suo posto. Avrebbe dovuto essere più deciso».
Molti, in Europa, pensano a lei come al futuro presidente dell'Iran. Cosa ne pensa Shirin Ebadi?
«Che non accadrà mai. Proprio mai».
Lei è sposata. Dopo tutto questo discorso, può dirci chi comanda a casa sua? Lei o suo marito?
«Nessuno dei due. Comandano le nostre due figlie».
Da una cella di Teheran al Nobel
Shirin Ebadi, 56 anni, un marito e due figlie di 20 e 23 anni, ha vinto il Nobel per la Pace 2003 con questa motivazione: «Per i suoi sforzi per la democrazia, i diritti umani, in particolare delle donne e dei bambini. In un'èra di violenza ha sostenuto la non-violenza».
Era già una stella di prima grandezza nell'Iran dello Scià. Era una delle prime donne-giudici e nel 1979 fu la prima a presiedere una sezione del Tribunale di Teheran. Poi, dopo la rivoluzione, il governo religioso stabilì che nessuna donna avrebbe potuto giudicare un uomo. Lei rifiutò di restare nell'amministrazione in una condizione inferiore al suo grado e aprì uno studio legale.
Da allora si è occupata di violazione dei diritti soprattutto delle donne e dei bambini. Ha fondato un telefono azzurro iraniano. E' stata parte civile contro gli agenti dei servizi segreti accusati di aver ucciso nel 1998 il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie Parvaneh. Nel 2000 è stata in prigione per 25 giorni, accusata di aver estorto e registrato la confessione di un ex componente pentito della polizia religiosa coinvolta nella repressione delle proteste studentesche del 1999: in realtà l'uomo si era presentato spontaneamente nel suo studio. Si è recentemente occupata del caso di Zahara Kazemi, la fotografa iraniano-canadese morta a luglio dopo le percosse subìte in una cella di detenzione.
«La testa e il cuore uccidono più del cancro»
una segnalazione di Sandra Mallone
Il Mattino 26.01.04
Psiche Il male oscuro pericolo per il corpo
di EMANUELE PERUGINI
La testa e il cuore uccidono più del cancro o dell'infarto. Oltre il cinquanta per cento dei decessi dipende infatti da fattori psicologici e sociali perché inducono a comportamenti sbagliati oppure perché indeboliscono direttamente le difese dell'organismo. Lo rivela uno studio condotto da un ricercatore americano, Oakley Ray, del dipartimento di psicologia e psichiatria della Vanderbilt University, che ha preso in esame cento anni di ricerche in campo psicosomatico e comportamentale.
Lo studio ha evidenziato che lo stress che colpisce la mente, ha effetti anche a livello cellulare e molecolare sull'organismo, riducendo la salute e la qualità della vita delle persone.
Nello stesso tempo, però, dalla ricerca emerge anche che avere un atteggiamento positivo verso la vita permette in qualche caso di riuscire a controbattere gli effetti dello stress, combattere con più energia le malattie e, in ultima analisi, ritardare l'ora della morte.
«Conoscere in che modo la mente influenza l'atteggiamento delle persone e la loro suscettibilità alle malattie servirà a cambiare profondamente il funzionamento stesso dei sistemi sanitari. Soprattutto - ha aggiunto - questo studio mostra come sia importante capire le interazioni tra il sistema endocrino, la mente, il sistema nervoso e quello immunitario. Svelare questi meccanismi ancora in gran parte sconosciuti aiuterà le persone a sconfiggere lo stress e a rimanere sane», dice Ray in un articolo pubblicato sulla rivista American Psychologist pubblicata dalla American Psychological Association.
E gli esempi portati dallo studio sono veramente impressionanti. Personalità, stile di vita e ambiente possono influenzare al tal punto l'organismo da rendere una persona malata se esposta a agenti infettivi, mentre un'altra rimane sana. «Ci sono numerosi agenti patogeni - ha spiegato il ricercatore - come, per esempio quello della tubercolosi, che vivono in equilibrio con il nostro organismo dando luogo solo in certi casi a sintomi o a malattia. Se invece questo meccanismo di interazione tra la mente e i vari sistemi fisiologici non funziona, allora la malattia si sviluppa in tutto la sua virulenza».
Ma quali sono i meccanismi che aiutano a mantenere in equilibrio questo delicatissimo meccanismo? Innanzitutto avere dei buoni rapporti in termini di valori affettivi e di inserimento sociale e soprattutto avere un buon controllo delle situazioni in cui quotidianamente siamo chiamati ad interagire. In particolare, avere persone a cui fare riferimento nei momenti difficili, avere un buon livello di istruzione, comprendere che alcuni eventi possono essere controllati e avere un atteggiamento positivo verso la vita sono tutti fattori che possono ritardare l'ora, comunque inevitabile, della morte.
Questi aspetti hanno anche un ruolo importante nella lotta ad una malattia come il cancro. Secondo numerosi dati, il modo con cui le donne affrontano psicologicamente il problema del cancro al seno si traduce poi in una profonda influenza sulla loro aspettativa di vita. Inutile dire, che chi affronta la malattia con più coraggio e ottimismo tende a vivere un po' più a lungo.
Infine, non è da sottovalutare il ruolo degli amici: chi ha una rete di relazioni stabile e profonda riesce a far fronte meglio alle ansietà e alle difficoltà della vita. E questo è dimostrato anche da un altro fenomeno: spesso alla morte di uno dei due partner, l'altro non riesce a vivere molto a lungo.
Il Mattino 26.01.04
Psiche Il male oscuro pericolo per il corpo
di EMANUELE PERUGINI
La testa e il cuore uccidono più del cancro o dell'infarto. Oltre il cinquanta per cento dei decessi dipende infatti da fattori psicologici e sociali perché inducono a comportamenti sbagliati oppure perché indeboliscono direttamente le difese dell'organismo. Lo rivela uno studio condotto da un ricercatore americano, Oakley Ray, del dipartimento di psicologia e psichiatria della Vanderbilt University, che ha preso in esame cento anni di ricerche in campo psicosomatico e comportamentale.
Lo studio ha evidenziato che lo stress che colpisce la mente, ha effetti anche a livello cellulare e molecolare sull'organismo, riducendo la salute e la qualità della vita delle persone.
Nello stesso tempo, però, dalla ricerca emerge anche che avere un atteggiamento positivo verso la vita permette in qualche caso di riuscire a controbattere gli effetti dello stress, combattere con più energia le malattie e, in ultima analisi, ritardare l'ora della morte.
«Conoscere in che modo la mente influenza l'atteggiamento delle persone e la loro suscettibilità alle malattie servirà a cambiare profondamente il funzionamento stesso dei sistemi sanitari. Soprattutto - ha aggiunto - questo studio mostra come sia importante capire le interazioni tra il sistema endocrino, la mente, il sistema nervoso e quello immunitario. Svelare questi meccanismi ancora in gran parte sconosciuti aiuterà le persone a sconfiggere lo stress e a rimanere sane», dice Ray in un articolo pubblicato sulla rivista American Psychologist pubblicata dalla American Psychological Association.
E gli esempi portati dallo studio sono veramente impressionanti. Personalità, stile di vita e ambiente possono influenzare al tal punto l'organismo da rendere una persona malata se esposta a agenti infettivi, mentre un'altra rimane sana. «Ci sono numerosi agenti patogeni - ha spiegato il ricercatore - come, per esempio quello della tubercolosi, che vivono in equilibrio con il nostro organismo dando luogo solo in certi casi a sintomi o a malattia. Se invece questo meccanismo di interazione tra la mente e i vari sistemi fisiologici non funziona, allora la malattia si sviluppa in tutto la sua virulenza».
Ma quali sono i meccanismi che aiutano a mantenere in equilibrio questo delicatissimo meccanismo? Innanzitutto avere dei buoni rapporti in termini di valori affettivi e di inserimento sociale e soprattutto avere un buon controllo delle situazioni in cui quotidianamente siamo chiamati ad interagire. In particolare, avere persone a cui fare riferimento nei momenti difficili, avere un buon livello di istruzione, comprendere che alcuni eventi possono essere controllati e avere un atteggiamento positivo verso la vita sono tutti fattori che possono ritardare l'ora, comunque inevitabile, della morte.
Questi aspetti hanno anche un ruolo importante nella lotta ad una malattia come il cancro. Secondo numerosi dati, il modo con cui le donne affrontano psicologicamente il problema del cancro al seno si traduce poi in una profonda influenza sulla loro aspettativa di vita. Inutile dire, che chi affronta la malattia con più coraggio e ottimismo tende a vivere un po' più a lungo.
Infine, non è da sottovalutare il ruolo degli amici: chi ha una rete di relazioni stabile e profonda riesce a far fronte meglio alle ansietà e alle difficoltà della vita. E questo è dimostrato anche da un altro fenomeno: spesso alla morte di uno dei due partner, l'altro non riesce a vivere molto a lungo.
Neanderthal e Sapiens
Libero news
notizia del 26/01/2004
L'uomo di Neanderthal non è nostro parente
Ufficiale: una ricerca avveniristica chiude definitivamente l'annosa questione
ROMA, 26 gen. – Adesso la conferma è ufficiale: l'uomo di Neanderthal non ha avuto alcun legame di parentela con noi. Questo è il verdetto finale che dovrebbe chiudere una diatriba che accende da anni l'interesse di studiosi di tutto il mondo.
L'ha consegnato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) Katerina Harvati della New York University, dopo il più vasto studio di questo tipo mai realizzato prima. Insieme ai suoi colleghi la Harvati ha confrontato i crani di questa specie di ominidi con quello di Homo sapiens, la specie cui noi apparteniamo, e di una serie di altri primati, 11 specie tra cui gorilla e scimpanzè.
Per la nostra specie l'equipe ha fatto riferimento sia a fossili di uomo moderno del Paleolitico, sia a crani di popolazioni attuali. Il team statunitense ha usato una nuova tecnica detta di morfometria geometrica su un totale di 100 esemplari di crani. La tecnica consiste nel confrontare dei punti di riferimento della struttura craniale in modo da trovare le differenze morfologiche indipendentemente dalla disparità di dimensioni di ciascun cranio, arrivando così a misurare le differenze tra Neanderthal e noi.
Dal confronto è chiaro, sostiene la Harvati, che almeno in alcuni casi ci sono più differenze tra il nostro e il cranio di Neanderthal di quelle riscontrate tra noi e altri primati non umani. Inoltre le differenze Neanderthal-Sapiens sono sempre maggiori tra quelle di due sottopopolazioni di una stessa specie, quindi si deve rifiutare definitivamente la possibilità che Neanderthal e Sapiens fossero esemplari della stessa specie con pochi particolari dissimili. Sono state invece senza dubbio, dichiara la Harvati, due specie distinte che hanno coabitato per un breve periodo le stesse regioni ma poi il Sapiens è sopravvissuto al Neanderthal. (News2000)
notizia del 26/01/2004
L'uomo di Neanderthal non è nostro parente
Ufficiale: una ricerca avveniristica chiude definitivamente l'annosa questione
ROMA, 26 gen. – Adesso la conferma è ufficiale: l'uomo di Neanderthal non ha avuto alcun legame di parentela con noi. Questo è il verdetto finale che dovrebbe chiudere una diatriba che accende da anni l'interesse di studiosi di tutto il mondo.
L'ha consegnato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) Katerina Harvati della New York University, dopo il più vasto studio di questo tipo mai realizzato prima. Insieme ai suoi colleghi la Harvati ha confrontato i crani di questa specie di ominidi con quello di Homo sapiens, la specie cui noi apparteniamo, e di una serie di altri primati, 11 specie tra cui gorilla e scimpanzè.
Per la nostra specie l'equipe ha fatto riferimento sia a fossili di uomo moderno del Paleolitico, sia a crani di popolazioni attuali. Il team statunitense ha usato una nuova tecnica detta di morfometria geometrica su un totale di 100 esemplari di crani. La tecnica consiste nel confrontare dei punti di riferimento della struttura craniale in modo da trovare le differenze morfologiche indipendentemente dalla disparità di dimensioni di ciascun cranio, arrivando così a misurare le differenze tra Neanderthal e noi.
Dal confronto è chiaro, sostiene la Harvati, che almeno in alcuni casi ci sono più differenze tra il nostro e il cranio di Neanderthal di quelle riscontrate tra noi e altri primati non umani. Inoltre le differenze Neanderthal-Sapiens sono sempre maggiori tra quelle di due sottopopolazioni di una stessa specie, quindi si deve rifiutare definitivamente la possibilità che Neanderthal e Sapiens fossero esemplari della stessa specie con pochi particolari dissimili. Sono state invece senza dubbio, dichiara la Harvati, due specie distinte che hanno coabitato per un breve periodo le stesse regioni ma poi il Sapiens è sopravvissuto al Neanderthal. (News2000)
Cina
La Stampa 26 Gennaio 2004
A DAVOS SOLO I POLITOLOGI GETTANO ACQUA SUL FUOCO E NOTANO CHE «NESSUN SISTEMA TOTALITARIO È CAPACE DI EVOLVERE SENZA SCOSSE»
Il mondo fra dieci anni? Cinesizzato
Gli esperti: Pechino sarà la fabbrica del pianeta e l’India l’ufficio
dall’inviato a DAVOS
Globalizzazione è vedere sulle nevi svizzere uno striscione che augura in cinese e francese la galera ai dirigenti della Cina, rei di perseguitare la setta Falun Gong. Globalizzazione è entrare al supermercato di Davos e scoprire che i berretti da sciatore sono fabbricati in Cina. Al World Economic Forum 2004, dove in più di un dibattito ci si è chiesti come sarà il mondo tra dieci anni, pareva di poter rispondere: tra dieci anni, invece di temere che la globalizzazione ci americanizzi tutti, avremo paura che ci cinesizzi.
Se la ride un giovane manager indiano, Sunil Robert, che lavora in una azienda di software in ascesa mondiale, chiamata i-Flex: «Sì, la Cina diventa la fabbrica del mondo, e noi in India diventiamo l'ufficio. Software, call center, lavoro di ufficio o professionale via Internet per aziende di tutto il mondo. Noi siamo più svegli». Un grande manager globale, Carlos Ghosn di provenienza Renault, presidente della Nissan in Giappone, prima di proiettare nel futuro una Cina potentissima, si domanda «se potrà essere a lungo efficiente un sistema dove in una grande azienda capita spesso di trovare che la stessa persona allo stesso tempo è direttore del personale, segretario della cellula comunista e capo del sindacato».
Ma anche la Cina si sta spostando sul lavoro qualificato. «Dove altro li trovate ingegneri elettronici disposti a lavorare di notte, sì, di notte, facendo funzionare i laboratori con tre turni a ciclo continuo, o il sabato e la domenica?» chiede Ulrich Schumacher, presidente della multinazionale elettronica tedesca Infineon. Per l'appunto, nel più grande Paese ancora dominato da un partito nominalmente comunista, i lavoratori accettano trattamenti impensabili altrove. Nella surriscaldata Shanghai peraltro la paga dei tecnici qualificati è giunta allo stesso livello di Praga che è a un'ora e mezza d'auto dalla Germania, cosicché la Infineon ha appena aperto un laboratorio a Xian, la città storica dell'interno che fu la capitale di Mao Zedong al termine della «lunga marcia» e durante la guerra civile.
A Davos, in loro assenza, i comunisti che governano oggi la Repubblica popolare, il presidente Hu Jintao e tutti quelli della nuova generazione, sono stati riempiti di lodi: una classe dirigente all'altezza del compito, pienamente conscia degli enormi problemi sociali che lo sviluppo economico creerà, e della crescente impraticabilità di un regime autoritario a partito unico. Lo stesso Ghosn, tutto sommato, è ottimista: hanno fatto della crescita economica la loro priorità assoluta. Victor Chu, un ricchissimo finanziere di Hong Kong che sembra ben introdotto a Pechino, enumera: «Sono concentrati su queste sfide di politica interna. Sanno che le disuguaglianze tra il ricco Est e il povero Ovest del Paese si stanno allargando. Sanno che occorrono forme di protezione sociale per ricollocare i disoccupati delle vecchie imprese di Stato che chiudono. Sanno soprattutto che nei prossimi decenni dovranno regolare una migrazione interna dalle campagne alle città fino a 300 milioni di persone».
Nella attuale forma, il «soi disant» comunismo cinese sembra essere fatto apposta per entusiasmare i capitalisti. «Guadagnamo meglio in Cina che in quasi ogni altro Paese» si vanta Dinesh Paliwal, dirigente della multinazionale svizzera Abb. Anche il ministro del Commercio Usa Donald Evans, che pure ha un contenzioso di protezionismi da risolvere, loda i dirigenti di Pechino. Assai più cauti sono i politologi e gli esperti di relazioni internazionali, che per lo più non hanno fiducia nella capacità di un sistema totalitario di evolversi senza scosse. Esasperati sono invece quelli che rappresentano i lavoratori in altri Paesi: «Se noi chiediamo migliori condizioni di lavoro, e se rifiutiamo contratti a termine invece di posti fissi, le imprese minacciano di trasferirsi in Cina. Se il nostro governo gli rifiuta sgravi o favori, minacciano di trasferirsi in Cina» dice Govindasamy Rajasaharan, leader dei sindacati malesi.
Realisticamente, la cinesizzazione del mondo resta ancora lontana. «Le aziende cinesi hanno difficoltà a imporre i loro marchi all'estero. Ci vorranno ancora molti anni perché ci riescano. Capita perfino che quelle con un marchio affermato all'interno vadano all'estero in perdita, solo a scopo pubblicitario» ammette Zhang Weiying, vicepreside della scuola di direzione aziendale dell'università di Pechino. In termini di dimensione economica, occorre pure ricordare che il prodotto lordo della Cina ai tassi di cambio di mercato supera di poco quello italiano, e anche proiettando nel futuro gli elevatissimi tassi di crescita attuali (oltre 9% nel 2003) non raggiungerà gli Stati Uniti prima del 2040.
Più che altro della Cina si sa ancora pochissimo. Basti pensare che tra gli esperti di Cina presenti a Davos una parte prevede un consistente rallentamento della crescita nel 2004 a causa di surriscaldamento della congiuntura e strozzature strutturali, un'altra parte ribatte che non ce ne sono i segni, che da anni si parla di future strozzature alla crescita che poi non si manifestano mai. C'è chi rappresenta i cinesi come poco curiosi del mondo esterno, chi, come Ghosn, li descrive «ansiosi di imparare cose nuove, delle vere spugne». Si scommette meglio sul futuro, sostiene uno studio della banca di investimenti Goldman Sachs, senza sbilanciarsi troppo verso la «Terra di Mezzo»: da qui a dieci anni saranno quattro i nuovi protagonisti dell'economia mondiale, in proporzioni variabili a seconda di come si evolveranno, identificabili con l'acronimo «Bric»: Brasile, Russia, India, Cina.
A DAVOS SOLO I POLITOLOGI GETTANO ACQUA SUL FUOCO E NOTANO CHE «NESSUN SISTEMA TOTALITARIO È CAPACE DI EVOLVERE SENZA SCOSSE»
Il mondo fra dieci anni? Cinesizzato
Gli esperti: Pechino sarà la fabbrica del pianeta e l’India l’ufficio
dall’inviato a DAVOS
Globalizzazione è vedere sulle nevi svizzere uno striscione che augura in cinese e francese la galera ai dirigenti della Cina, rei di perseguitare la setta Falun Gong. Globalizzazione è entrare al supermercato di Davos e scoprire che i berretti da sciatore sono fabbricati in Cina. Al World Economic Forum 2004, dove in più di un dibattito ci si è chiesti come sarà il mondo tra dieci anni, pareva di poter rispondere: tra dieci anni, invece di temere che la globalizzazione ci americanizzi tutti, avremo paura che ci cinesizzi.
Se la ride un giovane manager indiano, Sunil Robert, che lavora in una azienda di software in ascesa mondiale, chiamata i-Flex: «Sì, la Cina diventa la fabbrica del mondo, e noi in India diventiamo l'ufficio. Software, call center, lavoro di ufficio o professionale via Internet per aziende di tutto il mondo. Noi siamo più svegli». Un grande manager globale, Carlos Ghosn di provenienza Renault, presidente della Nissan in Giappone, prima di proiettare nel futuro una Cina potentissima, si domanda «se potrà essere a lungo efficiente un sistema dove in una grande azienda capita spesso di trovare che la stessa persona allo stesso tempo è direttore del personale, segretario della cellula comunista e capo del sindacato».
Ma anche la Cina si sta spostando sul lavoro qualificato. «Dove altro li trovate ingegneri elettronici disposti a lavorare di notte, sì, di notte, facendo funzionare i laboratori con tre turni a ciclo continuo, o il sabato e la domenica?» chiede Ulrich Schumacher, presidente della multinazionale elettronica tedesca Infineon. Per l'appunto, nel più grande Paese ancora dominato da un partito nominalmente comunista, i lavoratori accettano trattamenti impensabili altrove. Nella surriscaldata Shanghai peraltro la paga dei tecnici qualificati è giunta allo stesso livello di Praga che è a un'ora e mezza d'auto dalla Germania, cosicché la Infineon ha appena aperto un laboratorio a Xian, la città storica dell'interno che fu la capitale di Mao Zedong al termine della «lunga marcia» e durante la guerra civile.
A Davos, in loro assenza, i comunisti che governano oggi la Repubblica popolare, il presidente Hu Jintao e tutti quelli della nuova generazione, sono stati riempiti di lodi: una classe dirigente all'altezza del compito, pienamente conscia degli enormi problemi sociali che lo sviluppo economico creerà, e della crescente impraticabilità di un regime autoritario a partito unico. Lo stesso Ghosn, tutto sommato, è ottimista: hanno fatto della crescita economica la loro priorità assoluta. Victor Chu, un ricchissimo finanziere di Hong Kong che sembra ben introdotto a Pechino, enumera: «Sono concentrati su queste sfide di politica interna. Sanno che le disuguaglianze tra il ricco Est e il povero Ovest del Paese si stanno allargando. Sanno che occorrono forme di protezione sociale per ricollocare i disoccupati delle vecchie imprese di Stato che chiudono. Sanno soprattutto che nei prossimi decenni dovranno regolare una migrazione interna dalle campagne alle città fino a 300 milioni di persone».
Nella attuale forma, il «soi disant» comunismo cinese sembra essere fatto apposta per entusiasmare i capitalisti. «Guadagnamo meglio in Cina che in quasi ogni altro Paese» si vanta Dinesh Paliwal, dirigente della multinazionale svizzera Abb. Anche il ministro del Commercio Usa Donald Evans, che pure ha un contenzioso di protezionismi da risolvere, loda i dirigenti di Pechino. Assai più cauti sono i politologi e gli esperti di relazioni internazionali, che per lo più non hanno fiducia nella capacità di un sistema totalitario di evolversi senza scosse. Esasperati sono invece quelli che rappresentano i lavoratori in altri Paesi: «Se noi chiediamo migliori condizioni di lavoro, e se rifiutiamo contratti a termine invece di posti fissi, le imprese minacciano di trasferirsi in Cina. Se il nostro governo gli rifiuta sgravi o favori, minacciano di trasferirsi in Cina» dice Govindasamy Rajasaharan, leader dei sindacati malesi.
Realisticamente, la cinesizzazione del mondo resta ancora lontana. «Le aziende cinesi hanno difficoltà a imporre i loro marchi all'estero. Ci vorranno ancora molti anni perché ci riescano. Capita perfino che quelle con un marchio affermato all'interno vadano all'estero in perdita, solo a scopo pubblicitario» ammette Zhang Weiying, vicepreside della scuola di direzione aziendale dell'università di Pechino. In termini di dimensione economica, occorre pure ricordare che il prodotto lordo della Cina ai tassi di cambio di mercato supera di poco quello italiano, e anche proiettando nel futuro gli elevatissimi tassi di crescita attuali (oltre 9% nel 2003) non raggiungerà gli Stati Uniti prima del 2040.
Più che altro della Cina si sa ancora pochissimo. Basti pensare che tra gli esperti di Cina presenti a Davos una parte prevede un consistente rallentamento della crescita nel 2004 a causa di surriscaldamento della congiuntura e strozzature strutturali, un'altra parte ribatte che non ce ne sono i segni, che da anni si parla di future strozzature alla crescita che poi non si manifestano mai. C'è chi rappresenta i cinesi come poco curiosi del mondo esterno, chi, come Ghosn, li descrive «ansiosi di imparare cose nuove, delle vere spugne». Si scommette meglio sul futuro, sostiene uno studio della banca di investimenti Goldman Sachs, senza sbilanciarsi troppo verso la «Terra di Mezzo»: da qui a dieci anni saranno quattro i nuovi protagonisti dell'economia mondiale, in proporzioni variabili a seconda di come si evolveranno, identificabili con l'acronimo «Bric»: Brasile, Russia, India, Cina.
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