martedì 25 novembre 2003

L'appello della Federazione nazionale dei medici
sul concordato preventivo

clorofilla.it 25.11.03
La Federazione nazionale dei medici si appella al ministro delle Finanze affinché modifichi con emendamento governativo il testo del Concordato che potrebbe risolvere il conflitto tra il rispetto della normativa fiscale con quello della deontologia professionale nei casi in cui le prestazioni siano “sensibili dal punto di vista della privacy”
I medici chiedono il ripristino di quella disposizione che avrebbe potutto porre rimedio al conflitto tra il rispetto delle leggi fiscali e quello della deontologia professionale, in particolare di quella medica. Appello della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri ai ministri della Salute e delle Finanze, Sirchia e Tremonti per tutelare il delicato rapporto che intercorre tra medico e paziente, permettendo allo specialista, purché ovviamente concordatario, di prestare le cure a chi ne fa richiesta salvaguardando così anche la primaria esigenza deontologica di rispetto dell’anonimato del malato

l'articolo di Achille Bonito Oliva su Paul Klee,
citato al lunedì

La Repubblica, lunedì 24.11.03
I nazisti contro klee
Un'esposizione a Francoforte
portare lo sguardo fuori dalle apparenze
L'arte non duplica ma rende visibile
Raccolti dipinti e disegni del 1933. Dopo un'irruzione nel suo studio, l'artista fu allontanato dalla Germania e costretto a tornare in Svizzera
di ACHILLE BONITO OLIVA


(molte immagini delle opere di Paul Klee possono essere viste QUI)

Funzionari del partito nazista fanno irruzione nello studio di Paul Klee a Dessau. Questi, alcuni mesi dopo, allontanato anche dall'Accademia di belle arti di Dusseldorf, torna a Berna. Tutto nel 1933, il primo anno dell'era nazista. Di questo annus horribilis, in cui Klee produce 245 disegni ed una serie di dipinti, rende conto una mostra itinerante: cento disegni e un gruppo di quadri (da Berna a Monaco, ora alla Schiran Kunsthalle di Francoforte e, dopo, ad Amburgo). Testimone del risentimento iconografico contro la demagogia militaristica, la retorica nazionalista e l'orgoglio teutonico.
La sopraffazione attiva del linguaggio di un'"arte degenerata" che, nello stordimento del procedimento creativo e l'abbassamento automatico delle tecniche compositive mantiene memoria del momento storico. L'arte si fa storia dell'istante. La pronta censura del regime si piega. Gli heideggeriani erratici percorsi di Klee prendono di contropiede l'immaginario collettivo dei funzionari di partito: un paradosso visivo che parte dalla terra e vi resta ancorato attraverso un linguaggio fertile e autoreferenziale: terra spirituale. Allo statico naturalismo di ritorno l'artista contrappone la natura dinamica dell'arte capace, tra astrazione e figurazione, di rendere invisibile anche il visibile e viceversa.
Progetto e casualità creativa si intrecciano simultaneamente nell´opera pittorica e grafica di Klee, portato a bilanciare con la complessità dell'arte l'insufficienza di una realtà schematica e riduttiva. L'arte procura stordimento e nello stesso tempo conoscenza, una perdita di senso e anche un suo accrescimento, tramite il disorientamento di una pratica che, per definizione, tende a ribaltare la comunicazione sociale, posta normalmente sotto il segno dello scambio unilaterale ed economico.
Una diversa economia regge il sistema dell´immagine di Klee alimentata da una strutturale ambiguità che aggira la superbia logocentrica del linguaggio comune, per approdare nel luogo di intrecciate relazioni, in cui i segni si dispongono lungo accordi e fughe istantanei. Se incontrollabile è l'impulso che sale lungo la schiena dell'artista, controllabile è invece la perizia manuale necessaria a rendere lampante ed esplicita la forza dell'immagine.
Il linguaggio è una riserva da cui attingere a piene mani, senza altre riserve se non quelle che internamente il linguaggio stesso preserva e protegge. Non è possibile lottare contro di esse, anzi l'artista organizza un progettato abbandono che nasce da una disciplina interiore, capace, come dichiara egli stesso, di duplicare il mondo perché «l'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile». KIee si abbandona ai flussi dell'immaginario in una posizione obliqua di fronte al linguaggio, di perdita cosciente, adatta ad accogliere lo spostamento nomade dei suoi segni. Klee conosce molto bene la natura del linguaggio e non ha mai tentato di domarla, semmai di assecondarla secondo procedimenti che implicano l'idea di progetto e di scelta. Il risultato invece viene lasciato ai suoi esiti liberi, fuori da qualsiasi attesa o preveggenza. Non è infatti l'artista ad essere preveggente, ma il linguaggio che cova dentro di sé immagini e risultati inusitati. Se l'inconscio e il caso sono valori che arricchiscono l'opera e le restituiscono quel carattere di complessità necessaria per racchiudere il senso della realtà, allora egli ha sviluppato una strategia adatta a comprendere dentro il manufatto artistico le istanze incontrollate espresse da quei due valori, attraverso l'assunzione di una disciplina interiore, vicina alla filosofica capacità di introspezione della cultura orientale.
Una costante dell'opera di Klee è la pratica superficialista del linguaggio. Lo spazio non possiede o descrive profondità alcuna, si dà come supporto bidimensionale che non conosce sprofondamenti o inabissamenti. Questi semmai sono il portato di una condizione psicologica e fantastica che precede il lavoro dell'arte, movimenti che assecondano la messa in opera dell'immagine.
Anche il colore entra nel gioco della composizione a incrementare l'intensità di un'opera che nasce anche da una consapevolezza culturale. Klee sa che il linguaggio possiede una sua biologia interna, una sedimentazione di orientamento che permette disposizioni molteplici. Una intensa energia interna sì irradia dall'opera, costruita secondo reticoli filiformi che ne dispongono la potenzialità lungo rotte aperte a molti incroci e collisioni.
Klee è assolutamente cosciente della natura specifica del linguaggio visivo, dei suoi elementi costitutivi che non possono fingere una diversa identità. Semmai il carattere del linguaggio visivo permette di formulare alcune consonanze esistenziali, quali per esempio la capacità di osservazione dell'artista e il suo contemporaneo senso di distacco e non attaccamento alle cose. Così la irriducibile mancanza di profondità del linguaggio visivo, la sua natura superficialista portata all'evidenziamento, è in consonanza con il tipo di rapporto che l'artista ha con le cose, con la sua mancanza di preferenza verso un oggetto più che verso un altro.
La riduzione grafica degli elementi visivi è il segno ulteriore di una scarnificazione dello stato sensibile dell'artista, della sua capacità di portare il suo sguardo fuori dalla fascinazione della materia, fuori dal facile erotismo delle apparenze. Un minuzioso senso di osservazione, da entomologo, assiste il rapporto di contemplazione di Klee con il mondo, fatto di rallentamento analitico e minuzioso e anche di accelerazione sentimentale e palpitante.
L'Annunciazione del Segno avviene dunque silenziosamente e progressivamente, come svelamento lento governato dalla adesione dell'artista al proprio immaginario: egli si abbandona con un movimento ancorato alla perizia paziente della mano e della mente alla automazione psichica, alla pratica creativa dell'immagine. Le trame del profondo trovano una adesione nella trama del linguaggio visivo e l'approdo a un Segno: il lampo dell'Angelus Novus che attraversa il cielo, condensante lo Spazio e il Tempo, per annunciare il labirinto dell'arte, dove la vita e la morte si intrecciano nel movimento della forma.

l'articolo di Repubblica su Niccolò Ammaniti,
citato al lunedì

La Repubblica domenica 23.11.03
Lo scrittore bambino che gioca col bestseller
cinquecentomila copie per "Io non ho paura"
L'odissea contemporanea inventata con Yehoshua
Il romanzo tradotto in ventinove paesi
Il successo rassicura ma può farti male: il tuo mestiere è osservare gli altri, non stare al centro della pista
Ho cominciato a comporre delle storie perché mi sentivo un fallito. Così la scrittura mi ha salvato
di SIMONETTA FIORI


Venezia. Lo scrittore da cinquecentomila copie, che nel mondo viene letto anche in cinese e in russo, passeggia sbilenco lungo il molo di Fondamenta Nove, cappotto di fustagno verde-biliardo e berretto calcato in testa in stile Shining. Da un mese Niccolò Ammaniti vive in un palazzetto veneziano dal fascino un po´ cupo, grandi specchi bruniti a coprire le alte porte ora murate, che aprono a chissà quali mondi misteriosi. «Qui lavoro bene, lontano dalle seduzioni di Roma. Ho bisogno di prendere le distanze dai luoghi e dalle persone che conosco. Mi sveglio presto, guardo un film, gioco con la playstation, leggo. Poi mi metto a scrivere fino al pomeriggio, in un dialogo continuo con i personaggi delle mie storie. Se non fosse per questo sottofondo molesto…». Si alza e dalla finestra indica una scuola elementare dietro il campiello. «Sai, i bambini…». Ma come, proprio lui, il cantore dell´infanzia, l'inventore di fantastici mondi di ragazzini sospesi tra stupore e orrore, l'autore del fortunato "Io non ho paura" (Einaudi Stile Libero), che con le avventure del piccolo Michele Amitrano-Tom Sawyer ha smosso i lettori di ventinove paesi, dalla Finlandia al Brasile, dall´America al Giappone, dalla Turchia a Israele, dalla Thailandia all'Australia, proprio lui detesta le creature che così bene sa raccontare? «In realtà io i bambini li odio», confessa con divertimento. «Se li scelgo come protagonisti delle mie trame è perché attraverso i loro occhi si può scoprire il mondo. E grazie alle loro fantasie si può reinventarlo. È un tema antichissimo, nel romanzo. Mark Twain e Dickens, ed anche Stephen King, l'hanno sperimentato prima di me».
Dei bambini sa penetrare paure, disillusioni, rituali feroci, ma anche l'epica dell'amicizia con le sue regole d'onore, perché lui bambino lo è stato a lungo. E forse, a trentasette anni, un po' lo è ancora. «Per me quella stagione straordinaria, nutrita di invenzioni oniriche, mostri, fantasie macabre, è durata per molto tempo, forse più del dovuto». Una quieta infanzia borghese, in una bella casa del quartiere Trieste, con il papà Massimo celebre psicoanalista e la mamma Fausta architetto, e però popolata di creature notturne e terrifiche, zoombi, giochi sepolcrali, l'ossessione del buio e dell'ultimo respiro, l'idea di dissoluzione così bene incarnata dal "Principe Infelice", il racconto di Oscar Wilde scelto come livre de chevet. «A Carnevale mi piaceva travestirmi da morto. E la sera, nell'ombra che avvolgeva la camera da letto, mi sentivo assalire dai mostri, contro cui avevo la mia arma segreta: immaginavo di imprigionarli nella pancia perché non raggiungessero la testa». Gli stessi esorcismi praticati dal giovane protagonista di Io non ho paura. «Scrivendo si ricordano le cose dell'infanzia. Di quel mio incubo ricorrente non avevo mai parlato con nessuno finché non l'ho riversato nella scrittura. Paure diffuse, che fanno parte del Dna dell'infanzia. Chi non ha mai scambiato il vestito gettato sulla sedia, rischiarato da un raggio di luna, con il profilo arcigno d´una strega? È da quel materiale fantastico che nascono le mie storie, come l'ossessione di Lazzaro che si risveglia e azzanna Gesù sul collo ingiungendogli "lascia stare i morti". Forse il mio libro è piaciuto anche per questo: dei bambini provo a raccontare tremori universali, non molti dissimili dalle fantasie popolari raccolte esemplarmente da Calvino nelle Fiabe».
Tra le sue paure, più personali, c'era quella di non capire bene quale mestiere facesse il padre neuropsichiatra infantile. «Riceveva a casa tanti bambini, che però io e mia sorella Luisa avevamo il divieto di incontrare. Così, una volta, ci nascondemmo dietro una poltrona. E lo vedemmo con alcuni giochi colorati in mano, davanti ai suoi piccoli pazienti assorti. Ne fummo sconvolti: papà faceva il baby-sitter! E non aveva il coraggio di dircelo…». Risolto l'equivoco, la vita non fu più facile. «Dal genitore psicoanalista ti aspetti molto più che da un padre normale. Pensi di essere capito in modo speciale. E invece il mio era un papà come tutti gli altri, amorevolissimo e dunque pieno di paure, di ansie, di attese che temevo di deludere». Dal confronto è difficile scampare: se il padre Massimo studia il cervello dal punto di vista psicoanalitico, il figlio Niccolò si butta sulla neurofisiologia, l'altra faccia della luna. «Ma a quattro esami dalla laurea in Scienze Biologiche ho lasciato: volevo capire le dinamiche cerebrali e sono franato sulla microcellula del cervello d'un topo. Avevo bisogno d'universale, ed ero prigioniero d'un particolare. Mi sentivo un po' fallito, uno zoologo mancato, capivo che non era quella la mia strada, ma non avevo la forza per trovarne un'altra. Mi rifugiavo negli acquari. Una trentina di vasche per casa, microcosmi acquatici che mi divertivo a comporre e scomporre, come nel gioco combinatorio che è poi l'invenzione narrativa. Mio padre mi lasciava fare, eppure io ero a disagio. Avevo ventitré anni, ci si aspettava qualcos'altro da me. Dovevo uscire dall'infanzia, abbandonarne i rituali ludici e gli incanti». Una sofferenza profonda, che è poi quella dell'adolescenza, «il dolore della crescita, l'addio all'innocenza e al gioco: da lì nasceva il mio malessere». La scrittura come salvezza. «È il solo mestiere che ti permetta di continuare a giocare. Ma anche di stare a casa, di annoiarti e di fantasticare. In fondo continuo a fare oggi quel che facevo da bambino, quando d'una trama reinventavo innumerevoli finali, sempre attratto da storie di solitudine e incomprensione».
Il suo è stato definito un talento narrativo puro, capace di costruire macchine fabulatorie perfette. «The new italian word for talent is Ammaniti», ha titolato tempo fa il Times con un'espressione che ora lo "scrittore bambino" liquida saggiamente come "enfatica ed esagerata". Lo lusinga più l'accostamento con Mark Twain proposto da un giornale americano («Sono riuscito a raggiungere un mostro sacro»), come il giudizio favorevole espresso da uno scrittore solitamente esigente quale Aldo Busi («Mi liquida come il figlio viziato e viziosetto della borghesia romana, ma ha il merito di capire fino in fondo il mio lavoro sulla scrittura»). L'avventura cominciò un po´ per caso, nello studio del padre, davanti a uno schermo vuoto, l'imbarazzo di dover dire ai suoi che non si sarebbe mai laureato. «Per scrivere bisogna sentirsi un po' gli ultimi della terra: non si cura il malessere, ma di certo aiuta. Iniziai con un racconto. Piacque. Fui incoraggiato ad andare avanti».
Prima il romanzo Branchie, poi i racconti di "Fango" e l'esplosione mediatica della "gioventù cannibale", tra pulp e colpi di scena nelle zone d'ombra della vita quotidiana. Ancora il romanzo "Ti prendo e ti porto via", che ne conferma il solido artigianato narrativo. Infine l'osanna della critica per "Io non ho paura", da due anni nella classifica del bestseller, mezzo milione di copie vendute solo in Italia, edizioni in tutto il mondo, la felice traduzione cinematografica di Gabriele Salvatores. Un successo - tutto targato Einaudi - dal quale Niccolò sembra prendere le distanze, quasi impaurito. «Ci sono diverse gradazioni, nella fama. Un primo livello ti rassicura: prima avevo la sensazione d'essere un incapace, bruciato da troppe passioni; ora so d'aver scelto il lavoro che potevo fare. Un riconoscimento che ti migliora anche nel carattere, liberandoti da ansie di dimostrazione». Poi però c'è un livello successivo. «E qui le cose si complicano. Cominci a essere un personaggio alla moda. Vai a una cena e vieni riconosciuto da persone importanti, che dimostrano curiosità per te e i tuoi libri. È allora che scatta la regressione: il successo finisce per riportarti indietro, come una zavorra che ti spalma sul passato, impedendoti di guardare al futuro. Un delirio narcisistico che può farti male, perché il tuo mestiere è guardarti intorno, osservare gli altri. Guardare quelli che ballano, non stare tu al centro della pista».
Ora è in partenza per un'isola della Grecia, dove vivrà due mesi in compagnia di Tiziano Scarpa. Innumerevoli i progetti, tra il nuovo romanzo che deve terminare e molto cinema - sempre in sodalizio con Salvatores - «ma non voglio cedere alle facili lusinghe della popolarità». Nell'immediato, tocca a lui scrivere il finale di un curioso libro collettivo, commissionato da un editore greco a un gruppo di scrittori tra i quali Yehoshua e Michael Faber: una sorta di Odissea contemporanea, della quale ciascun autore deve comporre un capitolo, dopo aver letto ciò che lo precede. Ad Ammaniti il privilegio dell'epilogo: «Per la protagonista, una donna in cerca del padre, ho pensato di chiuderla viva sottoterra». Come in "Io non ho paura", riaffiora la fantasia dei buchi neri nei quali imprigionare vivi e morti. Ci pensa un po´ su: «Credi che gli altri s'arrabbieranno?».

Maia Sansa intervistata su Repubblica da Paolo D'Agostini

La Repubblica 25.11.03
L'attrice è protagonista dei due film italiani di maggior successo degli ultimi mesi: "La meglio gioventù" e "Buongiorno, notte"
"Porto sul set le donne forti"
di PAOLO D'AGOSTINI


Maya Sansa, 28 anni, mamma italiana e papà iraniano: figlio di un ambasciatore dello scià, venuto a Roma da studente. Lei ha conosciuto Teheran solo l'estate scorsa. Frequentava una scuola di recitazione a Londra quando nel '99 l'hanno chiamata per "La balia".

Sabato 29 nasce il "Premio Marcello Mastroianni ai nuovi interpreti del cinema italiano" a Fontana Liri dove l'attore è nato. Una cinquina femminile e una maschile. Quattro candidati su dieci vengono dai set di "Buongiorno, notte" o di "La meglio gioventù": Maya e Sonia Bergamasco, Paolo Briguglia e Fabrizio Gifuni.


ROMA - Occasione dell'incontro il festival Sulmonacinema (dedicato alla memoria del critico di Repubblica Alberto Farassino) dove Maya Sansa era alla testa di una giuria di studenti che ha premiato "Guerra" di Pippo Delbono, Piva e Rubini per "Mio cognato", Valentina Cervi per "Passato prossimo" di Maria Sole Tognazzi. Maya è la giovane attrice italiana emergente del momento. Due ruoli quest'anno l'hanno imposta al centro dell´attenzione. Mirella in "La meglio gioventù" di Giordana, e Chiara la brigatista che in "Buongiorno, notte" di Bellocchio allude alla "vivandiera" Anna Laura Braghetti della prigionia di Aldo Moro. Parliamone, partendo da dove vuole lei. «Ne parlo volentieri», dice senza esitazioni. Indizio della consapevolezza che una giovane attrice, oggi, mette in ciò che fa.

«Due lavorazioni molto diverse. "La meglio gioventù" è durato sei mesi. Un lavoro corale, mi rendevo conto di essere in un progetto molto ampio ma anche molto gioioso e rilassante. Nessuna tensione, il set era un appuntamento piacevole. Una bella atmosfera, penso che mi abbia aiutata ad affrontare il personaggio: Mirella è una donna serena. Nella sceneggiatura era un po' vittima della vita e della sua solitudine isolana, poi invece insieme agli autori e con il loro benestare è diventato un personaggio libero».

Lo ha voluto lei così?
«Sì, ma anche Marco Tullio nello scegliere me. Quando rimane delusa da Matteo che la tratta male e l'allontana, inizialmente era previsto che piangesse e gli dicesse "ti amo". Ma in quel contesto di durezza non doveva piangere, non doveva reagire dicendo "perché mi fai questo". Sarebbe stata una vittima, e sarebbe stata patetica. No, invece si mantiene distaccata e dignitosa di fronte a una chiusura così violenta. E penso che la scena sia venuta molto bella così. Anche la scena finale, nata sul set, è riuscitissima: la passeggiata di Mirella con Nicola mentre Matteo (che è morto) compare tra loro come un angelo custode sorridente. Una scelta coraggiosa, venuta in modo così genuino, grazie alla sintonia tra il regista e noi interpreti».

Giordana è un regista che sta a sentire gli attori?
«Sì, anche se questa è una peculiarità più di Marco Bellocchio. Quello che Giordana cerca e vuole lo ottiene grazie al lavoro collettivo ma è anche duro».

Non era facile dominare una struttura così complicata.
«Certo. Anche Bellocchio sa quello che vuole, ne ha una visione chiarissima e profonda, ma sul set è morbido, è aperto a tutti i contributi. Ci mette molto a scegliere gli attori ma una volta scelti la fiducia è assoluta. In questo caso ti permetteva, all'interno di una prigione, di essere molto libero e creativo. Di dire quello che sentivi senza timore di disturbare, sempre benvenuto all'insegna della gentilezza. Naturale che con la stessa galanteria Marco risponde di no alla tua proposta».

Molto bello di Mirella, in "La meglio gioventù", è che pur essendo un personaggio minore nell'economia generale dell'affresco, condiziona lo spirito del film, è determinante.
«E all'inizio non credevo che sarebbe stato così. Marco Tullio è stato molto generoso, mi ha offerto il ruolo, una cosa che mai prima mi era successo senza fare provini. Ma inizialmente non mi ispirava tanto, ed è vero che una cosa piccola è diventata preziosa. Ma anch'io me ne sono accorta dopo, a cose fatte».

Torniamo a Bellocchio. Nessun timore iniziale verso la storia e il personaggio?
«Cercavo di essere rispettosa di qualcosa che era realmente accaduto. Sentendomi anche un po' smarrita. Per Chiara a differenza di Mirella ho affrontato diversi provini prima di ottenere la parte. Mi sono preparata molto, ho studiato e letto, avevo tantissime lacune da colmare. Questo ha accresciuto i timori: dov'è la verità? Che cos'è che vuole raccontare Marco?».

Mica facile mettersi sulla lunghezza d'onda della verità cercata da Bellocchio.
«Ma poi ho potuto capire, leggendo il copione e parlando con lui, che era un'opera di Bellocchio. Trattava un argomento delicato e drammatico, ma già nella scrittura erano chiare le libertà che Marco voleva prendersi così come le responsabilità che si stava prendendo. Gli ex brigatisti che lo hanno giudicato hanno confermato le verità e hanno capito le libertà dell'artista. La mia Chiara è universale, non è solo Braghetti ma anche altri terroristi, è Bellocchio, è Maya, è una donna, una madre, una figlia».

Sa che il film ha sollevato contestazioni. Avrebbe regalato una nobiltà eccessiva al suo personaggio.
«Le ho sentite queste cose. Capisco, liberi tutti di dire quello che vogliono. Non basta però servirsi dell'argomento "io c'ero". Tanti c'erano. C'è chi a tutti i costi si è voluto rapportare al film in modo storico e politico quando il film non lo è. E mi è dispiaciuta la poca capacità di vedere la sua universalità e il suo andare oltre».

Forse è poco interessante che ci si siano riconosciuti alcuni brigatisti. Più importante è il suo contribuire ad aprire una nuova pagina nell'interpretazione del nostro recente passato.
«Anche la contestazione sulla santificazione di Moro è quantomeno ingenua, di persone che non vogliono rendersi conto che Marco tratta solo la prigionia e che in quel periodo i brigatisti stessi non lo vedevano più come Moro uomo politico. Questa è la chiave. Si parla solo di un uomo in una situazione così estrema e drammatica. Dicono sia Braghetti che Faranda che leggere le sue lettere le straziava, erano pochi quelli tra loro che riuscivano ad astrarsi e reprimere ogni emozione».

Le condizioni di lavoro: claustrofobiche, opprimenti?
«Io ci tenevo molto e la gioia di essere presa è stata immensa. Mi avvolgeva costantemente. E mi proteggeva dalla tensione e dalla claustrofobia. Ma tutti erano felici di stare su quel set. Tutti hanno dato un'attenzione e una concentrazione speciali. Poteva scatenarsi un bel po' di malessere, era una situazione tecnicamente difficilissima. Un set baciato dall´ispirazione».

Le piace quello che rappresenta sullo schermo, l'idea di luminosità e serenità che dà?
«Certo che mi piace. E sono grata ai registi che hanno adattato a me i loro personaggi magari concepiti per un'attrice alta, bionda e androgina. Ma la verità è che così sono ne "La balia" e "La meglio gioventù" mentre altrove, da "Nella terra di nessuno" di Gianfranco Giagni a "Benzina" di Monica Stambrini fino a "Buongiorno, notte" e "Il vestito da sposa" di Fiorella Infascelli ancora non uscito, sono piuttosto cupa. Eppure prevale quell'idea di me…».

interpretazioni - assai datate - di Nietzsche,
così pensavano i "francofortesi" e i loro amici

Corriere della Sera 25.11.03
Su «Micromega» un eccezionale inedito del 1950. Horkheimer, Gadamer e Adorno discutono alla radio sul grande filosofo
Nietzsche nichilista? No, fu il precursore di Freud
Cesare Medail


Tre filosofi tedeschi al microfono di radio Francoforte esattamente alla metà del Novecento (31 luglio 1950) a discutere di un altro filosofo tedesco, Friedrich Nietzsche, vero e proprio nervo scoperto del pensiero europeo del Novecento: in primo luogo per l’appropriazione da parte degli ideologi nazisti, ma anche per tutta una serie di malintesi che riguardano il nichilismo, il positivismo, l’effetto delle sue idee di volta in volta interpretate in senso ultra-conservatore o ribellista. Una volta convenuto che Nietzsche sia stato un gigante capace di influenzare tutto il XX secolo, è naturale che i tre filosofi abbiano voluto scacciare i fantasmi in camicia bruna, spiegando che Friedrich si presta a malintesi e travisamenti, anche i più intollerabili; e fanno appello alle risorse delle rispettive scuole, l’Ermeneutica d’ispirazione heideggeriana per Hans Georg Gadamer (1900-2002), la Teoria critica per Max Horkheimer (1903-1969) e Theodor Adorno (1895-1973), i due pilastri dell’Istituto per la ricerca sociale più noto come scuola di Francoforte.
Nel dibattito pubblicato per la prima volta in Italia da Micromega, il trio radiofonico liquida subito chiunque abbia dedotto dalla sua opera (vedi Alfred Baumler nel 1930, a sostegno di un Hitler ormai alle porte) che la «volontà di potenza sia l’unica cosa che valga nel comportamento umano e che essa giustifichi qualsiasi arbitrio o violenza»; e liquida anche chiunque abbia pensato d’imbalsamarlo nel Pantheon della filosofia («proprio lui che rifiutava la tradizione filosofica ufficiale in nome del primato della vita», parole di Adorno). No, protestano i filosofi: gli stessi travisatori onesti non hanno saputo leggere dietro l’uso parodistico che «il suo Zarathustra fa di tutti i valori» (Gadamer), né oltre i giochi linguistici incomprensibili agli americani, sempre bisognosi di dare un nome preciso alle cose, o ai russi che prendono tutto alla lettera (Horkheimer).
Chi non capisce le parodie, dunque, i giochi di parole e soprattutto l’ironia che spesso nasconde l’opposto di quanto sembrano dire le parole (Adorno ricorda la commozione di fronte al cavallo bastonato dal vetturino di Torino, da parte di un filosofo che aveva definito la compassione «l’ultimo peccato»), non capisce Nietzsche oppure ne distorce le idee per fini diversi.
Per esempio, il suo invito a sbarazzarsi dalla morale convenzionale, dalle briglie dell’istinto, non era una legittimazione della violenza (nazismo) né un via libera agli impulsi distruttivi (nichilismo), bensì un’intuizione psicologica: confessando a sé stesso quegli istinti, l’uomo avrebbe perso la propria violenza e al posto dell’uomo incattivito perché non può assecondarli, sarebbe affiorato un uomo né buono né cattivo, che non ha più niente da reprimere e si ritrova libero (Adorno).
Gadamer, da parte sua, fa giustizia del malinteso sul nichilismo: tutti sanno, argomenta, che Nietzsche preconizzò la nascita del nichilismo europeo, ma la profezia non era una legittimazione del futuro, bensì «un modo per prepararsi e riuscire a resistere a qualcosa di apparentemente inevitabile che si approssima». Horkheimer, infine, liquida il malinteso positivista: le «radici aeree» del pensiero nietzchiano e i suoi valori senza fondamento nella società ("una torre nel vuoto") sono stati trasformati dalla scienza tedesca, con Max Weber, in un positivismo radicale per cui la scienza non doveva «più in assoluto prendere posizione sui fini». Equivoco orribile che scontiamo tutt’ora, di fronte alla cecità di una tecnica priva d’umanesimo e consapevolezza.
No, proclamano i filosofi: Nietzsche era illuminista, figlio di quella tradizione. Egli non ha sostenuto l’irrazionalismo per accordare alle potenze dell’inconscio il primato sul pensiero, ma ha sostenuto che «la consapevolezza dovesse liberare l’istinto, così che questo, non avendo bisogno di essere rimosso o negato, di fatto perdesse il suo elemento demoniaco» (Adorno).
Gli fa eco Gadamer, per il quale «è ora di prendere coscienza del ruolo avuto da Nietzsche come psicologo di livello mondiale e per il suo modo di interpretare i fenomeni morali». Non a caso si sentiva affine a Dostoevskij, «perché entrambi cercavano di spiegare le vere motivazioni esistenti dietro gli impulsi dell’agire e dell’errare umani».
Horkheimer lo chiama addirittura «precursore di Freud», in quanto «trascina l’inconscio» in tutte le pagine della sua filosofia scrivendo per esempio in "Al di là del Bene e del Male": «"Io ho fatto questo", dice la memoria; "Io non l’ho fatto", ribatte l’orgoglio irremovibile».
Alla fine, scrive, è la memoria ad arrendersi: ed è questa, in breve, la dottrina dell’inconscio prima di Freud, elaborata da un illuminista che voleva l’uomo consapevole dei propri impulsi distruttivi perché se ne potesse sbarazzare: che cercava, in altre parole, la liberazione.

angeli

La Repubblica 24.11.03
FILOSOFIA
ANATOMIA DEGLI ANGELI LUCE E FORMA SFERICA DI CREATURE SUPERIORI
di FRANCO PRATTICO


Perché limitare la nostra idea di realtà solo a ciò che cade sotto i nostri poveri e incompleti sensi? Non hanno diritto alla realtà anche la fantasia, i sogni, le proiezioni del nostro immaginario? Fu questo il punto di partenza di una singolare figura di filosofo e scienziato tedesco dell´Ottocento, Gustav Theodor Fechner, celebre come fondatore della psicofisica (molto apprezzato da William James e persino da Freud), docente di fisica all´università di Lipsia, autore di ponderosi trattati scientifici, ma anche autore di singolari teorie, che pubblicò sotto uno pseudonimo, come uno sulla vita segreta delle piante e uno ancora più stupefacente sulla Anatomia comparata degli angeli.
Secondo il singolare scienziato tedesco, la fonte dell´essere e di ogni perfezione è la luce, in particolare quella solare. E in linea con molto filosofia e scienza tedesca di quel secolo, per Fechner la Terra, il Sole, i pianeti sono tutte realtà "viventi", anche se su livelli di realtà diversi e strutturati gerarchicamente. Un essere solare non può che essere più perfetto e completo di uno terrestre, perché più vicino alla luce. Ma cosa sono le macchie solari, forse imperfezioni della struttura più perfetta del nostro mondo? No, sono esseri che intercettano al passaggio la luce solare, apparendo quindi al nostro debole sguardo come ombre, macchie. Bisogna dire che Fechner amava anche dare alle sue bizzarre riflessioni qualche pennellata umoristica: se la forma sferica, riflette Fechner, è quella perfetta, queste creature che popolano l´atmosfera solare, quindi un mondo più alto e perfetto del nostro, non possono essere che creature superiori a noi, insomma angeli; e la forma sferica, la forma perfetta, è quella che più gli si addice. Insomma, delle vesciche perfette. Ma come distinguere angeli maschi e angeli femmine? Semplice, dice il filosofo tedesco, «gli angeli si possono concepire come bolle di vapore … alcuni (i maschi) riempite di ossigeno, le femmine di idrogeno». E con un guizzo di ironia osserva: «Si innalzano continuamente al di sopra dell´atmosfera solare, si accoppiano e grazie al processo di combustione dell´idrogeno con l´ossigeno, (esplodendo) generano la luce che proviene dal Sole e che ci illumina, segno delle avvenute loro nozze. La luce solare non è quindi altro - conclude Fechner con un guizzo di ironia - che la fiaccola nuziale degli Angeli