una segnalazione di Paolo Izzo
Repubblica 8.1.05
Intervista
PETER HANDKE
Nel suo nuovo romanzo lo scrittore austriaco ci parla della perdita dell'immagine, che è, o dovrebbe essere, una fonte di ispirazione. Ma che cosa accade nel momento in cui essa ci abbandona e ci lascia senza creatività?
CHAVILLE
VANNA VANNUCCINI
Bisogna vederli per crederci, i manoscritti di Peter Handke. Pagine e pagine riempite rigorosamente a matita, una riga dopo l'altra, righe perfette, ben allineate, senza ripensamenti, solo raramente una aggiunta, minutamente annotata sul margine di sinistra della pagina. Sembrano esercizi di calligrafia, di quell´arte della bella scrittura che nel mondo islamico è considerata l'espressione artistica più pura, la rappresentazione della parola di Dio. La leggenda vuole che la mano dei grandi maestri calligrafi fosse guidata direttamente dai discendenti del Profeta, e non mi stupirebbe se anche Peter Handke credesse in cuor suo che a muovere la sua matita ci sia qualche forza divina. La scrittura è per Handke un controveleno, un antidoto al vuoto di esperienza del nostro mondo civilizzato e occidentalizzato. Nel romanzo appena tradotto da Garzanti
Le immagini perdute lo scrittore austriaco parla a un certo punto di un gruppo di persone che cercano di sfuggire al tempo "contato" del nostro sistema quantitativo e capitalistico, per andare alla ricerca del tempo "raccontato", autentico, riempito di vita.
Handke notoriamente non ha in simpatia i giornalisti. Ha scritto molte invettive contro di loro. Soprattutto da quando i giornali avevano aspramente criticato l'abbaglio che prese nella Jugoslavia in guerra, quando si schierò inopinatamente a fianco del nazionalismo serbo. Gli attribuirono giudizi politici che in realtà un impolitico come Handke non ha mai avuto. Per lui, per una serie di coincidenze - la familiarità col serbo-croato, la madre slovena, morta suicida quando era giovanissimo e per la quale aveva scritto
Infelicità senza desideri - la Serbia si era trasformata in paese di sogno, in terra d'origine della poesia. «Il paesaggio jugoslavo - scrive ne
La Ripetizione - gli apparve nella sua "letteralità" come scrittura, come terra descrivibile, alla quale si poteva dire "La mia patria!", e questa apparizione era allo stesso tempo l'unica manifestazione di Dio che avesse avuto in tanti anni».
Ormai è passato un po' di tempo e forse si è ricreduto. In ogni caso si è riconciliato con i giornalisti. Mi accoglie con molta cortesia, una bottiglia di vino del Palatinato sul tavolo e tanti funghi, castagne e patate, da lui stesso raccolti, nel bosco dietro casa o nell'orto, con cui ha preparato un'ottima colazione. Vive a Chaville dal '92, nella banlieue parigina, dopo aver lasciato Salisburgo e aver vagato per tre anni per il mondo senza avere nessun luogo da chiamare casa.
Le immagini perdute è la storia di una donna senza età che si lascia alle spalle il grosso impero finanziario di cui è a capo in una città dell'Europa nordoccidentale per volare a Valladolid. Di qui s'incammina da sola attraverso la Sierra de Gredos, la montagna che separa la Castiglia dalla Mancha.
Nei suoi libri c'è spesso questa dimensione del viaggio. Uno strumento per scoprire noi stessi?
«Il viaggio è un modo di misurare la nostra capacità di percepire, di capire quanto sappiamo ancora ascoltare. Questo libro è anche una storia di drammatica gratitudine: per il fatto di esistere, di esserci ancora. Dopo che lasciai Salisburgo, quando la mia prima figlia andò a Vienna a fare l'università, sono sempre andato, da una parte o dall'altra. Per tre anni non ho avuto una casa. Ma chi va sempre, non arriva da nessuna parte».
Anche la protagonista del romanzo ad un certo punto si ferma. Non ha più immagini. Perdita dell'immagine, è il titolo tedesco del libro. Che cosa provoca questa perdita? I media che d'immagini ci sommergono? La modernità?
«Quasi vent'anni fa cominciai ad accorgermi che le immagini, quelle che non devi cercare di evocare me ti arrivano da sole alla fantasia, non erano più così vive come un tempo. Non avevano più il valore di un tempo. Forse si trattava di una mia crisi personale, forse era il primo segnale d'inizio della vecchiaia. Da un problema che probabilmente era personale sono passato poi a riflettere sul significato delle immagini nella vita di oggi. Così ho voluto scrivere la storia di questa donna che perde le immagini come nel medioevo si perdeva il Gral. Oggi c'è una perdita di orizzonte, una perdita di ascolto. Una perdita del mondo, si può dire. Per me il mondo è luce».
Nel romanzo ci sono molti personaggi, molti incontri, molte storie parallele.
«È scritto con molta libertà, come facevano gli scrittori epici, che si permettevano tutto. Se la loro Boemia era sul mare, alla fine della mia foresta può esserci New York. La letteratura medievale è stata per me una rivelazione. I romanzi epici. Josef von Eichendorff, Gottfried Keller, Adalbert Stifter. Raccontano storie d'amore di un tempo in cui all'amore si credeva davvero. Uno partiva per guadagnarsi l'amore, ed era lo stesso che guadagnarsi il mondo».
La protagonista del romanzo parte per raggiungere la Mancha, dove deve incontrare un autore al quale ha affidato l'incarico di scrivere un libro su di lei, di raccontare la sua storia. La scrittura ha per sempre una funzione salvifica nei suoi libri. Che cosa significa scrivere per Peter Handke?
«La sola letteratura che mi interessa davvero è quella utopistica: la ricerca di quello che il mondo può essere. Oggi invece tutti vorrebbero che uno scrivesse come Philip Roth, nel senso di avere una costruzione,
a good story, tutto bell'e pronto. Per me però quella è letteratura di seconda categoria. Io sono uno che cerca. Del resto cercavano anche gli americani, al tempo di William Faulkner, di Thomas Wolfe, da non sbagliarsi con Tom Wolfe per carità. Io ho una trama ma preferisco nasconderla, fare lunghe deviazioni, prendere vie traverse, vagare attraverso paesaggi epici come un fiume meandrico. Certo uno deve stare attento a non cadere nella trappola della lingua. Il tedesco è magnetico. C'è sempre il rischio di scivolare nel formalismo, o, peggio ancora, nell'autocompiacimento, nella mistica. La lingua bisogna amarla e combatterla insieme, è un passaggio continuo tra Scilla e Cariddi, questa è la cosa affascinante. Il mio traduttore americano, un uomo straordinario che purtroppo è morto una decina d'anni fa, mi diceva, a proposito di qualche mia frase meandrica: Peter, l'ho dovuta raddrizzare, devi capirmi. E io ho sempre letto con gran piacere il suo inglese, che risultava fedele anche se rimetteva diritte le frasi attorcigliate. Quello che mi spinge a scrivere è solo una
Sehnsucht, un desiderio pungente, doloroso, nostalgico. Di lì mi vengono le immagini, il ritmo; non sono Bob Dylan ma c'è melodia nella mia scrittura. Penso a certi cantanti che non hanno un testo ma senti che hanno qualcosa da dire. Non m riconosco altro talento se non questa
Sehnsucht, questo desiderio struggente. Qualche volta inseguo il più piccolo sogno. Forse dipende dallo scrivere con la matita. Credo però che ormai il mio periodo epico sia finito. Scriverò racconti, certo, ma non più romanzi epici. E mentre lo dico, sento però di nuovo un desiderio. È la cosa più bella, stare così, fermi, lasciare che la storia venga da sola. Come diceva Teresa d'Avila: lasciare, sempre lasciare. Solo chi si lascia andare, senza voler sapere, senza opinioni, senza riflessione, ha una chance che la vita gli dia il dono della percezione».
Non nega allora di essere un mistico...
«In fondo sì, lei ha ragione, lo sono. Ma ci sono i mistici che per avere le visioni si contraggono, e quelli che si aprono, si distendono».
Sorride, allunga le gambe sotto il tavolo, appoggia la testa allo schienale della poltrona e allarga le braccia.