mercoledì 6 aprile 2005

un'immagine invisibile

una segnalazione di Paola Franz

Le Scienze 1.4.05
La consapevolezza della percezione visiva
I segnali di un'immagine "invisibile" viaggiano almeno fino al lobo occipitale


La nostra consapevolezza è puntellata dall'attività cerebrale, ma nel cervello accade molto di più di quello di cui possiamo essere coscienti. Di quali aspetti dell'attività cerebrale siamo davvero ed effettivamente consapevoli? In un articolo pubblicato sulla rivista "Current Biology", i ricercatori Colin Clifford e Justin Harris dell'Università di Sydney hanno determinato quanto i segnali visivi provenienti dai nostri occhi riescano a penetrare nella rete di elaborazione del cervello senza essere registrati consciamente. Gli scienziati hanno scoperto che i segnali visivi possono in effetti sfuggire al radar della consapevolezza molto più a lungo di quanto altri studiosi avevano ipotizzato in passato. La visione comincia con la formazione di un'imagine sul retro dell'occhio, un evento che a sua volta stimola una cascata di impulsi nervosi che invia segnali fino al cervello. È nella corteccia visiva cerebrale che questi segnali vengono interpretati. Nel loro studio, Clifford e Harris hanno esaminato l'influenza di un'immagine "invisibile" sulla visione consapevole - in questo caso, un'immagine che era stata mascherata sperimentalmente e che poteva essere percepita dal cervello ma non rivelata consciamente. I ricercatori hanno scoperto che questa immagine invisibile ricevuta in un occhio può influenzare l'apparenza di un'immagine nell'altro occhio, dimostrando così che i segnali provenienti dall'immagine invisibile devono viaggiare nel cervello almeno fino al punto dove i segnali dei due occhi si combinano. Per raggiungere questo punto, i segnali di ciascun occhio devono essere ritrasmessi tramite il mesencefalo al lobo occipitale sul retro della testa. Anche se è noto da tempo che il lobo occipitale è specializzato nell'elaborazione visiva, molti scienziati ritengono che si tratti anche della sede della consapevolezza visiva. I risultati dello studio sembrano respingere questa ipotesi, suggerendo invece che l'attività nel lobo occipitale possa verificarsi anche in assenza di percezione visiva conscia.

Colin W.G. Clifford, Justin A. Harris, "Contextual Modulation outside of Awareness". Current Biology, Volume 15, No. 6, pp. 574-578 (29 marzo 2005).
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ripicche e discriminazioni

AGI.IT 6.4.05
FECONDAZIONE: GIOVANARDI, REFERENDUM IL 5 O IL 12 GIUGNO

(AGI) - Roma, 6 apr. - Il referendum contro la legge sulla fecondazione assistita potrà tenersi il 5 o il 12 giugno.
Queste le date tra cui dovrà scegliere il governo, indicate al "question time" a Montecitorio dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, Carlo Giovanardi.

COPYRIGHTS 2002-2003 AGI S.p.A.

RANIERI GRIMALDI
È morto anche Ranieri Grimaldi, principe di Monaco dal 1949. I funerali si svolgeranno il 15 aprile. Anche lui Capo di uno Stato estero amico dell'Italia, anche lui in carica... ma non sembra che per lui il Governo italiano proclamerà neanche un'ora di lutto nazionale, né un minuto di silenzio, né le attività pubbliche saranno sospese, né mai i tricolori della Repubblica saranno abbrunati...

il suicidio degli adolescenti

Yahoo! Salute 6.4.05
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Teenager: i test sul suicidio non sono pericolosi
David Frati - Il Pensiero Scientifico Editore

Condurre ricerche sul tema del suicidio tra i giovani non fa aumentare il rischio di pulsioni suicide tra i soggetti più fragili. Ecco la rassicurante conclusione di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association.
Lo studio delle cause del suicidio tra i teenager spesso si avvale di interviste, indagini e analisi comportamentali che hanno causato preoccupazioni nell’ambiente medico-scientifico in quanto alcuni hanno avanzato l’ipotesi che anche solo introdurre il tema del suicidio tra teenager vulnerabili potesse fare più male che bene, scatenando possibili pensieri e comportamenti suicidi.
“I risultati del nostro studio possono tranquillizzare chi si preoccupava per il potenziale danno causato dagli screening anti-suicidio nelle scuole superiori”, spiega Madelyn S. Gould, leader del team di ricercatori del New York State Psychiatric Institute. “Al contrario, questo studio suggerisce che rispondere a domande sui pensieri e sui comportamenti suicidi può essere molto benefico per teenager con sintomi depressivi, problemi di abuso di sostanze stupefacenti o una storia di tentativi di suicidio”.
Lo studio ha riguardato 2342 studenti di 6 scuole superiori dello Stato di New York tra il 2002 e il 2004. I ragazzi (dai 13 ai 19 anni di età) sono stati divisi in 2 gruppi: uno (1172 persone) ha ricevuto un questionario sui sintomi depressivi (Profile of Mood States) e uno sul suicidio (Suicidal Ideation Questionnaire), l’altro – un gruppo di controllo - (1170 persone) solo il questionario sulla depressione. All’inizio e alla fine dello studio, i ricercatori hanno valutato il livello di stress dei giovani, che sono stati ricontattati 2 giorni dopo aver compilato i questionari per capire se avessero avuto pensieri suicidi a seguito del test. Tra i due gruppi non si sono registrati livelli di stress divergenti dopo il test né 2 giorni dopo. Il livello di sintomi depressivi è risultato anch’esso pressoché identico. Gli studenti ai quali era stato sottoposto il questionario sul suicidio non hanno avuto pensieri suicidi in numero maggiore rispetto agli studenti che non avevano fatto il test. Da notare che i teenager depressi con storia di tentativi suicidi alle spalle hanno dichiarato livelli di stress inferiori nel gruppo sottoposto al test sul suicidio e non viceversa.

Fonte: Gould MS, Marrocco FA, Kleinman M et al. Evaluating Iatrogenic Risk of Youth Suicide Screening Programs: A Randomized Controlled Trial. JAMA. 2005;293:1635-43.

Maradona!

TG.COM 6.4.05
Maradona attacca la Chiesa
"Con l'oro diano da mangiare ai poveri"
Grazia Neri

La morte del Papa ha fatto il giro del mondo scatenando una miriade di reazioni. Anche Diego Armando Maradona ha voluto dire la sua, e come sempre si tratta di un pensiero sopra le righe: "Sono addolorato per la morte di Giovanni Paolo II perché ora c'è un essere umano di meno, ma la Chiesa resta un'azienda, un business: ce l'ho a morte con loro. Chiedo che il prossimo Papa prenda l'oro che ha e dia da mangiare all'Africa".
Come sempre fuori dal coro, Diego Armando Maradona si dice addolorato per la morte del Pontefice che tutot il mondo sta salutando, ma allo stesso tempo non risparmia frecciate anche pesanti per la Chiesa. "La morte mi reca sempre dolore, ma la Chiesa resta un'azienda, un business. Ce l'ho a morte con la Chiesa. Da piccoli non avevamo da mangiare e mia madre veniva scippata all'uscita... L'ho vissuto a Fiorito... Chiedo a Dio che il prossimo Papa prenda l'oro dai soffitti e dai sotterranei e dia da mangiare ai bambini dell'Africa".
(...)

Libération: Papolâtrie

una segnalazione di Dicta Cavanna

Libération mardi 05 avril 2005

Vatican Editorial
Papolâtrie
Par Patrick SABATIER

Il faut avoir la foi en la raison chevillée au corps pour ne pas être noyé dans le déferlement d'eaux bénites et la papolâtrie qui accompagne la disparition de Jean Paul II. Dans les médias, mais aussi de la part des Etats. A commencer par la République française prétendument laïque, qui, en bonne fille aînée de l'Eglise, entonne comme une chorale, Président en tête, l'alléluia catholique accompagné aux grandes orgues cathodiques.
La compassion envers le défunt, la tolérance des religions, le fait que ce pape ait eu un rôle politique, n'empêchent pas de frémir devant l'unanimisme quasi universel de l'hommage, et l'étouffement de toute critique d'un bilan pourtant très contestable.
Ultraconservateur, Jean Paul II incarnait un retour de bâton religieux, à l'oeuvre dans tous les intégrismes plus ou moins virulents ­ hindouiste, islamique ou chrétien ­ qui gangrènent l'humanité, rêvant de soumettre les sociétés à des lois prétendument divines. Ce fait religieux se nourrit d'une triple angoisse, exacerbée par le monde moderne. D'abord celle des êtres humains confrontés à leur condition, toujours solitaire et mortelle, qui craignent l'avenir et aspirent à se fondre dans le «troupeau» suivant un «berger». Celle des dirigeants ensuite, soucieux de préserver des rouages de légitimation sociale et morale éprouvés, après l'échec des idéologies politiques. Celle des religions enfin. Elles aussi sont (presque) partout en repli. Elles mènent avec vigueur une guerre sainte contre la culture moderne. Car celle-ci, fondée sur l'individu, le libre arbitre, la nécessité du doute, et du savoir, menace l'ordre moral et spirituel dont les religions prétendent avoir le monopole.

Libération mardi 05 avril 2005
La mort du pape Jean Paul II
Service public, France 2 ou Télé Vatican ?
Charles Bottarelli, Toulon

L'overdose médiatique avant, pendant, et après la mort du pape m'amène à poser deux questions. La première : France 2 est-elle encore une chaîne de service public ? La deuxième, qui en découle : la loi de séparation de l'Eglise et de l'Etat est-elle encore en vigueur dans notre pays ? Le zèle avec lequel les journaux télévisés ont été rallongés pour traiter de la mort du pape (y compris avant que celle-ci soit effective, quelle élégance !) m'amène à me demander si en payant dévotement ma redevance je ne paie pas en même temps le denier du culte.
Que cela plaise ou non aux responsables de France 2, il y a une foule de gens qui ne se reconnaissent en rien dans les faits, les gestes et les déclarations du pape, quel que soit son nom, et qui par conséquent accordent à la mort de celui-ci comme à l'élection du prochain une importance tout à fait relative.
Au moins deux accidents de parcours sont venus gâter le bel enthousiasme des journalistes de la Deux. Samedi soir, le journal a commencé par 25 minutes sur le sujet, avant qu'on daigne évoquer, en les saucissonnant en fines tranches (évidemment, il fallait rattraper le temps), d'autres informations tout à fait secondaires comme les ravages du sida au Malawi. On a omis de nous rappeler que les fermes recommandations contre le préservatif émises par le pape n'avaient pas contribué à améliorer la situation. Mais, surtout ; nous avons eu pendant 3 secondes une image terrible : celle du visage d'un malheureux enfant détruit par la maladie. Ces trois secondes ont rendu brutalement et tragiquement dérisoires les bigoteries des 25 minutes précédentes. Et, le lendemain soir, France 2 a carrément innové : son journal de près d'une heure n'a traité que d'une seule information : la mort du pape. Pour le reste, circulez, il n'y a rien à voir. Il ne s'est rien passé d'autre en France ni dans le monde. Service public ? France 2 ou Télé Vatican ?

cinema e depressione

Adnkronos 6.4.05
CINEMA: RASSEGNA IN ABRUZZO, I DUE VOLTI DELLE DEPRESSIONI

L'Aquila,6 apr. - (Adnkronos) - Il cinema e la sua dimensione terapeutica sono al centro della rassegna "Cinema e pschiatria", promossa, per il quarto anno consecutivo, dall'Istituto cinematografico "La Lanterna magica" e dal dipartimento di salute mentale della Asl dell'Aquila, con la collaborazione dell'Accademia dell'Immagine. Le tematiche affrontate saranno quelle legate ai vari aspetti della depressione e quindi alle possibili cause scatenanti, in particolare l'argomento trattato sarà quello relativo al benessere sociale e al malessere interiore. La rassegna presenta diversi elementi di originalità, dalla scelta del cinema come momento di "avvicinamento" alla sofferenza psichica, al sodalizio fra istituzione culturale e servizio sanitario pubblico per accettare un percorso di comprensione e di accettazione della "diversità".

grandi scoperte americane
...basta rimbecillirli!

AdnKronos Salute 05/APR/05 - 16:41
PSICHIATRIA:
MORFINA MIGLIORA SINDROME OSSESSIVA COMPULSIVA


Roma, 5 apr. (Adnkronos Salute) - Una dose settimanale di morfina orale può migliorare i sintomi provocati dal disturbo ossessivo compulsivo nei pazienti che non rispondono ai trattamenti farmacologici tradizionali, ben il 40% dei malati che utilizzano gli antidepressivi inibitori della ricattura della serotonina approvati per il trattamento di questa sindrome. A sostenerlo è uno studio pilota pubblicato sul Journal of Clinical Psychiatry. Non sono ancora ben chiari i motivi per cui la morfina, usata insieme ai farmaci, sarebbe efficace contro la sintomatologia di questi malati, ma i ricercatori ipotizzano, basandosi su studi precedentemente condotti, che i farmaci interagiscano con i ricettori degli oppiacei poichè c'è un'alta concentrazione di questi nella parte del cervello interessata dalla patologia. Nei pazienti su cui è stata sperimentata, la morfina ha placato i sintomi già dal giorno successivo all'assunzione, limitando il disturbo ossessivo e l'ansia generalmente presenti in questi malati. (Ile/Adnkronos Salute)

voci, e capacità giuridica

Corriere della Sera 6.4.05
Infermiera killer, conclusa la perizia psichiatrica. Tra due settimane il responso
«I delitti in corsia? Sentivo delle voci»
Sonia Caleffi davanti ai periti: ricordo la fine di Maria Cristina, fu orribile
Angelo Panzeri

LECCO - La perizia psichiatrica su Sonia Caleffi passa anche dai gadget, da quella bara in miniatura appesa al portachiavi, un regalo del padre, dipendente di una ditta di pompe funebri. E il lavoro di medici e psichiatri, chiamati a definire il puzzle della vita e a scavare nella personalità della trentaquattrenne, rea confessa di 4 omicidi all’ospedale di Lecco e accusata di altri 8 tentati omicidi all’ospedale di Lecco e 3 tentati omicidi in strutture ospedaliere e case per anziani del Comasco, passa anche da quel portachiavi. «E’ stato un regalo di mio padre», ha detto ai periti la donna. Medici e psichiatri di fama internazionale, Ugo Fornari per il gip del Tribunale di Lecco, Giancarlo Nivoli per la Procura, Massimo Picozzi per la difesa, e i consulenti per le parti lese (Giuseppe Giunta, Mario Vannini, Mario Lafranconi, Alberto Mascetti), hanno concluso ieri la perizia psichiatrica, a Castiglione delle Stiviere, dove l’ex infermiera è ospite dai primi di febbraio.
Il professor Ugo Fornari dovrà rispondere al quesito più importante: «Sonia è in grado di intendere e volere?». Poi: «Quali sono le sue attuali condizioni di salute?».
Ieri, in oltre 5 ore di colloquio con gli psichiatri (erano presenti anche gli avvocati difensori Renato Papa e Claudio Rea e i legali delle parti offese Francesco Giordano e Raffaella Bianco), Sonia ha confermato di aver ucciso quattro persone. «Ricordo in modo particolare - ha precisato - il caso della signora Maria Cristina, fu orribile». Ai momenti di lucidità hanno fatto seguito lunghe pause. L’infermiera si è addentrata nei particolari: allontanava i colleghi, entrava nella stanza e poi iniettava dell’aria attraverso una cannula. Perché lo faceva? «Per mettermi in evidenza - ha riferito -, perché sentivo qualcosa dentro, delle voci».
Nel frattempo le condizioni di salute migliorano e l’infermiera rischia di tornare in carcere. «Stiamo lavorando - commenta il suo legale, l’avvocato Claudio Rea - per farla rimanere nella struttura di Castiglione delle Stiviere, confacente alle sue condizioni». Entro una settimana arriverà la decisione del giudice delle indagini preliminari di Lecco.

nel nome di Giordano Bruno

Repubblica, ed. di Napoli
Studenti anche dalla Francia e dalla Tunisia per il Certame di Nola
In gara per Giordano Bruno
Mariacristina Coppeto

Nola celebra il suo più illustre cittadino ospitando la quinta edizione del Certame Internazionale Bruniano. Da venerdì a domenica prossimi centonovanta studenti degli ultimi due anni di corso delle scuole secondarie pubbliche e private che studiano filosofia, dovranno dare prova della loro conoscenza dell´opera "De gli eroici furori" di Giordano Bruno. È una delle maggiori manifestazioni culturali dedicata al filosofo nolano e alla filosofia, che coinvolge giovani provenienti da tutte le regioni italiane e non solo.
Infatti, è prevista la partecipazione straordinaria anche di quarantacinque ospiti francesi provenienti da Guingamp in Bretagna e di uno studente del Liceo Scientifico di Tunisi. Gli studenti avranno la possibilità di gareggiare sull´opera di Bruno, ma anche di scoprire il patrimonio culturale del territorio, tra cui il famoso villaggio preistorico venuto alla luce di recente. Il Certame è organizzato dal Comune di Nola, dalla Provincia di Napoli, dal Liceo Classico "Giosuè Carducci" di Nola e dall´associazione Meridies, con la preziosa consulenza scientifica di docenti universitari e studiosi di filosofia, coordinati dal professor Aniello Montano e patrocinato dal ministero dell´Educazione e dal ministero per gli Italiani nel mondo.
Per stimolare i giovani allo studio della filosofia, sono stati programmati numerosi appuntamenti tra i quali quello previsto in un primo momento al Museo Diocesano di Nola e poi spostato nella sala del consiglio comunale, venerdì alle 11.30: "A l´infinito m´ergo - Giordano Bruno e il volo del moderno Ulisse", a cura di Pasquale Sabbatino e Aniello Montano. La premiazione dei vincitori del Certame si svolgerà domenica alle 10,30 nell´aula magna dell´Università Parthenope di Nola, in piazza Giordano Bruno.
Alla cerimonia interverranno il sindaco Napolitano, l´assessore provinciale Basilico, i sindaci di Casamarciano e Cimitile, l´assessore comunale Romano, de Serpis del Meridies-Organizzazione Certame, Montano presidente commissione Certame, Allocca preside del Carducci, Versace dell´Agenzia locale per lo sviluppo dei Comuni dell´area Nolana e Ferrara dell´Università Parthenope. Ospite d´onore Liliana de Curtis. Allo studente primo classificato andrà un premio di 2000 euro, 1000 al secondo, 700 al terzo, 500 al quarto e 300 al quinto.

sinistra
Bertinotti e il fronte antigovernativo

L'Unità 6 Aprile 2005
Bertinotti: «Va bene anche così»
«La partecipazione va favorita, ma sulle primarie la decisione spettava a Prodi»
Simone Collini

ROMA Parla della «primavera pugliese» quasi come fosse la primavera di Praga, lega il nome di Vendola a quello di Lula e Chavez. Però non è d’accordo con chi giudica una vittoria di Rifondazione comunista quanto accaduto con il voto di domenica e lunedì. «È la vittoria di un’idea di riforma della politica», spiega Fausto Bertinotti, che ribadisce di non voler fare il ministro in un governo dell’Unione e tanto meno, dice smentendo una voce circolata in queste ore, il presidente della Camera perché, ci tiene a sottolineare, «appartengo alla stagione della militanza fatta con spirito partigiano».
Onorevole Bertinotti, Prodi ha detto che non è più necessario fare le primarie.
«Appunto, è stato Prodi a proporle e Prodi a rinunciare. Io non ho altro da aggiungere».
Lei però si era candidato.
«Noi non le abbiamo chieste. Le abbiamo incoraggiate, questo sì. E continuo a pensare che l’esperienza pugliese ci dice che un sovrappiù di partecipazione democratica rispetto a quella che ordinariamente siamo in grado di produrre è un bene».
Quindi un po’ dispiaciuto che non si facciano le primarie dovrebbe esserlo, o no?
«Ci sono molte forme per far prevalere la partecipazione. Sulla leadership come sul programma, l’importante è che si metta a frutto la lezione della Puglia, che venga introdotta, in modo organico, la democrazia partecipata. Noi siamo del tutto disponibili a discutere le forme, i mezzi, gli ambiti in cui svilupparla».
Come giudica la vittoria di Vendola in Puglia?
«Un grande fatto politico, in sé, ma che costituisce anche l’annuncio di una possibilità. Quanto accaduto in Puglia, da un lato si inserisce nel complesso della crisi di consenso della destra e dell’affermazione dell’alternativa. Per un altro verso, però, è un fenomeno originale, siamo di fronte al dispiegarsi di una primavera pugliese. E dico primavera in senso forte, come è stato usato questo termine in altre occasioni e in altre parti del mondo ogniqualvolta è emerso un fenomeno che modifica profondamente i connotati stessi della politica».
In cosa vede queste modifiche?
«Intanto, nell’emergere della partecipazione democratica e di una nuova alleanza tra una leadership e un popolo. È un fenomeno che in qualche modo è simile alla rinascita della sinistra latinoamericana».
Il Prc chiederà elezioni anticipate?
«No, perché dobbiamo avere particolare cura per una certa deontologia istituzionale. Si è votato per dei governi regionali. Dopodiché, è del tutto evidente, come riconoscono gli stessi esponenti della destra, che vista l’estensione del crollo non si è trattato di un fenomeno circoscrivibile soltanto ai singoli governi locali. Ma questa è una considerazione politica. I cittadini sono stati chiamati al voto per eleggere il governo locale, e a questo bisogna attenersi».
La considerazione politica è fine a se stessa?
«No, perché il governo non ha più il consenso degli elettori. Le forze delle opposizioni oggi sono maggioranza assoluta nel paese. Cosa che non è accaduta neanche con la vittoria del ‘96, dove prevarremmo per la divisione tra Polo e Lega. Dunque lo scacco è particolarmente rilevante. Ma questo costituisce un problema per il governo, non per noi. L’opposizione non deve chiedere alcunché, deve fare il suo mestiere di opposizione, e su questa via proporsi di accentuare la crisi di governo, lavorando a rafforzare ulteriormente questa corrente di opinione che si è rilevata così netta nel paese, e parallelamente accelerando la costruzione di un programma di alternativa».
La vittoria di Vendola sposta l’asse della coalizione a sinistra?
«La vittoria di Vendola mostra che a guidare questa coalizione può essere l’espressione di una qualunque delle sue componenti, che non c’è il monopolio della rappresentanza e che quello che decide non è la collocazione nella geografia politica, ma il grado di rappresentanza autentica che si è in grado di esprimere».
Questo voto arriva dopo quella che alcuni definiscono la svolta governista del Prc, e il risultato è inferiore rispetto alle europee.
«Siamo un po’ indietro rispetto alle europee, ma avanziamo rispetto alle regionali del 2000. In questo, confermando una tendenza che è sempre stata la nostra, e cioè che andiamo meno bene nelle elezioni locali, nelle quali bisogna far valere il rapporto tra una linea politica e un consenso nel territorio. Il combinato disposto europee, regionali, vittoria di Vendola ci incoraggia comunque ad andare avanti su questa strada».

La Stampa 6.4.05
NON SONO INCOMPATIBILI COME QUATTRO ANNI FA: IL GOVERNO DEL CAVALIERE E LA POLITICA ESTERA DI BUSH HANNO RIDOTTO LE DIFFERENZE
La voglia di battere Berlusconi avvicina sempre più le due sinistre
di Riccardo Barenghi

LA notte elettorale del 1996, quando Prodi sconfisse Berlusconi e si aprì la stagione dell’Ulivo, quella notte fu contrassegnata dal tormentone di Bruno Vespa. Man mano che arrivavano i dati, l’assillo del conduttore era dimostrare che, senza Rifondazione, Prodi non avrebbe avuto i numeri per governare. Finché da Botteghe Oscure non intervenne D’Alema chiudendo la discussione con queste parole (più o meno): «Bertinotti o non Bertinotti, il dato politico è un altro: Berlusconi ha perso e Prodi ha vinto. L’Italia avrà un governo di centrosinistra». In quel momento aveva ragione il segretario dei Ds, due anni dopo avrebbe avuto ragione Vespa. Quando cioè Rifondazione uscì dalla maggioranza, Prodi cadde, gli subentrò D’Alema, cadde pure D’Alema e gli subentrò Amato che alla fine venne sostituito da Berlusconi che nel frattempo aveva vinto le elezioni. Quei voti di Bertinotti furono dunque decisivi, prima per Prodi e poi contro Prodi e tutti gli altri ex alleati.
La domanda che alcuni si pongono oggi, e che molti esponenti del centrodestra usano per provocare i vincitori delle regionali, è appunto come farà l’Unione a restare unita. Come cioè, ammesso che vinca anche le elezioni politiche, riuscirà a tenere insieme le idee di Bertinotti e quelle di D’Alema, le proposte di Pecoraro e quelle di Rutelli, l’antiamericanismo di Diliberto e l’atlantismo di Fassino. In parole povere, se esistano ancora le famose (o famigerate) due sinistre e se siano tra loro compatibili.
La teoria delle due sinistre (cara sia a D’Alema sia a Bertinotti, un’intesa per spartirsi il campo) nasce in realtà come teoria de «Le due destre», saggio di Marco Revelli per Bollati Boringhieri, datato appunto 1996. In cui la prima destra è quella di nome e di fatto, Berlusconi e i suoi alleati, «populista e plebiscitaria»; mentre la seconda destra, «tecnocratica ed elitaria», ha finito per sussumere anche la ex sinistra. Oppure, per essere più buoni di Revelli, non una destra ma una sinistra, magari moderata o di governo o riformista e via aggettivando ma pur sempre sinistra. L’incontro e soprattutto lo scontro tra questa sinistra e quella che adesso si chiama radicale ha contrassegnato la seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio.
Due sinistre che si sono dimostrate incompatibili alla prova dei fatti, una sposava il libero mercato l’altra sosteneva l’intervento pubblico nell’economia; una metteva al primo posto il risanamento, l’altra pretendeva più spesa sociale; una faceva la guerra «umanitaria» in Kosovo, l’altra le si opponeva frontalmente; una apriva la strada al lavoro flessibile (e precario), l’altra chiedeva garanzie, diritti e posti fissi; una induriva la mano contro gli immigrati, l’altra voleva aprire le frontiere. Una infine che ha voluto il sistema maggioritario e puntava sul premierato, l’altra che amava (e ama) il proporzionale tanto quanto osteggia l’idea del premier forte.
Oggi queste due sinistre ci sono ancora e si vedono a occhio nudo. Ma forse – forse perché solo i fatti lo diranno, e i fatti si chiamano governo – non sono più tanto incompatibili. Intanto perché negli ultimi quattro anni qualcosa in Italia e nel mondo è accaduto. Per esempio ha governato Berlusconi, facendo cose che hanno convinto anche gli occhi più estremisti della sinistra che non si potesse più stare in finestra a guardare ma si dovesse fare qualsiasi cosa, anche appunto stringere un patto di sangue con l’altra sinistra, pur di sconfiggerlo. Oppure che sulla scena è arrivato Bush, poi il terrorismo islamico, dunque la filosofia della guerra preventiva e infine la guerra concreta, convincendo anche i più moderati della sinistra che da quella parte non si poteva stare. Oppure, ancora, che il capitalismo moderno non crea solo opportunità ma anche molti danni, tanto che lo stesso D’Alema un paio di anni fa ha aperto una riflessione autocritica sul neoliberismo. E anche che, tornando alla sinistra radicale, la questione del governo non sia più una sorta di tabù (vedi il caso Nichi Vendola). E qualsiasi dirigente politico, Bertinotti per primo, sa perfettamente che governare un paese non è una manifestazione né un pranzo di gala.
Passi avanti dunque, che convergono sull’ipotesi di rendere queste due sinistre compatibili ne sono stati fatti da una sinistra e dall’altra. Che tuttavia restano diverse, a volte anche divergenti, non solo nell’azione della politica ma soprattutto nell’ispirazione culturale che questa azione dovrebbe guidare. Resta da vedere se e come queste differenze anche profonde troveranno una loro composizione. La troveranno certamente nel mitico programma che prima o poi l’Unione riuscirà a partorire, ma i programmi si fanno e si disfano come nulla fosse. Non è affatto detto invece che riusciranno a trovarla quando saranno al governo, se mai ci saranno. Perché prima le due sinistre devono vincere le elezioni politiche, quasi come se fossero una sola.

"transfert erotico"

Repubblica, ed. di Napoli 6.4.05
IL CONTROTRANSFERT EROTICO DELLA PSICOLOGA
MICHELE ROSSENA

Una giovane psicologa campana risolve per magia, e con l'avallo della legge, l'enigma storico della cultura psicoanalitica. Lo hanno riportato i giornali: il controtransfert erotico della psicologa salva un ex tossicodipendente dal carcere. Non era bastato un secolo di studi e ricerche, di confronti e diatribe e soprattutto riflessioni sofferte e dolorose dei protagonisti della trasformazione di un transfert fra terapeuta e paziente in relazione amorosa, a sciogliere il nodo centrale della prassi analitica. Non era bastata una corposa bibliografia specialistica sul tema, compreso un libro-rivelazione, quel "Diario di una segreta simmetria" frutto di anni e anni di ricerche del grande, compianto Aldo Carotenuto sulla vita, l'identità e le relazioni di Sabina Spirlein, spina nel fianco debole di Freud e Jung, a far luce su di un fenomeno delicatissimo da trattare che merita rispetto e massima attenzione. Non è bastato nemmeno il film che qualche anno fa, campione d'incassi e di dibattiti sul tema, divulgò quanto sofferto e descritto da grandi e sconosciuti artisti dell´anima, da Freud a Jung, da Rogers a Carotenuto, a sanare dubbi etico professionali e interrogativi morali che entrano in gioco fra le mura del difficile e talora inquietante setting psicoanalitico. "Prendimi l'anima", prendendo spunto dalla storia analitica, racconta (seppur manipolato dal regista Faenza) quanto accadde fra Carl Gustav Jung e Sabina Spirlein entro e fuori il tradizionale setting.
Ed ecco una giovane psicologa che, forte del coinvolgimento di tutt'altra natura che non terapeutico, tira fuori l'asso dalla furba manica del mestiere. Nasce così la teoria del "transfert erotico", quale rivoluzionario strumento di riabilitazione del paziente. In barba a grandi e no, caduti sullo scivoloso campo della seduzione analitica e alle loro dilanianti autocritiche. E così, per effetto della nuova teoria, un ex tossicodipendente viene "perdonato" dal Riesame, anzi in qualche modo premiato per aver lasciato gli arresti domiciliari. Perché nelle sue provvidenziali fughe sul litorale domizio incontrava la sua psicologa a stretti fini terapeutici.
Il problema della riabilitazione dalla dipendenze si risolve con un mirato rinfoltimento di personale specializzato. Mi perdoni il lettore se non ho potuto che ironizzare su questo incredibile filmetto americano dai contenuti drammatici e finalone rosa di marca nostrana, che in realtà evidenzia elementi di notevole gravità. No comment per l´invenzione strategica della giovane, scaltra collega che stravolge pubblicamente in senso del transfert, massima istituzione del Verbo Analitico. Si commenta da sola la decisione buonista di un giudice che, per non entrare nel merito di tematiche già delicate per gli stessi addetti ai lavori, quindi pressoché ignorate dal resto dell´umanità, confonde una trovata manipolatoria con effetto psicologico e risultanze legali con il sacrosanto diritto all'affettività del detenuto.
La sottolineatura più triste debbo riservarla alla brutta mazzata accusata dal mondo della psicologia clinica, già pubblicamente offeso e bistrattato nella tv spazzatura che la usa a cadenza quotidiana, volgarizzandola. Per vendere emozioni e sentimenti alla gente che soffre, a costi bassissimi. Ancora una volta chi dovrebbe salvaguardarla come strumento di crescita individuale e collettiva, divulgandola in maniera sana e corretta, se ne serve, sfruttandone il potere (suggestivo) di depositario del sapere umano universale e a scopi ovviamente personali. Dalla giovane psicologa di provincia, ai fedelissimi guru televisivi degli anchorman che contano.

comunicato stampa dell'associazione francese ed europea
La Libre Pensée


La Libre Pensée
Communiqué de presse 4 avril 2005
Pour la liberté absolue de conscience,
Ni dieu, ni maître !


Le chef d’une Eglise est mort ! Ce monarque, investi d’un pouvoir discrétionnaire, proclamé infaillible et considéré comme tel, suscite l’adoration idolâtre de ses ouailles, provoque des démonstrations irrationnelles de masse qui, loin de nous déstabiliser, nous incitent au contraire à développer notre action de démystification des dogmes religieux, notre combat pour la promotion de l’instruction publique, du libre examen, du rationalisme expérimental contre toutes les formes d’obscurantismes, contre les charlatanismes et leurs gourous.

Ni plus ni moins réactionnaire et conservateur que ses prédécesseurs ou que son successeur, adaptant la forme, selon que les circonstances le commandent, mais sans rien changer sur le fond de l’intransigeance dogmatique qui caractérise sa religion (et les autres), rappelant en permanence la doctrine sociale de l’Eglise (et la faisant appliquer), garante de la pérennité des systèmes d’exploitation de l’homme par l’homme, ce chef d’une des puissances les plus totalitaires que l’humanité connaît, a dirigé la politique internationale du catholicisme, en faveur de la mondialisation, de la gouvernance mondiale, contribuant ainsi directement à l’instauration de programmes économiques et sociaux aggravant considérablement la situation des classes ouvrières, des paysans, des peuples. Dans un prochain numéro de «La Raison», nous reviendrons sur cette démarche du Vatican, sur sa signification réelle et ses conséquences.

Les chefs d’Etat décrètent des journées de deuil national, participent es qualités aux cérémonies catholiques, le gouvernement ordonne la mise en berne du drapeau de la République sur les édifices publics. Quelques responsables politiques élèvent des protestations, justifiées mais mesurées, pour rappeler que la laÏcité implique d’observer une stricte neutralité de l’Etat en matière religieuse. Certains d’entre eux, ayant voté des lois antilaïques sur les signes et faits religieux à l’Ecole, se dédouanent ainsi facilement. Le président de la République rappelle les efforts du Vatican pour «construire l’unité de l’Europe». Perdues dans une déferlante d’hommages, quelques rares et timides voix regrettent le sectarisme papal en matière de morale sexuelle et familiale, laissent entendre que tout le reste est bel et bon. Face à ce constat, à cette overdose rarement égalée, nous n’en sommes que plus fondés à maintenir haut et largement déployé le drapeau de la Libre Pensée, insurgée permanente contre toutes les oppressions matérielles et morales.
C’est pourquoi, d’ici au 29 mai 2005 (et même après !), nous savons ce que nous avons à faire, pour participer, aux côtés de beaucoup d’autres, au coup d’arrêt, à la défaite de l’Europe vaticane de Karol Wojtila et de ses prédécesseurs.

uomini e topi
informazioni genetiche e "ritardo mentale"

Le Scienze 5.4.05
Un'analisi comparativa del cromosoma X
Le informazioni genetiche sono state confrontate con quelle di scimpanzé e topi

Confrontando intensivamente e sistematicamente il cromosoma X umano con le informazioni genetiche di scimpanzé, topi e ratti, un gruppo di scienziati negli Stati Uniti e in India ha scoperto dozzine di nuovi geni, molti dei quali situati in regioni del cromosoma già associate a malattie.
Alcuni regioni del cromosoma X, uno dei due cromosomi sessuali dell'uomo, sono state infatti collegate al ritardo mentale e a numerosi altri disturbi, ma individuare le particolari anormalità genetiche coinvolte è sempre stato difficile. Lo studio descritto ora sul numero di aprile della rivista "Nature Genetics" dovrebbe accelerare la ricerca sulle malattie associate a questo cromosoma, e incoraggiare analisi simili di altri cromosomi.
"Da quanto ne sappiamo, si tratta della prima analisi critica di un intero cromosoma effettuata da un gruppo che non era stato coinvolto nel determinare la sua sequenza genetica", ha commentato il leader dello studio Akhilesh Pandey del Johns Hopkins Medical Institute di Baltimora e dell’Istituto di Bioinformatica (IOB) di Bangalore, in India, dove è stata condotta l'analisi.
Per 18 mesi, 26 scienziati indiani hanno esaminato con pazienza la sequenza disponibile pubblicamente del cromosoma X (informazioni fornite dal Wellcome Trust Sanger Institute e da altre istituzioni), per identificare geni e altre parti importanti del DNA. Ma anziché limitarsi ad analizzare i dati con il computer alla ricerca di schemi di sequenze genetiche già note, Pandey e colleghi hanno anche cercato similarità fra le regioni del cromosoma umano che codificano proteine e le regioni corrispondenti nel topo e in altri animali.
Nelle regioni identiche fra le varie specie, gli scienziati hanno trovato 43 nuove "strutture genetiche" che codificano proteine. Alcuni di questi geni si trovano in regioni da tempo associate alla sindrome del ritardo mentale o ad altri disturbi.

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storia
«la Liberazione partì da Napoli»

Il Mattino 5.4.05
La Liberazione partì da Napoli
Pubblichiamo le pagine di «La Resistenza spiegata a mia figlia» relative alla guerra a Napoli.
Alberto Cavaglion

Il primo ottobre 1943 anche Napoli con il suo porto prezioso era stata liberata dai suoi stessi abitanti. Quando attraversano le strade, gli Alleati trovano una città insorta. Più correttamente, dato che non vi era stato un piano predefinito, si può dire che contemplino il risultato di un moto spontaneo di rivolta o, come si deve sempre dire quando si parla di Napoli, di un «fenomeno della natura», dovuto principalmente al malessere prodotto dalla guerra, alla diffusa miseria, alla rabbia contro le angherie. Una rivolta che coglie alla sprovvista innanzitutto i tedeschi nel momento in cui esplode: la notte fra il 27 e il 28 settembre. Il 30 settembre alle 5 del mattino, l’intero comando tedesco inizia a retrocedere spostandosi a nord di una città che si era liberata da sola. Quel che accade a Napoli non è molto diverso da quanto av- viene nel resto della penisola: nel quartier generale del Parker ’s Hotel il colonnello Sholl, esasperato dai continui scontri in cui sono coinvolti i suoi soldati, pianifica di fare «terra bruciata» (saccheggio del materiale bellico, smantellamento delle infrastrutture, rastrellamento dei giovani in età di leva). Nel lungo mese di settembre, nel periodo che precede sia la liberazione della città, sia la costituzione di una qualche amministrazione italiana «alleata» ai tedeschi, Napoli si trasforma in un teatro di crudeli efferatezze. Presso l’alto comando di Kesselring, i tedeschi in Italia non mancheranno di istituire un reparto, chiamato Kunstschutz, con il compito di tutelare il patrimonio culturale nella zona occupata; questo reparto sarà operativo solo a partire da novembre 1943. Come s’è detto, a Firenze i tedeschi fanno saltare tutti i ponti, ma si fermano davanti al Ponte Vecchio. Durante le prime settimane manca invece ogni direttiva, l’occupazione si caratterizza per la totale assenza di apparati burocratici; a Napoli prevale soprattutto la frustrazione dei comandi delle truppe tedesche. I tedeschi sembrano accanirsi soprattutto contro i tesori archivistici e le opere d’arte; viene deliberatamente incendiata la sede della Società reale, dove erano custoditi archivio e biblioteca delle accademie napoletane, saccheggiato e incendiato l’edificio dell’Università degli studi e il 12 settembre violato anche l’ex monastero di San Severino, sede dell’Archivio in piazzetta Nilo. C’è però un evento che nelle storie della Resistenza non si legge mai e deve invece essere posto a fianco delle stragi di civili, per le irreparabili conseguenze che determina: la distruzione dei fondi più antichi dell’Archivio di Stato di Napoli a opera di guastatori tedeschi. La storia di questo scempio ha risvolti drammatici che meritano di essere riportati in primo piano. Pochi anni prima della Seconda guerra mondiale, i lavori di restauro e di adattamento dell’enorme fabbrica del monastero dei Santi Severino e Sossio, dove l’Archivio di Stato ha sede dal 1845, sono terminati con piena soddisfazione di chi lo dirige, Riccardo Filangieri. A fronte di una temuta e ormai vicina guerra aerea, sono predisposti piani di sgombro, l’Ufficio centrale degli archivi del Regno chiede a Filangieri di attuare un invio precauzionale della documentazione più antica in un sito isolato, fuori città. A questo Filangieri si oppone, sottolineando le oggettive difficoltà di un trasporto con tutti i pericoli cui vanno soggette le scritture antiche. A tal proposito si fa un contro-progetto, individuando nei locali sotterranei del monastero e del contiguo Teatro di San Severino la sede adatta dove nascondere le carte. Questo progetto viene prima osteggiato, poi parzialmente accolto. Alcune parti dell’archivio vengono così spostate, ma il precipitare degli eventi bellici induce a scelte affrettate. Il 5 agosto brucia la chiesa di Santa Chiara, con il tesoro della dinastia angioina e i suoi monumenti; si diffonde la notizia che su Genova siano cadute bombe da due tonnellate ciascuna. Filangieri teme la precarietà del suo ricovero. Prende accordi per affittare Villa Montesano,in aperta campagna,presso San Paolo Belsito,a una trentina di chilometri da Napoli. Scortati dai Regi Carabinieri, gli automezzi necessari si mettono finalmente in movimento. Il trasferimento più prezioso – quello contenente i registri della cancelleria angioina – giunge nel nuovo ricovero. Tutto viene provvisoriamente inventariato, collocato in casse di legno, segnate con un numero progressivo. In tutto 200.000 unità archivistiche, 54.732 pergamene: i fondi più importanti, la cancelleria aragonese, le carte farnesiane, i manoscritti miniati, gli atti dei processi celebri, le carte di Garibaldi, gli atti del Plebiscito, i cimeli più illustri, le pergamene angioine. Il 30 settembre 1943 alle ore 9.30 del mattino, le truppe tedesche si avvicinano. È una pattuglia di predatori in cerca di generi alimentari da requisire. Sono le ultime ore che precedono la ritirata tedesca da Napoli. Il deposito viene ispezionato da un ufficiale che conosce l’italiano, al quale sono mostrati alcuni cimeli. Con paglia e polvere tre guastatori appiccano il fuoco impedendo con le armi ai custodi dell’archivio di domare le fiamme. In pochi istanti va perduta la documentazione più antica dell’archivio napoletano e di tutto il mezzogiorno d’Italia: «Sono caduto in una tristezza mortale», annota Croce nel suo diario, «per l ’orrenda notizia che i tedeschi hanno incendiato, inondandolo di benzina,il castello di San Paolo Belsito (...) tutte carte sulle quali ho lavorato in passato anch’io e dalle quali ho tratto alcuni miei libri: tutti i documenti della storia del Regno di Napoli». Una tragedia «senza rimedio», scrive: «Non c’è vendetta che possa soddisfare». Non sono andate perdute mere cose materiali, ma «strumenti di vita spirituale», davanti alla cui distruzione si provano «dolori e ansie non diverse da quelle dell’avaro per le accumulate ricchezze». Dei custodi che cercano di salvare alcune di quelle carte non sappiamo nulla, nemmeno il nome. Si può dire invece che la Resistenza nasca con loro. Alla domanda «quando nasce la Resistenza in Italia?» è relativamente facile rispondere. Una buona risposta può essere la seguente: con il gesto anonimo dei custodi del deposito di San Paolo Belsito.

parlamento europeo e staminali embrionali

Tempo Medico on line 6.4.05
Ricerca in pericolo al parlamento europeo
di Donatella Poretti - Tempo Medico n. 791

All'interno di una risoluzione recentemente adottata si chiede di non utilizzare i fondi per la ricerca sulle staminali embrionali
L'ultimo atto di una lunga vicenda che vede il Parlamento europeo alle prese con la ricerca scientifica e con le staminali risale al 10 marzo.
Arriva al voto una risoluzione comune sul commercio di ovociti umani. Nel testo iniziale si rammenta che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione "sancisce il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro", e si ricorda alla Commissione la direttiva 2004/23/CE che prescrive che gli stati membri si adoperino per garantire donazioni volontarie e gratuite di tessuti e cellule. Lo spunto era offerto da alcune notizie di cronaca sul commercio di ovociti dalla clinica rumena Global Arts verso la Gran Bretagna.
La risoluzione viene adottata, ma la notizia è un'altra: l'aggiunta di un emendamento in cui si chiede alla Commissione di non finanziare con fondi comunitari la ricerca sulle cellule staminali embrionali e di concentrare il denaro su quelle somatiche e del cordone ombelicale.
"Questo voto minaccia la ricerca europea sulle cellule staminali" è il durissimo commento dell'europarlamentare liberale belga Frédérique Ries. "Sotto il pretesto di lottare contro lo sfruttamento delle donne e per l'inalienabilità del corpo umano, il testo mira a tutt'altro obiettivo: proibire direttamente o indirettamente la ricerca sulle cellule staminali embrionali e la clonazione terapeutica. E' un segnale disastroso inviato alle coppie in attesa di una donazione, ma anche alle centinaia di migliaia di pazienti in Europa che puntano sulla ricerca le loro speranze di guarigione dal diabete, dal morbo di Parkinson o di Alzheimer".

la sorte del dollaro si gioca a Pechino

Le Monde Diplomatique
Contro l'Euro
La sorte del dollaro si gioca a Pechino

Ibrahim Warde
La presenza in Europa, dal 21 al 25 febbraio, di George W. Bush ha
mostrato la volontà del presidente americano di riavvicinarsi ai paesi membri
dell'Unione europea. Se le divergenze persistono, come quelle sull'Iran o sulle
vendite di armi a Pechino, la Casa bianca sa che deve venire a patti con i
dirigenti europei e cinesi. Gli orientamenti di questi ultimi determinano,
almeno in parte, i tassi d'interesse, il cambio del dollaro e l'appesantimento
del deficit commerciale Usa. D'ora in poi la Cina si propone di monetizzare al
meglio, compreso il piano diplomatico, il suo nuovo potere economico e
finanziario.
«È la nostra moneta, ma il problema è vostro»(1). La celebre espressione di John Connally, ex segretario al Tesoro del presidente Richard Nixon, risale al 1971. Ma potrebbe venire applicata alla politica del dollaro della prima amministrazione di George W. Bush. I dirigenti statunitensi, preoccupati in primo luogo dalla «lotta al terrorismo» e dalla guerra in Iraq, si sono interessati poco alle grandi questioni economiche internazionali. Certo, hanno proclamato di essere legati alla moneta forte, soprattutto per non incitare gli speculatori ad attaccare il biglietto verde, ma nei fatti si sono affidati al «mercato» per meglio occultare la questione dei «deficit gemelli» (di bilancio e commerciale), che sono enormemente cresciuti.
In materia di bilancio, l'amministrazione Bush ha ereditato degli attivi che sfioravano i 240 miliardi di dollari nel 2000. La recessione del 2001 (che ha provocato una diminuzione delle entrate fiscali), ma anche i ribassi massicci delle imposte approvati dal Congresso repubblicano (sulla base dell'ipotesi che gli attivi fossero diventati strutturali) e il nuovo aumento del bilancio di difesa e sicurezza interna che ha fatto seguito agli attentati dell'11 settembre, hanno trasformato questo surplus importante in un considerevole deficit, che soprattutto in un periodo in cui la crescita stava ripartendo, ha raggiunto 412 miliardi di dollari nel 2004, cioè il 3,6% del prodotto interno lordo (Pil). Parallelamente, il deficit commerciale, che non ha smesso di aumentare per tre anni consecutivi, ha toccato il record storico di 618 miliardi di dollari (5,3% del Pil), in aumento del 24,4% rispetto all'anno precedente.
Tutte le riunioni del G7 (Stati uniti, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna, Canada, Italia) e altre grandi conferenze internazionali evocano la questione dei «deficit gemelli». Ma le soluzioni abitualmente previste per riequilibrare i conti degli Stati uniti implicano scelte dolorose (aumento delle imposte, calo delle spese militari, incoraggiamento del risparmio) che vanno in senso contrario rispetto ai grandi orientamenti politici dell'amministrazione Bush.
Gli Stati uniti comprano il 50% in più di quanto vendano all'estero.
E sono gli investitori internazionali che, attraverso le acquisizioni di buoni del Tesoro statunitensi, finanziano il livello di vita della prima potenza economica mondiale.
Questo aggiustamento attraverso il dollaro presenta il vantaggio di far ricadere i costi sul resto del mondo, perché significa attingere a una parte della crescita, dell'occupazione e del risparmio di altri.
Un dollaro anemico favorisce la competitività dei prodotti fabbricati negli Usa; rende l'acquisto di azioni statunitensi più attraente per gli investitori stranieri (visto che sono meno care) e svaluta il debito estero, stimato sui 3mila miliardi di dollari.
Non è cosa corrente nella storia che il guardiano della moneta di riserva sia anche il paese più indebitato. Nel 1913, la Gran Bretagna, al culmine della sua espansione imperiale, era contemporaneamente il principale creditore della terra; in seguito si è stremata durante un mezzo secolo per difendere in pura perdita, ma al prezzo di un indebolimento della sua potenza industriale, il valore della sterlina.
L'arma del dollaro basso, nuova versione di ciò che il generale de Gaulle chiamò un tempo il «privilegio esorbitante» degli Stati uniti (quello di battere una moneta di cui i paesi stranieri non reclamano la contropartita, dal momento che le loro banche centrali ce l'hanno come riserva) permetterebbe in teoria ai due deficit statunitensi, di bilancio e commerciale, di venire riassorbiti senza dolore.
A questa analisi sono venute ad aggiungersi considerazioni di carattere politico. Con l'avvicinarsi delle elezioni del novembre 2004, i sondaggi indicavano che una maggioranza di elettori considerava il senatore John Kerry più adatto a realizzare il risanamento economico del paese.
Il voto si annunciava molto combattuto, il presidente Bush aveva un enorme bisogno di buoni dati sulla crescita e l'occupazione. Solo un dollaro sottovalutato gli avrebbe permesso di raggiungere questi risultati (2).
Tuttavia, è nelle settimane che hanno fatto seguito alla rielezione del presidente che la caduta del dollaro, già ben avviata, ha conosciuto una forte accelerazione. Nel corso del mese di dicembre del 2004, il dollaro ha battuto quasi ogni giorno nuovi record al ribasso, per raggiungere alla vigilia di Natale il livello storico di 1,35 dollari per un euro. Complessivamente, tra il 2002 e il 2004, il biglietto verde ha perso il 20% del valore rispetto all'euro. Le previsioni di fine anno, rituali e non sempre affidabili, hanno rivelato un consenso tra banchieri ed economisti: il 2005 avrebbe segnato un crollo ancora più spettacolare della moneta statunitense.
Chi sostiene l'opulenza Usa Vari fattori permettono di capire questo pronostico. La riconferma di George W.Bush lascia presagire che sia l'avventurismo in politica estera che il lassismo di bilancio proseguiranno. Tanto più che il presidente, malgrado un margine modesto di voti nella rielezione (tre punti in più del suo rivale), ha dichiarato di aver ricevuto un «mandato» per intraprendere delle riforme ad un tempo audaci e costose. E si è detto pronto a «intaccare il proprio capitale politico» per realizzare misure controverse, per esempio la parziale privatizzazione del sistema federale delle pensioni (che in un primo tempo costerà varie centinaia di miliardi di dollari al Tesoro statunitense) (3).
La sfiducia nel dollaro si spiega anche con lo scacco della politica di riduzione del deficit estero «attraverso il mercato». Il dollaro debole dovrebbe favorire gli esportatori statunitensi e penalizzare gli importatori. Ma questa politica, piuttosto che portare a un riequilibrio dei conti, ha contribuito a far crescere i deficit, che hanno sottolineato le fragilità strutturali dell'economia statunitense. Gli operatori finanziari ne hanno concluso che il dollaro non era ancora abbastanza basso. Alcuni suggeriscono persino che, per dimezzare il deficit commerciale, la moneta statunitense dovrebbe perdere il 30% in più e non valere che 0,55 euro...
Di qui l'inquietudine di chi possiede il biglietto verde e in particolare delle banche centrali che fino a questo momento avevano sempre sostenuto il dollaro. Nel 2003, le banche centrali hanno finanziato l'83% del deficit corrente statunitense, assorbendo senza cambiarli i biglietti verdi acquisiti in contropartita degli acquisti degli Stati uniti all'estero. Per esempio, gli averi in dollari delle banche centrali asiatiche avrebbero raggiunto ormai i 2 mila miliardi di dollari.
Perché la Cina, il Giappone e altri paesi hanno accumulato tanti attivi in una moneta che perde valore? Per il fatto che hanno voluto impedire l'apprezzamento delle rispettive divise sui mercati dei cambi, cosa che sarebbe avvenuta se avessero cambiato i biglietti verdi eccedenti. Questi paesi hanno in questo modo privilegiato la competitività delle loro esportazioni. E poiché hanno investito questi dollari in obbligazioni del Tesoro statunitense, hanno contemporaneamente contribuito a mantenere negli Usa dei tassi di interesse molto bassi.
Al termine di questo strano ciclo, i deficit commerciali statunitensi finanziano... l'indebitamento degli Stati uniti e la bassissima propensione al risparmio dei suoi cittadini.
Ma in risposta al crollo del dollaro, un certo numero di banche centrali ha deciso di ridurre gli acquisti di dollari a vantaggio di altre monete, l'euro in particolare.
Questa svolta strategica è spiegabile: subire qualche perdita per favorire le vendite all'estero è una cosa, fare le spese di uno sbandamento continuo è un'altra. Il 19 novembre, Alan Greenspan, il presidente della Federal Reserve, ha creato scompiglio ricordando che gli investitori esteri un giorno si stancheranno dell'accumulazione dei deficit e che una «perdita di appetito per gli attivi in dollari» è inevitabile (4).
Qualche giorno dopo, Yu Yongding, membro del comitato monetario della banca centrale cinese, ha indicato che la Cina non aveva «diminuito la parte relativa delle proprie riserve di cambio conservate in buoni del Tesoro Usa, ma non il loro montante assoluto, per premunirsi contro la debolezza del dollaro». Questa tendenza è stata confermata da un sondaggio realizzato presso 67 banche centrali, elaborato da Central Banking Publications: nel corso degli ultimi quattro mesi del 2004, più dei due terzi degli istituti interrogati hanno diminuito, nei rispettivi portafogli, la parte relativa del dollaro (che resta enorme, vicina al 70% del totale, ma una trentina di anni fa era dell'80%). Per Nick Carver, uno degli autori dello studio, «l'entusiasmo delle banche centrali per il dollaro sembra raffreddarsi. Gli Stati uniti non devono più contare su un loro sostegno incondizionato» (5). Anche i paesi produttori di petrolio che dirigono una buona parte dei loro acquisti verso la zona euro, non sono contenti di vedere il rialzo dei corsi della loro materia prima ampiamente intaccato dal calo del valore della moneta in cui viene fatturata. Tra l'altro, alcuni stati arabi temono che un giorno o l'altro i loro averi negli Stati uniti vengano congelati in nome della lotta al terrorismo.
La politica di cambio è una scienza inesatta che rigurgita di effetti perversi. Al di là di una determinata soglia, gli effetti negativi di una svalutazione prendono il sopravvento sui vantaggi. I dirigenti statunitensi, incapaci di frenare il crollo della loro divisa, scoprono che l'arma del dollaro potrebbe rivoltarsi contro di loro. Gli Stati uniti, per mantenere il valore della propria moneta hanno bisogno di un apporto quotidiano di 1,8 miliardi di dollari. E quando la credibilità cede, il dollaro cessa di essere semplicemente «il problema degli altri». L'anticipazione di un indebolimento continuo può in effetti scatenare delle reazioni a catena: gli investitori esteri reclamano rendimenti più alti per acquisire o conservare dollari, o per sottoscrivere dei buoni del Tesoro. Più il rischio di un calo è alto, più questo premio, sotto forma di tassi di interesse, deve essere alto. Ma un forte rialzo dei tassi ha degli effetti preoccupanti sugli investimenti e sui consumi, in particolare negli Stati uniti dove l'acquisto a credito è più diffuso che altrove. Ci sarebbe per esempio un rischio di crollo del mercato immobiliare, finora favorito da tassi di interesse storicamente bassi. E l'intreccio tra i sistemi economici e monetari è tale che una recessione statunitense avrebbe conseguenze per l'economia mondiale.
L'Europa, e in misura minore il Giappone, si sono trovati quasi da soli a pagare il prezzo della caduta del dollaro. In Europa, il forte rialzo dell'euro è andato a vantaggio di pochi anche se il primo presidente della Banca centrale europea (Bce), Wim Duisenberg, aveva adottato l'emblema «un euro forte per un'Europa forte» (6). La prima parte di questo auspicio è stata realizzata... Ma adesso il suo successore, Jean-Claude Trichet, si lamenta del crollo «brutale» del dollaro, che ha gravemente colpito la produttività delle industrie del vecchio continente. Nel 2004, la crescita della zona euro è stata una delle più deboli al mondo. Gli ottimisti inveterati hanno tuttavia potuto intravedere un vantaggio dell'euro forte: la riduzione dell'impatto della fiammata dei prezzi del petrolio, negoziato in dollari. Nicolas Sarkozy, quando era ministro delle finanze francese, aveva per esempio affermato nel novembre 2004 che la sopravvalutazione della moneta dell'Unione «non è solo una sfortuna».
Dopo che la Cina ha ancorato nel 1994 la propria moneta (il renminbi, «moneta del popolo», nome ufficiale dello yuan) al biglietto verde, fa causa comune monetaria con gli Stati uniti. Il crollo del dollaro ha così permesso alla Cina di mantenere la propria competitività di fronte agli Stati uniti e di accrescerla nei confronti del resto del mondo. L'asimmetria dei rapporti sino-statunitensi colpisce: il deficit con la Cina ha raggiunto i 207 miliardi di dollari (più di un terzo del totale) (7). Negli Stati uniti, alcuni sono contenti per l'afflusso di prodotti a prezzi che sfidano qualsiasi concorrenza: il gigante della distribuzione Wal Mart, che è anche il più grosso datore di lavoro del paese, importa fino al 70% dei propri prodotti dalla Cina.
Ma un numero crescente di imprese, di lavoratori e di dirigenti politici statunitensi vedono in ciò una forma di concorrenza sleale e chiedono al governo di esigere che la Cina lasci fluttuare la propria moneta.
Vent'anni fa, la politica monetaria e commerciale di Washington era ossessionata dal Giappone, dalle sue esportazioni di automobili e di prodotti elettronici, dal corso dello yen...
La posizione ufficiale dei dirigenti statunitensi, più volte ribadita, è che lo yuan sarebbe sottovalutato del 40% e che la Banca centrale cinese dovrebbe intervenire con forza per regolare l'evoluzione della moneta cinese. La risposta di Pechino è ambigua: anche se il dibattito pare ben avviato nei circoli del potere, i segnali che ne provengono sono ancora contraddittori. Alcuni dirigenti assicurano che la Cina lavora per rendere più flessibili i propri mercati di capitali, con l'obiettivo di allentare, se non addirittura di sopprimere, l'ancoraggio fisso tra dollaro e yuan. Secondo il vice-primo ministro, Huang Ju, Pechino intende procedere a tappe «per riformare il regime di cambio dello yuan», ma senza però annunciare un calendario specifico, poiché si tratta prima di tutto di creare «un ambiente macro-economico stabile per stabilire un meccanismo di mercato e un sistema operativo sano».
(8) Altri scartano qualsiasi ipotesi di cambiamento di politica. Secondo Yi Gang, direttore del dipartimento di politica monetaria dell'istituto di emissione, Pechino proseguirà la propria «politica monetaria di un regime di tassi di cambio unificati e di fluttuazioni controllate» per «preservare la stabilità e promuovere la crescita dell'economia cinese». Il governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, invitato ad esprimersi di fronte ai ministri delle finanze del G7, il 4 febbraio scorso, ha chiuso il dibattito, rifiutando di rispondere alla domanda che continua a tenere in agitazione i mercati.
Pechino, difatti, intende far valere il proprio diritto alla sovranità monetaria. I suoi tassi eccezionali di crescita (9,5% di media annuale tra il 1997 e il 2004) e il gigantesco potenziale di un mercato di 1,3 miliardi di abitanti, ne fanno un eldorado per tutte le multinazionali.
Il paese, diventato una vera e propria potenza economica, rappresenta ormai il 4% dell'economia mondiale, contro solo l'1% nel 1976. Alcuni ritengono che prima del 2020 la Cina peserà per circa il 15% della produzione della terra.
Più che la fabbrica del mondo, il paese vuole essere una locomotiva dell'economia internazionale, per non dire una vera e propria potenza tecnologica e scientifica. Si trova già al centro di tutte le questioni economiche, dalle delocalizzazioni, all'aumento dei prezzi delle materie prime, passando per la ripresa dell'economia giapponese.
L'acquisizione da parte del gruppo cinese Lenovo della divisione dei personal computer del gigante statunitense Ibm chiarisce quali siano le ambizioni di uno stato che ha già lanciato con successo più di 40 satelliti nello spazio e che prevede voli spaziali con persone a bordo ogni due anni, oltre a un programma lunare.
I dirigenti cinesi sono coscienti dei rischi che farebbe correre all'economia del paese una nuova situazione monetaria. I segnali di instabilità si moltiplicano: inflazione, speculazione immobiliare, debolezza del settore bancario, sottosviluppo dei mercati dei capitali.
Se teniamo conto della crescita delle ineguaglianze sociali e dell'assenza di democrazia, possiamo farci un'idea delle possibilità di un'esplosione politica (9). È comprensibile la prudenza delle classi dirigenti, preoccupate soprattutto di evitare un rallentamento improvviso della crescita, con conseguenze economiche e politiche incalcolabili, compresi i rapporti con gli Stati uniti. Difatti viene dimenticato troppo spesso che su numerose questioni sensibili: Iran, Corea del nord, Taiwan la Cina continua ad opporsi a Washington.
Dall'ossessione per il Giappone a quella per la Cina Tutti, salvo forse gli speculatori, si rendono conto che una gestione concertata delle monete è preferibile alla politica dell'ognuno per sé. La maggior parte delle analisi sulla situazione monetaria internazionale suggeriscono però una logica di scontro. È questione di «equilibrio del terrore monetario», di alleanza tra l'Europa e il Giappone per interventi comuni sui mercati dei cambi, oppure di «una grandissima alleanza» che opporrebbe la Cina e gli Stati uniti al resto del mondo, in virtù della quale gli Usa acquisterebbero alla Cina i prodotti, mentre la Cina finanzierebbe i deficit statunitensi (10). La possibilità che alcuni paesi trasformino in azione le loro minacce - che il Giappone ceda una parte significativa del proprio portafoglio di buoni del Tesoro statunitensi o che gli Usa prendano misure di ritorsione contro la Cina - periodicamente dà uno scossone agli operatori dei mercati finanziari.
Degli interventi concertati dei «quattro grandi» (Stati uniti, Europa, Cina, Giappone) possono frenare la speculazione e ridurre le turbolenze, sul modello dell'accordo del Plaza, che aveva segnato una svolta nelle relazioni monetarie internazionali. Il 22 settembre 1985, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri del G5 (Stati uniti, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Repubblica federale tedesca) si erano riuniti in questo albergo di New York e avevano deciso che «era auspicabile un nuovo apprezzamento ordinato delle divise diverse dal dollaro». Avevano fatto sapere «che si tenevano pronti a cooperare più strettamente per incoraggiarlo, qualora apparisse utile». Questo linguaggio in codice fu il preludio a un calo coordinato del dollaro, sotto il controllo di James Baker, segretario al Tesoro del presidente Reagan (11). Ma oggi un accordo di questo tipo è poco probabile. Sia l'unilateralismo predominante che le diverse considerazioni «ideologiche» militano contro il principio stesso della concertazione. Ma, soprattutto, nessun dirigente economico attuale è in grado di svolgere il ruolo che allora aveva svolto Baker. Vent'anni fa il dipartimento del Tesoro godeva di un'influenza internazionale che oggi non ha più. Paul O'Neill, il primo titolare di questa carica scelto da George W. Bush, è stato in fretta licenziato, a causa della sua indipendenza. In un libro dove racconta la sua esperienza a Washington, descrive l'attuale presidente come ignorante delle realtà economiche e - con il suo gabinetto - «un cieco circondato da sordi» (12). Dalla guerra in Iraq, Bush, preoccupato dalle grandi crociate per la libertà, si interessa ancora meno a queste questioni pratiche...
La rielezione del novembre 2004 ha d'altronde rafforzato la preferenza di Bush a circondarsi solo di yes men. La qualità essenziale per una nomina politica sembra essere la lealtà, non la competenza. Il segretario al Tesoro, John Snow, è ecclissato nel processo di decisione dai consiglieri politici del presidente. Per quanto riguarda Alan Greenspan, a 79 anni ha intrapreso l'ultimo anno di presidenza della Federal Reserve. La battaglia per la successione è aperta. I pretendenti devono realizzare l'impossibile: ottenere la fiducia assoluta del presidente (che sceglie il titolare), che li obbliga a difendere con fervore delle scelte economiche difficilmente giustificabili, e al tempo stesso quella dei «mercati»! (13). Di fronte a questa sorta di vacanza del potere economico, quelli stessi che sono riusciti a «vendere» la guerra in Iraq e ad assicurare la rielezione del presidente, si sforzano di convincere il pubblico della sensatezza della politica di bilancio e finanziaria.
150 programmi governativi soppressi Dal 20 gennaio 2005, data ufficiale dell'entrata in funzione della nuova amministrazione Bush, i «deficit gemelli» fanno oggetto di un nuovo discorso e di una nuova strategia. La politica di indifferenza calcolata (benign neglect) di fronte al dollaro è andata troppo lontano; esiste davvero un rischio di caduta libera del biglietto verde. La riduzione dei deficit, viene affermato, non verrà più fatta attraverso la svalutazione del dollaro, ma grazie a una forte crescita, indotta a sua volta da nuovi cali delle imposte. Per il presidente Bush, «a lungo termine, il modo migliore per ridurre i deficit è di far progredire l'economia e per questo prenderemo delle misure per permettere all'economia americana di essere più forte, più innovativa e più concorrenziale».
Il deficit commerciale è ormai interpretato come il riflesso della relativa buona salute dell'economia statunitense. Non richiederebbe quindi un'attenzione particolare: tocca agli altri, agli europei in particolare, rilanciare a loro volta la crescita a casa loro attraverso cali delle imposte e politiche maggiormente propizie all'investimento.
Per John Snow, «il deficit commerciale riflette due cose: la nostra economia conosce un tasso di crescita rapido, più forte di quello dei nostri partner commerciali. Il reddito delle famiglie è in aumento, l'occupazione cresce, abbiamo un maggior reddito disponibile, una parte del quale viene utilizzato per comprare beni ai nostri partner commerciali» (14). Allo stesso modo, Alan Greenspan, che in un primo tempo aveva espresso preoccupazione di fronte all'ampiezza dei deficit, adesso fa il discorso opposto destinato a sostenere il dollaro: «l'accresciuta flessibilità dell'economia statunitense senza dubbio faciliterà un aggiustamento, senza conseguenze gravi per l'insieme dell'attività economica».
Come durante il primo mandato di Bush, la politica ufficiale consiste nell'affermare la necessità di una moneta forte, ma questa volta raramente gli atti puntano ad impedire un nuovo crollo del biglietto verde. Il 2 febbraio 2005, il comitato di politica monetaria della Federal Reserve ha portato il tasso di sconto al 2,5%. L'aumento del rendimento per i piazzamenti negli Stati uniti permette di sostenere il dollaro di fronte all'euro, nel momento in cui il consiglio dei governatori della Banca centrale europea, invece, mantiene il tasso di sconto al 2%.
Per quanto riguarda il bilancio, il presidente Bush riafferma l'intenzione di «dimezzare il deficit» attraverso una politica «di rigore», che deve estendersi a tutti i settori, escluse la sicurezza e la difesa (che otterrà 19 miliardi di dollari in più dell'anno precedente).
Il progetto di finanziaria per il 2006 riduce drasticamente o sopprime più di 150 programmi governativi, giudicati dall'amministrazione «inefficaci, ridondanti o non prioritari». I programmi sociali, in particolare quelli destinati ai bambini o ai poveri, sono dei bersagli, e il loro montante viene ridotto da un anno all'altro in valore assoluto.
Ma l'impalcatura finanziaria della Casa bianca si basa su ipotesi di fantasia ed esclude alcune tra le spese più costose. Le operazioni militari in Iraq e in Afghanistan, vero e proprio abisso per la finanza statunitense, vengono dimenticate (15). Così come i 754 miliardi di dollari in dieci anni, che rappresenta il costo minimo della privatizzazione parziale del sistema pensionistico.
Simultaneamente, l'amministrazione Bush e i suoi alleati parlamentari puntano su un aumento delle entrate, grazie a ... una diminuzione delle imposte. Il presidente statunitense ha quindi proposto di rendere permanenti le enormi diminuzioni delle imposte (dell'ordine di 1.800 miliardi di dollari) votate durante il suo primo mandato, con lo scopo di sostenere i consumi e la crescita. Nel 2004, le entrate fiscali rappresentavano soltanto il 16,3% del prodotto interno lordo, il livello più basso dal 1959, contro il 21% quattro anni prima, in un'epoca in cui il bilancio era ancora in eccedenza...
Secondo alcuni dirigenti, e non tra i meno importanti, è sempre più urgente ridurre le imposte che i deficit di bilancio. Per esempio, il vice-presidente Richard Cheney, che ora intende portare a termine le grandi riforme di politica interna, ne è convinto: «Ronald Reagan ha ben dimostrato che i deficit non hanno nessuna importanza» (16).

note:

* Professore associato alla Fletcher School of Law and Diplomacy (Medford, Massachusetts), autore di The Financial War on Terror, I.B.Tauris, Londra, 2005.

(1) Barry Eichengreen, Globalizing Capital: A History of the International Monetary System, Princeton University Press, 1996, p.136.
(2) Questo non gli impedirà di essere il primo presidente degli Stati uniti dopo Herbert Hoover nel 1932 a riprensentarsi mentre durante il suo primo mandato il saldo dell'occupazione è stato negativo.
(3) Se il progetto viene realizzato, i lavoratori potranno devolvere una parte delle trattenute sui salari alla costituzione di un capitale privato destinato alla pensione. Lo stato, privato di entrate, dovrà far ricorso al prestito per pagare le pensioni degli attuali pensionati (su dieci anni viene evocata la cifra di 754 miliardi di dollari).
(4) Larry Elliott, «Us risks a downhill dollar disaster», The Guardian, Londra, 22 novembre 2004.
(5) Mark Tran, «Move to euro hits Us finances», The Guardian, 24 gennaio 2005.
(6) Willem F. Duisenberg, «The first lustrum of the Ecb», discorso pronunciato nel corso dell'International Frankfurt Banking Evening, Francoforte, 16 giugno 2003: www.ecb.int
(7) David E.Sanger, «Us Faces More Tensions Abroad ad Dollar Slides», The New York Times, New York, 25 gennaio 2005.
(8) William Pesek Jr., «Dollar skeptics in Asia have prominent company», International Herald Tribune, New York, 3 febbraio 2005.
(9) Cfr. il dossier che Le Monde diplomatique/ il manifesto ha dedicato alla Cina, nel settembre 2004.
(10) Cfr. per esempio Eric Le Boucher, «La très grande alliance entre les Etats Unis et la Chine contre le reste du monde», Le Monde, 25 gennaio 2004; Pierre-Antoine Delhommais, «L'équilibre de la terreur monétaire», Le Monde, 5 gennaio 2005.
(11) Il dollaro, che era passato da 4,15 franchi nel primo trimestre del 1980 a 9,96 franchi nel primo trimestre del 1985, non valeva che 7,21 franchi nel primo trimestre del 1986 e 6,13 franchi nel primo trimestre del 1987. Rispetto al marco tedesco, i valori rispettivi furono 1,77 marchi, 3,26 marchi, poi 2,35 marchi e 1,84 marchi. Cfr.
per il valore del dollaro rispetto a 18 monete, trimestre per trimestre, dal 1972 al 2002, Jean-Marcel Jeanneney e Georges Pujals (a cura di), Les économies de l'Europe occidentale et leur environnement international de 1972 à nos jours, Fayard, 2005,
(12) Ron Suskind, The Price of Loyalty: George W.Bush, the White House, and the Education of Paul O'Neill, Simon and Schuster, New York, 2004.
(13)Paul Krugman, «The Greenspan Succession», The New York Times, 25 gennaio 2005.
(14) Elisabeth Becker, «Trade Deficit At New High, Reinforcing Risk to Dollar», The New York Times, 13 gennaio 2003.
(15) Diverse ipotesi di finanziaria vengono sottoposte separatemente al Congresso nel corso dell'anno. La più recente reclamava 81 miliardi di dollari, non contabilizzati nel bilancio, per finanziare la presenza statunitense in Iraq e in Afghanistan.
(16) Ron Suskind, op. cit.
(Traduzione di A. M. M.).