mercoledì 12 gennaio 2005

il figlio di Costanzo
Marco Bellocchio è il mio punto di riferimento»

Il Messaggero 12.1.05
Il regista debutta nei cinema italiani con "Private", il film sul conflitto arabo-palestinese premiato a Locarno
LA LIBERTÀ NON FA PER NOI UOMINI
Saverio Costanzo: non la sappiamo gestire, per questo racconto la prigionia
Di Roberta Bottari
«Marco Bellocchio è il mio punto di riferimento: Buongiorno, notte! Mi ha dato molto coraggio, è lui il regista più giovane che ci sia in Italia, per come ha saputo riscoprirsi»
Israeliani e palestinesi, al cinema, hanno convissuto diverse volte. Spesso amandosi appassionatamente, perché far vincere l'amore travolgente sulla violenza è in effetti più facile che mettere insieme israeliani e palestinesi contro una scelta politica. Ed è invece proprio quello che fa Saverio Costanzo (figlio di Maurizio), che debutta in un lungometraggio con Private, pluri-premiato all'ultimo Festival di Locarno, da venerdì nei cinema specializzati in film d'autore, come l'Eliseo di Milano o l'Eden, il Greenwich e il Mignon di Roma. La pellicola, coprodotta da Rai Cinema, Istituto Luce e Mario Gianani, è stata venduta in 35 Paesi, più di La vita è bella di Benigni.
Dalla cruda descrizione della violenta realtà del conflitto arabo-israeliano, il film si trasforma in un inno contro l'occupazione, ma anche nella speranza di una coesistenza. Complessa, ma possibile, seppure in una regione martoriata dove tutti sono, da posizioni diverse, vittime. Tanto per cominciare, Private è interpretato dal palestinese Mohammad Bakri e dall'israeliano Lior Miller, impegnato in una parte per molto scomoda: quella del durissimo, insensibile Ofer, comandante di una pattuglia, incapace di mostrare il suo lato angosciato e contraddittorio di giovane che ha visto distrutti i sogni.
Il regista racconta nel suo film la storia di un insegnante palestinese (Bakri), assertore della resistenza non violenta. La sua casa, al confine con i territori occupati dall'esercito israeliano, viene espropriata e lui deve scegliere: o andare via con la famiglia o restare a rischio della vita. Tenacemente, l'uomo resta nella sua abitazione e a poco a poco conquista la stima dei figli e addirittura del capitano israeliano abbrutito, Miller, che, dopo essere stato a un passo dall'ucciderlo, lo rispetta.
"Ho scelto - ammette Saverio Costanzo - un tema forte per un debutto, ma mi appartiene profondamente, somiglia a tutto quello che ho fatto fino ad ora, alle mie esperienze con i documentari, per questo l'ho ritenuto un argomento che potevo gestire. Si parla molto dei documentari in questo periodo ma, francamente, non credo si possa trattare di una vera e propria rinascita. Certo, vanno bene Michael Moore e pochi altri, ma mi sembra più una moda che altro.
La verità è che i documentari non hanno ancora trovato spazio nel loro naturale mezzo di divulgazione, che è la tv, non il cinema, nel quale possono sopravvivere solo casi isolati".
A Costanzo piacerebbe continuare con il grande schermo: "Ma - spiega - solo a patto di avere qualcosa da dire, non voglio che diventi un "mestiere". Marco Bellocchio è il mio punto di riferimento: Buongiorno, notte! Mi ha dato molto coraggio, è lui il regista più giovane che ci sia in Italia, per come ha saputo riscoprirsi.
Per quanto mi riguarda, in questo momento sto lavorando alla storia di un giovane che rinuncia a tutte le libertà del mondo per ritrovarle in clausura, rifugiandosi in un istituto di gesuiti. "Lo so, nei miei lavori sembra essere sempre presente il tema della prigionia, anche se in questo caso è volontaria. Accade perché credo che la gestione della libertà sia la cosa che gli uomini sanno fare peggio".

dal martedì
Papa ed embrioni!
nessuno ha il coraggio di sottrarsi all'encomio?

Liberazione 11.1.005
LA SFIDA DELL'EMBRIONE TRA LE QUATTRO PRIORITÀ DI WOJTYLA
Discorso agli ambasciatori. Gli altri temi: la fame (le risorse siano destinate a tutti), la pace e la libertà
Di Fulvio Fania


La prima delle quattro sfide nel mondo è la difesa «dell'embrione umano» come «soggetto identico all'uomo nascituro e all'uomo nato». Giovanni Paolo Il sostiene che «la sfida della vita va concentrandosi in particolare» su aborto, cellule staminali, sperimentazione scientifica, fecondazione assistita e donazione nonché sulle «minacce» alla famiglia, che è «il sacrario della vita» .
Nella Sala Regia un Wojtyla affaticato, in grado di leggere solo poche frasi del suo discorso per i tradizionali auguri di buon anno al corpo diplomatico, ha di fronte a sé un centinaio dei 174 ambasciatori accreditati presso la Santa sede. Quasi il mondo intero, se si pensa che alle Nazioni Unite sono rappresentati 185 paesi. Sicuramente il Papa non si rivolge soltanto all'Italia. Seduto in prima fila c'è lo statunitense James Nicholson: due anni fa dovette prendersi i rimbrotti del Papa per la guerra in Iraq mentre adesso può far valere la restaurazione di Bush in materia di coppie e natalità. D'altra parte, un paragrafo contro l'aborto compariva anche nel pieno dei tentativi vaticani per scongiurare il conflitto. Ciononostante il tono del messaggio papale di quest'anno non può che colpire in modo particolare sulle sponde del Tevere, vista la coincidenza con la riunione della Consulta sul ricorso del governo contro il referendum della legge 40. La Segreteria di stato vaticana guarda sicuramente oltre la nostra Penisola e questo è un tema cruciale perfino per la convergenza tra Chiesa e Islam,come si è verificato in alcune conferenze Onu sulle sorti demografiche del pianeta. Ma è anche vero che ai vertici della diplomazia cattolica, accanto al cardinale Sodano e al posto del franceseTaiiran, è salito recentemente un altro italiano, il piemontese Giovanni Lajolo. Wojtyla è durissimo, il suo appare come un richiamo per i cattolici, soprattutto per i governanti. «La posizione della Chiesa - sottolinea è chiarissima. Nulla pertanto è eticamente ammissibile» in direzione contraria, perciò la scienza deve rinunciare ad usare gli embrioni per la ricerca. Si dedichi piuttosto alle cellule staminali adulte. Il passaggio successivo investe implicitamente soprattutto altri paesi, a cominciare dalla Spagna di Zapatero. C'è una «legislazione - afferma il Papa che intacca la struttura naturale della famiglia, che può essere esclusivamente quella di unione tra uomo e donna». Giovanni Paolo Il giudica tali leggi «dettate da una visione innaturale dell'uomo» e l'aggettivo sembra evocare un "contro-natura" rivolto alle coppie omosessuali. Nella concezione wojtyliana questa "morale naturale" è inseparabile da altri aspetti sui quali egli incontra invece anche grande parte della cultura laica. Si tratta delle altre tre sfide, quelle del pane, della pace e della libertà.

Il Messaggero 11.1.05
IL PAPA: ECCO LE QUATTRO SFIDE DEL 2005
Orazio Petrosillo


La sfida della vita.
L'aspetto più singolare della "sintesi wojtyliana" è la menzione della vita al centro dell'agenda politico-diplomatica mondiale. Qui Wojtyla è profetico e rivoluzionario insieme. Fa compiere al tema della vita un salto epocale: dall'etica, dai confessionali, dai laboratori alle cancellerie, ai summit internazionali. E per «sfida della vita», il Papa intende «l'inizio della vita umana, quando l'uomo è più debole e deve essere più protetto». Dunque la difesa dell'embrione in base alle ragioni della... ragione e della scienza. Non c'è nulla di confessionale in questo, anche se la Chiesa cattolica ne fa una propria battaglia ideale: «l'embrione umano è soggetto identico all'uomo nascituro e all'uomo nato che se ne sviluppa». «Nulla pertanto è eticamente ammissibile che ne violi l'integrità e la dignità», ha dedotto il Papa. Evidenti sono le conseguenze sui temi di aborto, procreazione assistita, impiego delle cellule staminali embrionati, clonazione. E la sfida della vita riguarda anche «il sacrario della vita» (una definizione poetica e oltremodo vincolante), ossia la famiglia da difendere nella sua «struttura naturale» di unione tra un uomo ed una donna fondata sul matrimonio, contro le legislazioni che la «intaccano». Tema politico-diplomatico quant'altri mai, fondamento del benessere dei singoli e delle nazioni. Il Papa si pone di traverso a «leggi dettate da una visione restrittiva ed innaturale dell'uomo».

Predator, e il nome è tutto un programma...
ma non s'era detto che non s'era in guerra?

Reuters
Tue January 11, 2005 4:16 PM GMT
Aviazione italiana prima forza europea con aerei senza pilota


MILANO (Reuters) - L'Aeronautica militare italiana è la prima forza militare europea a disporre di Predator, aerei Uav (uncomanned aerial vehicle) senza pilota, conosciuti anche come "droni".
È quanto ha annunciato in una nota il ministero della Difesa, precisando che gli apparecchi sono entrati in servizio presso il 28° Gruppo Velivoli Teleguidati del 32° Stormo di Amendola e sono operativi già dallo scorso mese di dicembre.
La Difesa, spiega la nota, li ha acquistati dalla statunitense General Atomic Aeronautical Systems per l'attività di sorveglianza e ricognizione.
Il Predator, che dà il nome al programma interforze gestito dall'Aeronautica Militare, è impiegato dal ricostituito 28° Gruppo Velivoli Teleguidati, che prende i simboli e lo stemma dell'omonimo Gruppo, soprannominato "Le Streghe", disciolto alcuni anni fa nell'ambito della ristrutturazione della Forza Armata.
Alla fine di dicembre, con l'entrata in linea, il velivolo a controllo remoto è stato ufficialmente presentato alle alte autorità delle Forze Armate cha hanno assistito ad un volo sulla base aerea di Amendola, in Puglia. L'Aeronautica Militare Italiana, afferma la nota, attribuisce grande importanza alla nuova componente teleguidata, soprattutto per le capacità operative dirette alla sorveglianza del territorio e dei confini nazionali.
Primo importante banco di prova a livello operativo per la nuova componente aerea, da questo mese, l'invio in Iraq dove il contingente italiano è impegnato nell'operazione Antica Babilonia.
"L'attività di monitoraggio della provincia irachena sotto il controllo italiano, che l'arrivo dei Predator potrà sensibilmente potenziare, assume ancora maggiore rilevanza alla luce delle prossime elezioni governative di fine gennaio in Iraq", dice ancora la Difesa. Il programma Predator, partito nel 2001, prevede una componente velivoli, una stazione di controllo a terra, l'assistenza tecnica iniziale ed i corsi di addestramento basico per il personale navigante, gli operatori di sistema ed i tecnici della manutenzione. Nello scorso anno, infatti, personale militare ha preso parte ad un programma di addestramento specifico negli Stati Uniti, ricorda ancora la Difesa, precisando che l'entrata in servizio nel nostro Paese di aeromobili a pilotaggio remoto ha messo in luce l'esigenza di una nuova normativa per l'utilizzo di questo tipo di velivoli.

ancora in aumento le violenze contro i bambini e le donne

Corriere della Sera 12.1.05
Abusi su donne e bambini «Incremento consistente»
Sempre più genitori vengono allontanati dalla famiglia in caso di molestie ai minori


Adescati, violentati, sfruttati. Aumenta il numero delle donne e dei bambini vittime di abusi. Nei primi sei mesi del 2004 le denunce per questo tipo di reati sono arrivate a 2.872 con un incremento del 26 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. «Il consistente incremento - denuncia il procuratore generale - è stato causato anche dal crescente fenomeno dell’immigrazione clandestina, finalizzata soprattutto allo sfruttamento sessuale delle donne (in molti casi minori di età), difficile da contrastare perché gestito da una criminalità organizzata a livello internazionale». Quello dello sfruttamento dei bimbi e dei maltrattamenti da loro subiti è un problema che Favara affronta anche per quel che riguarda l’ambito familiare. «Va segnalato - avverte - il ricorso sempre più frequente da parte dei giudici minorili al provvedimento di allontanamento dalla residenza familiare del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore: si tratta di uno strumento innovativo che consente di risolvere molte situazioni di disagio causate da violenze fisiche e morali, garantendo la permanenza del minore nel suo ambiente di vita in modo da evitare il trauma dell’allontanamento». C’è poi l’emergenza dei figli degli immigrati «che giungono ai servizi sociali in situazioni di notevole deprivazione, di tossicofilia, di disagio psicologico anche grave».
Capitolo a parte quello della pedofilia telematica «che pone seri problemi sotto il profilo dell’individuazione dei responsabili perché l’esistenza di un sito pedofilo su Internet, che per scelta tattica ha una durata temporale molto limitata, richiede che la sua conoscenza e individuazione avvenga in tempi molto brevi rispetto al momento della sua creazione».

sinistra
l'assemblea del 15 gennaio:
ne parla Asor Rosa

Corriere della Sera 12.1.05
L’INTERVISTA
Il professore prepara l’assemblea di sabato: con la Fed non abbiamo nulla a che fare, distante chi vuole un partito riformista moderato
Asor Rosa: più prodiani con me che nella Margherita
«Non chiamateci radicali, siamo la sinistra. Fassino e D’Alema non verranno. Cofferati? Resta un mistero»
di Fabrizio Roncone


ROMA - Il professor Alberto Asor Rosa conta i giorni. «È bello, in politica, potersi rientusiasmare, credere in nuovi scenari»: sta pensando alla grande assemblea che lui stesso ha ispirato, chiamando a raccolta tutta la sinistra radicale e naturalmente non è però facile immaginare cosa davvero accadrà, sabato pomeriggio, alla Fiera di Roma. «Mi dicono che saremo in parecchi...». Sorride. «Naturalmente, mancheranno Fassino e D’Alema». Non li avete invitati?
«Al contrario, e sarei felicissimo se decidessero di venire. Purtroppo, la deriva moderata di un certo centrosinistra, e dei Ds in particolare, è inarrestabile. Per questo state sbagliando tutti».
A fare cosa, professore?
«A scrivere che quella che si riunisce è la sinistra radicale. È solo la sinistra, la grande sinistra italiana, ancora capace di essere coesa e solidale. Che, con il percorso della Fed, ormai non ha più nulla a che fare».
È una sentenza definitiva.
«Sono loro che pensano di fondare un partito riformista moderato...».
Chi c’è, chi resta, invece, in questa grande sinistra che si riunisce a Roma?
«Verrà Bertinotti con tutta Rifondazione, poi ci saranno i Comunisti italiani, i Verdi, Occhetto con i suoi e una miriade di associazioni e gruppi della società civile, dai pacifisti al Laboratorio per la Democrazia di Ginsborg».
Professore, ma voi siete i Girotondi...
«Proprio per niente. I Girotondi sono solo un movimento di vigilanza sulla Costituzione».
Veramente, in una notte d’inverno di due anni fa, Nanni Moretti incoronò Sergio Cofferati come leader della nuova sinistra italiana e...
«E lo so, quello fu un gesto politico puro, clamoroso. Sì: su Cofferati puntammo. Poi s’è tirato indietro. Chissà perché. Resta un mistero».
Così ora avete Romano Prodi.
«E io, su Prodi, la penso come Bertinotti: è il nostro leader, con lui dobbiamo costruire un programma comune».
E l’ipotesi Veltroni?
«Ottima, ma per una stagione successiva. Ripeto: Prodi, oggi, è il nostro punto di equilibrio. Anche se...».
Se?
«Temo che sabato prossimo ci saranno più prodiani alla nostra assemblea che in tutta la Margherita».
Rutelli e Prodi si sono chiariti, però.
«Lo spero. Questi litigi disorientano l’elettorato».
Il vostro, quello che si riunisce sabato, quanto può contare nella Gad?
«Io penso che siamo intorno al 13%. E possiamo crescere: c’è tutta una sinistra che ha voglia di stare a sinistra».
D’Alema ripete sempre che, per battere Berlusconi, occorre abbandonare certi toni, un certo radicalismo...
«D’Alema è l’esempio di un modo di fare politica autoreferenziale e autosufficiente. Quelli come lui pensano che per risolvere i problemi della gente basti scambiarsi quote di potere nel Palazzo».
Professore, cosa pensa di Fassino?
«Penso che è una persona seria. Ma politicamente mi è distante su tutto. Guerra e pace, capitale e lavoro, globalizzazione».
Dica la verità: non è che state facendo un pensierino a un nuovo partito di sinistra?
«No. Penso che a sinistra serva un nuovo contenitore, una "Camera di consultazione", dove tutti quelli che lo desiderano possano riflettere e programmare».
Professore, a che ora è l’assemblea?
«Alle 15».

da Liberazione:
Erika e Omar

Liberazione 12.1.05
OMAR, ERIKA: LA PIETÀ, LA VENDETTA
di Maria Rosa Cutrufelli


Il mito narra che quando Edipo seppe di aver ucciso il padre (seppure involontariamente), si accecò. È forse qualcosa di istintivo: chiudere gli occhi, rifiutarsi di "vedere" l'inconcepibile, di riconoscere il gesto tremendo della propria mano che si leva sul padre o sulla madre. In questo senso, era cieca Erika Di Nardo, l'assassina di Novi Ligure, la ragazza che, dopo aver massacrato a coltellate la madre e il fratellino con la complicità di Mauro Favaro (detto Omar dagli amici), si presentò al processo con un atteggiamento di narcisistica spavalderia che turbò giornalisti e opinione pubblica. Tutti la spiavano, in quei giorni. Tutti aspettavano, con un'ansia morbosa da giustizieri, il momento del crollo. E lei pianse, finalmente. Pianse quando il giudice pronunciò la sentenza del tribunale, sedici anni di carcere: come se soltanto la condanna avesse il potere di riportarla alla realtà, di farle vedere ciò che fino a quel momento nona veva voluto o non era stata in grado di vedere.
Molti, allora, giudicarono troppo mite quella condanna. Miriam Mafai parlò invece di una sentenza "equa" esoprattutto "ragionevole", che non elargiva semplicemente una pena ma dava ai due ragazzi la possibilità di elaborare la colpa e la responsabilità personale. Perché era cieca Erika ma siamo ciechi anche noi, è cieca la società tutta quando, di fronte a fatti cosi tragici ed estremi, decide di farsi guidare esclusivamente da una logica di punizione e annientamento. Come se, sparito il colpevole nella lontananza oscura e "altra" del carcere, sparisse per sempre dal mondo - dal nostro mondo quotidiano - anche la possibilità di quella colpa, del ripetersi di quel gesto in altri luoghi e con altri "attori".
Il caso di Novi Ligure suscitò tanta impressione anche per la sua apparente gratuità. Non c'era un movente chiaro, subito comprensibile. Non c'era di mezzo il denaro, come in altri casi. Non era stato il desiderio d'impadronirsi dei soldi o dei beni dei genitori a scatenare la furia omicida. La volontà di distruzione sembrava scaturire dall'interno stesso dei rapporti familiari, dal cuore tranquillo di una famiglia normale, da piccoli litigi, da divieti banali. E questo era terrorizzante, perché chiamava in causa ciascuno di noi, perché toccava qualcosa di ambiguo e pericoloso. Così alcuni, invece di interrogare le proprie paure, preferirono vedere in Erika e Omar due "alieni", due mostri da rinchiudere e dimenticare. Ma dimenticare è a volte il contrario di comprendere. O di "prevenire", per usare un termine molto di moda.
Oggi, a distanza di quattro anni dall'omicidio, Omar e Erika tornano a dividere l'opinione pubblica. Per Omar infatti si è aperto uno spiraglio: forse potrà lasciare il carcere per fare attività di volontariato. E anche per Erika, dice il suo legale, «si vede un orizzonte diverso». È proprio questo che non piace a una certa opinione pubblica: che ai due giovani si dia una speranza. Ma senza speranza la pena non rischia forse di trasformarsi in un'inutile vendetta? E a che cosa o a chi può giovare tanta intransigenza?
In carcere sia Erika che Omar hanno avviato un percorso di rieducazione: lei si e diplomata ed è ora geometra, lui studia informatica e chiede di potersi "rendere utile". Non so - questo possono saperlo solo gli educatori che li seguono nel difficile cammino intrapreso - se in loro è affiorata la coscienza dell'entità del delitto commesso e se da questa coscienza, o meglio dal peso di questa consapevolezza, potranno mai trovare scampo. So tuttavia che il padre di Erika non è mancato una volta, in tutti questi anni, agli appuntamenti settimanali con la figlia. Va a trovarla in carcere, regolarmente, ogni mercoledì e ogni domenica, come gli consente la legge. Non si tratta, io credo, di "perdono", parola inadeguata inc asi del genere, quanto di compassione, nel senso etimologico del termine: di compartecipazione del dolore. Un particolare tipo di pietà che, se esercitato opporrunamente, forse renderebbe più autentici i rapporti fra le persone e più vivibile il mondo.
Qual è la vera punizione del «primo assassino?», si è chiesto Io scrittore israeliano Yehoshua raccontando, in un suo libro recente, la storia di Caino e Abele. A questa domanda i lettori della Genesi, osserva Yehoshua, rispondono per lo più che Caino, pur non pagando il delitto con la propria vita, visse poi solitario, lontano da ogni consorzio umano, forse in una grotta, sofferente e perseguitato. Ebbene, non è così e la Genesi è chiarissima al proposito. Caino si allontanò dal cospetto di Dio, ma si stabilì in una località non distante dal giardino dell'Eden, nella terra di Nod, dove si sposò, ebbe un figlio e addirittura fondò una città. In cosa consisteva dunque la punizione divina? Proprio nell'allontanamento dal cospetto di Dio, afferma Yehoshua. Dio che ritira la sua misericordia, che condanna al tormento e alla «mancanza di una stabilità interiore», ma che evita la vendetta, poiché essa provocherebbe ulteriori distruzioni, misfatti e tragedie. Anche il mito di Edipo ha due versioni. La prima, la più conosciuta, ci narra l'interminabile serie di sciagure che prende avvio dal parricidio involontario compiuto da Edipo: il suicidio di Giocasta, l'esilio forzato da Tebe, la morte dei figli Eteocle e Polinice l'uno per mano dell'altro, il sacrificio di Antigone... L'altra (riportata da Robert Graves nel suo famosissimo libro sui miti greci) ci racconta invece una storia diversa. Edipo, benché profondamente tormentato dalle Erinni - in parole moderne, dal rimorso -, non si acceca e continua a regnare su Tebe, i suoi figli non si uccidono, Antigone non è costretta al sacrificio di sé...Insomma, sia la narrazione biblica che il mito ci indicano due vie, due possibili itinerari, due "moralità" diverse nel modo di esercitare la giustizia: una che, coltivando la pietà, cerca di riparare il male senza distruggere, l'altra che predilige la vendetta, aggiungendo morte a morte, devastazione a devastazione. Tocca a noi scegliere.

Emanuele Severino
su eutanasia e suicidio

Corriere della Sera 12.1.05
IL SUICIDIO È LIBERO? ALLORA VALGA PER TUTTI
di Emanuele Severino


"Eutanasia": "la bella morte", "la buona morte"; naturale, tranquilla, serena. E' stata la morte di molti. Oggi, però, questa parola indica l'intervento di estranei che consentono a qualcuno di morire evitandogli il più possibile la sofferenza. Diciamo subito: una persona che per qualsiasi motivo decida di propria iniziativa di dare una buona morte ad un'altra persona è un omicida. Da perseguire secondo la legislazione vigente nei Paesi civili.
C'e pero un caso - un "unico" caso - in cui il problema non è di così semplice soluzione. Mi riferisco al caso in cui qualcuno, volendo morire perché la sofferenza grava su di lui in modo insopportabile, non ha però la capacità fisica di darsi la morte. Certo, anche il suicidio è una forma di omicidio. Per alcune configurazioni del pensiero filosofico o per il cristianesimo (ma si possono fare altri esempi) il suicida è colpevole. I motivi, però, per cui lo si considera colpevole possono lasciare perplessi. Quando ad esempio si dice che la vita è un dono di Dio e che solo lui puo toglierla, il pensiero corre al nostro modo di donare, cioè al fatto che, di solito, quando doniamo qualcosa evitiamo invece di riprenclercela. Ma qui vorrei richiamare l'attenzione su una questione più accessibile.
Un tempo, in molte legislazioni europee il suicidio era considerato un reato. Se chi agiva per sopprimersi falliva nel suo intento, cioè sopravviveva, egli era perseguibile penalmente. Oggi non più. Per molte forme di cultura il suicidio rimane una colpa morale, che merita di sanzioni ultraterrene ma non più - qualora non riesca nel suo intento - sanzioni terrene. Anche per la normativa italiana il suicida mancato non è giuridicamente colpevole.
Ed è a questo punto che la nostra legislazione e quelle similari mostrano una palese contraddizione in se stesse. Trattano cioè diversamente chi dovrebbe essere invece trattato nello stesso modo perché la legge è uguale per tutti. Trattano cioè diversamente chi, avendone la capacità fisica, può darsi la morte, e chi invece non ha la capacità fisica di farlo ma lo desidera intensamente. Trattano diversamente coloro che sono uguali di fronte alla legge, perché proibendo l'eutanasia, toglie la libertà di darsi la morte soltanto a quelli che sono incapaci di morire da soli. Se la legge vuol essere coerente deve dunque o ripristinare la perseguibilità giuridica del suicidio, e quindi punire chi aiuta il suicida a darsi la morte, oppure deve riconoscere a tutti la libertà di darsi la morte quando per essi la vita sia diventata insopportabile, e quindi non deve punire chi aiuta il suicida (e deve tuttavia anche rispettare la coscienza di chi non intenda prestare un aiuto siffatto). Per quanto mi riguarda può essere opportuno sottolineare che non sto esprimendo qui (nemmeno qui!) una qualche mia opinione intorno alla liceità dell'eutanasia, ma ho rilevato una contraddizione che, rispetto all'eutanasia, è presente in una normativa come la nostra. Non solo, ma quanto ho rilevato lascia aperto il problema di come si possa essere sicuri che, per chi mostra di avere la vita "in gran dispitto", la vita, per lui, sia davvero tale.

una intervista a Peter Handke:
Le immagini perdute

una segnalazione di Paolo Izzo

Repubblica 8.1.05

Intervista
PETER HANDKE
Nel suo nuovo romanzo lo scrittore austriaco ci parla della perdita dell'immagine, che è, o dovrebbe essere, una fonte di ispirazione. Ma che cosa accade nel momento in cui essa ci abbandona e ci lascia senza creatività?
CHAVILLE
VANNA VANNUCCINI


Bisogna vederli per crederci, i manoscritti di Peter Handke. Pagine e pagine riempite rigorosamente a matita, una riga dopo l'altra, righe perfette, ben allineate, senza ripensamenti, solo raramente una aggiunta, minutamente annotata sul margine di sinistra della pagina. Sembrano esercizi di calligrafia, di quell´arte della bella scrittura che nel mondo islamico è considerata l'espressione artistica più pura, la rappresentazione della parola di Dio. La leggenda vuole che la mano dei grandi maestri calligrafi fosse guidata direttamente dai discendenti del Profeta, e non mi stupirebbe se anche Peter Handke credesse in cuor suo che a muovere la sua matita ci sia qualche forza divina. La scrittura è per Handke un controveleno, un antidoto al vuoto di esperienza del nostro mondo civilizzato e occidentalizzato. Nel romanzo appena tradotto da Garzanti Le immagini perdute lo scrittore austriaco parla a un certo punto di un gruppo di persone che cercano di sfuggire al tempo "contato" del nostro sistema quantitativo e capitalistico, per andare alla ricerca del tempo "raccontato", autentico, riempito di vita.
Handke notoriamente non ha in simpatia i giornalisti. Ha scritto molte invettive contro di loro. Soprattutto da quando i giornali avevano aspramente criticato l'abbaglio che prese nella Jugoslavia in guerra, quando si schierò inopinatamente a fianco del nazionalismo serbo. Gli attribuirono giudizi politici che in realtà un impolitico come Handke non ha mai avuto. Per lui, per una serie di coincidenze - la familiarità col serbo-croato, la madre slovena, morta suicida quando era giovanissimo e per la quale aveva scritto Infelicità senza desideri - la Serbia si era trasformata in paese di sogno, in terra d'origine della poesia. «Il paesaggio jugoslavo - scrive ne La Ripetizione - gli apparve nella sua "letteralità" come scrittura, come terra descrivibile, alla quale si poteva dire "La mia patria!", e questa apparizione era allo stesso tempo l'unica manifestazione di Dio che avesse avuto in tanti anni».
Ormai è passato un po' di tempo e forse si è ricreduto. In ogni caso si è riconciliato con i giornalisti. Mi accoglie con molta cortesia, una bottiglia di vino del Palatinato sul tavolo e tanti funghi, castagne e patate, da lui stesso raccolti, nel bosco dietro casa o nell'orto, con cui ha preparato un'ottima colazione. Vive a Chaville dal '92, nella banlieue parigina, dopo aver lasciato Salisburgo e aver vagato per tre anni per il mondo senza avere nessun luogo da chiamare casa.
Le immagini perdute è la storia di una donna senza età che si lascia alle spalle il grosso impero finanziario di cui è a capo in una città dell'Europa nordoccidentale per volare a Valladolid. Di qui s'incammina da sola attraverso la Sierra de Gredos, la montagna che separa la Castiglia dalla Mancha. Nei suoi libri c'è spesso questa dimensione del viaggio. Uno strumento per scoprire noi stessi?
«Il viaggio è un modo di misurare la nostra capacità di percepire, di capire quanto sappiamo ancora ascoltare. Questo libro è anche una storia di drammatica gratitudine: per il fatto di esistere, di esserci ancora. Dopo che lasciai Salisburgo, quando la mia prima figlia andò a Vienna a fare l'università, sono sempre andato, da una parte o dall'altra. Per tre anni non ho avuto una casa. Ma chi va sempre, non arriva da nessuna parte».
Anche la protagonista del romanzo ad un certo punto si ferma. Non ha più immagini. Perdita dell'immagine, è il titolo tedesco del libro. Che cosa provoca questa perdita? I media che d'immagini ci sommergono? La modernità?
«Quasi vent'anni fa cominciai ad accorgermi che le immagini, quelle che non devi cercare di evocare me ti arrivano da sole alla fantasia, non erano più così vive come un tempo. Non avevano più il valore di un tempo. Forse si trattava di una mia crisi personale, forse era il primo segnale d'inizio della vecchiaia. Da un problema che probabilmente era personale sono passato poi a riflettere sul significato delle immagini nella vita di oggi. Così ho voluto scrivere la storia di questa donna che perde le immagini come nel medioevo si perdeva il Gral. Oggi c'è una perdita di orizzonte, una perdita di ascolto. Una perdita del mondo, si può dire. Per me il mondo è luce».
Nel romanzo ci sono molti personaggi, molti incontri, molte storie parallele.
«È scritto con molta libertà, come facevano gli scrittori epici, che si permettevano tutto. Se la loro Boemia era sul mare, alla fine della mia foresta può esserci New York. La letteratura medievale è stata per me una rivelazione. I romanzi epici. Josef von Eichendorff, Gottfried Keller, Adalbert Stifter. Raccontano storie d'amore di un tempo in cui all'amore si credeva davvero. Uno partiva per guadagnarsi l'amore, ed era lo stesso che guadagnarsi il mondo».
La protagonista del romanzo parte per raggiungere la Mancha, dove deve incontrare un autore al quale ha affidato l'incarico di scrivere un libro su di lei, di raccontare la sua storia. La scrittura ha per sempre una funzione salvifica nei suoi libri. Che cosa significa scrivere per Peter Handke?
«La sola letteratura che mi interessa davvero è quella utopistica: la ricerca di quello che il mondo può essere. Oggi invece tutti vorrebbero che uno scrivesse come Philip Roth, nel senso di avere una costruzione, a good story, tutto bell'e pronto. Per me però quella è letteratura di seconda categoria. Io sono uno che cerca. Del resto cercavano anche gli americani, al tempo di William Faulkner, di Thomas Wolfe, da non sbagliarsi con Tom Wolfe per carità. Io ho una trama ma preferisco nasconderla, fare lunghe deviazioni, prendere vie traverse, vagare attraverso paesaggi epici come un fiume meandrico. Certo uno deve stare attento a non cadere nella trappola della lingua. Il tedesco è magnetico. C'è sempre il rischio di scivolare nel formalismo, o, peggio ancora, nell'autocompiacimento, nella mistica. La lingua bisogna amarla e combatterla insieme, è un passaggio continuo tra Scilla e Cariddi, questa è la cosa affascinante. Il mio traduttore americano, un uomo straordinario che purtroppo è morto una decina d'anni fa, mi diceva, a proposito di qualche mia frase meandrica: Peter, l'ho dovuta raddrizzare, devi capirmi. E io ho sempre letto con gran piacere il suo inglese, che risultava fedele anche se rimetteva diritte le frasi attorcigliate. Quello che mi spinge a scrivere è solo una Sehnsucht, un desiderio pungente, doloroso, nostalgico. Di lì mi vengono le immagini, il ritmo; non sono Bob Dylan ma c'è melodia nella mia scrittura. Penso a certi cantanti che non hanno un testo ma senti che hanno qualcosa da dire. Non m riconosco altro talento se non questa Sehnsucht, questo desiderio struggente. Qualche volta inseguo il più piccolo sogno. Forse dipende dallo scrivere con la matita. Credo però che ormai il mio periodo epico sia finito. Scriverò racconti, certo, ma non più romanzi epici. E mentre lo dico, sento però di nuovo un desiderio. È la cosa più bella, stare così, fermi, lasciare che la storia venga da sola. Come diceva Teresa d'Avila: lasciare, sempre lasciare. Solo chi si lascia andare, senza voler sapere, senza opinioni, senza riflessione, ha una chance che la vita gli dia il dono della percezione».
Non nega allora di essere un mistico...
«In fondo sì, lei ha ragione, lo sono. Ma ci sono i mistici che per avere le visioni si contraggono, e quelli che si aprono, si distendono».
Sorride, allunga le gambe sotto il tavolo, appoggia la testa allo schienale della poltrona e allarga le braccia.

libri:
La fecondazione proibita

una segnalazione di Stefano Traiola

http://www.feltrinelli.it
Fecondazione assistita tra proibizione e ignoranza. Intervista a Chiara Valentini
di Francesco Mannoni, tratta da “L’Unione Sarda”, 8 gennaio 2005


Mentre a livello politico infuriano le polemiche per la decisione del Governo di costituirsi in giudizio davanti alla Corte Costituzionale contro i referendum sulla fecondazione assistita, la legge 40/2004 di cui tanto si parla e che pochissimo si conosce, ne discutiamo con la giornalista Chiara Valentini che ha scritto un saggio illuminante, La fecondazione proibita con prefazione di Stefano Rodotà.
"Mi sono accorta man mano che andava avanti la discussione sulla legge e si aggravavano gli scontri fra le diverse parti in causa, che sapevamo poco di fecondazione assistita. La prima bambina in provetta è nata nel '78, oggi ha 26 anni, e in Italia ci siamo trovati a parlare di fecondazione assistita come se fossero esperimenti da fantascienza. Invece si tratta di una realtà molto concreta: ce ne sono già un milione e mezzo circa al mondo, cinqantamila solo in Italia -ma qualcuno dice di più -, e i bambini in provetta continuano a nascere nonostante la posizione negativa della Chiesa. Addirittura paesi cattolici quanto e più dell'Italia come la Spagna, praticano ampiamente la fecondazione assistita in varie forme e tali nascite hanno una cornice di regole indispensabile".
Cosa vieta la legge spagnola?
Vieta l' uso dell'utero in affitto, cosa che io trovo ragionevole per via dei problemi di scambio di persona troppo difficili da risolvere.
Che cos'è la diagnosi pre-impianto?
La diagnosi pre-impianto, la possibilità di evitare le malattie genetiche e che nascano dei bambini con una vita di sofferenze, è una selezione praticata ampiamente in Europa. In Italia questa prassi era agli inizi, c'erano pochi che la facevano, e in un Paese che ha il grandissimo problema dell'anemia Mediterranea, la diagnosi pre-impianto è assolutamente necessaria. Uno di questi centri, forse il più importante è in Sardegna, ma ce n'è uno anche in Sicilia e nelle Puglie, regioni dove è più presente questo genere di malattia.
Come avviene l'esame per scoprire l'anemia mediterranea?
Il controllo dell' anemia mediterranea è uno dei principati obiettivi della diagnosi pre-impianto e avviene sottoponendo gli embrioni che si sono formati dall'incontro dei gameti della coppia, ad uno speciale esame fatto con macchinari molto sofisticati che sono in grado di vedere se ci sono embrioni che hanno cellule alterate. Su un numero abbastanza alto d'embrioni, cosa che era possibile fare prima di questa legge che li limita solo a tre - e per una selezione pre-impianto è un numero molto basso -, si sceglie l'embrione sano, s'impianta e la donna conduce tranquillamente la sua gravidanza. Finché non c'era questa possibilità la donna era costretta a fare l'anmiocentesi dopo alcuni mesi e molte quando sapevano che il feto era malato. sceglievano di non portare avanti la gravidanza, perché in zone come la Sardegna e la Sicilia dove è molto alta la conoscenza di questa malattia, si sa bene cosa vuol dire una vita passata fra le trasfusioni.
Mi sembra un controsenso...
Lo è, anche perché questi controlli avevano tolto molte donne da un incubo in cui adesso sono ricadute. Una delle immagini che più mi hanno colpito è stata la vista dei macchinari all'ospedale microcitemico di Cagliari, avvolti nella plastica e messi in un magazzino. Pensando che cosa significa in termini di sofferenza e di vite umane l'aver tolto dall'attività queste macchine, ho provato una grande sofferenza.
Perché, secondo lei, anche solo parlare di fecondazione assistita, oggi fa paura a tanta gente?
Quando parliamo di fcondazione assistita impressiona che ci si dedichi con tanta passione allo scontro ideologico, allo scontro di principi, e non si tenga conto che parliamo di persone in carne e ossa, d'esseri umani con grandi carichi di sofferenza e d'aspettative. Nell'introduzione Stefano Rodotà scrive che "La verità è che il Far West procreativo non è nato per volontà di chi ha sempre sostenuto la necessità di affrontare la questione con una normativa leggera. È figlio di un proibizionismo ideologico e miope che, nel momento in cui le tecniche di procreazione assistita cominciavano a diffondersi in Italia, indusse un Ministro della Sanità, Costante Degan, a pubblicare una circolare con la quale si vietava alle strutture sanitarie pubbliche di praticare l'inseminazione con seme da donatore.
Cosa si voleva ottenere?
Si voleva allineare la normativa italiana non alla esigenza delle donne, ma alle indicazioni espresse dalla Chiesa Cattolica, contraria a questo tipo di intervento. Va ricordato che la religione cattolica e quella ortodossa, hanno le posizioni più severe e più negative sulla nascita in vitro; altre religioni, dall'ebraica alla musulmana, per non parlare delle religioni protestanti, hanno posizioni diverse e molto più aperte.
Perché l'atteggiamento negativo della Chiesa?
Probabilmente per l'eccessiva ideologizzazione di una posizione, e soprattutto per il desiderio molto forte, sopportato da molte azioni perché questa loro posizione fosse una legge. Possiamo cercare tutte le mediazioni che vogliamo, ma nessuno potrà convincermi della sacralità dell'embrione fin dal primo istante. D'altra parte, leggendo San Tommaso. mi sembra che non avesse assolutamente questa posizione. È solo negli ultimi due secoli che la Chiesa cattolica ha sacralizzato l'embrione.
Cosa prevede nel prossimo futuro?
La provetta costituisce, piaccia o no, un nuovo modo di nascere che è entrato a far parte della nostra contemporaneità, e dobbiamo regolarlo per evitare gli abusi che ho raccontato nel libro e garantire protezioni alla madre e al bambino che deve nascere; ma non possiamo in nome della sacralità dell'embrione, questo è il punto della legge, rendere quasi impraticabile una tecnica medica che invece ha ampia cittadinanza nella maggior parte dei paesi, sia pure con gradi diversi di accettazione, con steccati più o meno marcati in nome di principi etici che sono anelli di un'etica laica, perché non esiste solo l'etica cattolica. Quello che molti di noi giudica non accettabile, che spiega probabilmente la raccolta di quel milione e mezzo di firme fatta in poche settimane, se non in pochi giorni, è proprio il fatto che imposta una posizione etica non condivisa. Essere privati della possibilità di ricorrere alla provetta, è difficile da mandare giù, e la gente non si arrende. Recentemente sono stata in Spagna per fare un servizio per il mio giornale e ho visto con i miei occhi il fenomeno del turismo procreativo. Tante coppie, che grazie a questa legge così ideologica hanno perso ogni speranza in Italia di avere un figlio, vanno in un altro paese a fare la fecondazione assistita.
E questo cosa comporta?
Vietata alle strutture pubbliche l'attività di procreazione con seme di donatore è stata consegnata a un mercato nel quale avrebbero prevalso logiche di profitto, talora assai spregiudicate. A Barcellona ho incontrato una coppia che aveva impiegato tutti i suoi risparmi nel tentativo di avere un bambino. Questa mi sembra una grande ingiustizia, una discriminazione delle persone che ci siamo trovati improvvisamente di fronte, in quella che è, secondo l'analisi dei giuristi, l'unica legge ideologica che sia mai stata votata e approvata in Italia.
Lei è favorevole al referendum?
Non sono una patita dei referendum, non ritengo che siano uno strumento salvifico: penso che sarebbe meglio non arrivarci, riuscire a modificare questa legge radicalmente attraverso le vie parlamentari. Guardo con interesse ai tentativi che sono stati fatti, e non per niente, la legge non era ancora stata approvata, che già cominciavano le proposte per modificarla, a testimonianza del disagio che ha portoto con sé. Ma sono scettica sul fatto che si riesca a fare queste modifiche perché la maggioranza è sempre la stessa".
In un eventuale referendum, potrebbero ripetersi le battaglie di religione che si sono verificate in passato per il divorzio e l'aborto?
Non vedo all'orizzonte nessulla guerra di religione. Ho memoria degli altri due referendum, che hanno lasciato una società più libera, più consapevole, dove le donne hanno avuto spazi maggiori. Una discussione che per forza di cose accompagnerebbe questo referendum, consentirebbe al Paese di capire meglio qual è la posta in gioco. Sono stati esasperati i casi limite, le mamme nonne, gli uteri in affitto, mentre si è parlato poco delle persone: oggi l'infertilità riguarda il 25% delle coppie.

sinistra
Bertinotti e Prodi verso le primarie

Repubblica 12.1.05
L'INTERVISTA
Il presidente dell'assemblea della Margherita annuncia un faccia a faccia tra Prodi e il leader del Prc

"E nel 2006 Romano correrà da solo, non serve il ticket"
la diritta via Il 20 dicembre avevamo preso atto che non ci sarebbe stata la lista unitaria alle regionali. L'albero non dava più frutti. La diritta via era smarrita. Dietro le belle parole, tutti videro le divergenze primarie e unità Le primarie nella nostra coalizione avranno forte carattere programmatico. Chi perde cederà il passo alle priorità dell'altro. E chi vince porterà avanti le istanze del rivale battuto: come negli Stati Uniti
ROMA -
[...]
Eccoci alle primarie. Mi sta dicendo che serviranno a legittimare Prodi. Ma ha senso una competizione tra due candidati se già si conosce il risultato finale?
«Le primarie servono ad allargare la partecipazione dei cittadini. A rendere trasparenti le scelte e dare forza alle decisioni della politica. Perciò dovranno avere un forte carattere programmatico, legato alle proposte delle persone in lizza. È facile immaginare che Prodi, Bertinotti per limitarci alle candidature finora annunciate saranno portatori di priorità diverse».
Assisteremo a faccia a faccia pubblici tra i candidati?
«Mi sembra inevitabile. Si confronteranno davanti ai nostri elettori. Poi ci saranno le urne».
E Bertinotti accetterà passivamente la sconfitta?
«Innanzitutto saranno gli elettori a decidere della vittoria e poi perché parlare di sconfitta? Chi perde nelle primarie cede il passo alle priorità dell'altro. E in nome di una idea condivisa del paese e del bipolarismo resta coerentemente nell'alleanza. E aggiungo che come accade negli Stati Uniti chi vince deve tener conto delle istanze portate avanti dai concorrenti. E qui rientra in gioco la politica vera, la capacità di indicare la strada ma allo stesso tempo di fare sintesi. Un lavoro complesso che finisce con la definizione del programma di tutta la coalizione su cui chiederemo il mandato di governare».
Negli Stati Uniti il vincitore sceglie anche il suo vice tra gli sconfitti alle primarie. Prodi farà anche questa volta il ticket?
«Gli Stati Uniti e l'esperienza del '96 sono contesti diversi. Negli Usa c'è un sistema presidenziale profondamente differente. E in Italia, nel '96, la coalizione era segnata ancora da una logica partitica. Vogliamo fare ora un passo avanti: la coalizione riconosce come fondamento della sua unità il programma segnato dalle priorità che gli elettori indicheranno come qualificanti. Se un ticket deve esserci, sarà quello tra il candidato prescelto e il programma della coalizione. Leader unitario e programma unitario».
[...]

«Torna Juliette Gréco, eterna musa dell'esistenzialismo»

La Stampa 12 Gennaio 2005
LA MUSA ESISTENZIALISTA, 80 ANNI PORTATI CON GRANDE CHIC, DÀ IL VIA DA STASERA AL 16 A UN BREVE TOUR ITALIANO
Juliette Gréco, voce dell’eterna ribellione
Un modo di cantare antico, diretto e senza fronzoli
Marinella Venegoni


CASTIGLIONE DELLE STIVIERE - Figure che hanno popolato l'immaginario collettivo sfumano, poi riappaiono all'improvviso. E stordisce ancor più la differenza fra passato e presente nella musica popolare. Torna Juliette Gréco, eterna musa dell'esistenzialismo, con un breve tour che parte stasera da Castiglione delle Stiviere. Ricompare ed è subito profumo di metà Anni Quaranta, con la Francia non ancora scalzata dall'America come modello di arte e di vita. Pressi di Saint-Germains-des-Prés, dentro il Tabou, piccolo locale dove si riunivano Sartre e Simone de Beauvoir, Camus, Queneau, Vadim, Boris Vian, a discutere e ad ascoltare canzoni e jazz. Intelligenze diverse si mescolavano nell'ansia di elaborare fino in fondo le terribili esperienze della guerra, e sviscerare quel senso di crisi che mette in discussione ogni valore consolidato. Ribellione, inquietudine, rifiuto delle mediazioni, trovavavano sbocco anche nella musica, con una grande stagione della canzone colta grazie al contributo di letterati e filosofi (è accaduto sempre più di rado, in questi anni si sono registrati, a parte il caso Sgalambro-Battiato, alcuni tentativi fra il velleitario e l'ardimentoso: Baricco e gli Air, Gianmaria Testa con Erri De Luca, ma in verità è successo pochino).
Juliette nel 2006 compirà 80 anni di tranquilla ribellione esistenziale. La sua immagine ancora le rende grazia: la solita pettinatura liscia bruna appena ravvivata da qualche mèche, gli stessi occhi magnetici e maliziosi, sottolineati dalla matita nera. Il volto non sembra alterato dalla chirugia; una donna chic sa sempre come invecchiare, e lei nel correre dei decenni è rimasta veramente se stessa.
E' tetragona, intanto, nei ricordi. Spesso racconta l'episodio che ha segnato la sua vita: la madre attivista partigiana che nascondeva ricercati fu imprigionata dalla Gestapo e portata via nel '43, lei rimase sola e povera nell'immensità di Parigi, prigioniera della povertà, dei suoi pantaloni e della maglietta nera che poi diventerà una divisa. A vent'anni, promettente e non compiacente interprete, danzatrice all'Opéra, viene guardata con sospetto, come un'immagine vivente della gioventù traviata; in realtà è un'incarnazione inconsapevole della donna nuova, raccontata nel «Secondo sesso» della de Beauvoir.
Canta di sesso, e di sesso e amori racconta ancora oggi. Se glielo chiedono, lei non si tira indietro: «Miles Davis è tra i miei amori più belli, ci siamo amati subito, come dei bambini. Credo che fosse nel '49». E racconta altrettanto volentieri che lei no, non ha mai amato Ives Montand, sciupafemmine che faceva morire di gelosia Simone Signoret; l'attrice affrontò Juliette, le disse chiaramente di togliergli gli occhi di dosso; e lei: «Mi dispiace, ma tuo marito non mi piace proprio per niente». Parla anche di colleghe: «La Piaf è stata la più grande in assoluto come interprete. Come donna, era cattiva con le altre donne: appena qualcuna aveva un piccolo nome, giurava di volerla prendere sotto le sue ali ma in realtà l'annientava». Molte di queste storie sono scritte nella sua autobiografia, «Jujube», pubblicata nel lontano 1982.
Sarà antica, Juliette, ma patetica proprio no; ammesso poi che si possa definire antico quel suo modo di cantare così estremista, diretto e senza fronzoli. Acuti mai per carità (andatelo a dire alle ragazze del new soul, o anche solo a una delle sanremesi che ci frantumano ogni anno i timpani). Dolcezza e intensità sì, invece. Ma anche distacco e ironia: un marchio consolidato riemergerà stasera nel concerto di debutto del breve tour italiano, con le canzoni di sempre. Accompagnata da un quartetto, Gréco canterà Ferré, Carriére, «La Javanaise» di Gainsbourg, Brél, Prévert, Kosma. E annuncerà gli autori prima di ogni brano. Questo è il suo stile, l'omaggio a chi ha scritto canzoni degne di esser cantate. (Di recente, Juliette è riemersa anche su un cd Rai, della serie «Via Asiago», che riproduce un suo concerto degli Anni Cinquanta).
Le date del tour: Stasera Castiglione delle Stiviere (Mantova), 14 Catanzaro, 15 Catania, 16 Roma.

il tradizionale (tragico ed impotente...) "basaglismo" del manifesto

Il manifesto 11 gennaio 2004
Psichiatria democratica incontra Seattle
Il rapporto con il «movimento dei movimenti» in un volume uscito in occasione dei trent'anni dell'associazione
ANNA SIMONE


Sono passati trent'anni dalla nascita di Psichiatria Democratica e della sua storica rivista «Fogli di informazione» e venticinque anni dalla legge 180. I manicomi non esistono più o forse hanno solo cambiato nome, ma per i «basagliani» resta alto il livello di guardia sull'esclusione sociale e sui diritti negati, resta alta la tensione verso il presente dei Centri di permanenza temporanea per migranti, verso la legge Burani-Procaccini sulla psichiatria e il suo impianto repressivo. Questa tensione, unita a una straordinaria esperienza di teoria della pratica e di pratica della teoria, emerge ora in un volume speciale dei «Fogli di informazione» dal titolo Psichiatria democratica trent'anni (a cura di Paolo Tranchina e Maria Pia Teodori, Centro di documentazione Pistoia, pp. 286, 20; è possibile richiedere il volume direttamente al Centro via mail: giorlima@tin.it). Suddiviso in sezioni e chiuso da una ricchissima bibliografia ragionata per temi, il volume costituisce, da una parte, una sorta di archivio di lotte e di saperi di lotte e, dall'altra, una proiezione verso il presente e il futuro del mondo globale in cui Psichiatria Democratica incontra i saperi del movimento nato a Seattle. Gli interventi, fra gli altri, di Mariella Genchi, Filippo Cantalice, Christian De Vito e Roberto Mezzina, sottolineano infatti, sia pure con sfumature diverse, la tensione positiva verso il «movimento dei movimenti» e verso uno «stile» politico orientato nella direzione dell'apertura permanente alle contraddizioni del presente. Se Genchi e Cantalice affrontano da un lato le pratiche adottabili per contrastare il progetto neoliberale e controriformista globale e dall'altro l'incontro avvenuto con il gruppo no-Cpt dei Social forum (oltre che con gruppi di donne che lavorano da anni contro la tratta e lo sfruttamento delle prostitute straniere), De Vito coglie il nesso tra tutte le istituzioni totali dell'oggi, avendo come prospettiva di riferimento la modalità di lotta del «movimento dei movimenti», mentre Mezzina compie un'analisi del circolo vizioso che si crea tra povertà (deprivazione economica, bassa istruzione, disoccupazione), disturbi mentali e impatto economico (spese sanitarie aumentate, perdita del lavoro, produttività ridotta) a partire dall'attività della Rete Internazionale delle esperienze-guida in salute mentale comunitaria.
Il volume si interroga anche sulla propria storia indiscutibilmente legata al pensiero e alla pratica di Basaglia, a volte guardando al passato, a volte spostandosi verso un'attualizzazione di esso. Gli articoli, fra gli altri, di Slavich, Stock, Serrano e Canosa tracciano un filo diretto tra il primo documento programmatico di Psichiatria Democratica dell'8 ottobre 1973 e i problemi sociali del presente senza mai dimenticare un imperativo categorico: non si può lavorare solo sulle soggettività «malate» se non si analizza e si critica a priori il contesto socio-politico che induce a divenire folli, clandestini, prostitute. E infatti i punti chiave del documento del '73 non vengono traditi dopo trent'anni: continuare la lotta all'esclusione, analizzandone e denunciandone le matrici negli aspetti strutturali (rapporti sociali di produzione) e sovrastrutturali (norme e valori) della nostra società; continuare la lotta al «manicomio»; sottolineare i pericoli del riprodursi dei meccanismi istituzionali escludenti, anche nelle strutture psichiatriche extra-manicomiali di qualunque tipo esse siano. Quest'ultimo passaggio ci introduce verso un'altra tonalità presente nel volume, più complessa perché spostata verso la portata teorica dei trent'anni di Psichiatria Democratica, ma attraverso la quale è possibile toccare i concetti chiave di questo «stile» politico felicemente contraddittorio. L'essere riusciti a chiudere i manicomi non ha evitato il processo di «psichiatrizzazione della società» attraverso tutte le pratiche di controllo messe in atto dalle politiche sicuritarie del presente, ma ha rappresentato una conquista «rivoluzionaria» adottando gli strumenti etici del riformismo radicale. Tale contraddizione di termini tra riformismo e rivoluzione si esplicita nel carteggio, presente nel volume, tra Di Vittorio e Colucci, autori, tra l'altro, della prima monografia su Basaglia edita in Italia. Di Vittorio scrive: «Si può percorrere la strada del riformismo, cioè dell'allargamento progressivo della sfera dei diritti (...) oppure si può percorrere la strada della trasformazione radicale dell'esistente». Basaglia ha adottato la strada del riformismo, tuttavia «al di fuori di un discorso dell'emancipazione, riformistica o antagonistica, non c'è nulla se non l'abisso, la notte del dominio, dello sfruttamento, dell'oppressione, ossia di tutto ciò che continua a opporsi alla liberazione dell'uomo». D'altronde la pratica della de-istituzionalizzazione del sistema manicomiale, così come dimostra l'articolo di Venturini, cosa ha rappresentato se non una piccola rivoluzione «riformista» nella palude del sapere-potere psichiatrico? Inoltre, da parte del movimento basagliano, la riforma attuata dalla legge 180 non ha mai creato desideri di attribuzione di un «potere alternativo» (ma pur sempre coercitivo) rispetto al nuovo ordine costituito e rispetto ad altri stili di lotta: dopo la chiusura del sistema custodialistico dei manicomi il lavoro teorico-pratico si è infatti spostato verso la de-istituzionalizzazione della società e verso l'apertura ai movimenti sociali.
In sintesi, si potrebbe dire che la portata teorico-pratica del volume si può misurare attraverso alcune lenti concettuali e alcune modalità di lotta di indiscutibile importanza: attraversamento delle contraddizioni, teoria della pratica e pratica della teoria, aperture verso gli altri movimenti di contestazione della norma, progettualità sociale e alternativa, riformismo radicale.
Nel celebre articolo Le navi dei folli che, tra l'altro introduce il volume, Franco Basaglia scriveva: «La prima volta che entrai in un carcere, ero studente di medicina e vi entrai come prigioniero dei fascisti. Il carcere mi apparve allora come un letamaio impregnato di un lezzo infernale, dove uomini con bidoni sulle spalle si avvicendavano a vuotarne il contenuto nelle fogne (...). Dopo alcuni anni entrai in un'altra istituzione chiusa, il manicomio. Questa volta non come internato, ma come direttore. Ero dalla parte del carceriere, ma la realtà che vedevo non era diversa: il manicomio è un grande letamaio dove non c'è traccia dell'uomo». Dopo trent'anni vien da dire: avrebbe scritto qualcosa di diverso sui centri di permanenza temporanea per migranti?

storia della biologia
Lazzaro Spallanzani, di Reggio Emilia
un gesuita nell'epoca dei Lumi

La Stampa TuttoScienze 12/1/2005
LAZZARO SPALLANZANI
Il biologo che mise le mutandine ai rospi
UN SAGGIO RIEVOCA LE RICERCHE E LE PERSECUZIONI DI UN PIONIERE NELLO STUDIO DELLA RIPRODUZIONE
Eugenia Tognotti
(*)

NEGLI Anni 70 del Settecento, il secolo dei Lumi e della nuova scienza, il sacerdote scienziato Lazzaro Spallanzani, padre della Biologia sperimentale, condusse una serie d'esperimenti di fecondazione artificiale. Cominciò con gli anfibi e giunse a dimostrare che lo sviluppo embrionale nelle uova di rana non iniziava spontaneamente (secondo la concezione dominante allora), ma che era necessaria la presenza del "fluido seminale" maschile. L'esperimento comportò il perfezionamento del metodo a cui era ricorso, senza successo, un naturalista francese, che aveva ideato delle "culottes" di taffettà cerato da far indossare al rospo, per evitare che il suo seme venisse a contatto, nell'accoppiamento, con le uova della femmina. I tentativi dell’abate modenese per ottenere che lo scomodo indumento rispondesse allo scopo andarono invece in porto, aprendo la strada agli esperimenti sui cani. Presa una barboncina di medie proporzioni, rinchiusa fino al momento dell'estro, le iniettò nell'utero, con una siringa, il seme di un cane della stessa razza. A tempo debito la cagnetta partorì tre cuccioli, perfettamente sani e somiglianti ai genitori. La gioia, raccontò lo sperimentatore, "fu una delle maggiori che abbia provato in mia vita, doppoché mi esercito nella sperimentale Filosofia". Spinto da una divorante curiosità scientifica, Spallanzani condusse molti esperimenti che comportavano una "manipolazione della vita", per usare un'espressione diffusa ai nostri giorni; e che sfidavano gli schemi filosofici della scienza del tempo. Singolari, ad esempio, per un prete cattolico, furono quelli tesi a comprendere se le leggi di natura sull'irreversibilità della morte conoscessero eccezioni; come sembrava dimostrare il caso di alcuni minuscoli animaletti, i rotiferi e i tardigradi, presenti nel muschio dei muri, nelle grondaie, e in consimili "nicchie" ecologiche. Lasciati essiccare, si deformavano e rimpicciolivano fino a trasformarsi in un grumo informe di materia. Reidratati, tuttavia, anche dopo un lungo periodo, riacquistavano vita e capacità di movimento. Un fenomeno denso d'implicazioni filosofiche che sgomentava il pur impavido Spallanzani, tanto da spingerlo ad interrogare inopinatamente il miscredente Voltaire, "il primo Genio del secolo". Che ne era della loro anima, gli chiedeva ansiosamente in una lettera, nel tempo in cui erano privi di vita? A questa domanda il filosofo francese non si sottrasse, affermando, sarcasticamente, che anche lui sarebbe stato curioso di sapere perché "l'Essere supremo, l'autore di tutto che ci fa vivere e morire, non accordi la facoltà di resuscitare che al rotifero e al tardigrado". Questa ed altre citazioni di lettere e appunti sono riprese da un eccellente libro, appena arrivato in libreria, «Costantinopoli 1786: la congiura e la beffa. L'intrigo Spallanzani» (Bollati Boringhieri) scritto dallo storico della medicina e della scienza Paolo Mazzarello, che insegna nella stessa università, Pavia, del grande naturalista. Mettendo a frutto una particolare attitudine per il genere - non molto frequentato in Italia - della biografia scientifica, sperimentato felicemente con il libro sul premio Nobel Camillo Volgi, pubblicato anche in inglese presso la Oxford University Press (1999), Mazzarello fa emergere a tutto tondo la figura di Spallanzani, grande protagonista della scienza moderna. Con tutte le ombre, tra cui una certa scontrosità e ruvidezza di modi. E, naturalmente, le luci: l'attività di ricerca, spinta da una vera e propria "lussuria della conoscenza" che lo facevano spaziare dall'astronomia alle scienze naturali, alla geologia, alla biologia marina, all'ornitologia, alla mineralogia. Sullo sfondo il contesto scientifico-culturale delle accademie d'Europa e i protagonisti, scienziati, botanici, naturalisti, anatomici, chirurghi. Stranieri e italiani. Alcuni di loro, anzi, colleghi nell'ateneo pavese, montarono - durante un suo viaggio di studio a Costantinopoli - l'infamante accusa di furto di preziosi esemplari naturalistici dal Museo di Storia naturale che egli dirigeva. Protagonisti della congiura, che fece il giro d'Europa, occupando per mesi le conversazioni dei salotti delle varie capitali, erano il botanico Giovanni Antonio Scopoli, il matematico Gregorio Fontana, il suo collaboratore Serafino Volta e l'anatomista Antonio Scarpa. Una storia nella storia, quella dello straordinario viaggio a Costantinopoli e del complotto - ricostruito su documenti inediti - che si snoda con i ritmi di un racconto di straordinaria suggestione. Ma la rivisitazione della vicenda scientifica di Spallanzani suggerisce anche una riflessione: sulla libertà della ricerca e sulla storia della scienza in Italia, dove - come si è visto per la legge sulla fecondazione assistita - non sembra possibile una discussione meditata e distesa sul significato scientifico e le conseguenze sociali dei contributi più recenti della biologia della riproduzione.
(*)Università di Sassari

ricerca anglosassone:
il matrimonio è patogeno

Corriere della Sera 12.1.05
«Si ammalano meno»
LA RIVINCITA DELLE DONNE NON SPOSATE
Maria Laura Rodotà


La ricerca australiana resa nota ieri secondo cui le donne divorziate o mai sposate invecchiano meglio e si ammalano meno di quelle sposate c’entra qualcosa con la ricerca inglese pubblicata la settimana scorsa secondo cui le donne intelligenti hanno problemi a trovare marito? Accademicamente/scientificamente no; per molte donne che si autostimano intellettualmente e personalmente si sentono una schifezza la seconda ricerca sarà un sollievo, però. E molte altre, sposate e stremate, se hanno la gastrite e le zampe di gallina adesso sapranno con chi prendersela. In quanto: dallo studio della University of Queensland - su un campione di 2.300 donne sopra i 60 anni - risulta che le donne divorziate, vedove o singole «godono di una migliore salute fisica e mentale» delle coniugate.
La coordinatrice della ricerca, Belinda Hewitt, ha commentato: «Forse le donne sposate sono logorate dalla necessità di prendersi cura dei mariti». Forse. I mariti in compenso non si logorano, tra loro e gli uomini singoli non ci sono grandi differenze psicosanitarie. Però. Lo studio dei benemeriti australiani - rassicurante per le non sposate, esplicativo per le altre, via - nella sua apparente neutralità è un inizio di controtendenza; sempre forse. Perché da un bel po’ di tempo la questione «valori familiari» è diventata imprescindibile e multilivello. In America, gli analisti politici spiegano che è stata importante per George Bush, per vincere nei «red states» religiosi e fieramente coppiettari.
In Italia, sotto forma di legge sulla fecondazione assistita, continua a far litigare e imbarazzare l’opposizione. Ovunque, gli s-coppiati di ogni ordine e grado si sentono sempre più socialmente delegittimati; temono di venir considerati esseri sfortunati, fragili, con problemi; come status - sospetto - attenzioni paternaliste sono equiparati ai fumatori. Come i fumatori sono spesso solidali tra loro, ma non basta.
È un nuovo «fascismo sentimentale»? Lo sostiene una studiosa americana, Laura Kipnis, professore di comunicazione di massa alla Northwestern University, in un saggio di cui si è molto parlato, che a fine gennaio uscirà in Italia da Einaudi. Si intitola «Against Love», «Contro l’amore», ma più che altro è contro il matrimonio. Istituzione che secondo Kipnis ha ormai i ritmi e i tempi del lavoro postindustriale: lavoratori e coniugi sono vittime di regole (grazie alle quali si è sempre connessi e sempre raggiungibili e sempre all’opera) e di strutture societarie (feroci ma non stabili come una volta, c’è la flessibilità e il rischio di licenziamento) utili a far marciare l’economia. Ma poi, continua, a volte non ci si sente tanto bene; in caso, conclude, meglio rompere il contratto sociale / matrimoniale. Come alternativa, Kipnis rilancia il libero amore; e difende l’adulterio, che non ha bisogno di essere rilanciato. Ora potrebbe sfruttare la ricerca australiana; e dire che le sue sono idee salutiste. Ma si spera che eviti, sulla salute ci sono più pressioni che sul matrimonio, ultimamente, si sa.

sull'evoluzione del cervello nell'uomo

ScienceDaily
http://www.sciencedaily.com/releases/2005/01/050111165229.htm
Evidence That Human Brain Evolution Was A Special Event
Genes that control the size and complexity of the brain have undergone much more rapid evolution in humans than in non-human primates or other mammals, according to a new study by Howard Hughes Medical Institute researchers.
The accelerated evolution of these genes in the human lineage was apparently driven by strong selection. In the ancestors of humans, having bigger and more complex brains appears to have carried a particularly large advantage, much more so than for other mammals. These traits allowed individuals with "better brains" to leave behind more descendants. As a result, genetic mutations that produced bigger and more complex brains spread in the population very quickly. This led ultimately to a dramatic "speeding up" of evolution in genes controlling brain size and complexity.
"People in many fields, including evolutionary biology, anthropology and sociology, have long debated whether the evolution of the human brain was a special event," said senior author Bruce Lahn of the Howard Hughes Medical Institute at the University of Chicago. "I believe that our study settles this question by showing that it was."
Lahn and his colleagues reported their data in a research article published in the December 29, 2004, issue of the journal Cell.
The researchers focused their study on 214 brain-related genes, that is, genes involved in controlling brain development and function. They examined how the DNA sequences of these genes changed over evolutionary time in four species: humans, macaque monkeys, rats, and mice. Humans and macaques shared a common ancestor 20-25 million years ago, whereas rats and mice are separated by 16-23 million years of evolution. All four species shared a common ancestor about 80 million years ago.
Humans have extraordinarily large and complex brains, even when compared with macaques and other non-human primates. The human brain is several times larger than that of the macaque -- even after correcting for body size -- and "it is far more complicated in terms of structure," said Lahn.
For each gene, Lahn and his colleagues counted the number of changes in the DNA sequence that altered the protein produced by the gene. They then obtained the rate of evolution for that gene by scaling the number of DNA changes to the amount of evolutionary time taken to make those changes.
By this measure, brain-related genes evolved much faster in humans and macaques than in mice and rats. In addition, the rate of evolution has been far greater in the lineage leading to humans than in the lineage leading to macaques.
This accelerated rate of evolution is consistent with the presence of selective forces in the human lineage that strongly favored larger and more complex brains. "The human lineage appears to have been subjected to very different selective regimes compared to most other lineages," said Lahn. "Selection for greater intelligence and hence larger and more complex brains is far more intense during human evolution than during the evolution of other mammals."
To further examine the role of selection in the evolution of brain-related genes, Lahn and his colleagues divided these genes into two groups. One group contained genes involved in the development of the brain during embryonic, fetal and infancy stages. The other group consisted of genes involved in "housekeeping" functions of the brain necessary for neural cells to live and function. If intensified selection indeed drove the dramatic changes in the size and organization of the brain, the developmental genes would be expected to change faster than the housekeeping genes during human evolution. Sure enough, Lahn's group found that the developmental genes showed much higher rate of change than the housekeeping genes.
In addition to uncovering the overall trend that brain-related genes -- particularly those involved in brain development -- evolved significantly faster in the human lineage, the study also uncovered two dozen "outlier" genes that might have made important contributions to the evolution of the human brain. These outlier genes were identified by virtue of the fact that their rate of change is especially accelerated in the human lineage, far more so than the other genes examined in the study. Strikingly, most of these outlier genes are involved in controlling either the overall size or the behavioral output of the brain -- aspects of the brain that have changed the most during human evolution.
According to graduate student Eric Vallender, a coauthor of the article, it is entirely possible by chance that that two or three of these outlier genes might be involved in controlling brain size or behavior. "But we see a lot more than a couple -- more like 17 out of the two dozen outliers," he said. Thus, according to Lahn, genes controlling the overall size and behavioral output of the brain are perhaps places of the genome where nature has done the most amount of tinkering in the process of creating the powerful brain that humans possess today.
There is "no question" that Lahn's group has uncovered evidence of selection, said Ajit Varki of the University of California, San Diego. Furthermore, by choosing to look at specific genes, Lahn and his colleagues have demonstrated "that the candidate gene approach is alive and well," said Varki. "They have found lots of interesting things."
One of the study's major surprises is the relatively large number of genes that have contributed to human brain evolution. "For a long time, people have debated about the genetic underpinning of human brain evolution," said Lahn. "Is it a few mutations in a few genes, a lot of mutations in a few genes, or a lot of mutations in a lot of genes? The answer appears to be a lot of mutations in a lot of genes. We've done a rough calculation that the evolution of the human brain probably involves hundreds if not thousands of mutations in perhaps hundreds or thousands of genes -- and even that is a conservative estimate."
It is nothing short of spectacular that so many mutations in so many genes were acquired during the mere 20-25 million years of time in the evolutionary lineage leading to humans, according to Lahn. This means that selection has worked "extra-hard" during human evolution to create the powerful brain that exists in humans.
Varki points out that several major events in recent human evolution may reflect the action of strong selective forces, including the appearance of the genus Homo about 2 million years ago, a major expansion of the brain beginning about a half million years ago, and the appearance of anatomically modern humans about 150,000 years ago. "It's clear that human evolution did not occur in one fell swoop," he said, "which makes sense, given that the brain is such a complex organ."
Lahn further speculated that the strong selection for better brains may still be ongoing in the present-day human populations. Why the human lineage experienced such intensified selection for better brains but not other species is an open question. Lahn believes that answers to this important question will come not just from the biological sciences but from the social sciences as well. It is perhaps the complex social structures and cultural behaviors unique in human ancestors that fueled the rapid evolution of the brain. "This paper is going to open up lots of discussion," Lahn said. "We have to start thinking about how social structures and cultural behaviors in the lineage leading to humans differed from that in other lineages, and how such differences have powered human evolution in a unique manner. To me, that is the most exciting part of this paper."

uomini e topi
il consueto "metodo" delle neuroscienze...

Le Scienze 11.01.2005
La maternità è come una droga
La natura ricompensa biologicamente le madri che nutrono i propri piccoli


Chi ha bisogno di droghe quando curarsi del proprio bambino ha lo stesso effetto? Una ricerca pubblicata sul numero del 5 gennaio 2005 della rivista "Journal of Neuroscience" rivela che le scansioni cerebrali di ratti esposti alla cocaina sono indistinguibili da quelle delle madri che allattano i piccoli, supportando l'idea che la natura - e l'evoluzione - offra una ricompensa alle madri che nutrono i propri piccoli. Lo studio potrebbe aiutare a comprendere meglio il legame madre-figlio anche negli esseri umani.
Se si offre loro di scegliere, i ratti con figli di età inferiore agli otto giorni preferiscono l'allattamento dei piccoli all'uso di cocaina. I ricercatori ipotizzano che questa forte motivazione ad allattare si sia evoluta per favorire il legame fra la madre e i figli. Studi precedenti sul danneggiamento di parti del cervello o sul blocco dei neurotrasmettitori avevano mostrato che il sistema di ricompensa cerebrale è coinvolto sia nell'allattamento sia nella stimolazione da droghe. Ma nessuno in questi studi aveva studiato le immagini del cervello di un animale cosciente.
Per verificare questo fenomeno, Craig Ferris dell'Università del Massachusetts e colleghi hanno monitorato gli effetti dell'allattamento e dell'uso di cocaina sull'intero cervello con la tecnica della risonanza magnetica (MRI). Quando i ricercatori hanno confrontato le immagini, hanno scoperto che in entrambi i gruppi di ratti erano attive le identiche aree cerebrali. Se le madri ricevevano iniezioni di cocaina, il sistema della ricompensa nel loro cervello diminuiva di attività: ciò suggerisce che l'allattamento interferisca in qualche modo con gli effetti della cocaina.

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neurofarmacologia
o progetto Frankestein?

ANSA Mercoledì 12 Gennaio 2005, 15:41
DEPRESSIONE: SI CURERÀ RICOSTRUENDO NUOVE RETI NEURONI


(ANSA) - ROMA, 12 GEN - I farmaci del futuro contro la depressione? Molecole che, ricostruendo nel cervello del paziente nuove reti neuronali, gli "re-insegneranno" a vivere e pensare senza la malattia.
È la promessa che arriva da nuovi studi su animali e che mette in campo contro la malattia un'impostazione terapeutica del tutto nuova, ha riferito Luca Pani dell'Istituto di neurogenetica e neurofarmacologia del CNR di Cagliari che ha spiegato le sue ricerche in una conferenza stampa a Roma.
Le molecole alla base dei farmaci di nuova generazione, i primi, ha sottolineato l'esperto, potrebbero arrivare già nel giro di cinque anni, agiranno sui fattori trofici, ovvero stimoleranno la produzione di fattori di crescita che a loro volta stimoleranno la formazione di nuove connessioni tra neuroni, formando nuovi circuiti che il paziente inizierà ad usare abbandonandone altri, quelli malati. A questa "rieducazione" del cervello del paziente, ha spiegato Pani, si contribuirà anche dall'esterno con interventi di psicoterapia ad hoc, di tipo cognitivo - comportamentale, nonché di supporto interpersonale. Queste terapie, se ben condotte, possono infatti essere efficaci sui nuovi circuiti ed agire in sinergia con il farmaco.
L'idea di curare la depressione con molecole che stimolino i fattori di crescita neurali, ha spiegato Pani, viene dal modalità innovative di osservazione dei modelli animali di laboratori. Gli scienziati si sono accorti che in risposta a stimoli stressanti o a condizioni che inducono la paura, nel cervello degli animali decresce la produzione di fattori di crescita. Questo può creare modificazioni dei circuiti che, se lo stimolo negativo perdura, portano alla malattia.
I farmaci oggi in uso, molti dei quali peraltro hanno ancora meccanismo d'azione da scoprire e forse funzionano proprio attivando i fattori di crescita, agiscono per lo più sulle terminazioni nervose eccitando o inibendo l'attività dei neuroni. Quindi, per quanto efficaci, possono produrre sbalzi d'umore. Viceversa le nuove molecole saranno degli stabilizzatori dell'umore, ha concluso Pani, perché indurranno modifiche permanenti nei circuiti nervosi sia ripristinando quelli malati sia creandone di nuovi che poi saranno istruiti a funzionare in modo non patologico.
(ANSA)

Luciana Littizzetto
sulla coppia che scoppia

L'Unione Sarda 12.1.05
«Non ho invidia del maschio, semmai un po' di nostalgia»
Luciana Littizzetto, la routine uccide la passione Ecco come e perché la coppia scoppia
di Francesco Mannoni


«Questa è la mia terza fatica letteraria, e chiude la trilogia della verdura. Nel primo, Sola come un gambo di sedano si parlava delle single, ne La principessa sul pisello della coppia e adesso della coppia che scoppia». Roteando gli occhi come un'ossessa e proiettandoli da un punto all'altro dell'affollata sala della nuova libreria Mondadori di Bologna, Luciana Littizzetto parla del suo nuovo libro, Col cavolo (Mondadori, pp. 167, euro 14), e sentenzia: «Lo dicono anche gli esperti. Tre anni. L'amore vero dura tre anni. Qualcosa di più di mille giorni. Dopodiché buongiorno e chi si è visto si è visto». Esile, un timbro di voce che ha la potenza del trapano, la Littizzetto ha raccolto in questo libro una galleria di donne svirgolate, dissestate e confuse dai tempi, e le ha messe di fronte alle loro insufficienze, errori e banalità. Con veloci affondi anche per i signori uomini, rei di comportamenti non sempre esemplari nell'ambito della coppia, l'attrice - scrittrice, in racconti brevi e incisivi passa in rassegna un mondo femminile coinvolto in una sorta di sfida perenne con l'uomo, in quel gioco estenuante di confronti che alla fine riduce tutto a rissa babelica perché «si muore dall'ostinato tentativo di avere ragione. Ma la ragione non è mai tutta da una parte. Con il corpo calloso che ci ritroviamo, dovremmo capirlo, no?». Con oltre due milioni di copie vendute dei suoi libri - manuali che veleggiano nelle zone alte della classifica, Luciana Littizzetto può permettersi di dispensare consigli e insegnamenti, conditi sempre dalla sua accesa ironia. «Nel libro parto dalla considerazione che anche i veri amori hanno una data come i cibi precotti e surgelati. Gli studiosi affermano che bisogna fare di tutto per rinverdire il desiderio, però è un bel controsenso. Come si fa a desiderare una cosa che hai sotto gli occhi tutti i giorni? Come fai a desiderare uno che la notte dorme a stella di mare con l'isola di Pasqua deserta e l'alito dello sciacallo? E d'altra parte come fa lui a desiderare una che passa le serate col pigiamone e appena arrivata a casa si toglie il reggiseno e le tette gli arrivano alle caviglie e si mette a ricamare la testa di un cavallo a mezzo punto guardando il suo uomo piangendo? E che per giunta, adesso grida basta! basta! solo quando gli schiaccia il nervo sciatico». Le situazioni che ha descritto nel suo libro sono il risultato della convivenza? «La convivenza porta un po' a lasciarsi andare. All'inizio nelle coppie si fanno molte cose culturali. Lui porta la sua dolce metà al cinema, ai musei, alle mostre e nelle città d'arte, poi man mano tutto si riduce, e alla fine superata la gora dei tre anni, lui ti fa uscire solo la domenica per portarti alla portaerei del mobile, oppure se ti va veramente bene ti porta alla saga del peperone, alla festa del bue grasso, al festival dell'Unità, e da intellettuale si trasforma in verro». Quali i principali comportamenti negativi che affossano la vita di coppia? «Uno è il problema del russaggio. All'inizio lui non russa. Respira come una brezza, ha il respiro di un cherubino. Poi partono i primi spifferi e trombe da stadio che ti sembra di essere nella curva sud di un campo di calcio in giornata di derby. Ed è difficilissimo. Qualcuno dice che per farli smettere bisogna fargli dei versi. Oppure dicono che bisognerebbe mettergli un cerotto sul naso. Il cerotto sul naso andrà bene a Valentino Rossi quando corre, ma al marito o al fidanzato che la sera ha mangiato otto chili di fritto di mare, il cerotto bisognerebbe metterglielo sulla bocca, ma prima che si sieda a tavola. Una prova a chiamarlo dolcemente, lui risponde borbottando perché magari sta sognando l'ultima ballerina di Panariello, sta fermo, non si muove, e lei col piede allora cerca di farlo rimbalzare. Ma è difficile. Consiglio alle donne i cui mariti dormono con la bocca aperta, di mettergli dentro la bocca delle robe. Magari la propria mano, così si sveglia. Allora lo pregate di russare piano eliminando i colpi di basso tuba altrimenti la mattina vi svegliate tutte storte e immusonite come sorcetti». Altri comportamenti che usurano il rapporto di coppia? «Altro problema della convivenza è che gli uomini stanno tanto in bagno. Anche le donne se è per questo, ma gli uomini di più. Le donne stanno in bagno a truccarsi, ed escono tutte dipinte come certe professioniste dell'autostrada, ma i maschi stanno in bagno delle ore a fare la popò. Com'è possibile che un uomo per questi servizi stia in bagno venti minuti? Pensa. Pensa? Pensa e legge. Il marito di una mia amica ha letto tutto il libro di Faletti in bagno. Seicento pagine. Lei andava a fare pipì dalla vicina. Altro rituale la doccia. Gli uomini non si lavano. Stanno sotto l'acqua che scorre per delle ore, così quando lei decide di farsi la doccia, l'acqua calda è finita». Ma tutte le colpe le hanno gli uomini? E le donne? «Anche le donne hanno le loro pecche e nel libro sono tutte elencate. Siamo davvero dei mostri. Mettiamo il gambaletto di leacril nocciola antistupro, che sono orrendi. E poi dicono che le donne debbono fare riunioni d'autocoscienza contro le violenze e i maniaci. Ma bastano due euro e con quelle calze lì si è al sicuro. Mettiamo che un maniaco ci fermi e ci spogli: quando vede quelle calze lì dice va va, levati dalla circolazione». Ma forse le coppie vanno in crisi perché le donne fanno sempre meno figli? «Dicono le statistiche che noi donne un figlio lo facciamo attorno ai quarant'anni perché prima dobbiamo: studiare, uscire dall'università, cercarci un lavoro, una casa, un fidanzato, convincerlo a fare un figlio e poi convincerlo a non mollarci quando gli diciamo di essere incinte. Un momento: com'è possibile che quella donna delle patatine della pubblicità che non avrà più di vent'anni, abbia un figlio di sette anni? Quando l'ha fatto? A tredici anni come in Africa?». Lei, che cosa si aspetta da un uomo? «Che cosa mi aspetto da un uomo? Quando piove che mi apra la portiera e non tenga l'ombrello lui e mi lasci fuori della macchina. Non ho delle richieste particolari. Chiedo attenzione, solo un po' più d'attenzione, di ridurre il suo orizzonte, di non pensare solo a se stesso». Ma non c'è la par condicio anche fra i sessi? «Certo, infatti adesso quando vogliono farci i complimenti ci dicono che siamo donne con le palle. Che secondo me è una cosa orribile. A me non fa piacere sentirmi dire che ho certi attributi, perché non ho mai avuto invidia del maschio. Nostalgia, qualche volta, sì. Riusciamo ad andare a lavorare, occuparci della casa e dei figli, e magari possiamo dare questa impressione. Ricorda il proverbio che dice: dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna? E dietro una grande donna? Una casa che va a ramengo, un marito che si lamenta, dei figli che strepitano: un disastro». A quali proposte risponderebbe «Col cavolo» in questo momento? «Se mi proponessero di sposarmi. Premetto che convivo, ma l'idea del matrimonio, se non gli dai una valenza di carattere religioso penso che in questi ultimi tempi abbia perso il suo senso migliore. E poi mi fa fatica dire per sempre. Promettere che una cosa sia per sempre è inaudito: non c'è niente per sempre, neanche la Carrà, neanche Pippo Baudo». Perché, secondo lei, in televisione c'è sempre più volgarità, e anche lei non si nega qualche parolina forte? «Ma intanto la televisione si può spegnere, e poi ci sono volgarità più assolute del mio linguaggio allegramente colorato. La maggior parte di quello che vediamo in televisione, secondo me, è profondamente volgare anche quando non dicono le parolacce. Anche il fatto che la nostra vera realtà sia la televisione, è credo, profondamente volgare. A volte la parolaccia, la trasgressione, l'esagerazione - e io magari sono la prima portavoce di certe intemperanze verbali -, fa ridere, smitizza certe situazioni, toglie la sacralità di certi luoghi. Ma se poi anche la parolaccia non fa ridere, a che pro?». È facile far ridere? «Sembra facile fare il comico, ma non lo è. Uno pensa: tanto si tratta di dire stupidaggini. In un certo senso è così, ma dentro ogni stupidaggine ci deve essere un piccolo pensiero intelligente. Questo è fondamentale e fa la differenza e allora significa leggere libri e giornali, ascoltare le persone, elaborare queste cose, metterle nel proprio personale cervello e farle frullare per sfornare una storia che faccia ridere».

Corriere:
«nessun gene può essere considerato responsabile, da solo, di una malattia psichiatrica»

Corriere della Sera Salute (pagina 2) 9 gennaio 2004
Davvero tutto è scritto nel DNA?
di Riccardo Renzi

Con l'anno nuovo è arrivato il primo nuovo gene. Si tratta questa volta di quello della timidezza: è una variante che, attraverso un alterato meccanismo dei neurotrasmettitori, rende i bambini, secondo i ricercatori, più timidi e li predispone a diventare da adulti più facilmente ansiosi e soggetti all'alcolismo. Si tratta, in questo caso, di una ricerca molto seria, condotta dall'università Vita e Salute del san Raffaele di Milano, e di cui i ricercatori hanno ben messo in evidenza limiti e significato. Ma ciò che il pubblico percepisce è che esiste il gene della timidezza, eventualmente responsabile anche dell'alcolismo. Di cui, se la memoria non mi inganna, era già stata annunciata la scoperta di un gene responsabile, come di quello della depressione, della cleptomania, della schizofrenia, della tendenza al suicidio e alla violenza, della predisposizione alle droghe, all'adulterio e a varie perversioni sessuali. Alcune di queste ricerche erano, in verità, tutt'altro che serie e tendevano piuttosto a promuovere pubblicità (e fondi) per diversi centri di ricerca. Se a ciò aggiungiamo le varie scoperte relative alle malattie non psichiatriche, ne ricaviamo, al ritmo di un gene alla settimana, il messaggio inequivocabile che tutto è genetica. E che non soltanto la nostra storia medica ma anche la nostra storia psicologica, il nostro comportamento, sono determinati, sono scritti in un nuovo libro sacro intitolato Dna.
Sarebbe opportuno fare chiarezza sul significato di queste scoperte e spiegare bene che cosa vuol dire, per esempio, che qualcuno abbia il gene dell'avarizia. Che sarà condannato ad essere avaro per tutta la vita? O che forse potrà curarsi? E come potrà farlo? E se si curerà diventerà uno con le mani bucate? Ora noi non abbiamo titolo per dare queste risposte. Ma, sulla base di autorevoli pareri, possiamo chiarire un paio di concetti generali.
Il primo è che
nessun gene può essere fino da oggi considerato responsabile, da solo, di una malattia psichiatrica e tantomeno dell’orientamento sessuale o di un comportamento più o meno deviante. Il che vale anche, come si va via via scoprendo, per le patologie fisiche più complesse. Il secondo concetto è che quando si parla di "gene responsabile" si indica una predisposizione, una possibilità, che sarà più o meno espressa a seconda dell'ambiente e della storia personale di ognuno. In che misura poi incida l'impronta genetica o l'ambiente non lo sa ancora nessuno. E chi dice di saperlo, esprime un'opinione personale e non un dato scientifico.