lunedì 14 marzo 2005

storia e medicina
Ignac Semmelweis e Jakob Moleschott

La Stampa TuttoLibri 12.3.05
Vienna 1848, il cloro in soccorso delle culle

CHE moti rivoluzionari possano costringere la storia a sobbalzi e scompigliamenti è nell'ordine delle cose. Meno consueto è che le barricate sulle strade possano fermare - per settimane e settimane - il procedere di una terribile patologia come quella che, nei reparti ostetrici dei grandi ospedali costruiti tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento in tutta Europa, uccide le puerpere in percentuali impressionanti. Eppure - come ricostruisce Sherwin B. Nuland nel suo ottimo libro Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignac Semmelweis, appena pubblicato da Codice edizioni - a Vienna, nel marzo del 1848, accade proprio questo. Mentre tutti gli studenti e buona parte dei professori (anche quelli della facoltà di Medicina) accorrono sulle barricate contro l'odiato governo di Metternich nei due reparti dell'Allgemeines Krankenhaus «non ci fu un singolo caso di febbre puerperale per tutto un mese...». Va rammentato che in quello che era l'ospedale più vasto di Vienna i decessi delle ricoverate in ostetricia andavano dal mezzo migliaio al migliaio ogni anno, con una una media letale complessiva del 7 per cento, che superava la quota già impressionante del 5 per cento che si registrava a Londra e a Parigi. La terapia apparente che aveva momentaneamente sconfitto il morbo era stata - semplicemente - l'assenza dei professori e degli studenti di medicina. Una constatazione che aveva rafforzato in modo definitivo la convinzione maturata nel dottor Semmelweis, medico ungherese in servizio nel reparto, circa l'origine della «febbre puerperale». A far da tramite dell'infezione, che nel giro di pochi giorni portava a morte, dopo il parto, le donne ricoverate, erano - secondo Semmelweis - gli studenti e i professori che, dopo aver dissezionato cadaveri per le lezioni di anatomia patologica, passavano a prestare assistenza alle partorienti. Senza darsi cura alcuna di una scrupolosa antisepsi. Del resto i parti in casa, o nei reparti dove le cure erano prestate da ostetriche e infermiere, non conoscevano le percentuali di decessi che si registravano nelle corsie universitarie. E a lungo la scienza medica si era interrogata sulle ragioni della stagionalità della virulenza della febbre puerperale, ipotizzando l'effetto di miasmi ambientali, del caldo o del freddo, mentre invece dipendeva semplicemente dal calendario delle lezioni di anatomia. Infatti bastò l'obbligo, imposto da Semmelweis ai suoi colleghi e agli studenti, di lavarsi accuratamente le mani in una soluzione di cloro, per abbattere drasticamente la mortalità nel reparto. Ma se l'intuizione del medico ungherese costituiva una grande vittoria della scienza, rappresentava, al tempo stesso, una dolorosa ammissione di responsabilità per la corporazione medica. E molti, a cominciare dal conservatore Klein, primario del reparto, non ne vollero sapere e brigarono fino a quando Semmelweis, penalizzato peraltro da un carattere impossibile, fu cacciato da Vienna. E condannato ad una miserabile fine. Ucciso, massacrato di botte, nel manicomio di Vienna dove venne ricoverato dopo aver perso la ragione. Sempre sotto il cielo tempestoso del 1848 prende avvio la diversa e ben più fortunata parabola esistenziale di un altro luminare della medicina ottocentesca, che - come va a ricostruire Giorgio Cosmacini nell'accurata biografia appena pubblicata da Laterza, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott - tanto influirà sulla scienza medica dell'Italia appena unificata. Nato in Olanda nel 1818, quattro anni prima dunque di Semmelweis, Moleschott prima della bufera del quarantotto ha fatto in tempo a laurearsi, a salire in cattedra e a riconoscersi saldamente nei «giovani hegeliani», e soprattutto in Feuerbach, presi di mira nel 1845 dal giovane Marx ne La sacra famiglia e ne Le tesi su Feuerbach. Quando nel marzo del '48 scoppiano i moti studenteschi, il professor Moleschott, passato da alcuni anni da Utrecht a Heildelberg, condivide entusiasticamente gli obiettivi dei contestatori anche se, al momento, è impegnato in una sua personalissima, duplice rivoluzione. Il primo passo, fatto in quella primavera cruciale, è dato dal matrimonio; il secondo è l'acquisto del miglior microscopio disponibile, comprato grazie alla dote della consorte. Il materialismo scientifico con cui Moleschott caratterizzerà nei decenni successivi l'insegnamento della fisiologia e la sua scuola medica comincia da qui, da un gesto innovatore e eversivo nei confronti delle gerarchie accademiche poiché, come scrive Cosmacini, «il laboratorio da luogo collegato alla didattica e infeudato al cattedratico, si rende via via più autonomo, diventando luogo di ricerca dove il leader emergente non è necessariamente il professore titolare della cattedra...». Moleschott, a differenza del geniale Semmelweis, è più divulgatore e didatta che scienziato ma, soprattutto, sa affrontare la conservazione accademica - scatenata contro di lui dopo il vasto successo de La circolazione della vita, vero e proprio manifesto del materialismo scientifico - con mosse mai autolesioniste. Messo alle strette in Germania, emigra verso l'università di Zurigo, dove conosce e stringe amicizia col nostro Francesco De Sanctis, allora docente al Politecnico. Quando nel 1861 De Sanctis diventa ministro dell'istruzione del Regno d'Italia offre subito la più prestigiosa cattedra di fisiologia, quella torinese, a Moleschott che si trasferisce in Italia. Nonostante durissime opposizioni la sua ascesa sarà forte e costante, sino ad approdare alla cattedra presso la «Sapienza» di Roma e al laticlavio. Il materialismo scientifico di Moleschott «non costituiva - scrive Cosmacini - una fede cieca, ma una ragione produttiva di sapere e di progresso». Forse per questo plasmerà in modo significativo una pattuglia di allievi - da Lombroso, primo traduttore della Circolazione a Mosso, suo erede nella ricerca fisiologica - che cambieranno volto alla cultura e alla scienza medica, non solo italiana. Il Nobel per la medicina, che nel 1906 viene assegnato a Camillo Golgi, è il frutto più significativo del magistero esercitato da Moleschott, l'«olandese volante» tra le cattedre, fattosi, già nel 1862, cittadino italiano.

Sherwin B. Noland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignac Semmelweis, Codice Edizioni, p. 146 €18
Giorgio Cosmacini, Il pensiero materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Laterza, p. 189 €18

Einstein e le immagini
«libere creazioni della mente umana»

L'Unità 14 Marzo 2005
Il 14 marzo di cento anni fa, il grande fisico scrisse uno degli articoli che rivoluzionarono il modo di vedere il mondo. In un libro di Michio Kaku si ipotizza come potesse lavorare la sua creatività
Il segreto di Einstein: un’immagine mentale che lo seguiva fin da bambino
Pietro Greco

Il 14 marzo del 1905, un giovane impiegato dell'Ufficio Brevetti di Berna di 26 anni, Albert Einstein, termina un articolo scientifico che invia alla rivista tedesca Annalen der Physik col il titolo «Su un punto di vista euristico circa la generazione e la trasformazione della luce». L'articolo è a dir poco rivoluzionario. Einstein propone l'esistenza dei «quanti di luce» e con essi di una nuova fisica: una fisica in cui le onde elettromagnetiche si comportano come particelle. Per questo lavoro Albert Einstein otterrà il premio Nobel e sarà considerato, insieme a Max Planck e a Niels Bohr, uno dei tre «padri fondatori» della fisica quantistica.
Tuttavia quell'articolo non è l'unico che il giovane scrive nel 1905. Nei mesi successivi ne scriverà altri quattro e, inoltre, scriverà una tesi di dottorato. Con due di quegli articoli Einstein getterà le basi della relatività ristretta, ovvero una nuova teoria dello spazio e del tempo da cui deriva la formula più famosa del mondo (E = mc2) che contiene in sé l'eguaglianza tra materia ed energia. Con altri due articoli sul cosiddetto moto browniano e con la tesi di dottorato Einstein contribuirà a corroborare e a far accettare ai fisici la teoria atomica della materia.
Il 1905 è davvero l'annus mirabilis di Einstein. L'anno in cui, per dirla con Louis de Broglie, il giovane impiegato dell'Ufficio Brevetti di Berna lancia «tre razzi fiammeggianti» che improvvisamente illuminano una parte buia della fisica. Come è stato possibile che una simile impresa riuscisse a uno sconosciuto giovanotto fuori dall’accademia?
Einstein vanta biografi in gran numero. E tutti, in un modo o nell'altro, hanno cercato di rispondere a questa domanda. Alcuni sostengono, per esempio, che i «tre razzi fiammeggianti» sono parti indipendenti di un unico progetto scientifico, unificare la fisica mediante un'unica grande teoria, che a sua volta deriva da una precisa visione del mondo metafisica: la realtà naturale è unitaria e questa sua intima unità può essere colta dall'uomo per mezzo della ragione. Tuttavia, molti hanno una visione del mondo compiuta e molti cercano di tradurla in un progetto scientifico. Ma solo Einstein è riuscito a ottenere così tanti risultati. Qual è il segreto di una così straordinaria creatività? A questa domanda fornisce una possibile risposta il libro, Il cosmo di Einstein, che il fisico di origine giapponese Michio Kaku ha appena dato alle stampe in edizione italiana per i tipi della Codice Edizioni.
La risposta fornita da Michio Kaku attiene alla particolare psicologia della ricerca di Einstein. Il quale ha sempre sostenuto che le teorie fisiche non sono «scoperte», ma sono «libere creazioni della mente umana» che descrivono in modo progressivamente più rigoroso la realtà naturale. Ebbene, nell'elaborare queste «libere creazioni della mente» gli scienziati possono procedere, diceva il matematico Jacques Hadamard, attraverso due diverse strade: quella dell'intuizione e quella della deduzione analitica (la strada matematica).
Michio Kaku descrive nel suo libro come Einstein procedesse secondo la prima strategia, quella intuitiva. Egli si crea un'immagine, vivida, del problema fisico che intende descrivere e risolvere e poi, quando ha tutto chiaro, cerca di formalizzarlo. L'immagine che lo porta alla relatività ristretta, per esempio, è quella che lo vede correre con un'onda elettromagnetica alla velocità della luce. Einstein cerca di immaginare come gli apparirebbe quell'onda osservata in quella singolare situazione. E deduce che gli apparirebbe come congelata. Sulla base di questa intuizione visiva, che lo ha seguito fin da bambino, il giovane scardina la concezione dello spazio e del tempo assoluti di Newton e ne costruisce un'altra, relativistica appunto. Ha poi facile gioco nell'utilizzare una matematica elementare per formalizzare la sua intuizione. Con un'altra immagine, quella dell'ascensore in caduta libera, intuisce una nuova teoria della gravitazione universale: la relatività generale. Avrà bisogno di alcuni anni per trovare la matematica adatta a formalizzarla. Quando, poi, cerca di giungere al traguardo scientifico del suo weltbild e di elaborare una teoria unitaria dei campi, sostiene efficacemente Michio kaku, Einstein non riuscirà a intuire un'immagine potente del problema fisico che vuole descrivere. Né tanto meno riuscirà a trovare la matematica adatta. Per questo, probabilmente, fallirà. E il suo progetto metafisico non si tradurrà in un risultato fisico.

le donne

L'Unità 14.3.05
Sesso, lavoro, sogni. Le donne italiane, quelle vere
Maria Serena Palieri

Gli anni Sessanta e Settanta - cioè la liberazione sessuale, la modernizzazione del diritto di famiglia e il femminismo - quali effetti concreti hanno prodotto nelle vite delle italiane? Se lo chiedono due libri-inchiesta che escono in prossimità di questo 8 marzo: entrambi realizzati da giornaliste, con linguaggio svelto e fresco, entrambi con la tecnica dell’«io», cioè della raccolta di storie raccontate in prima persona dalle intervistate. Già, una cosa è sicura: quei due decenni segnano una cesura, il passaggio da un universo femminile ingabbiato in pochissimi destini (mogli, madri o zitelle, casalinghe, cameriere, insegnanti, segretarie o suore) a un universo dove la possibilità di scegliere produce infinite storie femminili individuali. Siamo così di Alice Werblowsky, redattrice di Canale 5, e Carla Chelo di Studio Aperto, di questi nuovi destini ne raccoglie ventiquattro. Il primo fatto che questo libro racconta è che le italiane sono, spesso, innamorate. Non di un uomo. Sono innamorate del proprio lavoro: perché hanno conquistato una professione che prima era solo maschile, come Elisabetta, trentunenne camionista del Biellese; perché fanno un lavoro «da maschi» ma lo piegano al proprio stile, come Franca, poliziotta calabrese laureata in Lettere, che oggi opera nel Nucleo antiviolenza e si occupa degli abusi in famiglia; perché hanno recuperato un mestiere femminile che la tecnologizzazione della medicina ha cancellato, come Marta, «ostetrica delle nevi» che da più di vent’anni va per baite alpine facendo partorire le donne in casa. L’oggi affiora poi in altri modi: con una novità buona, il melting pot e i primi matrimoni misti, con una fatica nuova, quella di tenere insieme i cocci di figli e lavoro in epoca di neoliberismo e precarietà, e con una patologia emergente che nasce in zone oscure, cioè i disturbi alimentari di anoressiche e bulimiche. Sono libere le ventiquattro donne che questo libro racconta? In certi casi sì, lo sono con una sfrontatezza che a noi sembra tipicamente femminile: come Gabriella che a meno di quarant’anni di vite già ne ha vissute quattro, cassiera in un supermercato, moglie e madre di una figlia, fino alla sera in cui lavando i piatti si è chiesta se le andava ancora di fare la serva di un marito Peter Pan, poi madre single, poi compagna insoddisfatta di un uomo benestante, ora assistente sociale agli anziani in un quartiere degradato, di nuovo single con figlia, ma con una vita, dice, «piena di leggerezza, di felicità». In altri no, come Valentina, madre sola che lavora nei call center, in angoscia permanente per la precarietà e il terrore che la burocrazia le levi la figlia perché «non ce la fa». Chissà se è libera Anna, chiusa nel suo casello d’autostrada, dove lavora otto ore al giorno sognando di essere altrove.
S’addentra in un territorio meno dicibile Ilda Bartoloni, giornalista del Tg3: la sessualità delle ragazze figlie della generazione che, per prima, si è «liberata». Ragazze? Si va dalle post-adolescenti, 17 anni, alle quasi quarantenni. Raccontate con una penna che aderisce a ognuna: ne riproduce il periodare, l’accento, il tic linguistico. In senso tecnico, naturalmente, l’indagine non può riservare sorprese: il sesso è sempre quello, masturbazione, petting, rapporti, cunnilingus, la sodomia sì, la sodomia no, l’orgasmo, e quale? clitorideo o vaginale?, con uno solo o con cento in sequenza, il sadomaso mi piace, no, a me no. Con una frequenza statistica maggiore, oggi, forse, di tendenza ai rapporti di gruppo. E con una dichiarazione meno ideologica di curiosità omosessuali. Con la consueta storia - non finirà mai? - della ragazzina che racconta che «non ce la fa» e non sa perché ma poi aggiunge che a dodici anni è stata violentata. Però con la limpidezza nuova della ventenne che dice di se stessa «mi piace stare sopra, mi sa che sono una dominatrice», ma senza spirito rivendicativo, solo come un dato. Perché la sessualità, qui, è il tema attraverso il quale si cerca di raccontare come stanno, le italiane, figlie e madri, in quel continente di cui la politica non parla, l’affettività, i sogni, l’alternanza tra depressione e desiderio.
Un pregio di tutte e due queste raccolte: Gabriella Parca nella prima, Elettra Deiana, Edda Billi, Lea Melandri, Emma Baeri e la stessa Ilda Bartoloni in prima persona nella seconda ci raccontano come andavano le cose «ieri». Dipingono lo sfondo privato e politico, un «c’era una volta», su cui spicca la novità di queste storie di oggi.

unabomber

L'Unità 14 Marzo 2005
Lo psicopatologo forense Vincenzo Mastronardi, della Sapienza: «Probabilmente ha subito soprusi che hanno lasciato un forte segno sia sul suo corpo sia nella sua psiche»
Lo psichiatra: l’attentatore da bambino vittima di violenze

ROMA Unabomber potrebbe essere stato egli stesso vittima, da bambino, di vessazioni e sofferenze fisiche che hanno lasciato un forte segno sia sul suo corpo sia nella sua psiche. È questa l’ipotesi sostenuta dallo psichiatra e psicopatologo forense Vincenzo Mastronardi, dell’Università La Sapienza di Roma, secondo il quale la presenza di mutilazioni fisiche potrebbe aiutare gli inquirenti ad arrivare al colpevole.
Nel tentativo di dare un volto al misterioso attentatore che sin dai primi anni ‘90 terrorizza le regioni del Nord-est, l’esperto avanza dunque un’ipotesi precisa: «È probabile che lo stesso unabomber, che a questo punto sarebbe però più corretto definire “serial bomber”, abbia sofferto di vessazioni fisiche durante l’infanzia. Vessazioni che abbiano in qualche modo lasciato un segno corporale e non solo emozionale. Potrebbe, ad esempio - afferma Mastronardi - essere rimasto egli stesso vittima di un’esplosione: un petardo scoppiato in mano, un incidente di caccia, uno scoppio di qualunque genere che gli abbia causato una mutilazione fisica». Un soggetto che, oggi, agirebbe mettendo in atto lo stesso tipo di vessazione di cui egli stesso è stato vittima: «Provocando delle esplosioni - spiega lo psichiatra - riesce cioè ad esorcizzare il terrore di essere nuovamente colpito in prima persona. Ed il fatto che in qualche modo metta in atto scenari che il più delle volte finiscono per coinvolgere dei bambini, è legato proprio alla sua personale esperienza e alla circostanza che egli stesso ha vissuto tali sofferenze durante l’infanzia».
Unabomber potrebbe dunque essere segnato da una qualche visibile cicatrice fisica e questo, secondo Mastronardi, potrebbe rappresentare un’ipotesi di indagine e un possibile indizio nelle ricerche per cercare di stringere la cerchia attorno all’attentatore.

Gazzetta del Sud 14.3.05
il parere del criminologo Francesco Bruno
La modalità con cui ha colpito sembra una provocazione nei confronti degli investigatori
Un attentato che ha sapore di sfida
Aldo Blemenza

TREVISO – Il primo ritorno in dodici anni, se si esclude Pordenone, su uno dei luoghi minori dei suoi delitti, la scelta per la seconda volta di una chiesa come teatro della sua follia e di una candela come trappola esplosiva. Unabomber sembra ripetersi in questo suo ultimo attentato a ridosso di Pasqua, che arriva a solo un mese e mezzo dal precedente, quando un ovetto di plastica, preso a calci da una scolaresca, esplose fortunatamente senza conseguenze nei pressi del tribunale di Treviso. Quasi una sfida agli investigatori, alle loro indagini sempre più serrate, alle recentissime notizie di stampa su presunti sospettati, «come se – ha ipotizzato il procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti – avesse voluto farsi vivo per dirci che ci stiamo sbagliando, che lui è sempre vivo e attivo». E capace di tornare anche su un luogo del delitto dopo l'ultimo «fallimento» a Treviso. Questa volta, purtroppo, l'ordigno, nascosto in una candela elettrica di plastica, ha ferito una bambina di sei anni (gravemente) ad una mano e (lievemente) all'arcata sopraccigliare, come capitò alla piccola Francesca di Oderzo (Treviso) quando, il 25 aprile 2003, raccolse un pennarello esplosivo sul greto del fiume Piave che le mutilò tre dita della mano destra e le fece perdere la vista all'occhio destro. Un'esplosione, quella di ieri, che ha lasciato lievemente ferita ad uno zigomo anche Michela Lenza, 34 anni, che aveva aiutato la bimba ad inserire la candela nel candelabro verso la fine della messa, mentre i suoi genitori si trovavano a 20 metri di distanza. A Motta di Livenza Unabomber aveva già colpito, il 2 novembre (altro periodo festivo) del 2001, quando un'anziana, Anita Buosi, 63 anni, era rimasta ferita gravemente accendendo un lume cimiteriale, un oggetto sacro che simbolicamente ritorna anche nell' attentato di oggi. Unabomber, inoltre, aveva già violato, nel 2002, la sacralità di una chiesa, il duomo di Cordenons (Pordenone), ferendo due persone con due bombolette di gas imbottite di esplosivo e dotate di timer. Sempre in un giorno di festa, la notte di Natale. L'affacciarsi di analogie e ripetizioni, secondo il criminologo Francesco Bruno, è un elemento «fondamentale» che gli inquirenti dovranno approfondire perché potrebbe rivelare indizi importanti per arrivare alla cattura del serial killer che terrorizza il nord-est. «Rispetta sempre i suoi tempi e le sue abitudini – sottolinea Bruno – oggi è domenica e ci stiamo avvicinando alla Pasqua. In passato aveva già colpito sia di domenica sia in giorni di festa: alla vigilia di Natale, il 25 aprile, il 2 novembre». È poi la seconda volta che Unabomber colpisce in chiesa. «È un elemento forte – ragiona il criminologo – un atteggiamento rituale su cui noi analisti dovremo lavorare. Perché due sono le possibilità: o si tratta di una persona convinta di essere il depositario della “vera fede” e di dover punire quegli atteggiamenti della Chiesa che lui ritiene inutili, oppure siamo di fronte ad un “senza-Dio”, un mangiapreti. In entrambi i casi comunque quello tra Unabomber e la religione è un rapporto difficile».

Repubblica 14.3.05
Gli ordigni controsenso
Umberto Galimberti

Quel che colpisce nel comportamento di Unabomber sono gli oggetti di cui si serve per seminare morte e mutilazioni. Sono oggetti della vita quotidiana: un giocattolo di poco conto, una confezione da supermercato, una candela come ce ne sono tante in una chiesa. Cose che abbiamo tra le mani tutti i giorni, che trattiamo abitualmente senza particolari precauzioni, cose di nessuna importanza che, opportunamente confezionate, spezzano una vita, la interrompono bruscamente o con la sua fine, o con l´invalidità permanente. Quasi un´antiretorica della morte e un tributo al mito nichilista dell´insignificanza della vita. Conosciamo infatti la morte eroica, la morte drammatica, la morte dolente dell´infermità che non guarisce.
Rifiutiamo invece la morte casuale dove non è reperibile alcuna traccia di senso, alcuna motivazione, dove il perché resta inevaso e l´insignificanza dilaga più crudele del dolore perché, a differenza del dolore, non trova neppure un frammento di spiegazione.
Non c´è odio nella morte casuale, non c´è risentimento, non c´è passione per negativa che possa essere. Non c´è obiettivo. Non una persona determinata con cui si ha una qualche relazione, sia essa d´amore o di rancore. Non c´è neppure un´arma (un coltello, una pistola, un fucile) che al solo prenderla tra le mani rivela un´intenzione. Nel comportamento di Unabomber manca tutta la trama del senso, collassano tutti i nessi di causalità, perché tra l´impulso distruttivo nascosto nella soggettività di Unabomber e il destinatario a cui capita di morire o di essere per sempre invalidato non c´è nessuna correlazione, nessuna intenzionalità, neppure quella che può trasparire dall´oggetto impiegato per offendere, perché questo oggetto è prelevato dall´uso quotidiano delle cose più abituali.
Siamo al di là della pazzia, perché anche nel delirio del folle c´è un disegno, che ha le sue motivazioni profonde in quegli abissi biografici che, scoperchiati, mettono capo ad azioni riconducibili a vissuti drammatici, che non hanno avuto la possibilità di essere elaborati. E perciò esplodono in modalità tragiche, che però non sfuggono al senso, alla spiegazione causale, alla comprensione psichica.
Unabomber si sottrae al senso. La sua mente e i suoi gesti celebrano l´assoluta equivalenza della vita e della morte, del positivo e del negativo, del bene e del male, della pericolosità e dell´innocuità di qualsiasi oggetto, che da familiare diventa inquietante, da disponibile angosciante.
Se proprio vogliamo trovare uno scopo, perché non riusciamo proprio a sfuggire alla logica del senso e ai nessi di causalità a cui è abituata la nostra mente, allora dobbiamo dire che, se non proprio lo scopo, l´effetto che il comportamento dell´Unabomber produce è lo «spaesamento».
Un-heimlich lo chiamavano Heidegger e Freud, il «non-familiare», l´inquietante, che non è l´omicidio, la strage, la guerra. Lo spaesamento è la sospensione di ogni senso e si verifica là dove ciò che era familiare (heimlich) diventa inquietante (un-heimlich), ogni cosa, anche la più innocua, improvvisamente diventa minacciosa. Nulla è più rassicurante, non il volto della persona conosciuta, non il contorno delle cose e la loro disponibilità, non la semplicità di un gesto o la quiete di una parola. Nulla più rassicura e acquieta. È la fine della continuità del vivere in una logica del senso e dei nessi di causalità.
Uomini e cose sono consegnati alla loro originaria ambivalenza. Indifferentemente materiali d´uso del vivere quotidiano e insieme minacciosi oggetti di morte.
Lo spaesamento è più tragico della follia che, per quanto tortuosa, sa seguire un suo percorso. Lo spaesamento è la cancellazione di ogni via, quindi di ogni direzione, di ogni rintracciabile senso. Afferra la mente degli uomini non nel deragliamento della ragione come nella follia, ma nel suo collasso.
Non ha un incedere drammatico, ma semplicemente indifferente, perché indifferente alla distinzione tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra ciò che vale e ciò che non vale. Il paesaggio perde i suoi contorni e non c´è una via che indichi una direzione. Siamo all´indifferenza esistenziale, più tragica della follia, perché la follia è almeno sostenuta dalla logica della passione, che lo spaesamento, neppure tragicamente, ma indifferentemente ignora.
Bisognerà studiarlo questo stato della mente. Non ci è del tutto sconosciuto. Per brevi attimi l´abbiamo provato noi tutti nel corso della nostra esistenza, quando il senso latitava e tutto cadeva nella più assoluta insignificanza, in quella luce nera e così poco naturale che è sconosciuta persino agli abissi della follia.

psicologia in tavola

La Stampa 14 Marzo 2005
Psicologia in tavola
Per ogni carattere c’è il piatto giusto

Un cuoco e un terapeuta hanno analizzato nove diversi caratteri
e forniscono in un libro la correlazione con le scelte gastronomiche
Raffaella Silipo

Al tipo protettivo si addicono gli gnocchi di bottarga e patate, mentre lo spirito condottiero sceglie il vitello al forno, che si mastica bene e in fretta, dopo di che si può tornare a comandare. Dimmi chi sei e ti dirò che mangi, è la filosofia di Marco Miglio, proprietario del ristorante «Alle grazie» di Monza con lunga esperienza nella catena «Bice» da Melbourne a New York. Da tempo, insieme allo psicologo Roberto Provana, Miglio esplora la correlazione tra tipi psicologici e gusti gastronomici, per spiegare come di fronte a uno stesso cibo ognuno reagisca in modo diverso. «Ristorare - sostiene Miglio - vuol dire regalare un’emozione culinaria che duri nel tempo. Per questo ho deciso di puntare sulla gratificazione personale: non è il cliente che si deve adattare al menu ma è il menu che si adatta al cliente. In un'epoca di globalizzazione, un riconoscimento così marcato delle esigenze individuali crea sicurezza, favorisce l'identità ed è anche una buona strategia imprenditoriale».
Miglio e Provana hanno raccolto il loro metodo, con tanto di ricette, nel libro La cucina delle identità (Lupetti). Punto di partenza è l’osservazione attenta dei clienti di un ristorante, perché «la tavola è un luogo ideale e strategico per capire le persone». «C’è il tipo ”antilope stanca” - scrivono - che esprime un istinto vitale depresso: per lui mangiare sembra una condanna, tranne quando si rianima alla vista di un alimento che rappresenta un’attrazione fatale, come certi dessert. C’è il ”formichiere” che prima di mangiare sfiora l’alimento con la lingua come per saggiarlo. O la ”giraffa”, con il corpo immobile e il collo sempre in movimento, ponte somatico che separa la bocca dalla zona cardiaca delle emozioni».
Per sistematizzare le loro osservazioni, i due autori hanno poi incominciato a raggruppare i clienti secondo il metodo dell’«enneagramma», che identifica nove tipi fondamentali di caratteri. Il «riformatore»? «Insegue un ideale di perfezione, è moralista, ipercritico, tenace e nel suo menu c’è posto solo per le cose ben fatte». Per il «protettivo» il cibo è «qualcosa di rassicurante, che rimanda alla mamma. Ama cucinare per sé e per gli altri». L’«autorealizzatore sociale» tende a mettersi in vista, è attento agli effetti del cibo sul rendimento professionale. «Anche la tavola per lui è una sfida: controlla, calcola, sospetta». L’«artista», solitario, vulnerabile e instabile, «va pazzo per i dolci, in particolare il cioccolato. Preferisce i primi piatti ai secondi, ed è interessato più alla persona che cucina che al cibo in sé».
C’è poi quello «capace di consultare per ore un menu e poi chiedere qualcosa che non c’è»: è il «pensatore», uno che teorizza, intellettualizza il cibo, sovente polemico se viene contraddetto. Il «fedele» è il tipo più tradizionale: ricerca sempre nei piatti il sapore del passato e delle cose che gli preparava mamma. Avete presente George W. Bush alla disperata ricerca di un cuoco che ci sappia fare con il tex-mex della sua giovinezza? Completamente diverso il «generalista», uno che può bere un vino a occhi chiusi e dire subito che cos’è (genere «Michele intenditore di whisky» in uno spot di tanti anni fa...): ama tutto ciò che non conosce, è un grande sperimentatore, un po’ farfallone. Cosa si mangia importa poco per il «capo»: basta essere serviti, che si rispettino i suoi tempi, che non ci si debba adattare alle preferenze degli altri. «E’ lui a tagliare la testa al toro, ma poi mangerà un filetto». Infine il «pacificatore», quello che non si accorge mai quando la vita gli mette in serbo un bel boccone, «low profile» e fatalista. Ha grande capacità di adattamento e ama la cucina etnica.
Per chi non si riconosce in nessuno di questi caratteri, c’è anche la classificazione secondo il gruppo sanguigno. Il gruppo 0 è «il cacciatore», più vicino all’uomo primitivo: preferisce le proteine animali e un’attività fisica intensa. Il gruppo A è l’«agricoltore» e ottiene maggiori benefici da una dieta vegetariana con cibi naturali e freschi. Il gruppo B è il «nomade», quello che meglio si adatta alle nuove culture e ha quindi un’alimentazione variata. Infine il gruppo AB, l’«enigmatico»: è il più difficile da accontentare, più raro e biologicamente complesso. Se neanche con i gruppi sanguigni si trova il profilo, e il cibo, ideale, Miglio e Provana non sdegnano il ricorso ai test da fare ai clienti o alle teorie omeopatiche del dottor Bach. Sempre alla ricerca della «ricetta della felicità», quella promessa fin dagli albori del mondo nel dialogo tra una donna e un serpente con il menu più semplice e delizioso. Una mela.

«la Settimana del cervello»

Il Messaggero Domenica 13 Marzo 2005
LE CELEBRAZIONI
di FABRIZIO MICHETTI

SU una verdeggiante baia a trentacinque miglia da Manhattan ha sede il Cold Spring Harbor Laboratory, che da oltre un secolo ospita scienziati dalle menti aperte che hanno saputo cogliere e sviluppare i temi centrali della ricerca sulle basi molecolari della nostra vita. E’ qui che nel 1953 James Watson presentò la struttura a doppia elica del Dna, scoperta insieme con Francis Crick nell’altrettanto prestigioso Cavendish Laboratory di Cambridge, che doveva valergli il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Ed è qui che, all’inizio degli anni Novanta, lo stesso James Watson, divenuto nel frattempo direttore della prestigiosa istituzione, riuniva trenta scienziati di varia estrazione e di riconosciuta autorevolezza, al fine di stabilire la necessità che gli studi sul cervello fossero considerati una assoluta priorità, che avrebbe comportato “pubblici e personali benefici”. Furono allora identificati dieci obiettivi prevalenti per la ricerca neurobiologica, da raggiungere entro il duemila, ma poi realisticamente aggiornati; fra questi la prevenzione e la cura delle malattie neurodegenerative, la comprensione dei meccanismi che portano a tossicodipendenza, l’identificazione di geni coinvolti nello sviluppo delle principali malattie mentali, la comprensione dei processi di apprendimento nell’adulto e nel bambino, fino all’obiettivo finale e totalizzante: “come realmente funziona il cervello”.
La riunione, promossa dalla Dana Foundation, istituzione filantropica nata negli anni Cinquanta su iniziativa dell’industriale newyorkese Charles A. Dana, e che tuttora ha sede al numero 745 della Quinta Strada, dava origine alla Dana Alliance for Brain Initiatives, che riunisce ormai circa duecento scienziati, fra cui nove premi Nobel, accomunati dall’intento di promuovere e diffondere gli studi che portano alla conoscenza del cervello. Verso la fine degli anni Novanta questa forte volontà si diffondeva al di qua dell’Oceano, con la nascita della European Dana Alliance for the Brain. La “Settimana del Cervello”, che si svolge in tutto il mondo civilizzato dal 14 al 20 marzo, e in Europa è alla sua settima edizione, è figlia di questa iniziativa, e soltanto lo scorso anno ha coinvolto cinquantasette paesi nei cinque continenti, dove si sono svolti seicentosessantuno manifestazioni con l’intervento di millesettecento scienziati. Questi hanno aperto le porte dei laboratori, sono saliti sui palcoscenici, sono andati nelle scuole, hanno dato nuova vita alla vecchia tradizione dei dibattiti culturali nei caffè, abbandonando per una volta la tradizionale riservatezza di chi pratica la buona scienza per aprirsi alla spiegazione di questo intreccio di miliardi di cellule, del peso di circa un chilo e mezzo che, dalla sua sede nel nostro cranio, governa movimenti, volontà, emozioni.
Non è soltanto una promozione a favore della ricerca scientifica, di cui certo c’è bisogno, soprattutto da noi in Italia: non occorre sottolineare quanto siano bene spese risorse destinate alla comprensione dei processi cerebrali e alla cura delle malattie che li colpiscono. Mentre vengono diffuse le conoscenze più recenti sul modo di operare del nostro cervello, dall’evidenza delle cose a poco a poco emerge il ruolo delle neuroscienze come naturale cerniera tra la cultura scientifica e quella umanistica: la conoscenza dei processi cerebrali come una stele di Rosetta che ci aiuti a comprendere i nostri pensieri e le nostre azioni col linguaggio del cervello. Nella vicina Svizzera, ad esempio, la manifestazione di quest’anno è specificamente orientata al confronto dei contributi offerti dalla scienza del cervello e dall’arte alla formazione e alla percezione della coscienza. Scienziati e artisti si interrogheranno sulla vera natura della coscienza, dagli aspetti cognitivi a quelli morali, confronteranno le loro responsabilità e le reciproche legittimazioni. E questo avverrà in piazza, per così dire, davanti alla cittadinanza, che potrà giudicare e intervenire. E da noi, l’Università di Roma “La Sapienza” tra le altre iniziative promuoverà a Viterbo una tavola rotonda in cui neurobiologi, esperti di intelligenza artificiale e teologi faranno confluire le loro diverse culture alla ricerca di una risposta all’antico quesito dei rapporti tra mente e cervello.
Questo passaggio dai laboratori alla società trova oggi un fondamento soprattutto nelle ricerche, sempre più numerose, che consentono di seguire momento per momento l’attivazione delle diverse regioni del nostro cervello mentre svolgiamo diverse attività cerebrali. Davanti agli occhi dei ricercatori, le nuove metodologie che offrono immagini funzionali del cervello, come la risonanza magnetica funzionale o la più recente topografia ottica, di volta in volta accendono un gruppo di cellule nervose quando ci innamoriamo, un altro quando abbiamo paura, un altro quando ci impegniamo in un calcolo aritmetico e ancora un altro, diverso dal precedente, quando ci addentriamo in un ragionamento logico deduttivo. E le immagini che ci consentono di osservare momento per momento le attività delle diverse regioni del nostro cervello ormai si addentrano fra le cellule e inseguono i percorsi di alcune fra le molecole che trasmettono il messaggio nervoso da un neurone all’altro - i neuromediatori - alcune delle quali, come la serotonina e la dopamina, svolgono un ruolo centrale nei processi mentali e nei loro disturbi, dall’ansia fino alla schizofrenia. Il nostro cervello, a poco a poco, diventa trasparente e, con esso, le sue funzioni. Forse è giunto il momento che cominciamo a rendercene conto, senza dimenticare, però, che la conoscenza di dove e come si svolgono i nostri processi mentali potrebbe non bastare per conoscere davvero che cosa sono, e valicare il confine che separa i meccanismi cerebrali dal nostro vissuto.

sinistra
Ingrao, e Rossanda vs Sansonetti

Corriere della Sera 14.3.05
DOPO IL CONGRESSO
Sansonetti-Rossanda, sfida sul Prc
L’amarezza di Ingrao

G.G.V.

Quando Rossana Rossanda, sul Manifesto, ha liquidato l’ultima assise di Rifondazione come «un brutto congresso», non è un mistero che ci sia rimasto male. Anche se lui, Pietro Ingrao, decano del Pci che a novant’anni ha aderito al partito di Bertinotti con l’entusiasmo di un ragazzino, si è ben guardato dall’intervenire nelle discussioni politiche di questi giorni, «in fondo sono l’ultimo arrivato», raccontava, «mi parrebbe presuntuoso». Però il problema politico resta, riassunto dall’editoriale che il direttore Piero Sansonetti, su Liberazione, ha dedicato ieri alla faccenda come un controcanto esplicito all’articolo della Rossanda, a cominciare dal titolo: «È stato un buon congresso». Perché tra il congresso «brutto» e quello «buono» passano i tanti temi che hanno diviso la sinistra radicale e la stessa Rifondazione negli ultimi mesi, i conti con il passato in casa comunista, i rapporti con i movimenti, soprattutto la scelta di Bertinotti di «non fare i parenti poveri» e «uscire dall’angolo»: per andare al governo. Il segretario alla fine l’ha spuntata e la Rossanda ha commentato: «Ci sarebbe stata vasta materia da discutere, se Bertinotti non avesse finito con l’annunciare che (...) alla maggioranza sarebbero andate tutte le redini operative del partito».
Del resto la chiusura della «rivista del Manifesto», a dicembre, era stata una sorta di prologo: da una parte Ingrao, dall’altra la Rossanda e Lucio Magri. Non era questione di vendite (arrivava ad ottomila copie) né di difficoltà economiche. Come ammetteva lo stesso Magri nell’ultimo editoriale: «È emersa una divergenza pesante tra noi». Per dire: «C’è chi ha legittimamente sentito l’esigenza di una rottura e di un’autocritica molto più esplicita e radicale rispetto a un passato nel quale eravamo comunque compromessi», scriveva citando l’ultimo libro-intervista di Ingrao. E poi «altri», aggiungeva Magri, «e paradossalmente io, da sempre comunista anomalo, per una fase scismatico», che al contrario «sentono l’esigenza, il dovere di non varcare la soglia che divide la critica anche più dura dalla liquidazione».
Poi, il 3 marzo, Bertinotti si è presentato a Venezia leggendo la lettera di Ingrao, lacrime e applausi alle righe sull’elogio della non violenza, «è davvero la prima volta che vinco un congresso!», commentava ironico l’ex presidente della Camera. Alla Rossanda e alle sue considerazioni sul «congresso brutto» avevano già replicato, su Liberazione, Salvatore Cannavò e Rina Gagliardi. Finché ieri il direttore Sansonetti ha riassunto il caso, oltre le polemiche sulla «linea di maggioranza che si è imposta» e che «secondo Rossanda è una specie di strappo alla democrazia, un gesto di arroganza di Bertinotti». Perché costruire «una sinistra vincente», scrive, significa «essere capaci di imporre i propri punti di vista». E allora la questione è semplice: «Cosa vogliamo fare: ricominciare da capo la discussione congressuale o invece ci decidiamo, ciascuno con le sue posizioni, a gettarci nella mischia, a uscire per il mondo, a navigare in mare aperto?».

Liberazione 13.3.05
Le polemiche su Rifondazione comunista
È stato un buon congresso
Piero Sansonetti

E' stato un buon congresso. Lo dico con un po' di pudore, perché non mi piace usare una espressione che è l'opposto di quella usata recentemente - in un articolo sul manifesto - da Rossana Rossanda, visto che considero Rossanda una delle menti pensanti della sinistra (e non è che poi ce ne siano tantissime…) e visto che le sue analisi, da diversi anni, ci aiutano a capire come va il mondo. Però sono convinto di aver ragione: il congresso di Rifondazione comunista, che si è chiuso una settimana fa a Venezia, è stato importante, ricco, vivace, pieno di idee. E siccome è stato anche capace di scegliere una linea politica e di prendere atto di vari e chiarissimi dissensi a questa linea politica, non capisco come non lo si possa considerare un buon congresso. I congressi servono a questo: a definire la direzione di marcia di un partito e a capire chi si oppone, quanto si oppone, perché si oppone. Spesso succede che si esca da un congresso senza che nessuna di queste cose sia stata chiarita. Quelli sono cattivi congressi. Dal congresso di Rifondazione invece si è usciti in un quadro di grande chiarezza. Si conosce la linea di maggioranza, sono limpide le critiche delle minoranze.
Non voglio fingere di non capire qual è l'obiezione di Rossana Rossanda, anche perché di quella obiezione hanno discusso nei giorni scorsi, su queste pagine, Rina Gagliardi e Salvatore Cannavò, cioè due compagni con i quali tutti i giorni io faccio il giornale, e discorro di politica, e con i quali confronto opinioni che non sempre coincidono ma che generalmente convergono, si intrecciano, interagiscono. Rossanda ha fatto notare - riassumo e semplifico un po' - che nel congresso si è imposta una linea di maggioranza, e che questa maggioranza ha voluto anche modificare lo statuto e ha rifiutato la ricerca di una sintesi con la minoranza e la composizione di organi dirigenti (esecutivi) comuni. Ha preferito assumersi da sola le sue responsabilità di maggioranza. Secondo Rossanda questo è una specie di strappo alla democrazia, un gesto di arroganza di Bertinotti. Secondo Rina Gagliardi invece è una scelta che permette alle minoranze di continuare ad avere tutto lo spazio e la visibilità necessari, e permette alla maggioranza di fare politica a tutto campo, cioè di esercitare il proprio diritto-dovere e il ruolo del quale, in questo momento, la sinistra italiana ha molto bisogno. Secondo Cannavò, la maggioranza del partito avrebbe potuto garantirsi la piena autonomia delle proprie scelte e della propria iniziativa politica, pur trovando spazi di gestione comune del partito con le minoranze.
La sinistra, spesso, concentra le sue notevoli forze, energie e intelligenze nell'esercizio di attività interne ai partiti e alle proprie correnti, che riguardano non la politica attiva ma le regole della politica, e le regole - credo - sono un aspetto importante della politica, ma non esclusivo.
Io penso che sarebbe più ragionevole considerare conclusa, almeno per un po', questa discussione e questa battaglia, e utilizzare i risultati del congresso per tornare tutti al centro dell'arena e tentare la sfida della costruzione di una sinistra vincente. Naturalmente, prima bisognerebbe intendersi su cosa vuol dire vincente. Non significa - credo - semplicemente prendere voti. Vuol dire essere capaci di imporre i propri punti di vista su come si riforma la società, lo Stato, il lavoro, il mercato, le relazioni internazionali.
La nostra sfida, in fondo, è tutta qui. Bertinotti ha indicato una strada da percorrere che a me sembra molto suggestiva. Difficile, ardua, ma suggestiva. Ha detto che si è aperta una vera e propria crisi delle classi dominanti - della borghesia - e questa crisi determina una incertezza sul modello di sviluppo del paese e sul sistema di comando, e questa incertezza comporta lo sbalestramento del liberismo e un forte indebolimento dell'identità e delle ricette riformiste: in questo quadro lo spazio per la sinistra è grandissimo, e diventa più grande se si riesce a definire un progetto di società alternativo a quello attuale, che è fondato sulla precarizzazione, sul rifiuto dell'innovazione, sulla compressione dei diritti e dei beni comuni, sulla globalizzazione guidata dal capitalismo. E dunque - riducendo tutto in arida formula - la sinistra deve andare al governo.
Bertinotti ha detto che non è giusta una politica dei due tempi: prima si fa un programma e poi si fa politica. Ha detto che il programma è politica, e cioè che va costruito, ottenuto, conquistato, imposto, nel fuoco di una battaglia fatta di conflitto, di rapporti e di mescolamenti con i movimenti, e anche di collaborazione con gli altri partiti della sinistra, del centrosinistra e di una parte del centro.
Le minoranze si sono presentate al congresso su una posizione di contrasto aperto alla linea di Bertinotti e con obiezioni molto ben articolate. Una parte delle minoranza, quella più di sinistra - scusate anche qui la semplificazione - sostiene che la crisi della borghesia non c'è, è illusione, è semplice e secondario dissidio tra ali diverse delle classi dominanti. E quindi ha detto che l'operazione Bertinotti rischia di concludersi con una specie di sottomissione della sinistra al potere dei conservatori e ai loro disegni. Un'altra parte dell'opposizione, la più consistente - l'area dell'Ernesto, ma non solo - ha detto che il progetto di Bertinotti è giusto e mette in movimento forze nuove e importanti, ma che nessun progetto di governo può essere fatto se prima non si definisce un programma politico, non lo si negozia con gli alleati, non lo si fa accettare e non si trovano precise garanzie di attuazione. Quest'area dell'opposizione ritiene che dal centro-sinistra ex Ulivo non giungano affatto segnali di apertura sul programma, anzi ci siano degli arretramenti rispetto a qualche anno fa. E dunque che la maggioranza deve fare un passo indietro: non si può parlare ancora di ingresso nell'area di governo e l'averlo fatto è stato un errore grave di Bertinotti.
La discussione è arrivata a questo punto e la differenza delle posizioni appare chiarissima. Chiari appaiono anche i punti di convergenza, che sono due: la volontà comune di mettere la forza di Rifondazione sul piatto della bilancia, per battere il governo Berlusconi, e la scelta - a questo scopo - di alleanze elettorali con il centrosinistra. Ora cosa vogliamo fare: ricominciare da capo la discussione congressuale o invece ci decidiamo, ciascuno con le sue posizioni, a gettarci nella mischia, a uscire per il mondo, a navigare in mare aperto? Se non lo facciamo perdiamo una grande occasione. Ci sono pezzi grandissimi della società italiana - del mondo vasto della protesta, della ribellione, dell'opposizione al conformismo e al potere cieco del mercato - che aspettano una sponda politica, per potersi organizzare, per potere contare, per ricominciare ad agire e produrre lotte e azioni positive. Se ci decidiamo, con coraggio, a incontrare questi pezzi della società e a fare politica con loro, mettendo a frutto la linea politica del partito di Rifondazione e anche le obiezioni delle minoranze, può darsi che in un tempo abbastanza breve scopriremo che i dissensi al nostro interno sono meno rilevanti di quel che credevamo, e allora sarà più facile anche risolvere il problema delle regole e del rapporto fra le componenti e le correnti. Se non faremo questo, perdiamo la grande occasione. Lasciamo ai riformisti, e anche alla destra, lo spazio per riorganizzarsi e superare la loro crisi. Sarebbe un suicidio, mi pare.

Il Mattino 13.3.05
Le passioni di Ingrao: io, il politico delle sconfitte
Raffaele Indolfi

Santa Maria Capua Vetere. Bandiere e fiori tricolori per Pietro Ingrao, da ieri cittadino onorario di Santa Maria Capua Vetere, la sua città degli anni della scuola media che quando lui la frequentava si chiamava ginnasio. Di bandiere rosse ce n’è una sola. E non sventola come quelle tricolori all’aperto, nello spiazzo fra il liceo «Nevio» e il teatro «Garibaldi», i luoghi del ritorno di Ingrao a Santa Maria Capua Vetere e anche quelli della cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria. Ma all’interno del teatro. La bandiera è quella con il simbolo del vecchio Pci, un partito che già non esisteva più quando sono nati quei due ragazzi che la sventolano, uno dei quali si è fatto crescere la barba per nascondere il suo viso da bambino. Ma gli occhi del vecchio comunista sono calamitati e si emozionano per altri colori, il nero e il celeste della maglia del «Gladiator», la squadra di calcio di Santa Maria Capua Vetere della quale lui era «tifosissimo», il cui capitano è fra i primi che Ingrao abbraccia e saluta. E al quale non esita a confessare di aver rubato, ragazzo, dalle tasche del suo severo genitore i soldi per andare a vedere le partite. Il vecchio comunista che, nonostante il 30 di questo mese compia 90 anni, non conosce parole come riposo, disimpegno, ritiro e che recentemente ha abbracciato Rifondazione con Bertinotti, non è a Santa Maria per una manifestazione elettorale in favore della campagna di Bassolino a presidente della Regione, come pure la presenza del governatore della Campania fa supporre. Ingrao non è a Santa Maria per sostenere l’ex giovane «ingraiano», Bassolino appunto. «Antonio - dice - diversamente da me che nella vita politica non ho fatto altro che assommare sconfitte, è ora nel giro del potere». A Santa Maria Ingrao è per rivivere, con emozione profonda, gli «anni belli» vissuti in una città che, dice, gli ha indicato la strada che poi lui ha percorso, cioè il suo impegno di vita: la politica. Una scelta nella quale, sostiene, non hanno pesato maestri, che pure c’erano, ma l’intera città. «Una città di balconi e di cortili dove la gente si parlava, un luogo che favoriva la comunicazione e la partecipazione», ricorda, chiarendo quello che per lui è l’essenza stessa della politica, cioè il dialogo. «Un dialogo - aggiunge - che non mi ha fatto mai sentire solo nei momenti brutti delle mie sconfitte che, in politica sono state tante». Ma lui non è a Santa Maria per fare un bilancio della sua lunga vita pubblica, bensì per ritrovare i ricordi della sua fanciullezza, le partite con la palla di stracci, i compagni e i luoghi dei suoi giochi di ragazzo. Dell’Ingrao «patrimonio del movimento operaio e della democrazia» parlano Giovanni Cerchia, il senatore Abdon Alinovi, il sindaco Vincenzo Iodice, che gli conferisce la cittadinanza onoraria, e Antonio Del Vecchio, il preside del liceo «Nevio» che ricorda i voti di quando il primo comunista che diventerà nel 1976 presidente della Camera frequentava il ginnasio. «Ottimi in tutte le materie, fuorché in educazione fisica», precisa con pignoleria professorale il preside. Antonio Bassolino che cura il suo vecchio leader e maestro con amore filiale (gli aggiusta il microfono, lo accompagna porgendogli il braccio), lo definisce «un grande innovatore». E mette l’accento sul suo impegno regionalista, cioè sul «federalismo che unisce, non sulla devolution che divide». E gli fa come tutti gli auguri per i suoi 90 anni. Ingrao ringrazia, lancia baci con la mano, commosso non per le parole dei politici, ma per il tifo da stadio con il quale viene salutato dagli alunni di oggi della sua vecchia scuola.

post-umano

L'Unità 14 Marzo 2005
i lunedì al sole
Bondi, l’Embrione e il Robot
Beppe Sebaste

Sarà perché una delle mie letture preferite in questi giorni, nel senso del divertimento, sono i sudati mini-saggi di Sandro Bondi, il portavoce di Forza Italia, che nel vano tentativo di inseguire un dibattito tra sé e sé polemizza con Giovanni Sartori sull’embrione e cita San Tommaso nell’edizione Utet, ma ho cominciato anch’io a pormi qualche domanda. Non che abbia dubbi sul prossimo referendum, votare «sì» per abrogare la legge in vigore sulla procreazione e la fecondazione assistite - una legge raffazzonata e ingiusta che toglie libertà ai soggetti (soprattutto le donne) e pretende di decidere astrattamente sull’indecidibile. Ma mi chiedo di cosa sia segno questa - appunto - astrazione vertiginosa del dibattito in corso.
Non credo per esempio che la voga recente dei robot, dal cinema ai giochi per bambini, sia estranea al dibattito sull’embrione, né che le strategie dell’apprendimento e le politiche educative (la scuola) siano disgiunte da entrambi. La loro comune appartenenza alla sfera della bio-politica mostra che le frontiere di ciò che viene definito «umano», da secoli innalzate per differenziarlo dall’animale (e in generale dalle «anormalità» e devianze) si aprono invece smisuratamente nei confronti del post-umano, fino a poco fa categoria estetica dell’arte d’avanguardia. In parole povere, spostare la questione dell’embrione dal grembo materno, pontificare al posto della donna e del suo corpo mi sembra già un’enormità; e avrete notato che la parola «embrione» già nasconde, in qualche modo, la parola «feto»: come se il dibattito sull’aborto già affrontato a suo tempo dal legislatore fosse regredito, e questa regressione è in realtà una progressiva astrazione, cioè de-realizzazione, del concetto di vita. E lo stesso si dovrebbe dire sull’astrattezza del concetto di conoscenza nelle attuali pratiche educative. La cosa che noto maggiormente è infatti la svalutazione, fino alla rimozione, del ruolo dei contesti, della fisicità e della carnalità nelle definizioni di «vita» da parte di chi si oppone, con argomenti «cattolici», alla libertà di fecondazione - per esempio eterologa, come ha da essere in generale tutto quanto pertiene alla sessualità e alla relazionalità. Colpisce il coincidere di cartesianesimo e fondamentalismo in chi difende un concetto di vita avulso e immunizzato: un concetto, appunto, post-umano, anche a parte le spericolate acrobazie sulla «coscienza di sé» del portavoce Bondi.
Post-umano è il robot, in tutte le sue forme, cioè il tentativo di isolare l’intelligenza dal corpo, di portare all’estremo il mito dell’intelligenza astratta avviato da Cartesio. Dalla solitudine del Cogito in poi, la vicenda dell’Occidente è un progressivo dualismo che si confonde fino a sovrapporsi con quanto Carl Marx ha descritto sul piano socio-economico: alienazione dell’individuo, poi della specie, a partire dallo spossessamento di sé nel lavoro e nei gesti, privi di finalità. Il soggetto di Cartesio implode nel soggetto descritto da Marx, e l’uomo contemporaneo è la sintesi di entrambi, tanto più sperduto quanto più arrogantemente convinto di essere padrone delle proprie azioni.

le donne escluse dalle sperimentazioni

L'Unità 14.3.05
L'esperta
Ceci, farmacologa: «Così venimmo escluse dalle sperimentazioni»
Silvia Bencivelli


Di fronte a una ricerca biomedica che per decenni ha consapevolmente dimenticato le donne, imporre di allargare la sperimentazione sui farmaci anche all'altra metà del cielo non basta. «Perché - spiega Adriana Ceci, direttore del Consorzio valutazioni biologiche e farmacologiche di Pavia - dopo aver condotto lo studio è necessario esaminare le differenze che esistono tra maschi e femmine per quanto riguarda l'efficacia e il rispetto alla sicurezza». Cioè è necessario ricordarsi delle diversità fisiche e metaboliche che esistono tra uomini e donne e quindi valutare l'interazione con il farmaco, separatamente, negli uni e nelle altre. «Se correggessimo il difetto della ridotta sperimentazione dei farmaci nelle donne, limitandoci ad aumentare la componente "rosa" del campione di pazienti, faremmo un altro errore madornale». E alla fine avremmo dei risultati calibrati su un individuo inesistente, metà uomo e metà donna. Così i farmaci di cui oggi conosciamo il funzionamento, almeno nei maschi, non sarebbero più buoni per nessuno.
Il punto, però, è che questa situazione deriva da un errore del passato, commesso in assoluta buonafede, ma non facile da correggere. «Il percorso che ci ha portato alla consapevolezza dell'esistenza di differenze importanti tra uomini e donne - spiega Ceci - è stato un percorso alla rovescia». All'inizio, cioè, le donne furono escluse volontariamente dalle sperimentazioni, a partire da linee guida pubblicate dalla Food and Drug Administration americana e scritte, teoricamente, per proteggere la gravidanza. «Solo più tardi ci si è accorti dell'errore, perché le donne in gravidanza prendono ugualmente le medicine. Quindi, per evitare un rischio teorico in fase di sperimentazione, abbiamo esposto milioni di donne a un rischio sconosciuto». E allora sono cominciati i provvedimenti in senso opposto: negli Stati Uniti si è arrivati all'obbligo di legge di studiare i farmaci anche sulle donne. In Europa, però, siamo ancora molto indietro e ci sono solo delle recentissime linee guida, che non sono nemmeno vincolanti.
«La situazione odierna è un retaggio del passato, - prosegue Ceci - anche se, nel frattempo, sono arrivati nuovi strumenti scientifici, che ci permettono di studiare la tossicità di un farmaco anche prima della sperimentazione». Come gli studi di genotossicità (cioè la tossicità sui geni) o di embriotossicità (la tossicità sull'embrione), che negli anni Settanta non esistevano ancora. Ma è proprio il fatto di poter disporre di nuove tecnologie che alimenta un paradosso: «oggi si sta sempre di più lavorando allo sviluppo di sistemi che ci permetteranno di mirare il farmaco sul singolo individuo, come la farmacogenomica grazie alla quale avremo farmaci su misura dei nostri geni. Però, mentre ci stiamo avvicinando all'individuo, continuiamo a dimenticare un'intera popolazione: quella femminile».