La Stampa 25 Settembre 2003
UNA RICERCA CONDOTTA DALLA SOCIETÀ ITALIANA DI MEDICINA GENERALE
Gli italiani e il sesso? Un disastro
Un uomo e una donna su due sono insoddisfatti
di Daniela Daniele
ROMA
Dopo gli andrologi, gli psicologi e i sessuologi, tocca ai medici di famiglia curiosare tra le lenzuola degli italiani. Ecco, quindi, lo sgradito dossier a tinte fosche: il 53,7 per cento dei maschi e il 58,8 per cento delle femmine lasciano il letto insoddisfatti. E non per colpa del materasso.
Lo svela una ricerca condotta dalla Società italiana di medicina generale (Simg) sulla base di seicento questionari distribuiti negli ambulatori sul territorio e compilati dai pazienti in forma anonima. Uno studio già pubblicato sul British Medical Journal.
Illustrati nel corso di una conferenza stampa di presentazione del primo Congresso nazionale sulla sessualità in medicina generale, «Il desiderio e le parole», che si aprirà a Palermo venerdì prossimo, i risultati dell’indagine danno un brutto colpo al tanto decantato eros latino.
Per quanto riguarda gli uomini, il problema più serio è quello di sempre: l'erezione. Il 35,9% dei 270 maschi intervistati ha ammesso che, sia per l’ansia da prestazione o per altre insidie psicologiche, ha difficoltà a mantenere eretto l'organo sessuale. Il 35,4% ha lamentato problemi già nella fase iniziale del rapporto; il 32,3% fatica a raggiungere l'orgasmo e il 29,3% getta la spugna al momento della penetrazione.
Pochi motivi di spensieratezza anche nelle risposte al femminile: il 46,6% ha ammesso di non riuscire a portare a termine il rapporto, il 30,1% ammette di avere problemi di orgasmo e il 26,9% di lubrificazione inadeguata del proprio organo sessuale.
E dopo il “come”, passiamo al “quante volte”. Anche su questo aspetto della faccenda tira una brutta aria: il 7% degli uomini e il 15% delle donne hanno dichiarato di non avere avuto rapporti sessuali nell'ultimo mese.
Forse, ci si dice speranzosi, si tratta di ultrasettantenni (che pure hanno una loro, spesso soddisfacente, vita sessuale). Il dato più allarmante, invece, come spiega Raffaella Michieli, responsabile area Salute della Simg, «è rappresentato dal fatto che si parla di problemi lamentati da un campione di maschi e femmine in maggioranza giovane (il 32,1% ha dai 20 ai 39 anni e il 21,9% tra i 40 e i 49 anni), in buone condizioni di salute generale e che nell'ultimo mese ha avuto un desiderio o uno stimolo sessuale. Solo che poi, al momento dei fatti, le cose sono andate diversamente».
E se abbiamo l’impressione che il letargo del sesso negli italiani sia un po’ troppo prolungato, non consolano certo le parole della professoressa Chiara Simonelli, psicosessuologa della Sapienza di Roma, che ritiene le cifre di cui sopra addirittura sottostimate. «Un altro elemento su cui occorre soffermarsi con attenzione - aggiunge - è rappresentato dall'elevata percentuale di persone che dichiara di astenersi dal rapporto sessuale. L’interpretazione, in questo caso, può essere duplice. Da una parte, abbiamo le donne che fanno una rinuncia consapevole e sono in particolare quelle single tra i 30 e i 40 anni, alla ricerca di rapporti significativi e non solo dunque di sesso fine a se stesso; dall'altra, le coppie stabili nelle quali l'uomo sospende l'attività sessuale in casa perchè ha altre relazioni al di fuori della famiglia. E anche in questo caso è ancora la donna a essere tagliata fuori dalla sessualità».
Sonno dei sensi, ma a quale prezzo? Gli esperti della Simg dicono che una situazione sessuale mortificata può scatenare ipocondria, nervosismo, tensione e somatizzazioni di ogni genere. Consigliano, dunque, di parlarne dapprima con il medico di famiglia che può evitare al proprio assistito di ricorrere a figure non competenti per risolvere il suo problema.
Su questa base prende forma il convegno di Palermo «voluto - conclude Raffaella Michieli - per affrontare e discutere queste problematiche proprio partendo dall'ambulatorio del medico di famiglia e dalla sua conoscenza dell’assistito e dell’ambiente in cui vive».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 25 settembre 2003
Giancarlo Santalmassi e Adriano Ossicini, su «Buongiorno, notte»
(segnalato da Licia Pastore e da Lucia Ianniello, che segnala anche un articolo apparso su Il Giornale di oggi, dal titolo: "L'effetto Bellocchio sulle librerie: tornano Braghetti, Faranda & c." che non sono riuscito a trovare in rete)
Il Riformista 25 Settembre 2003
SVOLTE. L'ULTIMO ATTO DI RESISTENZA AL DOMINIO DELLE REAZIONI EMOTIVE
Buongiorno, notte: come eravamo al Tg2
Perché Bellocchio nel suo film ci ha preferito al Tg1: l’età del’innocenza tv finì allora, non a Vermicino
di Giancarlo Santalmassi
Del contenuto di Buongiorno, notte sì è discusso molto, ma sarebbe giusto parlare anche del linguaggio usato dal regista. Oltre a quello cinematografico c'è anche quello documentario, teatrale e televisivo. Del repertorio cinematografico e documentario ci sono I tre canti di Lenin di Dziga Vertov; Paisà di Roberto Rossellini; I 600 giorni di Salò di Nicola Caracciolo: servono per esprimere l'opinione dell'autore sulla formazione ideologica dei terroristi e sulla loro confusione culturale.
La finzione «teatrale» è così spuria rispetto al contesto da sembrare girata a parte: Paolo VI che butta per aria la lettera con i consigli che gli vengono dai palazzi della politica; e poi la seduta spiritica, in cui lo stesso regista si include tra gli spettatori. Sequenze in cui Bellocchio sembra esprime un suo giudizio tra il rabbioso e lo scettico sulla possibilità di ottenere la liberazione del prigioniero, o di scoprire il suo carcere.
Infine c'è il linguaggio della Tv. Per Bellocchio (Repubblica 15 settembre), «È un personaggio molto rilevante, una presenza costante nel covo, che ha la funzione di mescolare la realtà storica con la finzione cinematografica. Una Tv che restituisce forte la realtà». Ed è della Tv che vorrei parlare perché nel '78 c'ero e sono anche oggi nel film, visto che Bellocchio ha scelto proprio l'edizione straordinaria del Tg2 da me condotta per introdurre questo «personaggio» che i brigatisti guardano con la stessa ansia con cui scrutano gli elicotteri in volo su Roma alla ricerca di tracce dello statista democristiano. Sono immagini che ci restituiscono una televisione fortemente diversa, nella quale sono bene in evidenza le tracce della crisi della Rai di oggi.
Dunque, perché il Tg2 e non il Tg1? La risposta è nell'analisi dei Tg Rai di quel giorno (ma anche di Tv private, di Gr pubblici e privati e di quotidiani di opinione e di partito) condotta da un gruppo di ricerca dell'Università di Roma coordinato dal prof. Mario Morcellini e uscita col titolo «Il ruolo dell'informazione in una situazione di emergenza: 16 marzo 1978». Lo dice con chiarezza a pagina 176 e dintorni: «L'edizione straordinaria del Tg1 appare contraddistinta dalla costante preoccupazione di assicurare largo spazio alle valutazioni e commenti dei membri ufficiali del sistema politico. Il modo in cui viene assolto il compito di comunicare l'eccezionale gravità dell'accaduto è costituito dal privilegio costantemente accordato ai richiami emotivi, dall'uso di registri congestionati, di elevate ridondanze e insistenza su elementi di dettaglio che contribuiscono a conferire all'informazione teletrasmessa dal Tg1 una forte connotazione drammatica, determinata anche dalle continue interruzioni dalla regia, dall'intervento improvviso di altri redattori, cui si accompagna l'assenza di indicazioni sulle reazioni popolari, col pericolo di rinchiudere il telespettatore in una prospettiva meramente individuale. Nel Tg2 sembra prevalere l'esigenza di facilitare negli utenti – accanto ad una comprensione razionale dell'accaduto, delle possibili cause che l'hanno determinato e delle sue conseguenze politiche – il dominio delle loro reazioni emotive. Così può forse interpretarsi l'ordine e la compostezza dello studio centrale interamente gestito da un unico conduttore cui va aggiunta l'importanza accordata sin dai primi momenti alle reazioni popolari nel palese tentativo di convogliare le energie individuali e le tensioni emotive verso forme di impegno e di mobilitazione nella straordinaria anche un importante collegamento col processo alle Br in corso a Torino, sulla consapevolezza del sequestro di Moro tra i brigatisti in carcere e l'impatto su una città già colpita dagli assassinii di Casalegno, Berardi, Coco, Croce e un collegamento con Montecitorio con Emmanuele Rocco, autore di una nota che può forse essere interpretata come l'unico vero momento di esplicita riflessione sulle generali conseguenze del fatto».
Una diagnosi impietosa. Si discute ancora se oggi sia «servizio pubblico» la tv dell'emozione, dell'enfasi, della lacrima e del dolore. Dopo la riforma del '75 i giornalisti del vecchio telegiornale unico di area cattolico-democristiana optarono in maggioranza per il Tg1. Gli altri, quelli dei settimanali come Tv7 o di «AZ-un fatto come e perché» (qui si era formata la mia esperienza), di area laica, socialista e comunista, scelsero il Tg2. Andrea Barbato, Aldo Falivena, Ennio Mastrostefano, Italo Moretti, Piero Angela, Brando Giordani, Sergio Zavoli erano le armi per combattere la concorrenza fortissima nata mediaticamente nel 1975 tra la destra e la sinistra di allora. Convivenza tra riformisti e massimalisti che si incrinò inesorabilmente nel '78, proprio sulla linea della fermezza sul caso Moro.
C'è un altro brano della Tv di allora usata da Bellocchio in modo assai sofisticato, e che vale una annotazione: la voce di Tina Anselmi (fuori campo: nel film il televisore è nella stanza accanto) che parla dei malati di mente (pazzi, nel politically uncorrect dell'epoca) messi in libertà dalla legge Basaglia. Un problema che una sinistra riformista oggi dovrebbe meditare. Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio ucciso dalla stessa Chiara-Braghetti due anni dopo l'assassinio di Moro, è stato l'unico a coglierne il valore, anche politico, di quella citazione. «Bellocchio aveva conquistato la mia antipatia da quando a 21 anni avevo visto il suo film Matti da slegare. A me il suo matto che usciva dal manicomio convinto che preti e padroni (non la propria malattia mentale) fossero la vera causa di tutti i guai, suoi e del mondo, sembrava più matto e pericoloso di prima. Ma allora dirlo non era molto di moda. Se nonostante queste premesse il film è riuscito a conquistarmi vuol dire che identici ingredienti – musiche, locomotive, falci e martelli, facce dei carnefici e formidabile umanità di Moro – parlano in modi diversi a diversi spettatori.
PS. Non è vero che la Tv perse l'innocenza nel 1981 con l'insensata cronaca da Vermicino del fallito salvataggio di Alfredino Rampi. L'innocenza dell'intero sistema dei media italiano andò perduta tre anni prima, col caso Moro. Gli assassini, i loro complici materiali e morali, aiutati dalla debolezza della Prima Repubblica, tentarono di usarla, di influenzarla, di ricattarla. Allora – semmai qualcuno ancora ci credesse – cessò la presunzione di neutralità dell'informazione. Vermicino aprì un'altro interrogativo: se la società dell'informazione sia anche la società della conoscenza.
www.clorofilla.it 35.9.03
Rassegna Stampa. Europa. Il film di Bellocchio sulla prigionia di Moro: il giudizio artistico prevale su quelllo storico e politico
"Buongiorno, Notte", Ossicini: «E' solo poesia»
di Adriano Ossicini
Era abbastanza comprensibile che un film che affrontava sul piano narrativo il periodo della "prigionia" di Aldo Moro oltre tutto partendo, in qualche modo - come ha dichiarato Bellocchio - anche dalle riflessioni di una "brigatista" addetta fra l´altro alla "custodia" del prigioniero, avrebbe suscitato oltre che un notevole interesse ovviamente anche delle polemiche ed era facile prevedere che queste avrebbero travalicato quello che deve essere un giudizio su un´opera cinematografica, che è quello artistico. A mio avviso questo è avvenuto in modo non solo particolarmente ampio, ma con giudizi e affermazioni che credo richiedano una riflessione.
Questa riflessione la faccio tenendo conto che, proprio per il ruolo che io ho avuto in quel momento drammatico, sia come amico di infanzia di Aldo Moro, sia perché politicamente impegnato come parlamentare in quel dibattito e in quelle decisioni politiche, capisco che quei drammatici avvenimenti, comunque riproposti, spingano inevitabilmente a dare giudizi storici e politici.
Però, nonostante la mia partecipazione emotiva, anzi proprio per questa, credo che sia giusto ribadire l´importanza che il giudizio sul film sia quello sul livello poetico di un´opera narrativa.
Non c´è dubbio che Bellocchio abbia voluto dare, anche nella sua interpretazione del testo che aveva preso come spunto, dei suoi giudizi storici o politici. Era inevitabile; ma questi non vanno, secondo me, analizzati come elemento di valutazione dell´opera poetica dato che, come io credo, in questo film sul piano narrativo questo aspetto poetico ci sia.
In fondo, molti personaggi storici sono stati variamente interpretati molto al di là o al di fuori di una stretta analisi storico-politica, sulla base di aspetti che in qualche modo si ritenevano indispensabili per una narrazione quale quella che è rappresentata da un´opera che contiene nelle sue immagini possibilità di messaggi suggestivi come quelli di un film.
Bellocchio ha ritenuto molto più spesso sentimenti che fatti; ha centrato il suo discorso su rapporti psicologici in una dinamica di gruppo molto limitata, spesso addirittura chiusa in uno spazio brevissimo, come quello drammatico della prigione di Moro. A mio avviso questa narrazione ha mantenuto uno indubbio valore, ci ha partecipato emozioni non trascurabili ci ha posto di fronte a soluzioni immaginative suggestive.
Il giudizio estetico è complesso ed io non sono tra coloro che vogliono entrare nella polemica sul fatto che il film di Bellocchio meritasse o no il massimo premio a Venezia. Mi pare soltanto sbagliato sfuggire, almeno in parte, da una valutazione del percorso narrativo di questo film con richieste o polemiche sul piano storico e politico.
Oltretutto la vicenda del rapimento e dell´uccisione di Moro è così complessa che ancora non è possibile dare in modo serio e definitivo né un giudizio storico né un giudizio politico.
Certo si sente in qualche modo la polemica di Bellocchio contro il partito della non trattativa. Ma anche la divisione tra chi da principio dichiarò che comunque non si doveva trattare e chi dichiarò che si doveva trattare non è poi così schematica come spesso la si vuole rappresentare.
Io per esempio, firmai un documento assieme ad altre personalità che solo Lotta Continua pubblicò, nel quale si dichiarava non giusto negare ogni possibilità di trattativa, a priori.
Questo non toglie che nel convulso succedersi degli avvenimenti non mi sia poi reso conto della problematicità, della difficoltà e per molti aspetti della impossibilità, di una seria trattativa.
Una breve notazione infine.
Se anche non si è ritenuto, a Venezia, premiare un film, comunque, di notevole spessore con il massimo riconoscimento, penso che almeno si poteva emblematicamente premiare la straordinaria recitazione del protagonista Roberto Herlitzka, che a mio avviso rappresenta uno dei momenti più alti del film stesso.
Il Riformista 25 Settembre 2003
SVOLTE. L'ULTIMO ATTO DI RESISTENZA AL DOMINIO DELLE REAZIONI EMOTIVE
Buongiorno, notte: come eravamo al Tg2
Perché Bellocchio nel suo film ci ha preferito al Tg1: l’età del’innocenza tv finì allora, non a Vermicino
di Giancarlo Santalmassi
Del contenuto di Buongiorno, notte sì è discusso molto, ma sarebbe giusto parlare anche del linguaggio usato dal regista. Oltre a quello cinematografico c'è anche quello documentario, teatrale e televisivo. Del repertorio cinematografico e documentario ci sono I tre canti di Lenin di Dziga Vertov; Paisà di Roberto Rossellini; I 600 giorni di Salò di Nicola Caracciolo: servono per esprimere l'opinione dell'autore sulla formazione ideologica dei terroristi e sulla loro confusione culturale.
La finzione «teatrale» è così spuria rispetto al contesto da sembrare girata a parte: Paolo VI che butta per aria la lettera con i consigli che gli vengono dai palazzi della politica; e poi la seduta spiritica, in cui lo stesso regista si include tra gli spettatori. Sequenze in cui Bellocchio sembra esprime un suo giudizio tra il rabbioso e lo scettico sulla possibilità di ottenere la liberazione del prigioniero, o di scoprire il suo carcere.
Infine c'è il linguaggio della Tv. Per Bellocchio (Repubblica 15 settembre), «È un personaggio molto rilevante, una presenza costante nel covo, che ha la funzione di mescolare la realtà storica con la finzione cinematografica. Una Tv che restituisce forte la realtà». Ed è della Tv che vorrei parlare perché nel '78 c'ero e sono anche oggi nel film, visto che Bellocchio ha scelto proprio l'edizione straordinaria del Tg2 da me condotta per introdurre questo «personaggio» che i brigatisti guardano con la stessa ansia con cui scrutano gli elicotteri in volo su Roma alla ricerca di tracce dello statista democristiano. Sono immagini che ci restituiscono una televisione fortemente diversa, nella quale sono bene in evidenza le tracce della crisi della Rai di oggi.
Dunque, perché il Tg2 e non il Tg1? La risposta è nell'analisi dei Tg Rai di quel giorno (ma anche di Tv private, di Gr pubblici e privati e di quotidiani di opinione e di partito) condotta da un gruppo di ricerca dell'Università di Roma coordinato dal prof. Mario Morcellini e uscita col titolo «Il ruolo dell'informazione in una situazione di emergenza: 16 marzo 1978». Lo dice con chiarezza a pagina 176 e dintorni: «L'edizione straordinaria del Tg1 appare contraddistinta dalla costante preoccupazione di assicurare largo spazio alle valutazioni e commenti dei membri ufficiali del sistema politico. Il modo in cui viene assolto il compito di comunicare l'eccezionale gravità dell'accaduto è costituito dal privilegio costantemente accordato ai richiami emotivi, dall'uso di registri congestionati, di elevate ridondanze e insistenza su elementi di dettaglio che contribuiscono a conferire all'informazione teletrasmessa dal Tg1 una forte connotazione drammatica, determinata anche dalle continue interruzioni dalla regia, dall'intervento improvviso di altri redattori, cui si accompagna l'assenza di indicazioni sulle reazioni popolari, col pericolo di rinchiudere il telespettatore in una prospettiva meramente individuale. Nel Tg2 sembra prevalere l'esigenza di facilitare negli utenti – accanto ad una comprensione razionale dell'accaduto, delle possibili cause che l'hanno determinato e delle sue conseguenze politiche – il dominio delle loro reazioni emotive. Così può forse interpretarsi l'ordine e la compostezza dello studio centrale interamente gestito da un unico conduttore cui va aggiunta l'importanza accordata sin dai primi momenti alle reazioni popolari nel palese tentativo di convogliare le energie individuali e le tensioni emotive verso forme di impegno e di mobilitazione nella straordinaria anche un importante collegamento col processo alle Br in corso a Torino, sulla consapevolezza del sequestro di Moro tra i brigatisti in carcere e l'impatto su una città già colpita dagli assassinii di Casalegno, Berardi, Coco, Croce e un collegamento con Montecitorio con Emmanuele Rocco, autore di una nota che può forse essere interpretata come l'unico vero momento di esplicita riflessione sulle generali conseguenze del fatto».
Una diagnosi impietosa. Si discute ancora se oggi sia «servizio pubblico» la tv dell'emozione, dell'enfasi, della lacrima e del dolore. Dopo la riforma del '75 i giornalisti del vecchio telegiornale unico di area cattolico-democristiana optarono in maggioranza per il Tg1. Gli altri, quelli dei settimanali come Tv7 o di «AZ-un fatto come e perché» (qui si era formata la mia esperienza), di area laica, socialista e comunista, scelsero il Tg2. Andrea Barbato, Aldo Falivena, Ennio Mastrostefano, Italo Moretti, Piero Angela, Brando Giordani, Sergio Zavoli erano le armi per combattere la concorrenza fortissima nata mediaticamente nel 1975 tra la destra e la sinistra di allora. Convivenza tra riformisti e massimalisti che si incrinò inesorabilmente nel '78, proprio sulla linea della fermezza sul caso Moro.
C'è un altro brano della Tv di allora usata da Bellocchio in modo assai sofisticato, e che vale una annotazione: la voce di Tina Anselmi (fuori campo: nel film il televisore è nella stanza accanto) che parla dei malati di mente (pazzi, nel politically uncorrect dell'epoca) messi in libertà dalla legge Basaglia. Un problema che una sinistra riformista oggi dovrebbe meditare. Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio ucciso dalla stessa Chiara-Braghetti due anni dopo l'assassinio di Moro, è stato l'unico a coglierne il valore, anche politico, di quella citazione. «Bellocchio aveva conquistato la mia antipatia da quando a 21 anni avevo visto il suo film Matti da slegare. A me il suo matto che usciva dal manicomio convinto che preti e padroni (non la propria malattia mentale) fossero la vera causa di tutti i guai, suoi e del mondo, sembrava più matto e pericoloso di prima. Ma allora dirlo non era molto di moda. Se nonostante queste premesse il film è riuscito a conquistarmi vuol dire che identici ingredienti – musiche, locomotive, falci e martelli, facce dei carnefici e formidabile umanità di Moro – parlano in modi diversi a diversi spettatori.
PS. Non è vero che la Tv perse l'innocenza nel 1981 con l'insensata cronaca da Vermicino del fallito salvataggio di Alfredino Rampi. L'innocenza dell'intero sistema dei media italiano andò perduta tre anni prima, col caso Moro. Gli assassini, i loro complici materiali e morali, aiutati dalla debolezza della Prima Repubblica, tentarono di usarla, di influenzarla, di ricattarla. Allora – semmai qualcuno ancora ci credesse – cessò la presunzione di neutralità dell'informazione. Vermicino aprì un'altro interrogativo: se la società dell'informazione sia anche la società della conoscenza.
www.clorofilla.it 35.9.03
Rassegna Stampa. Europa. Il film di Bellocchio sulla prigionia di Moro: il giudizio artistico prevale su quelllo storico e politico
"Buongiorno, Notte", Ossicini: «E' solo poesia»
di Adriano Ossicini
Era abbastanza comprensibile che un film che affrontava sul piano narrativo il periodo della "prigionia" di Aldo Moro oltre tutto partendo, in qualche modo - come ha dichiarato Bellocchio - anche dalle riflessioni di una "brigatista" addetta fra l´altro alla "custodia" del prigioniero, avrebbe suscitato oltre che un notevole interesse ovviamente anche delle polemiche ed era facile prevedere che queste avrebbero travalicato quello che deve essere un giudizio su un´opera cinematografica, che è quello artistico. A mio avviso questo è avvenuto in modo non solo particolarmente ampio, ma con giudizi e affermazioni che credo richiedano una riflessione.
Questa riflessione la faccio tenendo conto che, proprio per il ruolo che io ho avuto in quel momento drammatico, sia come amico di infanzia di Aldo Moro, sia perché politicamente impegnato come parlamentare in quel dibattito e in quelle decisioni politiche, capisco che quei drammatici avvenimenti, comunque riproposti, spingano inevitabilmente a dare giudizi storici e politici.
Però, nonostante la mia partecipazione emotiva, anzi proprio per questa, credo che sia giusto ribadire l´importanza che il giudizio sul film sia quello sul livello poetico di un´opera narrativa.
Non c´è dubbio che Bellocchio abbia voluto dare, anche nella sua interpretazione del testo che aveva preso come spunto, dei suoi giudizi storici o politici. Era inevitabile; ma questi non vanno, secondo me, analizzati come elemento di valutazione dell´opera poetica dato che, come io credo, in questo film sul piano narrativo questo aspetto poetico ci sia.
In fondo, molti personaggi storici sono stati variamente interpretati molto al di là o al di fuori di una stretta analisi storico-politica, sulla base di aspetti che in qualche modo si ritenevano indispensabili per una narrazione quale quella che è rappresentata da un´opera che contiene nelle sue immagini possibilità di messaggi suggestivi come quelli di un film.
Bellocchio ha ritenuto molto più spesso sentimenti che fatti; ha centrato il suo discorso su rapporti psicologici in una dinamica di gruppo molto limitata, spesso addirittura chiusa in uno spazio brevissimo, come quello drammatico della prigione di Moro. A mio avviso questa narrazione ha mantenuto uno indubbio valore, ci ha partecipato emozioni non trascurabili ci ha posto di fronte a soluzioni immaginative suggestive.
Il giudizio estetico è complesso ed io non sono tra coloro che vogliono entrare nella polemica sul fatto che il film di Bellocchio meritasse o no il massimo premio a Venezia. Mi pare soltanto sbagliato sfuggire, almeno in parte, da una valutazione del percorso narrativo di questo film con richieste o polemiche sul piano storico e politico.
Oltretutto la vicenda del rapimento e dell´uccisione di Moro è così complessa che ancora non è possibile dare in modo serio e definitivo né un giudizio storico né un giudizio politico.
Certo si sente in qualche modo la polemica di Bellocchio contro il partito della non trattativa. Ma anche la divisione tra chi da principio dichiarò che comunque non si doveva trattare e chi dichiarò che si doveva trattare non è poi così schematica come spesso la si vuole rappresentare.
Io per esempio, firmai un documento assieme ad altre personalità che solo Lotta Continua pubblicò, nel quale si dichiarava non giusto negare ogni possibilità di trattativa, a priori.
Questo non toglie che nel convulso succedersi degli avvenimenti non mi sia poi reso conto della problematicità, della difficoltà e per molti aspetti della impossibilità, di una seria trattativa.
Una breve notazione infine.
Se anche non si è ritenuto, a Venezia, premiare un film, comunque, di notevole spessore con il massimo riconoscimento, penso che almeno si poteva emblematicamente premiare la straordinaria recitazione del protagonista Roberto Herlitzka, che a mio avviso rappresenta uno dei momenti più alti del film stesso.
metafisica
La Repubblica 25.9.03
LA METAFISICA
Fin dal primo quadro "La torre rossa" si intuisce l´alto profilo di questa mostra che ricostruisce il percorso dell´avanguardia
ROMA - I CAPOLAVORI CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA IN MOSTRA
di FABRIZIO D´AMICO
Fin dal primo quadro della sala d'avvio, che s'intravede già di lontano, al termine della scalinata d'ingresso, s'intuisce l'alto profilo di questa mostra, Metafisica, aperta dal prossimo sabato alle Scuderie del Quirinale: è La torre rossa di Giorgio De Chirico, esposto al Salon d´Automne del 1913 in una delle primissime mostre cui il pittore, che s'era stabilito nell´estate dell´11 a Parigi, partecipava. Fu quello, anche, il primo quadro che De Chirico vendette («a un uomo anziano che si chiamava Olivier Senn», ricorderà più tardi, con intatta gratitudine): una tela non grandissima (un metro di base), misteriosamente capace però d´allargare sulla parete l'eco d'una propria strana spazialità, immensa e silenziosa, costruita attorno a quel luogo vuoto che, unicamente, la pittura narra. Lente, lunghe ombre traversano l'opera: nelle quali pare alitare l'aria ancora accaldata dal sole calante; quinte altissime la cingono, stringendola d´assedio, sino all'orizzonte basso e lontano: mentre in mezzo ad esse s'apre uno spazio deserto, non calpestabile - diresti - da alcuna umana presenza. Già allora, dirà De Chirico, «avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d´autunno, di pomeriggio, nelle città italiane».
Proprio accanto, proveniente dal Museum of Modern Art di New York, sta oggi un altro grande dipinto di quell´anno ancora aurorale e già magico: Il viaggio inquietante, ove frammezzo alla prospettiva ipertrofica, malata e ossessiva delle arcate svettanti e cieche (quasi la versione "italiana" delle cigolanti, gotiche arcate che avevano poco prima assillato lo spazio egualmente ansioso delle Saint-Séverin di Robert Delaunay, certamente conosciute da De Chirico) s'apre, a sinistra, un pertugio. In esso, dal fondo, oltre un muro, s'avanza sbuffando una locomotiva: segno, poi ritrovato in tanti dipinti, della sua natura d´Odisseo, d'una vita sua condotta vagando, senza radici («quel destino» - dirà - «che finora mi ha costretto di andare sempre di gente in gente...»).
Solo un Max Ernst e un René Magritte affiancano i due De Chirico nella prima sala. Di Ernst la Pietà ou la Révolution la Nuit, del 1923; di Magritte La vie secrète, del '28. Nel primo un uomo in bombetta, inginocchiato come per un´offerta, consustanziale diresti al muro che ha alle spalle, regge in braccio un bambino troppo cresciuto, in via di trasformarsi in statua (o di farsi, da statua che era, bambino?: ripetendo un´ambiguità sondata da De Chirico in molti autoritratti dei primi anni Venti); sullo sfondo, graffito sul muro, un ritratto d´Apollinaire, ferito all'occhio in guerra e bendato. Nel secondo, una sfera sta immobile, sospesa nella camera senz´aria, segnata solo, a terra, dalle assi prospettiche dell´impiantito. Provengono, rispettivamente, dalla Tate di Londra e dalla Kunsthaus di Zurigo: così che fin dall´inizio la mostra si svela per quel che è: una mostra di capolavori, provenienti dai più prestigiosi, e gelosi, musei mondiali; e per quel che vuole dimostrare: l'eco profondissima che la pittura degli anni Dieci di De Chirico seppe suscitare in tanta parte dell´arte europea nei successivi decenni (e, infine, sull´avvio della stessa vicenda contemporanea d´oltreoceano).
Ester Coen, che l´ha assai ben scelta e ordinata (curando anche il catalogo Electa), dedicandola alla memoria di Giuliano Briganti - assieme al quale aveva lavorato alla memorabile esposizione sulla metafisica allestita a Palazzo Grassi nel '79 - ha inteso qui, oltre che riproporre ad un'ulteriore generazione l'indagine su un tempo cruciale dell'arte italiana, sottolineare proprio quest'aspetto della vastissima eredità che la pittura dechirichiana lasciò agli amici surrealisti - ben presto trasformatisi, è ben noto, in acerrimi detrattori. Una falange di talenti che se, di fronte al De Chirico tutto mutato degli anni Venti, credettero di poterne denunciare l´involuzione (certo con ciò cogliendo anche occasione per rinnegare, almeno a parole, una lezione avvertita ormai come troppo ingombrante), non smisero però di guardarlo, od anche - come, ad esempio, il caso del dipinto più sopra citato di Ernst clamorosamente dimostra - di ripeterne testualmente modi, temi, forme.
L'assunto della mostra, limpido e peraltro tutt'altro che sconosciuto agli studi, è, nel progresso delle sale, dimostrato con evidenza, e con pregnanza ed esattezza di riferimenti. Non per caso, se non erro, solo una sala (ove s'adunano fra l´altro molti quadri, non grandi, del periodo ferrarese, dal '15 al '18, quando De Chirico, "esule" adesso da Parigi, con l'Italia in guerra e gli amici lontani, comincia a sentire il fascino suadente di una «memoria» di sé, del proprio passato, delle proprie ogni volta recise radici; una memoria alternativamente venata di malinconia o d´orgoglio, e d'ora in avanti in lui sovente ritornante e sempre feconda) si sottrae al gioco dei confronti, ed è dedicata esclusivamente a De Chirico. Ed una sola, l'ultima, è orfana di suoi dipinti: là dove Femme cuillère di Giacometti e soprattutto Light in August di de Kooning spostano il riferimento ad una possibile matrice dechirichiana su un altro terreno (giustamente, peraltro, la Coen sottolinea come la diaspora a New York dei surrealisti, e delle loro collezioni ricche di dipinti di De Chirico, nei secondi anni Trenta abbia contribuito a disseminare anche lì il seme di quella pittura, ingenerando nei suoi confronti un´attenzione diffusa, e in ultimo confermata dal saggio monografico di Soby del '41).
"Metafisica" fu anche la pittura di Carrà - quando uscì da futurismo e primitivismo, e a Ferrara appunto incontrò De Chirico. E alcune delle sue opere più famose sono qui presenti, a dimostrare come la prima complicità con la pittura dechirichiana si dette proprio in Italia: dalla Composizione TA, datata 1916 ma più volte ripresa più tardi, a L'ovale delle apparizioni, da La camera incantata - forse l´opera sua più prossima De Chirico - sino al Figlio del costruttore, in cui Carrà già si protende verso il tempo che verrà. Ancora, fu "metafisico", per brevi mesi ma straordinariamente, Morandi: che fece, fra '18 e '19, un piccolo numero di capolavori in quella chiave stilistica, gran parte dei quali è oggi in mostra: dalla Natura morta con la sfera, già collezione Jucker, a quella della Galleria Nazionale di Roma, a quella col manichino e la strana fiammella al centro, proveniente dall´Ermitage di Leningrado, che fece pensare Arcangeli ad un gioco, quasi, dadaista. Altre cose, di Morandi, son poi da dirsi in uscita da quel suo tempo breve, e già nel clima di "Valori Plastici" - dal quale d'altronde, sotto l'ala di Mario Broglio, sia De Chirico che Carrà traevano impulsi per un fascinoso "ritorno" ad una tradizione che si voleva immaginare "classica". Così il manichino si unisce al pane, e alla bottiglia ben tornita, nelle due nature morte milanesi, e scompare del tutto dall´ultima, con la frutta, il panno e i pani, del '19. Così che quando proprio De Chirico ne presenterà l´opera alla «Fiorentina Primaverile» del '22, scrivendo che «egli partecipa in tal modo del grande lirismo creato dall´ultima profonda arte europea: "la metafisica degli oggetti più comuni"», in realtà Morandi è già ben oltre quel linguaggio, avviato in solitudine alla sua più alta stagione.
La Stampa 25 Settembre 2003
A ROMA SI INAUGURA DOMANI LA GRANDE MOSTRA SU DE CHIRICO & C., MENTRE A MERANO SI METTONO IN VETRINA GLI «EREDI»
METAFISICA
La banda dei teppisti
di Marco Vallora
GIORGIO De Chirico, inesausto auto-biografo di sé, e non soltanto per via di pittura, annunziandosi come nuovo Vaticinatore salvifico e demonizzando il mondo d'avanguardia, annotava: «Viviamo in un'epoca che non riesce mai a darci quel brivido gelido, quella gioia solitaria e profonda della rivelazione; della composizione concepita come tale, strana, insensata, in cui vediamo tutto un mondo che nessuno conosce, di cui siamo forse i soli abitanti». Difficile riproporre oggi lo choc innocente e sbigottito dello sguardo, che quelle tele-sortilegio provocarono nei primi argonauti, che si imbatterono in quei paesaggi stupefatti e deserti, ove il silente fil di ferro d'un treno passa, cucendo l'orizzonte assopito. Incontri «fatali», che per esempio cambiarono anche la vita d'un Magritte, che di fronte al Chant d'amour 1914 di De Chirico ammise: «È la prima volta che ho visto il pensiero». Ecco: «vedere il pensiero» è comunque l'immediata e conturbante sensazione, che si prova entrando alla mostra «Metafisica», immaginata - come un sogno battagliero - da Ester Coen e benissimo impaginata da Daniela Ferretti, con grandi respiri ossigenati di opere pausate, sino all'impietrito torso della Femme qui marche di Giacometti, e poi, salendo all'empireo della parte più analitica, alla sua totemica Femme-cuillière. Due punti di fuga di questo enigma, che si chiama «Metafisica». Ma entrando, l'impatto con la dechirichiana Tour Rouge (di rara visione) e il già littorio Voyage émouvant, è illuminante: una lezione di storia del pensiero. Mura mattonate, superfici-ostacolo, silenzi allarmanti, arcate bislunghe che scalano e affollano il cielo, come portatili torri di Babele, il fischio afono del treno, che ci viene addosso, quasi il primo film terrorizzante dei Fratelli Meliès, e che poi si solidifica in una cotonina da presepe industriale. Mentre la dongiovannesca statua del Commendatore, che pare entrare in scena per un «attacco» sbagliato, annuncia una pièce pirandelliana, che non avrà mai luogo.
Sospensione caramellata del mondo e rivelazione straniata d'un universo, frequentato soltanto dal «gelido urlo degli dei che muoiono». Ma anche noi visitatori, se la folla «non preme ai nostri polpacci» (lo diceva il perfido Dioscuro) possiamo vivere la curiosa sensazione d'essere i primi, gli unici «abitatori» privilegiati, di quelle disertate pianure urbane. Se ci si guarda alle spalle (dov'è puntato il proiettile sospeso della magica Vie Secrète di Magritte, che come lo Zarathustra di Nietzsche, tanto amato da De Chirico, potrebbe tendere un filo da saltimbanco tra Odilon Redon e il giovane Marco Tirelli) ed ancor più, se ci si lascia distrarre dall'affiche parodica della Pietà di Max Ernst (che «prende in braccio» la spoglia della pittura picassiana di quegli anni, in una sorta di Delvaux alla Max Linder) non solo il senso della mostra si va chiarendo. Ma risulta molto evidente quello che De Chirico predicava. «Il quadro profondo mancherà di tutta quella gesticolazione, di quell'idealismo che attira gli sguardi della folla e fa spiccare il nome di un artista. Ogni faccia spasmodica, ogni movimento forzato sarà messo da parte».
Anti-futurista per costituzione viscerale, egli dipinge un mondo apparente disertato della figure, vuoto d'ogni «crosta troppo umana». In cui anche le sensazioni e la Stimmung romantica, si fanno cose: dure come i carciofi, che nella sua pittura hanno la pelle esplosiva, armata, d'uno shrapnell cascato dall'Olimpo. Al limite due incongrue figurette ventose, tipo Visitazione di Sant'Elisabetta, sovrastate dall'architettura dominante a sottolineare ancora di più l'insensatezza logica della scena. Immobile come una decalcomania filosofica. «In tal modo l'opera si avvicinerà al sogno ed anche alla mentalità infantile». Ma non certo nel senso surrealista del sogno, dell'inconscio. Il «greco» De Chirico, abituato a dialogare con Edipo e la Sfinge - quasi fossero dei commilitoni imboscati - disprezza il frullato edulcorato della psicanalisi freudiana, così «sorella al pettegolezzo». Ed entrerà presto in conflitto con il «poliziotto dei sogni» André Breton. Cocteau, che è molto più perspicace, capisce subito, col suo Mistero Laico, che De Chirico è l'unico, vero anti-Picasso (che infatti fa incetta dei disegni dell'italiano). Picasso, come i cubisti, o i futuristi, vogliono riprodurre (analizzare, capire meglio) la realtà: sono ancora dei vegliardi mimetici. Per la banda dei metafisici, teppisti schopenaueriani, invece, è necessario intraprendere un nuovo, radicale viaggio nell'al di là, scavalcando le simboliche mura di mattoni, che ci nascondono alla vista le verità abissali, plurali, terribili. «Qualcosa di terribilmente superficiale, come un sorriso di bambino che non sa perché sorride. E più che mai sentii allora che tutto ciò era lì fatalmente e senza ragione e non conteneva alcun senso». La rivelazione quasi estatica, che il convalescente, nicciano, De Chirico, vive in Santa Croce, è esattamente il contrario del déjà vu surrealista: non ritrova qualcosa di già esperito nell'inconscio, ma crea delle maschere nuove, che da un lato suggeriscono l'enigma, dall'altra s'impediscono di risolverlo. «Vivere nel mondo - scrive - come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli curiosi, che cambiano d'aspetto, che a volte come bambini piccoli rompiamo per vedere come sono fatti dentro -accorgendoci delusi che sono vuoti».
Sono i giocattoli mentali che anche Savinio incomincerà a baloccare miticamente, intasando le sue tele come di nuvole casalinghe: coloratissime maschere del vuoto. Non certo le maschere primitive, africane, che seducono Picasso e Apollinaire: perché il «primitivismo» dei due fratelli è quello del Museo letterario. Ulissi, Polifemi, eroi ariosteschi. E se quegli eroi si stanno murando in scolpiti manichini, facciamo attenzione a quelli coevi di Carrà. Questi sono manichini bonari, sartoriali, non certo biblico-omerici. E stanno scongelandosi, tramutandosi in educati rampolli di casa: come il Figlio dell'Ingegnere, che finalmente ripulito, poco a poco rivela prodigi di gialli fumiganti, esotici scarpini di seta e caldi segreti di casa. Rivelatore invece il confronto tra il purismo arcaico di Brancusi e l'essenzialità acrobatica di Morandi, che ha matrice tutta diversa, addirittura pescando in Chardin. Morandi scarnifica, liofilizza il reale, che però resiste e che lui agghinda in anticipo, come un teatrino, per poi tradurlo in pennellate. Canta l'immagine platonica, iperurania del mondo. Non ha cuore nemmemo di firmare i suoi oggetti anonimi, ammaestrati come cagnini. Solo una data sospesa, 1918, che diventa una fibbia dell'aria, un cediglia sussurrata, un ulteriore fregio metafisico. Che però non cancella la realtà preesistente. Guardiamo invece la Casa del Poeta di De Chirico. Le sue squadre, i suoi righelli, i suoi cavalletti di gruviera, salgono al cielo azzuffandosi con i vecchi affreschi tiepoleschi di casa Govoni. Morandi purifica, Max Ernst duplica il mondo col suo frottage, mentre i De Chirico raccontano favole mai udite. Non badano al Nuovo del Progresso d'Avanguardia. Allevano la melanconia come una sorella divina. E scoprono con Stendhal che «il silenzio è la melanconia di una felicità inedita».
LA METAFISICA
Fin dal primo quadro "La torre rossa" si intuisce l´alto profilo di questa mostra che ricostruisce il percorso dell´avanguardia
ROMA - I CAPOLAVORI CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA IN MOSTRA
di FABRIZIO D´AMICO
Fin dal primo quadro della sala d'avvio, che s'intravede già di lontano, al termine della scalinata d'ingresso, s'intuisce l'alto profilo di questa mostra, Metafisica, aperta dal prossimo sabato alle Scuderie del Quirinale: è La torre rossa di Giorgio De Chirico, esposto al Salon d´Automne del 1913 in una delle primissime mostre cui il pittore, che s'era stabilito nell´estate dell´11 a Parigi, partecipava. Fu quello, anche, il primo quadro che De Chirico vendette («a un uomo anziano che si chiamava Olivier Senn», ricorderà più tardi, con intatta gratitudine): una tela non grandissima (un metro di base), misteriosamente capace però d´allargare sulla parete l'eco d'una propria strana spazialità, immensa e silenziosa, costruita attorno a quel luogo vuoto che, unicamente, la pittura narra. Lente, lunghe ombre traversano l'opera: nelle quali pare alitare l'aria ancora accaldata dal sole calante; quinte altissime la cingono, stringendola d´assedio, sino all'orizzonte basso e lontano: mentre in mezzo ad esse s'apre uno spazio deserto, non calpestabile - diresti - da alcuna umana presenza. Già allora, dirà De Chirico, «avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d´autunno, di pomeriggio, nelle città italiane».
Proprio accanto, proveniente dal Museum of Modern Art di New York, sta oggi un altro grande dipinto di quell´anno ancora aurorale e già magico: Il viaggio inquietante, ove frammezzo alla prospettiva ipertrofica, malata e ossessiva delle arcate svettanti e cieche (quasi la versione "italiana" delle cigolanti, gotiche arcate che avevano poco prima assillato lo spazio egualmente ansioso delle Saint-Séverin di Robert Delaunay, certamente conosciute da De Chirico) s'apre, a sinistra, un pertugio. In esso, dal fondo, oltre un muro, s'avanza sbuffando una locomotiva: segno, poi ritrovato in tanti dipinti, della sua natura d´Odisseo, d'una vita sua condotta vagando, senza radici («quel destino» - dirà - «che finora mi ha costretto di andare sempre di gente in gente...»).
Solo un Max Ernst e un René Magritte affiancano i due De Chirico nella prima sala. Di Ernst la Pietà ou la Révolution la Nuit, del 1923; di Magritte La vie secrète, del '28. Nel primo un uomo in bombetta, inginocchiato come per un´offerta, consustanziale diresti al muro che ha alle spalle, regge in braccio un bambino troppo cresciuto, in via di trasformarsi in statua (o di farsi, da statua che era, bambino?: ripetendo un´ambiguità sondata da De Chirico in molti autoritratti dei primi anni Venti); sullo sfondo, graffito sul muro, un ritratto d´Apollinaire, ferito all'occhio in guerra e bendato. Nel secondo, una sfera sta immobile, sospesa nella camera senz´aria, segnata solo, a terra, dalle assi prospettiche dell´impiantito. Provengono, rispettivamente, dalla Tate di Londra e dalla Kunsthaus di Zurigo: così che fin dall´inizio la mostra si svela per quel che è: una mostra di capolavori, provenienti dai più prestigiosi, e gelosi, musei mondiali; e per quel che vuole dimostrare: l'eco profondissima che la pittura degli anni Dieci di De Chirico seppe suscitare in tanta parte dell´arte europea nei successivi decenni (e, infine, sull´avvio della stessa vicenda contemporanea d´oltreoceano).
Ester Coen, che l´ha assai ben scelta e ordinata (curando anche il catalogo Electa), dedicandola alla memoria di Giuliano Briganti - assieme al quale aveva lavorato alla memorabile esposizione sulla metafisica allestita a Palazzo Grassi nel '79 - ha inteso qui, oltre che riproporre ad un'ulteriore generazione l'indagine su un tempo cruciale dell'arte italiana, sottolineare proprio quest'aspetto della vastissima eredità che la pittura dechirichiana lasciò agli amici surrealisti - ben presto trasformatisi, è ben noto, in acerrimi detrattori. Una falange di talenti che se, di fronte al De Chirico tutto mutato degli anni Venti, credettero di poterne denunciare l´involuzione (certo con ciò cogliendo anche occasione per rinnegare, almeno a parole, una lezione avvertita ormai come troppo ingombrante), non smisero però di guardarlo, od anche - come, ad esempio, il caso del dipinto più sopra citato di Ernst clamorosamente dimostra - di ripeterne testualmente modi, temi, forme.
L'assunto della mostra, limpido e peraltro tutt'altro che sconosciuto agli studi, è, nel progresso delle sale, dimostrato con evidenza, e con pregnanza ed esattezza di riferimenti. Non per caso, se non erro, solo una sala (ove s'adunano fra l´altro molti quadri, non grandi, del periodo ferrarese, dal '15 al '18, quando De Chirico, "esule" adesso da Parigi, con l'Italia in guerra e gli amici lontani, comincia a sentire il fascino suadente di una «memoria» di sé, del proprio passato, delle proprie ogni volta recise radici; una memoria alternativamente venata di malinconia o d´orgoglio, e d'ora in avanti in lui sovente ritornante e sempre feconda) si sottrae al gioco dei confronti, ed è dedicata esclusivamente a De Chirico. Ed una sola, l'ultima, è orfana di suoi dipinti: là dove Femme cuillère di Giacometti e soprattutto Light in August di de Kooning spostano il riferimento ad una possibile matrice dechirichiana su un altro terreno (giustamente, peraltro, la Coen sottolinea come la diaspora a New York dei surrealisti, e delle loro collezioni ricche di dipinti di De Chirico, nei secondi anni Trenta abbia contribuito a disseminare anche lì il seme di quella pittura, ingenerando nei suoi confronti un´attenzione diffusa, e in ultimo confermata dal saggio monografico di Soby del '41).
"Metafisica" fu anche la pittura di Carrà - quando uscì da futurismo e primitivismo, e a Ferrara appunto incontrò De Chirico. E alcune delle sue opere più famose sono qui presenti, a dimostrare come la prima complicità con la pittura dechirichiana si dette proprio in Italia: dalla Composizione TA, datata 1916 ma più volte ripresa più tardi, a L'ovale delle apparizioni, da La camera incantata - forse l´opera sua più prossima De Chirico - sino al Figlio del costruttore, in cui Carrà già si protende verso il tempo che verrà. Ancora, fu "metafisico", per brevi mesi ma straordinariamente, Morandi: che fece, fra '18 e '19, un piccolo numero di capolavori in quella chiave stilistica, gran parte dei quali è oggi in mostra: dalla Natura morta con la sfera, già collezione Jucker, a quella della Galleria Nazionale di Roma, a quella col manichino e la strana fiammella al centro, proveniente dall´Ermitage di Leningrado, che fece pensare Arcangeli ad un gioco, quasi, dadaista. Altre cose, di Morandi, son poi da dirsi in uscita da quel suo tempo breve, e già nel clima di "Valori Plastici" - dal quale d'altronde, sotto l'ala di Mario Broglio, sia De Chirico che Carrà traevano impulsi per un fascinoso "ritorno" ad una tradizione che si voleva immaginare "classica". Così il manichino si unisce al pane, e alla bottiglia ben tornita, nelle due nature morte milanesi, e scompare del tutto dall´ultima, con la frutta, il panno e i pani, del '19. Così che quando proprio De Chirico ne presenterà l´opera alla «Fiorentina Primaverile» del '22, scrivendo che «egli partecipa in tal modo del grande lirismo creato dall´ultima profonda arte europea: "la metafisica degli oggetti più comuni"», in realtà Morandi è già ben oltre quel linguaggio, avviato in solitudine alla sua più alta stagione.
La Stampa 25 Settembre 2003
A ROMA SI INAUGURA DOMANI LA GRANDE MOSTRA SU DE CHIRICO & C., MENTRE A MERANO SI METTONO IN VETRINA GLI «EREDI»
METAFISICA
La banda dei teppisti
di Marco Vallora
GIORGIO De Chirico, inesausto auto-biografo di sé, e non soltanto per via di pittura, annunziandosi come nuovo Vaticinatore salvifico e demonizzando il mondo d'avanguardia, annotava: «Viviamo in un'epoca che non riesce mai a darci quel brivido gelido, quella gioia solitaria e profonda della rivelazione; della composizione concepita come tale, strana, insensata, in cui vediamo tutto un mondo che nessuno conosce, di cui siamo forse i soli abitanti». Difficile riproporre oggi lo choc innocente e sbigottito dello sguardo, che quelle tele-sortilegio provocarono nei primi argonauti, che si imbatterono in quei paesaggi stupefatti e deserti, ove il silente fil di ferro d'un treno passa, cucendo l'orizzonte assopito. Incontri «fatali», che per esempio cambiarono anche la vita d'un Magritte, che di fronte al Chant d'amour 1914 di De Chirico ammise: «È la prima volta che ho visto il pensiero». Ecco: «vedere il pensiero» è comunque l'immediata e conturbante sensazione, che si prova entrando alla mostra «Metafisica», immaginata - come un sogno battagliero - da Ester Coen e benissimo impaginata da Daniela Ferretti, con grandi respiri ossigenati di opere pausate, sino all'impietrito torso della Femme qui marche di Giacometti, e poi, salendo all'empireo della parte più analitica, alla sua totemica Femme-cuillière. Due punti di fuga di questo enigma, che si chiama «Metafisica». Ma entrando, l'impatto con la dechirichiana Tour Rouge (di rara visione) e il già littorio Voyage émouvant, è illuminante: una lezione di storia del pensiero. Mura mattonate, superfici-ostacolo, silenzi allarmanti, arcate bislunghe che scalano e affollano il cielo, come portatili torri di Babele, il fischio afono del treno, che ci viene addosso, quasi il primo film terrorizzante dei Fratelli Meliès, e che poi si solidifica in una cotonina da presepe industriale. Mentre la dongiovannesca statua del Commendatore, che pare entrare in scena per un «attacco» sbagliato, annuncia una pièce pirandelliana, che non avrà mai luogo.
Sospensione caramellata del mondo e rivelazione straniata d'un universo, frequentato soltanto dal «gelido urlo degli dei che muoiono». Ma anche noi visitatori, se la folla «non preme ai nostri polpacci» (lo diceva il perfido Dioscuro) possiamo vivere la curiosa sensazione d'essere i primi, gli unici «abitatori» privilegiati, di quelle disertate pianure urbane. Se ci si guarda alle spalle (dov'è puntato il proiettile sospeso della magica Vie Secrète di Magritte, che come lo Zarathustra di Nietzsche, tanto amato da De Chirico, potrebbe tendere un filo da saltimbanco tra Odilon Redon e il giovane Marco Tirelli) ed ancor più, se ci si lascia distrarre dall'affiche parodica della Pietà di Max Ernst (che «prende in braccio» la spoglia della pittura picassiana di quegli anni, in una sorta di Delvaux alla Max Linder) non solo il senso della mostra si va chiarendo. Ma risulta molto evidente quello che De Chirico predicava. «Il quadro profondo mancherà di tutta quella gesticolazione, di quell'idealismo che attira gli sguardi della folla e fa spiccare il nome di un artista. Ogni faccia spasmodica, ogni movimento forzato sarà messo da parte».
Anti-futurista per costituzione viscerale, egli dipinge un mondo apparente disertato della figure, vuoto d'ogni «crosta troppo umana». In cui anche le sensazioni e la Stimmung romantica, si fanno cose: dure come i carciofi, che nella sua pittura hanno la pelle esplosiva, armata, d'uno shrapnell cascato dall'Olimpo. Al limite due incongrue figurette ventose, tipo Visitazione di Sant'Elisabetta, sovrastate dall'architettura dominante a sottolineare ancora di più l'insensatezza logica della scena. Immobile come una decalcomania filosofica. «In tal modo l'opera si avvicinerà al sogno ed anche alla mentalità infantile». Ma non certo nel senso surrealista del sogno, dell'inconscio. Il «greco» De Chirico, abituato a dialogare con Edipo e la Sfinge - quasi fossero dei commilitoni imboscati - disprezza il frullato edulcorato della psicanalisi freudiana, così «sorella al pettegolezzo». Ed entrerà presto in conflitto con il «poliziotto dei sogni» André Breton. Cocteau, che è molto più perspicace, capisce subito, col suo Mistero Laico, che De Chirico è l'unico, vero anti-Picasso (che infatti fa incetta dei disegni dell'italiano). Picasso, come i cubisti, o i futuristi, vogliono riprodurre (analizzare, capire meglio) la realtà: sono ancora dei vegliardi mimetici. Per la banda dei metafisici, teppisti schopenaueriani, invece, è necessario intraprendere un nuovo, radicale viaggio nell'al di là, scavalcando le simboliche mura di mattoni, che ci nascondono alla vista le verità abissali, plurali, terribili. «Qualcosa di terribilmente superficiale, come un sorriso di bambino che non sa perché sorride. E più che mai sentii allora che tutto ciò era lì fatalmente e senza ragione e non conteneva alcun senso». La rivelazione quasi estatica, che il convalescente, nicciano, De Chirico, vive in Santa Croce, è esattamente il contrario del déjà vu surrealista: non ritrova qualcosa di già esperito nell'inconscio, ma crea delle maschere nuove, che da un lato suggeriscono l'enigma, dall'altra s'impediscono di risolverlo. «Vivere nel mondo - scrive - come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli curiosi, che cambiano d'aspetto, che a volte come bambini piccoli rompiamo per vedere come sono fatti dentro -accorgendoci delusi che sono vuoti».
Sono i giocattoli mentali che anche Savinio incomincerà a baloccare miticamente, intasando le sue tele come di nuvole casalinghe: coloratissime maschere del vuoto. Non certo le maschere primitive, africane, che seducono Picasso e Apollinaire: perché il «primitivismo» dei due fratelli è quello del Museo letterario. Ulissi, Polifemi, eroi ariosteschi. E se quegli eroi si stanno murando in scolpiti manichini, facciamo attenzione a quelli coevi di Carrà. Questi sono manichini bonari, sartoriali, non certo biblico-omerici. E stanno scongelandosi, tramutandosi in educati rampolli di casa: come il Figlio dell'Ingegnere, che finalmente ripulito, poco a poco rivela prodigi di gialli fumiganti, esotici scarpini di seta e caldi segreti di casa. Rivelatore invece il confronto tra il purismo arcaico di Brancusi e l'essenzialità acrobatica di Morandi, che ha matrice tutta diversa, addirittura pescando in Chardin. Morandi scarnifica, liofilizza il reale, che però resiste e che lui agghinda in anticipo, come un teatrino, per poi tradurlo in pennellate. Canta l'immagine platonica, iperurania del mondo. Non ha cuore nemmemo di firmare i suoi oggetti anonimi, ammaestrati come cagnini. Solo una data sospesa, 1918, che diventa una fibbia dell'aria, un cediglia sussurrata, un ulteriore fregio metafisico. Che però non cancella la realtà preesistente. Guardiamo invece la Casa del Poeta di De Chirico. Le sue squadre, i suoi righelli, i suoi cavalletti di gruviera, salgono al cielo azzuffandosi con i vecchi affreschi tiepoleschi di casa Govoni. Morandi purifica, Max Ernst duplica il mondo col suo frottage, mentre i De Chirico raccontano favole mai udite. Non badano al Nuovo del Progresso d'Avanguardia. Allevano la melanconia come una sorella divina. E scoprono con Stendhal che «il silenzio è la melanconia di una felicità inedita».
Le Monde des Religion
IL QUOTIDIANO FRANCESE PUBBLICA UN BIMESTRALE
le religioni di "Le Monde"
di MARCO POLITI
Un fiore d´intelligenza e di cultura lanciato nell´area del laicismo puro e duro. Le Monde des Religion, la prima rivista religiosa che un grande quotidiano europeo abbia osato portare sul mercato, è da pochi giorni in edicola e marcia verso l´obiettivo dei quaranta-cinquantamila abbonamenti. Sotto la guida di Jean-Claude Petit, per lunghi anni direttore della celebre Vie Catholique, di Jean-Paul Guetny e del responsabile dell´informazione religiosa di Le Monde, Henri Tincq, autore di libri di successo come Dio in Francia, morte e resurrezione del cattolicesimo e La sfida del Papa del terzo millennio, la rivista bimestrale rompe con la tradizione che vuole che di preti e religioni si occupino solo pubblicazioni confessionali. «Proprio chi coltiva i valori umanisti - sottolinea Tincq - non può ignorare quanto il fatto religioso giochi nella società contemporanea».
Ottanta pagine, veste tipografica ariosa, scadenza bimestrale, Le Monde des Religions nasce dall´impulso che Regis Debray ha dato in Francia al dibattito su laicità e religione. L'ignoranza della religione come fenomeno sociale, culturale e storico - va predicando da qualche anno l'intellettuale che trent'anni fa si batteva per il gauchismo rivoluzionario - è un handicap per la formazione dei giovani d'oggi e, ancor di più, rappresenta un ostacolo per capire e muoversi nel mondo contemporaneo. Debray ha già fondato a Parigi a tempo di record un Istituto europeo di Studi della religione. L'iniziativa editoriale di Le Monde viene dunque incontro ad un nuovo bisogno dell´intellighenzia francese. Ma al tempo stesso è uno stimolo per tutto il circuito dei mass media europei. Ricco, stimolante, preciso - si va dalle piccole notizie gustose come lo scandalo del pastore protestante danese che ha confessato di non credere in Dio ad un dossier sui «rinnovatori dell´Islam», ad un´inchiesta sul travolgente successo dei neopentecostali in Brasile ad un articolo su tredici secoli di rapporti giudeo-musulmani - trasforma in giornalismo attuale ciò che in genere è patrimonio di specialisti o di rari inserti.
«Le religioni fanno parte della cultura. Hanno fecondato il patrimonio dei popoli, ispirato le arti, la politica, il diritto l´economia, i costumi... persino la gastronomia», è scritto nell´editoriale. Lapalissiano, si potrebbe dire, se non fosse che di fatto in Francia e altrove (anche nell´apparente cattolicissima Italia) la cultura religiosa sia diventata scolorita come una veste dai disegni logorati. Jean-Claude Petit sostiene che un cittadino francese o europeo non può ignorare il «fatto religioso» del proprio paese o degli altri. «E´ una questione di comprensione dell'umanità contemporanea, una garanzia di maggiore tolleranza e rispetto». Ha ragione.
le religioni di "Le Monde"
di MARCO POLITI
Un fiore d´intelligenza e di cultura lanciato nell´area del laicismo puro e duro. Le Monde des Religion, la prima rivista religiosa che un grande quotidiano europeo abbia osato portare sul mercato, è da pochi giorni in edicola e marcia verso l´obiettivo dei quaranta-cinquantamila abbonamenti. Sotto la guida di Jean-Claude Petit, per lunghi anni direttore della celebre Vie Catholique, di Jean-Paul Guetny e del responsabile dell´informazione religiosa di Le Monde, Henri Tincq, autore di libri di successo come Dio in Francia, morte e resurrezione del cattolicesimo e La sfida del Papa del terzo millennio, la rivista bimestrale rompe con la tradizione che vuole che di preti e religioni si occupino solo pubblicazioni confessionali. «Proprio chi coltiva i valori umanisti - sottolinea Tincq - non può ignorare quanto il fatto religioso giochi nella società contemporanea».
Ottanta pagine, veste tipografica ariosa, scadenza bimestrale, Le Monde des Religions nasce dall´impulso che Regis Debray ha dato in Francia al dibattito su laicità e religione. L'ignoranza della religione come fenomeno sociale, culturale e storico - va predicando da qualche anno l'intellettuale che trent'anni fa si batteva per il gauchismo rivoluzionario - è un handicap per la formazione dei giovani d'oggi e, ancor di più, rappresenta un ostacolo per capire e muoversi nel mondo contemporaneo. Debray ha già fondato a Parigi a tempo di record un Istituto europeo di Studi della religione. L'iniziativa editoriale di Le Monde viene dunque incontro ad un nuovo bisogno dell´intellighenzia francese. Ma al tempo stesso è uno stimolo per tutto il circuito dei mass media europei. Ricco, stimolante, preciso - si va dalle piccole notizie gustose come lo scandalo del pastore protestante danese che ha confessato di non credere in Dio ad un dossier sui «rinnovatori dell´Islam», ad un´inchiesta sul travolgente successo dei neopentecostali in Brasile ad un articolo su tredici secoli di rapporti giudeo-musulmani - trasforma in giornalismo attuale ciò che in genere è patrimonio di specialisti o di rari inserti.
«Le religioni fanno parte della cultura. Hanno fecondato il patrimonio dei popoli, ispirato le arti, la politica, il diritto l´economia, i costumi... persino la gastronomia», è scritto nell´editoriale. Lapalissiano, si potrebbe dire, se non fosse che di fatto in Francia e altrove (anche nell´apparente cattolicissima Italia) la cultura religiosa sia diventata scolorita come una veste dai disegni logorati. Jean-Claude Petit sostiene che un cittadino francese o europeo non può ignorare il «fatto religioso» del proprio paese o degli altri. «E´ una questione di comprensione dell'umanità contemporanea, una garanzia di maggiore tolleranza e rispetto». Ha ragione.
visioni pittoriche di Marco Bellocchio
Libertà 25.9.03
Bellocchio, le visioni pittoriche
Dipinti, bozzetti e story boards del regista in mostra a Parma
di Alfredo Tenni
Prima di finire sulla pellicola, i pensieri e le idee di Marco Bellocchio spuntano sulla carta dei bozzetti, sui fogli delle story-boards o, ancora, s'intuiscono nella luce dei dipinti a olio. A tutte queste opere del regista di “Buongiorno, notte”, la Fondazione culturale Edison ha dedicato la mostra “Marco Bellocchio: visioni pittoriche e cinema”, in programma dal 9 ottobre al 7 novembre alla Galleria delle Colonne di Parma. Undici dipinti a olio, cinque illustrazioni grafiche a colori e un centinaio di disegni e bozzetti, per lo più a penna, con un tratto nitido, offrono un ritratto inedito del regista, che appare come il creatore di quelle immagini che poi diventeranno la struttura dei suoi film. Nella sezione dei dipinti, ci sono anche quelli ripresi dalla cinepresa nello studio del pittore protagonista de “L'ora di religione”. Fra i disegni invece le story-boards di alcuni film, fra i quali “I pugni in tasca”, opera d' esordio di Bellocchio, e “L'ora di religione”; per arrivare poi a 50 fogli di studio sull'ultimo lungometraggio, “Buongiorno, notte”. Si tratta di disegni, anche a colori, in cui ci sono studi di inquadrature, raffigurazioni di scene, o semplici raccolte di idee, che sono state poi sviluppate sulla pellicola. Ma si possono pure vedere altre immagini uscite dalla mente del regista durante l'ideazione del film, che pur apparendo inizialmente estranee, sono invece collegate al lungometraggio da un filo sottile. «Pensare e costruire questa mostra - ha spiegato Stefano Caselli, presidente della Fondazione Edison - ci ha permesso di avvicinare un aspetto significativo e poco esplorato dell'opera di Bellocchio, l'arte visiva pura, in forma pittorica e di disegno». Così dalla mostra emerge un'immagine di Bellocchio inedita, ma tutt'altro che distaccata dall' idea che il regista ha dato di sè con le sue opere cinematografiche. Semmai complementare: «Tutto si mescola - ha aggiunto ancora Caselli - s'incrocia e si sovrappone nella vita di ciascuno, così abbiamo cercato nell'integrazione delle possibilità espressive dell'uomo il profondo significato della sua arte». Sarà lo stesso Bellocchio a inaugurare la mostra giovedì 9 ottobre alle 21, incontrando il pubblico, insieme al critico Tullio Masoni. Poi, nella sala del cinema Edison, seguirà la proiezione di “Buongiorno, notte”. La rassegna sarà aperta dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 13 e dalle 15.30 alle 18.30.
La Gazzetta di Parma 25.9.03
Bellocchio pittore
Il regista a Parma la sera del 9 ottobre
Grande attesa per l'arrivo a Parma del regista piacentino Marco Bellocchio, previsto per giovedì 9 ottobre 2003 dalle ore 21 al Cinema Edison d'Essai presso Fondazione Culturale Edison di Parma.
Il regista sarà a Parma per presentare alla Galleria delle Colonne del Centro Culturale Edison la mostra «Marco Bellocchio: visioni pittoriche e cinema», che raccoglie dipinti, disegni e story-boards tratti dai suoi film.
Per l'occasione Marco Bellocchio interverrà personalmente in un incontro con il pubblico, condotto dal critico e saggista Tullio Masoni, per presenziare all'inaugurazione della mostra e presentarne il catalogo (Edizione Falsopiano). A seguire verrà proiettato nella sala del Cinema Edison il film Buongiorno, notte, in concorso all'ultima Mostra d'arte cinematografica di Venezia.
L'evento è realizzato da Fondazione Culturale Edison, Comune di Parma, Provincia di Parma, Regione Emilia Romagna, Cineclub Zavattini in collaborazione con la Fondazione Monte di Parma, e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Marco Bellocchio è considerato il regista tra i più importanti ed impegnati sulla scena del cinema italiano, e dal 1965, anno in cui esordì clamorosamente con I pugni in tasca, si è mosso nel panorama del cinema italiano mantenendo una straordinaria coerenza di linguaggio e di ricerca, mettendo più volte a nudo la sua vena «eversiva» ed anticonformista.
Particolarmente interessante è la mostra che verrà presentata e in particolare la sezione riguardante una raccolta di dipinti ad olio, che probabilmente il pubblico più attento ricorderà di aver visto in alcune scene del film L'ora di religione, nello studio del protagonista, il pittore Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto), che testimoniano di un inedito Bellocchio pittore.
I dipinti saranno affiancati da un ampio numero di disegni e story-boards dei passati film, da I pugni in tasca, il suo lavoro d'esordio, a L'ora di religione appunto, premiato a Venezia l'anno scorso.
In mostra saranno esposti, inoltre, più di 50 fogli di studio riguardanti l'ultimo lungometraggio diretto dal regista piacentino, dal titolo Buongiorno, notte.
Per la prima volta i dipinti e la grafica prodotti da Bellocchio saranno esposti insieme, ad offrire un lato inedito della visione del regista, quello del suo fare più spontaneo e creativo, in cui appare come un creatore che immagina la struttura interna dei suoi film, che non è costruito sulla pellicola ma sulla carta.
Ingresso al dibattito e al film euro 5,50. Prevendita dei biglietti presso il cinema Edison d'essai dalle ore 10 del giorno 9 ottobre 2003. Infoline 0521 964803, info@edisonline.org.
La mostra, a ingresso libero proseguirà fino al 7 novembre 2003, dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 13 e dalle 15.30 alle 18.30 (sabato e festivi chiuso) e al termine delle proiezioni del Cinema Edison d'Essai presso Galleria delle Colonne - Largo 8 marzo, 9 - 43100 Parma.
«Pensare e costruire questa mostra - ha spiegato Stefano Caselli, presidente della Fondazione Edison ieri mattina a Bologna nella sede della Fice mentre era in corso un incontro con la stampa a proposito di Buongiorno, notte - ci ha permesso di avvicinare un aspetto significativo e poco esplorato dell'opera di Bellocchio, l'arte visiva pura, in forma pittorica e di disegno».
Così dalla mostra emerge un'immagine di Bellocchio inedita, ma tutt' altro che distaccata dall'idea che il regista ha dato di sè con le sue opere cinematografiche ma semmai complementare: «Tutto si mescola - ha aggiunto ancora Caselli - s'incrocia e si sovrappone nella vita di ciascuno, così abbiamo cercato nell'integrazione delle possibilità espressive dell'uomo il profondo significato della sua arte».
La Repubblica ed. di Bologna 25.9.03
Tele, disegni, story board realizzate dal regista sul set esposte dal Centro Edison dal 9 ottobre a Parma
Così Marco Bellocchio ha dipinto i suoi film
"Non sono un pittore, perché la pittura mi fa paura per la solitudine che comporta"
di FRANCESCA PARISINI
"Per me il cinema è una straordinaria terapia, che ti obbliga giorno per giorno, settimana per settimana, a confrontarti con gli altri. Una terapia fondamentale per la vita che è fatta prevalentemente di relazioni. Non sarebbe stato così con la pittura, che ad un certo punto mi ha fatto paura per la solitudine che la sua pratica comporta". Marco Bellocchio che parla, questa volta non nei panni del regista che esordì nel 1965 con "I pugni in tasca", bensì il Bellocchio nelle vesti inedite e sicuramente poco conosciute di pittore. Dal 9 ottobre il centro culturale Edison di Parma raccoglierà i suoi dipinti, disegni e story-board di molti dei suoi film in una mostra che rimarrà aperta sino al 7 novembre alla Galleria delle Colonne.
"Non sono un pittore", si è comunque schernito il regista piacentino, ieri a Bologna per parlare, oltre che della mostra, del suo film "Buongiorno, notte" che in due sole settimane ha già incassato 2 milioni e 300mila euro. "Mi sono dedicato alla pittura a fine anni '50, prima di trasferirmi a Roma al centro sperimentale di cinema". Di quegli anni, spiega, rimane una quindicina di tele, tutte esposte alla manifestazione parmense. "Poi dipingere non mi è più bastato, dal momento in cui ho scoperto il cinema come arte in movimento". Rimane, comunque, l´esercizio del disegno. "Mentre fai un film ci sono tanti tempi vuoti in cui mi diverto a schizzare le scene che andremo a girare, anche se poi le riprese alla fine risultano sempre molto diverse". Così, per esempio, saranno esposti una cinquantina di fogli riguardanti proprio il suo ultimo lungometraggio, dedicato al rapimento Moro. Particolarmente interessante la sezione con i dipinti ad olio che gli amanti più attenti del cinema di Bellocchio ricorderanno di avere visto in alcune scene del film "L´ora di religione", appesi nello studio del protagonista, il pittore Ernesto Picciafuoco interpretato da Sergio Castellitto.
Ed è proprio per immagini poi, che Bellocchio racconta di cominciare a pensare i suoi lavori cinematografici. "Non si fa un film per raccontare una tesi; si fa partendo da delle immagini che nel caso della mia ultima pellicola sono state quella dell´appartamento dei brigatisti, per cominciare, poi quella dei carcerieri, fino a che ho sentito il bisogno di vedere anche il prigioniero". E a chi gli fa notare che nei suoi ultimi due film c´è una forte componente visionaria, risponde: "è vero, ma è una visionarietà discreta, che non divide mai la realtà dal mondo onirico, rimanendo sempre sul limite. Non è nemmeno una visionarietà barocca come quella che fu di un mio vecchio lavoro, ´Nel nome del padre´. Il principio è sempre quello: un film deve andare oltre la cronaca della vita, mentre il vizio del cinema italiano è quello di basarsi sulle immagini superficiali, sulla storia".
Bellocchio sarà a Parma alla presentazione della mostra il 9 ottobre. Alle 21 incontrerà il pubblico che poi potrà assistere a "Buongiorno, notte" al cinema Edison d´Essai. Info e biglietti 0521964803.
Bellocchio, le visioni pittoriche
Dipinti, bozzetti e story boards del regista in mostra a Parma
di Alfredo Tenni
Prima di finire sulla pellicola, i pensieri e le idee di Marco Bellocchio spuntano sulla carta dei bozzetti, sui fogli delle story-boards o, ancora, s'intuiscono nella luce dei dipinti a olio. A tutte queste opere del regista di “Buongiorno, notte”, la Fondazione culturale Edison ha dedicato la mostra “Marco Bellocchio: visioni pittoriche e cinema”, in programma dal 9 ottobre al 7 novembre alla Galleria delle Colonne di Parma. Undici dipinti a olio, cinque illustrazioni grafiche a colori e un centinaio di disegni e bozzetti, per lo più a penna, con un tratto nitido, offrono un ritratto inedito del regista, che appare come il creatore di quelle immagini che poi diventeranno la struttura dei suoi film. Nella sezione dei dipinti, ci sono anche quelli ripresi dalla cinepresa nello studio del pittore protagonista de “L'ora di religione”. Fra i disegni invece le story-boards di alcuni film, fra i quali “I pugni in tasca”, opera d' esordio di Bellocchio, e “L'ora di religione”; per arrivare poi a 50 fogli di studio sull'ultimo lungometraggio, “Buongiorno, notte”. Si tratta di disegni, anche a colori, in cui ci sono studi di inquadrature, raffigurazioni di scene, o semplici raccolte di idee, che sono state poi sviluppate sulla pellicola. Ma si possono pure vedere altre immagini uscite dalla mente del regista durante l'ideazione del film, che pur apparendo inizialmente estranee, sono invece collegate al lungometraggio da un filo sottile. «Pensare e costruire questa mostra - ha spiegato Stefano Caselli, presidente della Fondazione Edison - ci ha permesso di avvicinare un aspetto significativo e poco esplorato dell'opera di Bellocchio, l'arte visiva pura, in forma pittorica e di disegno». Così dalla mostra emerge un'immagine di Bellocchio inedita, ma tutt'altro che distaccata dall' idea che il regista ha dato di sè con le sue opere cinematografiche. Semmai complementare: «Tutto si mescola - ha aggiunto ancora Caselli - s'incrocia e si sovrappone nella vita di ciascuno, così abbiamo cercato nell'integrazione delle possibilità espressive dell'uomo il profondo significato della sua arte». Sarà lo stesso Bellocchio a inaugurare la mostra giovedì 9 ottobre alle 21, incontrando il pubblico, insieme al critico Tullio Masoni. Poi, nella sala del cinema Edison, seguirà la proiezione di “Buongiorno, notte”. La rassegna sarà aperta dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 13 e dalle 15.30 alle 18.30.
La Gazzetta di Parma 25.9.03
Bellocchio pittore
Il regista a Parma la sera del 9 ottobre
Grande attesa per l'arrivo a Parma del regista piacentino Marco Bellocchio, previsto per giovedì 9 ottobre 2003 dalle ore 21 al Cinema Edison d'Essai presso Fondazione Culturale Edison di Parma.
Il regista sarà a Parma per presentare alla Galleria delle Colonne del Centro Culturale Edison la mostra «Marco Bellocchio: visioni pittoriche e cinema», che raccoglie dipinti, disegni e story-boards tratti dai suoi film.
Per l'occasione Marco Bellocchio interverrà personalmente in un incontro con il pubblico, condotto dal critico e saggista Tullio Masoni, per presenziare all'inaugurazione della mostra e presentarne il catalogo (Edizione Falsopiano). A seguire verrà proiettato nella sala del Cinema Edison il film Buongiorno, notte, in concorso all'ultima Mostra d'arte cinematografica di Venezia.
L'evento è realizzato da Fondazione Culturale Edison, Comune di Parma, Provincia di Parma, Regione Emilia Romagna, Cineclub Zavattini in collaborazione con la Fondazione Monte di Parma, e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Marco Bellocchio è considerato il regista tra i più importanti ed impegnati sulla scena del cinema italiano, e dal 1965, anno in cui esordì clamorosamente con I pugni in tasca, si è mosso nel panorama del cinema italiano mantenendo una straordinaria coerenza di linguaggio e di ricerca, mettendo più volte a nudo la sua vena «eversiva» ed anticonformista.
Particolarmente interessante è la mostra che verrà presentata e in particolare la sezione riguardante una raccolta di dipinti ad olio, che probabilmente il pubblico più attento ricorderà di aver visto in alcune scene del film L'ora di religione, nello studio del protagonista, il pittore Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto), che testimoniano di un inedito Bellocchio pittore.
I dipinti saranno affiancati da un ampio numero di disegni e story-boards dei passati film, da I pugni in tasca, il suo lavoro d'esordio, a L'ora di religione appunto, premiato a Venezia l'anno scorso.
In mostra saranno esposti, inoltre, più di 50 fogli di studio riguardanti l'ultimo lungometraggio diretto dal regista piacentino, dal titolo Buongiorno, notte.
Per la prima volta i dipinti e la grafica prodotti da Bellocchio saranno esposti insieme, ad offrire un lato inedito della visione del regista, quello del suo fare più spontaneo e creativo, in cui appare come un creatore che immagina la struttura interna dei suoi film, che non è costruito sulla pellicola ma sulla carta.
Ingresso al dibattito e al film euro 5,50. Prevendita dei biglietti presso il cinema Edison d'essai dalle ore 10 del giorno 9 ottobre 2003. Infoline 0521 964803, info@edisonline.org.
La mostra, a ingresso libero proseguirà fino al 7 novembre 2003, dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 13 e dalle 15.30 alle 18.30 (sabato e festivi chiuso) e al termine delle proiezioni del Cinema Edison d'Essai presso Galleria delle Colonne - Largo 8 marzo, 9 - 43100 Parma.
«Pensare e costruire questa mostra - ha spiegato Stefano Caselli, presidente della Fondazione Edison ieri mattina a Bologna nella sede della Fice mentre era in corso un incontro con la stampa a proposito di Buongiorno, notte - ci ha permesso di avvicinare un aspetto significativo e poco esplorato dell'opera di Bellocchio, l'arte visiva pura, in forma pittorica e di disegno».
Così dalla mostra emerge un'immagine di Bellocchio inedita, ma tutt' altro che distaccata dall'idea che il regista ha dato di sè con le sue opere cinematografiche ma semmai complementare: «Tutto si mescola - ha aggiunto ancora Caselli - s'incrocia e si sovrappone nella vita di ciascuno, così abbiamo cercato nell'integrazione delle possibilità espressive dell'uomo il profondo significato della sua arte».
La Repubblica ed. di Bologna 25.9.03
Tele, disegni, story board realizzate dal regista sul set esposte dal Centro Edison dal 9 ottobre a Parma
Così Marco Bellocchio ha dipinto i suoi film
"Non sono un pittore, perché la pittura mi fa paura per la solitudine che comporta"
di FRANCESCA PARISINI
"Per me il cinema è una straordinaria terapia, che ti obbliga giorno per giorno, settimana per settimana, a confrontarti con gli altri. Una terapia fondamentale per la vita che è fatta prevalentemente di relazioni. Non sarebbe stato così con la pittura, che ad un certo punto mi ha fatto paura per la solitudine che la sua pratica comporta". Marco Bellocchio che parla, questa volta non nei panni del regista che esordì nel 1965 con "I pugni in tasca", bensì il Bellocchio nelle vesti inedite e sicuramente poco conosciute di pittore. Dal 9 ottobre il centro culturale Edison di Parma raccoglierà i suoi dipinti, disegni e story-board di molti dei suoi film in una mostra che rimarrà aperta sino al 7 novembre alla Galleria delle Colonne.
"Non sono un pittore", si è comunque schernito il regista piacentino, ieri a Bologna per parlare, oltre che della mostra, del suo film "Buongiorno, notte" che in due sole settimane ha già incassato 2 milioni e 300mila euro. "Mi sono dedicato alla pittura a fine anni '50, prima di trasferirmi a Roma al centro sperimentale di cinema". Di quegli anni, spiega, rimane una quindicina di tele, tutte esposte alla manifestazione parmense. "Poi dipingere non mi è più bastato, dal momento in cui ho scoperto il cinema come arte in movimento". Rimane, comunque, l´esercizio del disegno. "Mentre fai un film ci sono tanti tempi vuoti in cui mi diverto a schizzare le scene che andremo a girare, anche se poi le riprese alla fine risultano sempre molto diverse". Così, per esempio, saranno esposti una cinquantina di fogli riguardanti proprio il suo ultimo lungometraggio, dedicato al rapimento Moro. Particolarmente interessante la sezione con i dipinti ad olio che gli amanti più attenti del cinema di Bellocchio ricorderanno di avere visto in alcune scene del film "L´ora di religione", appesi nello studio del protagonista, il pittore Ernesto Picciafuoco interpretato da Sergio Castellitto.
Ed è proprio per immagini poi, che Bellocchio racconta di cominciare a pensare i suoi lavori cinematografici. "Non si fa un film per raccontare una tesi; si fa partendo da delle immagini che nel caso della mia ultima pellicola sono state quella dell´appartamento dei brigatisti, per cominciare, poi quella dei carcerieri, fino a che ho sentito il bisogno di vedere anche il prigioniero". E a chi gli fa notare che nei suoi ultimi due film c´è una forte componente visionaria, risponde: "è vero, ma è una visionarietà discreta, che non divide mai la realtà dal mondo onirico, rimanendo sempre sul limite. Non è nemmeno una visionarietà barocca come quella che fu di un mio vecchio lavoro, ´Nel nome del padre´. Il principio è sempre quello: un film deve andare oltre la cronaca della vita, mentre il vizio del cinema italiano è quello di basarsi sulle immagini superficiali, sulla storia".
Bellocchio sarà a Parma alla presentazione della mostra il 9 ottobre. Alle 21 incontrerà il pubblico che poi potrà assistere a "Buongiorno, notte" al cinema Edison d´Essai. Info e biglietti 0521964803.
Marco Bellocchio a Bologna (e a Parma)
il Resto del Carlino 25.9.03
«Ho voluto fare
un film 'infedele'»
di Benedetta Cucci
«A me interessava fare un film infedele rispetto alla realtà. E' un'opera d'arte, non un saggio storico. E per questo ho incontrato molta ottusità da parte di chi ha una fede politica e mi ha detto che le cose non erano andate così… Ma è specifico dell'arte non limitarsi alla superficialità delle immagini». Marco Bellocchio è arrivato a Bologna, ieri, ospite della Fice - Agis, per presentare il suo ultimo film Buongiorno, notte, lavoro commissionato al maestro dalla Rai per l'anniversario dei 25 anni del caso Moro. Una pellicola che è uscita nelle sale cinematografiche subito dopo la presentazione in concorso alla 60a Mostra del cinema di Venezia e che è partita con la distribuzione di 163 copie arrivando alle attuali 200, registrando un incasso di 2 milioni e 300 mila euro. Nella nostra città Bellocchio, accompagnato dall'attrice protagonista Maya Sansa, ha colto l'occasione per parlare della mostra dedicata alle sue visioni pittoriche e cinematografiche che si aprirà a Parma, Galleria delle Colonne in Largo 8 Marzo n.9, il prossimo 9 ottobre, presentata dalla Fondazione culturale Edison. «Non sono un pittore — sottolinea il regista — l'ho fatto prima di andare a Roma, negli anni Cinquanta. Questa mostra raccoglie quadri ma anche disegni che ho realizzato durante la lavorazione di Buongiorno, notte, perché quando si fa un film ci sono tempi lunghissimi di attesa e disegnare mi diverte». Ma che legame c'è tra il cinema di Bellocchio e la sua vena pittorica? «Nel momento in cui ho scoperto il cinema ho lasciato la pittura. Per me il cinema è una straordinaria terapia… di rapporto, perché ti devi misurare con tanta gente…la pittura invece è solitudine».
«Ho voluto fare
un film 'infedele'»
di Benedetta Cucci
«A me interessava fare un film infedele rispetto alla realtà. E' un'opera d'arte, non un saggio storico. E per questo ho incontrato molta ottusità da parte di chi ha una fede politica e mi ha detto che le cose non erano andate così… Ma è specifico dell'arte non limitarsi alla superficialità delle immagini». Marco Bellocchio è arrivato a Bologna, ieri, ospite della Fice - Agis, per presentare il suo ultimo film Buongiorno, notte, lavoro commissionato al maestro dalla Rai per l'anniversario dei 25 anni del caso Moro. Una pellicola che è uscita nelle sale cinematografiche subito dopo la presentazione in concorso alla 60a Mostra del cinema di Venezia e che è partita con la distribuzione di 163 copie arrivando alle attuali 200, registrando un incasso di 2 milioni e 300 mila euro. Nella nostra città Bellocchio, accompagnato dall'attrice protagonista Maya Sansa, ha colto l'occasione per parlare della mostra dedicata alle sue visioni pittoriche e cinematografiche che si aprirà a Parma, Galleria delle Colonne in Largo 8 Marzo n.9, il prossimo 9 ottobre, presentata dalla Fondazione culturale Edison. «Non sono un pittore — sottolinea il regista — l'ho fatto prima di andare a Roma, negli anni Cinquanta. Questa mostra raccoglie quadri ma anche disegni che ho realizzato durante la lavorazione di Buongiorno, notte, perché quando si fa un film ci sono tempi lunghissimi di attesa e disegnare mi diverte». Ma che legame c'è tra il cinema di Bellocchio e la sua vena pittorica? «Nel momento in cui ho scoperto il cinema ho lasciato la pittura. Per me il cinema è una straordinaria terapia… di rapporto, perché ti devi misurare con tanta gente…la pittura invece è solitudine».
Iscriviti a:
Post (Atom)