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Primapagina, quotidiano on-line della Regione Toscana
Cultura e spettacolo
Un libro sul caso di Erika ed Omar della scrittrice Lidia Ravera
Venerdì 20 febbraio presso la Galleria BZF Vallecchi in via Panicale a Firenze, un doppio appuntamento con la scrittrice Lidia Ravera. Alle ore 18.00 un incontro-dibattito dedicato all'ultimo libro "Il freddo dentro" (ed. Rizzoli) sul caso di Omar ed Erika, la sera alle 21.00 una lettura-teatrale di brani tratti dal volume con la partecipazione di Patrizia Zappa Mulas. "Il freddo dentro - ha spiegato la scrittrice - è una lettera, accorata, intima, disordinata come le lettere. Si rivolge a Erika, ma è rivolta a tutti. A tutti quelli che, come me, non credono nel potere taumaturgico dell'oblio".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 20 febbraio 2004
aumentano i casi di suicidio fra i soldati americani in Iraq
Brescia Oggi Venerdì 20 Febbraio 2004
GUERRA IN IRAQ
Soldati Usa suicidi C'è un buco nero dietro i dati ufficiali
Washington. Dall'inizio della guerra in Iraq il Pentagono ha ammesso 22 casi di suicidio tra le truppe inviate a combattere nella regione. Ma il numero potrebbe essere molto più alto. Le statistiche del Pentagono non comprendono i casi ancora sotto indagine, non includono i suicidi negli ospedali militari negli Usa (o al ritorno in famiglia) e, soprattutto, non includono casi di morte in Iraq archiviati come dovuti a «ferite d?arma da fuoco non ostile». Una dizione generica, sostiene Stephen Robinson, dirigente di una associazione di veterani della Guerra del Golfo, usata dalle autorità militari «per nascondere il numero effettivo dei suicidi, molto più alto». La guerra in Iraq, secondo gli esperti, presenta molti paralleli con quella in Vietnam sotto l'aspetto delle conseguenze psicologiche per i soldati americani. A differenza della prima e seconda Guerra mondiale, i combattimenti in corso in Iraq sono stati provocati stavolta dagli Stati Uniti. A differenza del primo conflitto nel Golfo, durato solo quattro giorni di combattimenti attivi per i soldati, stavolta i militari Usa hanno avuto ampio tempo per essere immersi negli orrori del conflitto e riflettere sulle sue conseguenze.
«È una guerra senza un fronte. Il nemico può essere ovunque. Il pericolo è onnipresente. Anche un mucchio di rifiuti può nascondere una trappola mortale», afferma Robinson. Lo stress continuo può incidere duramente sul morale dei soldati. Portando alla depressione e ad uno stato di ansia. «Un militare può sentirsi intrappolato in questa situazione - afferma il colonnello Ricky Malone, capo del dipartimento mentale di un ospedale militare a Baghdad - e per chi vuole uscire a tutti i costi dalla trappola, la morte può essere a volte una soluzione».
I cappellani militari o altri consiglieri spirituali sono uno degli aiuti messi a disposizione dei soldati. Dall'inizio della guerra, l'esercito ha ricoverato almeno 600 soldati in ospedali militari per problemi mentali o psicologici. Il Pentagono sottolinea che la media dei suicidi dei soldati in Iraq (considerando però solo i 22 casi accertati) non è allarmante: è una percentuale del 13,5 per ogni 100.000 soldati, solo leggermente più alta della media generale delle forze armate dell'11 per 100.000 unità. Robinson sostiene però che le cifre reali e definitive dei suicidi tra i soldati in Iraq potrebbero alzare notevolmente questa media. Un aumento nel numero dei suicidi dei soldati nel luglio scorso in Iraq aveva già spinto le autorità militari americane a inviare d'urgenza nel paese una squadra medica specializzata in problemi mentali per indagare sul problema.
[...]
© Copyright 2000-2001, Edizioni Brescia S.p.A. - Tutti i diritti riservati - Website by Intesys s.r.l.
GUERRA IN IRAQ
Soldati Usa suicidi C'è un buco nero dietro i dati ufficiali
Washington. Dall'inizio della guerra in Iraq il Pentagono ha ammesso 22 casi di suicidio tra le truppe inviate a combattere nella regione. Ma il numero potrebbe essere molto più alto. Le statistiche del Pentagono non comprendono i casi ancora sotto indagine, non includono i suicidi negli ospedali militari negli Usa (o al ritorno in famiglia) e, soprattutto, non includono casi di morte in Iraq archiviati come dovuti a «ferite d?arma da fuoco non ostile». Una dizione generica, sostiene Stephen Robinson, dirigente di una associazione di veterani della Guerra del Golfo, usata dalle autorità militari «per nascondere il numero effettivo dei suicidi, molto più alto». La guerra in Iraq, secondo gli esperti, presenta molti paralleli con quella in Vietnam sotto l'aspetto delle conseguenze psicologiche per i soldati americani. A differenza della prima e seconda Guerra mondiale, i combattimenti in corso in Iraq sono stati provocati stavolta dagli Stati Uniti. A differenza del primo conflitto nel Golfo, durato solo quattro giorni di combattimenti attivi per i soldati, stavolta i militari Usa hanno avuto ampio tempo per essere immersi negli orrori del conflitto e riflettere sulle sue conseguenze.
«È una guerra senza un fronte. Il nemico può essere ovunque. Il pericolo è onnipresente. Anche un mucchio di rifiuti può nascondere una trappola mortale», afferma Robinson. Lo stress continuo può incidere duramente sul morale dei soldati. Portando alla depressione e ad uno stato di ansia. «Un militare può sentirsi intrappolato in questa situazione - afferma il colonnello Ricky Malone, capo del dipartimento mentale di un ospedale militare a Baghdad - e per chi vuole uscire a tutti i costi dalla trappola, la morte può essere a volte una soluzione».
I cappellani militari o altri consiglieri spirituali sono uno degli aiuti messi a disposizione dei soldati. Dall'inizio della guerra, l'esercito ha ricoverato almeno 600 soldati in ospedali militari per problemi mentali o psicologici. Il Pentagono sottolinea che la media dei suicidi dei soldati in Iraq (considerando però solo i 22 casi accertati) non è allarmante: è una percentuale del 13,5 per ogni 100.000 soldati, solo leggermente più alta della media generale delle forze armate dell'11 per 100.000 unità. Robinson sostiene però che le cifre reali e definitive dei suicidi tra i soldati in Iraq potrebbero alzare notevolmente questa media. Un aumento nel numero dei suicidi dei soldati nel luglio scorso in Iraq aveva già spinto le autorità militari americane a inviare d'urgenza nel paese una squadra medica specializzata in problemi mentali per indagare sul problema.
[...]
© Copyright 2000-2001, Edizioni Brescia S.p.A. - Tutti i diritti riservati - Website by Intesys s.r.l.
Oriente e Occidente
L'Eco di Bergamo 19.2.04
Guardi il romanico e scopri il lontano Oriente
di Giulio Brotti
I bassorilievi del Battistero di Parma sembrano portare fino a Buddha. E non è l'unico caso
I manuali di geografia astronomica ci informano che in generale l'«Oriente» e l'«Occidente», i punti dell'orizzonte in cui il sole sorge e tramonta, non hanno direzioni fisse, costanti nell'arco dell'anno. Lo studio delle culture umane nel tempo, poi, ci fa capire come per i crociati il «vero» Oriente coincidesse con il Santo Sepolcro, a Gerusalemme, e per Marco Polo con Cambaluc, la capitale dell'impero di Kublai Khan (presso l'attuale Pechino). Il termine rimanda così a significati differenti, ma al tempo stesso collegati nell'immaginario collettivo, per cui l'Oriente non è solo un punto cardinale, ma una dimensione interna ad ogni uomo, luogo psichico della nascita, del dono, della promessa.
Lo splendore delle culture orientali è il titolo del quinto volume della Storia Universale, in vendita da domani con «L'Eco di Bergamo»: un volume davvero da non perdere, perché ci parla di civiltà estese quanto l'Impero di Roma, fondamentali nel corso dell'intera storia umana, ma solitamente neglette dai nostri manuali scolastici ed enciclopedie. Una trascuratezza che ha delle radici profonde: risalgono all'inizio dell'Ottocento, quando la cultura europea fu tentata di assolutizzare il suo punto di vista, di concepirsi come la chiave di volta e il coronamento della storia complessiva dell'umanità. Hegel, rappresentante emblematico di questa concezione, guardava dall'alto in basso tutte le civiltà sorte, nel corso dei secoli, ad Est del Bosforo: «In una singola nazione – scriveva – può pur accadere che si arrestino la cultura, l'arte, la scienza, le facoltà intellettuali in genere; come sembra essere accaduto ad esempio presso i cinesi, i quali giunsero già duemila anni fa al livello di sviluppo in cui si trovano ora». Solo dalle nostre parti, dunque, il pensiero umano sarebbe uscito dalla sua condizione infantile, adottando una forma logica e scientifica, congedandosi dal mito.
Si potrebbe pensare che questi giudizi – con il senno di poi – suonino ancor più ingenui che irritanti, e che oggigiorno, in fondo, siamo tutti posti di fronte all'assioma dell'interdipendenza tra gli esseri umani e le culture, in ogni zona del pianeta. Qui, però, vorremmo piuttosto approfondire l'aspetto degli antecedenti storici di ciò che oggi va sotto il nome di globalizzazione, prendendo spunto da un libro bellissimo di uno storico di origini lituane, Jurgis Baltrusaitis (1903-1988), intitolato «Il medioevo fantastico»: in questo volume, egli rintracciava i «debiti» dell'arte gotica europea nei confronti dell'Asia, i motivi e gli stili che l'iconografia occidentale del medioevo ha ereditato dall'Oriente. Viaggiando nello spazio e nel tempo, questi elementi artistici possono anche ricoprirsi di nuovi significati, fino a rendere difficile la ricostruzione della loro matrice originaria. Talvolta, all'opposto, è ancora possibile comprendere loro genealogia: è questo il caso della celebre «Allegoria della Vita» scolpita nella lunetta del portale sud del Battistero di Parma.
Sappiamo poco dell'autore di questo capolavoro: architetto e scultore, Benedetto Antelami veniva forse dalla zona di Como (se vale l'ipotesi per cui il suo «cognome» significherebbe in realtà «della Val d'Intelvi»). Sicuramente, Antelami ebbe una conoscenza diretta dell'arte romanica francese, soprattutto provenzale, prima di giungere a Parma, alla fine del XII secolo. Qui lavorò nel duomo, in cui scolpì una celebre Deposizione, e poi, a partire dal 1196, diresse la fabbrica del Battistero. Qui, appunto, ci ha lasciato un'insolita allegoria: al centro del bassorilievo, un uomo si arrampica su un albero per raggiungere un favo – anzi, con la mano sinistra è già intento a estrarne il miele, e con la destra se lo porta alla bocca. Sotto di lui però, un drago, lanciando fiamme dalla bocca spalancata, si prepara a divorarlo, mentre due strani quadrupedi (forse maiali, o cani) sono intenti a rodere le radici della pianta.
Ai lati della scena principale, la doppia immagine «clipeata» del Sole e della Luna, rappresentati anche come Apollo e Diana alla guida dei rispettivi carri, costituisce un tributo di Antelami all'iconografia classica, e insieme accentua il pathos della scena: così come i due fanciulli nudi che annunciano l'arrivo della notte suonando delle trombe, e i due, vestiti, che cercano – invano – di fermarne il cammino, con delle specie di bastoni. Qui, è chiaro, l'immagine dell'ignaro freeclimber rappresenta tutti noi: riusciremo a vincere la nostra gara con la brevità della vita, arriveremo mai a conseguire l'oggetto del nostro desiderio, prima che le radici dell'albero su cui siamo appollaiati cedano?
Fra tante immagini analoghe, tipiche del genere artistico del memento mori, l'Allegoria di Parma ha una particolarità: la scena dell'uomo sull'albero ricorre, ad esempio, in alcune miniature di salteri greci e slavi dell'XI secolo, ma anche dipinta in un chiostro di Gmünd, in Germania. Passando alle fonti letterarie, poi, scopriamo che il racconto, inserito in una particolare cornice narrativa (la cosiddetta «leggenda dei Santi Barlaam e Josafat») è quasi un luogo comune dell'immaginario medievale: spostandosi verso Est i particolari cambiano, così come i nomi dei personaggi, ma la narrazione compare, sostanzialmente immutata, in Italia e lungo il Danubio, in Georgia, in Medio Oriente, tra cristiani di ogni confessione, manichei, musulmani. I dettagli si adattano al contesto in cui la narrazione è ripresa e rielaborata: secondo i casi, la leggenda prende le mosse da un personaggio di nome Barlaam, descritto come un devoto eremita che converte alla fede cristiana il principe pagano Josafat, o come un mistico musulmano, un sufi, intento a dimostrare la vanità degli idoli e l'assurdità del politeismo.
In ogni modo, la scena del «cacciatore di miele» da cui siamo partiti è un apologo, una storiella moraleggiante, che l'anziano e saggio Barlaam espone al giovane Josafat, divenuto suo discepolo. Secondo il testo di un papiro arabo, «un uomo, inseguito da un elefante, si nascose in un pozzo. Quivi rimase appeso tenendosi stretto a due rami che salivano lungo le pareti del pozzo. E come si mise a guardare i due rami vide che due sorci (uno bianco, l'altro nero) rosicchiavano senza interruzione le radici dei due rami, mentre giù, nella profondità del pozzo, vide un drago con la bocca spalancata che aspettava solo di divorarlo. Allora rialzò la testa verso i due rami e vide che vi si trovava un po' di miele. Nella furia del piacere, la dolcezza che provò nell'assaggiare quel miele lo distrasse dal pensare al drago con la bocca spalancata, quantunque ben sapesse che cosa sarebbe successo se fosse caduto nelle sue fauci».
Nelle versioni occidentali della leggenda, il principe Josafat, istruito da questa metafora, si converte al cristianesimo e diviene poi un santo. Man mano che si procede verso Oriente, però, la fisionomia del giovane catecumeno cambia: Josafat assomiglia ora a un monarca malinconico e con una certa vocazione alla filosofia, impegnato nella ricerca di un modo per sfuggire ai dolori dell'esistenza umana. In Persia, il suo nome si modifica in Bûdâsaf e in India, in Bodisav. Alle origini di una lunga serie di metamorfosi redazionali, troviamo così, inaspettatamente, la figura del Bodhisattva (in sanscrito, «Natura Luminosa»), un tradizionale appellativo di Gautama Siddharta, il Buddha, nato a Lumbini (nell'odierno Nepal) intorno al 540 a.C.. Certamente ignorava, Benedetto Antelami, mentre scolpiva il bassorilievo del Battistero di Parma, di essere l'ennesimo testimone di una tradizione spirituale iniziata un millennio e mezzo prima, nel centro dell'Asia, da un giovane monarca deciso a indagare e a sopprimere le cause del samsâra: l'insieme dei miraggi e degli affanni che gravano sulla nostra esistenza, «la selva impenetrabile – recita un testo indiano – nel cui fondo, come un immane drago, è il Tempo (kâla), distruttore di tutti gli esseri esistenti, rapitore universale degli esseri dotati di corpo».
Così, nonostante il severo giudizio di Hegel su una presunta «minorità spirituale» dell'Oriente, gli storici hanno trovato, nel caso della lunetta di Parma e in molti altri, le prove di un'osmosi profonda tra le civiltà asiatiche e l'Europa: può essere, ad esempio, che l'arte macabra diffusasi in Occidente verso la fine del medioevo (pensate alla Danza dell'Oratorio dei Disciplini di Clusone) sia stata ispirata ai viaggiatori, o ai missionari cristiani, dai balli rituali del Tibet, in cui compaiono spessissimo tibie e teschi umani. Pensando a questo, viene in mente la definizione che Carl Gustav Jung dava del simbolo, come misteryum coniunctionis: prodigioso annullamento delle distanze, con il quale ciò che sembrava irrimediabilmente frammentato si salda, ogni cosa recupera il suo proprio nome, e il mondo risulta infine abitabile dagli esseri umani.
Guardi il romanico e scopri il lontano Oriente
di Giulio Brotti
I bassorilievi del Battistero di Parma sembrano portare fino a Buddha. E non è l'unico caso
I manuali di geografia astronomica ci informano che in generale l'«Oriente» e l'«Occidente», i punti dell'orizzonte in cui il sole sorge e tramonta, non hanno direzioni fisse, costanti nell'arco dell'anno. Lo studio delle culture umane nel tempo, poi, ci fa capire come per i crociati il «vero» Oriente coincidesse con il Santo Sepolcro, a Gerusalemme, e per Marco Polo con Cambaluc, la capitale dell'impero di Kublai Khan (presso l'attuale Pechino). Il termine rimanda così a significati differenti, ma al tempo stesso collegati nell'immaginario collettivo, per cui l'Oriente non è solo un punto cardinale, ma una dimensione interna ad ogni uomo, luogo psichico della nascita, del dono, della promessa.
Lo splendore delle culture orientali è il titolo del quinto volume della Storia Universale, in vendita da domani con «L'Eco di Bergamo»: un volume davvero da non perdere, perché ci parla di civiltà estese quanto l'Impero di Roma, fondamentali nel corso dell'intera storia umana, ma solitamente neglette dai nostri manuali scolastici ed enciclopedie. Una trascuratezza che ha delle radici profonde: risalgono all'inizio dell'Ottocento, quando la cultura europea fu tentata di assolutizzare il suo punto di vista, di concepirsi come la chiave di volta e il coronamento della storia complessiva dell'umanità. Hegel, rappresentante emblematico di questa concezione, guardava dall'alto in basso tutte le civiltà sorte, nel corso dei secoli, ad Est del Bosforo: «In una singola nazione – scriveva – può pur accadere che si arrestino la cultura, l'arte, la scienza, le facoltà intellettuali in genere; come sembra essere accaduto ad esempio presso i cinesi, i quali giunsero già duemila anni fa al livello di sviluppo in cui si trovano ora». Solo dalle nostre parti, dunque, il pensiero umano sarebbe uscito dalla sua condizione infantile, adottando una forma logica e scientifica, congedandosi dal mito.
Si potrebbe pensare che questi giudizi – con il senno di poi – suonino ancor più ingenui che irritanti, e che oggigiorno, in fondo, siamo tutti posti di fronte all'assioma dell'interdipendenza tra gli esseri umani e le culture, in ogni zona del pianeta. Qui, però, vorremmo piuttosto approfondire l'aspetto degli antecedenti storici di ciò che oggi va sotto il nome di globalizzazione, prendendo spunto da un libro bellissimo di uno storico di origini lituane, Jurgis Baltrusaitis (1903-1988), intitolato «Il medioevo fantastico»: in questo volume, egli rintracciava i «debiti» dell'arte gotica europea nei confronti dell'Asia, i motivi e gli stili che l'iconografia occidentale del medioevo ha ereditato dall'Oriente. Viaggiando nello spazio e nel tempo, questi elementi artistici possono anche ricoprirsi di nuovi significati, fino a rendere difficile la ricostruzione della loro matrice originaria. Talvolta, all'opposto, è ancora possibile comprendere loro genealogia: è questo il caso della celebre «Allegoria della Vita» scolpita nella lunetta del portale sud del Battistero di Parma.
Sappiamo poco dell'autore di questo capolavoro: architetto e scultore, Benedetto Antelami veniva forse dalla zona di Como (se vale l'ipotesi per cui il suo «cognome» significherebbe in realtà «della Val d'Intelvi»). Sicuramente, Antelami ebbe una conoscenza diretta dell'arte romanica francese, soprattutto provenzale, prima di giungere a Parma, alla fine del XII secolo. Qui lavorò nel duomo, in cui scolpì una celebre Deposizione, e poi, a partire dal 1196, diresse la fabbrica del Battistero. Qui, appunto, ci ha lasciato un'insolita allegoria: al centro del bassorilievo, un uomo si arrampica su un albero per raggiungere un favo – anzi, con la mano sinistra è già intento a estrarne il miele, e con la destra se lo porta alla bocca. Sotto di lui però, un drago, lanciando fiamme dalla bocca spalancata, si prepara a divorarlo, mentre due strani quadrupedi (forse maiali, o cani) sono intenti a rodere le radici della pianta.
Ai lati della scena principale, la doppia immagine «clipeata» del Sole e della Luna, rappresentati anche come Apollo e Diana alla guida dei rispettivi carri, costituisce un tributo di Antelami all'iconografia classica, e insieme accentua il pathos della scena: così come i due fanciulli nudi che annunciano l'arrivo della notte suonando delle trombe, e i due, vestiti, che cercano – invano – di fermarne il cammino, con delle specie di bastoni. Qui, è chiaro, l'immagine dell'ignaro freeclimber rappresenta tutti noi: riusciremo a vincere la nostra gara con la brevità della vita, arriveremo mai a conseguire l'oggetto del nostro desiderio, prima che le radici dell'albero su cui siamo appollaiati cedano?
Fra tante immagini analoghe, tipiche del genere artistico del memento mori, l'Allegoria di Parma ha una particolarità: la scena dell'uomo sull'albero ricorre, ad esempio, in alcune miniature di salteri greci e slavi dell'XI secolo, ma anche dipinta in un chiostro di Gmünd, in Germania. Passando alle fonti letterarie, poi, scopriamo che il racconto, inserito in una particolare cornice narrativa (la cosiddetta «leggenda dei Santi Barlaam e Josafat») è quasi un luogo comune dell'immaginario medievale: spostandosi verso Est i particolari cambiano, così come i nomi dei personaggi, ma la narrazione compare, sostanzialmente immutata, in Italia e lungo il Danubio, in Georgia, in Medio Oriente, tra cristiani di ogni confessione, manichei, musulmani. I dettagli si adattano al contesto in cui la narrazione è ripresa e rielaborata: secondo i casi, la leggenda prende le mosse da un personaggio di nome Barlaam, descritto come un devoto eremita che converte alla fede cristiana il principe pagano Josafat, o come un mistico musulmano, un sufi, intento a dimostrare la vanità degli idoli e l'assurdità del politeismo.
In ogni modo, la scena del «cacciatore di miele» da cui siamo partiti è un apologo, una storiella moraleggiante, che l'anziano e saggio Barlaam espone al giovane Josafat, divenuto suo discepolo. Secondo il testo di un papiro arabo, «un uomo, inseguito da un elefante, si nascose in un pozzo. Quivi rimase appeso tenendosi stretto a due rami che salivano lungo le pareti del pozzo. E come si mise a guardare i due rami vide che due sorci (uno bianco, l'altro nero) rosicchiavano senza interruzione le radici dei due rami, mentre giù, nella profondità del pozzo, vide un drago con la bocca spalancata che aspettava solo di divorarlo. Allora rialzò la testa verso i due rami e vide che vi si trovava un po' di miele. Nella furia del piacere, la dolcezza che provò nell'assaggiare quel miele lo distrasse dal pensare al drago con la bocca spalancata, quantunque ben sapesse che cosa sarebbe successo se fosse caduto nelle sue fauci».
Nelle versioni occidentali della leggenda, il principe Josafat, istruito da questa metafora, si converte al cristianesimo e diviene poi un santo. Man mano che si procede verso Oriente, però, la fisionomia del giovane catecumeno cambia: Josafat assomiglia ora a un monarca malinconico e con una certa vocazione alla filosofia, impegnato nella ricerca di un modo per sfuggire ai dolori dell'esistenza umana. In Persia, il suo nome si modifica in Bûdâsaf e in India, in Bodisav. Alle origini di una lunga serie di metamorfosi redazionali, troviamo così, inaspettatamente, la figura del Bodhisattva (in sanscrito, «Natura Luminosa»), un tradizionale appellativo di Gautama Siddharta, il Buddha, nato a Lumbini (nell'odierno Nepal) intorno al 540 a.C.. Certamente ignorava, Benedetto Antelami, mentre scolpiva il bassorilievo del Battistero di Parma, di essere l'ennesimo testimone di una tradizione spirituale iniziata un millennio e mezzo prima, nel centro dell'Asia, da un giovane monarca deciso a indagare e a sopprimere le cause del samsâra: l'insieme dei miraggi e degli affanni che gravano sulla nostra esistenza, «la selva impenetrabile – recita un testo indiano – nel cui fondo, come un immane drago, è il Tempo (kâla), distruttore di tutti gli esseri esistenti, rapitore universale degli esseri dotati di corpo».
Così, nonostante il severo giudizio di Hegel su una presunta «minorità spirituale» dell'Oriente, gli storici hanno trovato, nel caso della lunetta di Parma e in molti altri, le prove di un'osmosi profonda tra le civiltà asiatiche e l'Europa: può essere, ad esempio, che l'arte macabra diffusasi in Occidente verso la fine del medioevo (pensate alla Danza dell'Oratorio dei Disciplini di Clusone) sia stata ispirata ai viaggiatori, o ai missionari cristiani, dai balli rituali del Tibet, in cui compaiono spessissimo tibie e teschi umani. Pensando a questo, viene in mente la definizione che Carl Gustav Jung dava del simbolo, come misteryum coniunctionis: prodigioso annullamento delle distanze, con il quale ciò che sembrava irrimediabilmente frammentato si salda, ogni cosa recupera il suo proprio nome, e il mondo risulta infine abitabile dagli esseri umani.
letteratura cinese
e giapponese
L'Eco di Bergamo 19.2.04
Giappone e Cina, due grandi letterature ancora tutte da esplorare
di Angelo Z. Gatti
Estremo Oriente: fascino, magia, mistero? Ha senso parlare ancora di esotismo? In epoca di telecomunicazione e di globalizzazione sono tutte espressioni ormai consunte. In più, essendo la terra rotonda, dove finisce l'Occidente e dove incomincia l'Oriente? Ponetevi davanti a una cartina geografica con al centro, per esempio, il Giappone o la Cina: vedrete l'effetto che fa. Paesi lontani in termini di spazio sono raggiungibili, sugli schermi, in tempo reale e, viaggiando, con ben poche ore di volo.
Dieci anni fa per arrivare in Giappone occorrevano diciotto/venti ore, oggi ne bastano dodici. Eppure se si apre anche un solo spiraglio sulle civiltà e sulle culture di Giappone e di Cina, si ha l'impressione di trovarsi dinnanzi a pianeti ancora da esplorare. In specie se si affrontano le opere dei periodi classici.
Uno dei primi documenti scritti della letteratura giapponese è una delicatissima fiaba risalente al X secolo d. C.: la «Storia di un tagliabambù».
Di autore anonimo e pervasa del senso buddhista dell'impermanenza, narra l'avventura terrena di una principessa lunare trovata da un boscaiolo dentro il tronco di bambù. In italiano si trova presso Marsilio, tradotta da Adriana Boscaro.
La grande stagione della narrativa nipponica è dovuta alle scrittrici attive intorno all'anno Mille, che scrivono nella lingua parlata, il volgare, a differenza dei nobili e dei funzionari che usano esclusivamente il cinese.
Sono le dame di corte Murasaki Shikibu, Sei Shonagon, Izumi Shikibu con i loro romanzi e i loro diari. Alla grandissima Murasaki Shikibu si deve il capolavoro della classicità nipponica e il primo romanzo psicologico della letteratura mondiale: la «Storia di Genji» (Einaudi). Sei Shonagon è invece celebre per le «Note del guanciale» (Guanda), arguti appunti quotidiani.
I secoli che vanno dal XIV al XVIII sono il periodo d'oro del teatro classico giapponese: il No, originato dalle danze che si tenevano nei templi shintoisti e buddhisti (recitazione, canto, musica, danza), ieratico e stilizzato; il kabuki, il teatro popolare per eccellenza, di grande effetto per gli allestimenti, per gli intrecci a volte complicati, per i colpi di scena, per i costumi; il bunraku, il suggestivo teatro dei burattini (i manovratori sono in vista sul palcoscenico vestiti di nero) che si ispira alle storie e alle leggende tradizionali.
Per la Cina sono universalmente note le «Trecento poesie T'ang», un'antologia compilata agli inizi del XVIII secolo attingendo alle circa cinquantamila composizioni del periodo dal 618 al 907. Vi figurano Li Po, Tu Fu, Wang Wei, Po Chu-i. È poesia lirica nell'esprimere felicità, tristezza, nostalgia, rimpianto, è poesia descrittiva (stagioni, natura, vita quotidiana), è poesia d'amore.
Durante le dinastie Ming e Ch'ing vengono composti i grandi e lunghi romanzi classici cinesi: «In riva al fiume», di difficile attribuzione, storia delle avventure di una banda di briganti (è conosciuto proprio col titolo «I briganti», da Einaudi), «Il viaggio in Occidente», di Wu Cheng'en (nei Classici Rizzoli), noto anche come «Lo Scimmiotto» perché il protagonista, un monaco che si reca in India per raccogliere i testi sacri buddhisti, è accompagnato da una grossa e simpatica scimmia, e i due capolavori di contenuto erotico il «Chin P'ing-Mei», attribuito a Wang Shih-Chen (Einaudi e Feltrinelli), e «Il Sogno della Camera Rossa», di Ts'ao Hsueh-Ch'in (Utet), le vicende galanti di gaudenti libertini e di donne bellissime, con fini moraleggianti. Da divertirsi.
Giappone e Cina, due grandi letterature ancora tutte da esplorare
di Angelo Z. Gatti
Estremo Oriente: fascino, magia, mistero? Ha senso parlare ancora di esotismo? In epoca di telecomunicazione e di globalizzazione sono tutte espressioni ormai consunte. In più, essendo la terra rotonda, dove finisce l'Occidente e dove incomincia l'Oriente? Ponetevi davanti a una cartina geografica con al centro, per esempio, il Giappone o la Cina: vedrete l'effetto che fa. Paesi lontani in termini di spazio sono raggiungibili, sugli schermi, in tempo reale e, viaggiando, con ben poche ore di volo.
Dieci anni fa per arrivare in Giappone occorrevano diciotto/venti ore, oggi ne bastano dodici. Eppure se si apre anche un solo spiraglio sulle civiltà e sulle culture di Giappone e di Cina, si ha l'impressione di trovarsi dinnanzi a pianeti ancora da esplorare. In specie se si affrontano le opere dei periodi classici.
Uno dei primi documenti scritti della letteratura giapponese è una delicatissima fiaba risalente al X secolo d. C.: la «Storia di un tagliabambù».
Di autore anonimo e pervasa del senso buddhista dell'impermanenza, narra l'avventura terrena di una principessa lunare trovata da un boscaiolo dentro il tronco di bambù. In italiano si trova presso Marsilio, tradotta da Adriana Boscaro.
La grande stagione della narrativa nipponica è dovuta alle scrittrici attive intorno all'anno Mille, che scrivono nella lingua parlata, il volgare, a differenza dei nobili e dei funzionari che usano esclusivamente il cinese.
Sono le dame di corte Murasaki Shikibu, Sei Shonagon, Izumi Shikibu con i loro romanzi e i loro diari. Alla grandissima Murasaki Shikibu si deve il capolavoro della classicità nipponica e il primo romanzo psicologico della letteratura mondiale: la «Storia di Genji» (Einaudi). Sei Shonagon è invece celebre per le «Note del guanciale» (Guanda), arguti appunti quotidiani.
I secoli che vanno dal XIV al XVIII sono il periodo d'oro del teatro classico giapponese: il No, originato dalle danze che si tenevano nei templi shintoisti e buddhisti (recitazione, canto, musica, danza), ieratico e stilizzato; il kabuki, il teatro popolare per eccellenza, di grande effetto per gli allestimenti, per gli intrecci a volte complicati, per i colpi di scena, per i costumi; il bunraku, il suggestivo teatro dei burattini (i manovratori sono in vista sul palcoscenico vestiti di nero) che si ispira alle storie e alle leggende tradizionali.
Per la Cina sono universalmente note le «Trecento poesie T'ang», un'antologia compilata agli inizi del XVIII secolo attingendo alle circa cinquantamila composizioni del periodo dal 618 al 907. Vi figurano Li Po, Tu Fu, Wang Wei, Po Chu-i. È poesia lirica nell'esprimere felicità, tristezza, nostalgia, rimpianto, è poesia descrittiva (stagioni, natura, vita quotidiana), è poesia d'amore.
Durante le dinastie Ming e Ch'ing vengono composti i grandi e lunghi romanzi classici cinesi: «In riva al fiume», di difficile attribuzione, storia delle avventure di una banda di briganti (è conosciuto proprio col titolo «I briganti», da Einaudi), «Il viaggio in Occidente», di Wu Cheng'en (nei Classici Rizzoli), noto anche come «Lo Scimmiotto» perché il protagonista, un monaco che si reca in India per raccogliere i testi sacri buddhisti, è accompagnato da una grossa e simpatica scimmia, e i due capolavori di contenuto erotico il «Chin P'ing-Mei», attribuito a Wang Shih-Chen (Einaudi e Feltrinelli), e «Il Sogno della Camera Rossa», di Ts'ao Hsueh-Ch'in (Utet), le vicende galanti di gaudenti libertini e di donne bellissime, con fini moraleggianti. Da divertirsi.
il nuovo film di Michelangelo Antonioni andrà a Cannes
Corriere della Sera 20.2.04
Sarà presentato al Festival di Cannes il film-documento del maestro italiano sul restauro della statua
Antonioni attore e regista per Michelangelo
La moglie: in un anno e mezzo di lavoro tra lui e il Mosè è nato un legame di luci ed emozioni
E adesso, a 91 anni, Antonioni debutta come attore. Protagonista, in coppia con una statua, di un film-documento di 15 minuti di cui firma anche la regia. Il titolo, Lo sguardo di Michelangelo , gioca sulla coincidenza del nome, quello del regista e quello del Buonarroti, artefice del Mosè, una delle statue più celebri del mondo, custodita nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma. Statua che tra breve, fresca del lungo restauro sponsorizzato da Lottomatica, verrà riproposta in tutto il suo splendore, insieme con tre omaggi di tre grandi artisti dei nostri giorni: una serie di ritratti fotografici di Mosè firmati Helmut Newton, una Suite for Moses composta da Michael Nyman, e il documento di Antonioni. Che, prodotto dall’Istituto Luce, dopo l’evento romano, dovrebbe approdare a maggio sulla ribalta del Festival di Cannes, presentato insieme con Eros , il nuovo, attesissimo, film del maestro ferrarese. Racconta Enrica Fico, sua moglie, sua collaboratrice e sua voce: «Convincere Michelangelo a dire sì a questa nuova avventura non è stato facile - racconta -. No grazie, è stata la sua prima risposta. Ma io sono testarda e ho insistito: prima di decidere, andiamo a rivederlo».
E davanti a quel capolavoro, la cui perfezione aveva strappato al suo creatore il grido: perché non parli, il regista, anche lui senza più parola, ha deciso di dedicargli tutto il suo lucidissimo sguardo. «Queste immagini sono costate a Michelangelo un anno e mezzo di lavoro - prosegue la moglie -. Abbacinato dalla bellezza della statua, impressionato dai mille significati religiosi, politici, psicoanalitici del personaggio Mosè, Antonioni ha stabilito con quello straordinario monumento un legame speciale, fatto di attenzione ed emozione. Una partecipazione così intensa che, man mano che lui girava, a sua insaputa, abbiamo cominciato a rubargli qualche immagine. Le sue mani, che sfioravano con leggerezza pensosa i drappeggi della veste di Mosè, ci colpirono. Le sue mani antiche posate su quel marmo erano bellissime».
Un’immagine dopo l’altra e Antonioni è entrato in scena, anche come attore. «Naturalmente ha voluto rigirare quelle scene lui stesso, secondo le regole del suo cinema, come avrebbe fatto per un altro attore - precisa Enrica Fico -. Un ruolo muto in un film che parla solo con immagini e musica. Un brano di Nyman all’inizio, poi il Magnificat di Palestrina, e in chiusura, probabilmente, un brano dodecafonico».
Una presenza carismatica quella del regista che, unita allo splendore della statua e al gioco degli sguardi - quello della statua rivolto verso la luce, quello di Antonioni che la guarda, quello di Mosè diretto a Dio - crea una serie di corti circuiti, estetici ed emotivi. Un grande vecchio di oggi davanti a un grande vecchio simbolo delle tre grandi religioni monoteiste.
«Un intreccio coinvolgente: è come se il Buonarroti andasse a ritrovarsi attraverso un artista d’oggi», commenta la moglie. Ma anche qualcosa di più privato: davanti a quel monumento, che fa parte del complesso della tomba di Giulio II, il messaggio di Antonioni travalica la bellezza per assurgere a meditazione sulla vita e sulla morte, sull’umano e sul divino, così ineguagliabilmente racchiusi in quella pietra piena di luce.
Sarà presentato al Festival di Cannes il film-documento del maestro italiano sul restauro della statua
Antonioni attore e regista per Michelangelo
La moglie: in un anno e mezzo di lavoro tra lui e il Mosè è nato un legame di luci ed emozioni
E adesso, a 91 anni, Antonioni debutta come attore. Protagonista, in coppia con una statua, di un film-documento di 15 minuti di cui firma anche la regia. Il titolo, Lo sguardo di Michelangelo , gioca sulla coincidenza del nome, quello del regista e quello del Buonarroti, artefice del Mosè, una delle statue più celebri del mondo, custodita nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma. Statua che tra breve, fresca del lungo restauro sponsorizzato da Lottomatica, verrà riproposta in tutto il suo splendore, insieme con tre omaggi di tre grandi artisti dei nostri giorni: una serie di ritratti fotografici di Mosè firmati Helmut Newton, una Suite for Moses composta da Michael Nyman, e il documento di Antonioni. Che, prodotto dall’Istituto Luce, dopo l’evento romano, dovrebbe approdare a maggio sulla ribalta del Festival di Cannes, presentato insieme con Eros , il nuovo, attesissimo, film del maestro ferrarese. Racconta Enrica Fico, sua moglie, sua collaboratrice e sua voce: «Convincere Michelangelo a dire sì a questa nuova avventura non è stato facile - racconta -. No grazie, è stata la sua prima risposta. Ma io sono testarda e ho insistito: prima di decidere, andiamo a rivederlo».
E davanti a quel capolavoro, la cui perfezione aveva strappato al suo creatore il grido: perché non parli, il regista, anche lui senza più parola, ha deciso di dedicargli tutto il suo lucidissimo sguardo. «Queste immagini sono costate a Michelangelo un anno e mezzo di lavoro - prosegue la moglie -. Abbacinato dalla bellezza della statua, impressionato dai mille significati religiosi, politici, psicoanalitici del personaggio Mosè, Antonioni ha stabilito con quello straordinario monumento un legame speciale, fatto di attenzione ed emozione. Una partecipazione così intensa che, man mano che lui girava, a sua insaputa, abbiamo cominciato a rubargli qualche immagine. Le sue mani, che sfioravano con leggerezza pensosa i drappeggi della veste di Mosè, ci colpirono. Le sue mani antiche posate su quel marmo erano bellissime».
Un’immagine dopo l’altra e Antonioni è entrato in scena, anche come attore. «Naturalmente ha voluto rigirare quelle scene lui stesso, secondo le regole del suo cinema, come avrebbe fatto per un altro attore - precisa Enrica Fico -. Un ruolo muto in un film che parla solo con immagini e musica. Un brano di Nyman all’inizio, poi il Magnificat di Palestrina, e in chiusura, probabilmente, un brano dodecafonico».
Una presenza carismatica quella del regista che, unita allo splendore della statua e al gioco degli sguardi - quello della statua rivolto verso la luce, quello di Antonioni che la guarda, quello di Mosè diretto a Dio - crea una serie di corti circuiti, estetici ed emotivi. Un grande vecchio di oggi davanti a un grande vecchio simbolo delle tre grandi religioni monoteiste.
«Un intreccio coinvolgente: è come se il Buonarroti andasse a ritrovarsi attraverso un artista d’oggi», commenta la moglie. Ma anche qualcosa di più privato: davanti a quel monumento, che fa parte del complesso della tomba di Giulio II, il messaggio di Antonioni travalica la bellezza per assurgere a meditazione sulla vita e sulla morte, sull’umano e sul divino, così ineguagliabilmente racchiusi in quella pietra piena di luce.
effetto placebo
Yahoo Notizie Venerdì 20 Febbraio 2004, 10:52
(Reuters) Effetto placebo funziona davvero, anche se solo sul cervello
WASHINGTON (Reuters) - Uno studio effettuato sul cervello, i cui risultati sono stati pubblicati ieri, ha dimostrato che l'effetto placebo è davvero efficace sul dolore, anche se agisce esclusivamente sul cervello stesso.
Le persone alle quali vengono somministrati falsi farmaci che ritengono antidolorifici, secondo la ricerca hanno dimostrato una riduzione dell'attività cerebrale nella parte del cervello che regola proprio il dolore.
"Quel che abbiamo provato con lo studio è che quando si ricorre all'effetto placebo, questo ha davvero un qualche effetto sul cervello che riduce la sensibilità", ha detto il dottor Kenneth Casey, neurologo dell'Università del Michigan, che ha condotto la ricerca assieme e a studiosi dell'Università di Princeton.
Lo studio è in linea con altre ricerche che hanno dimostrato che l'effetto placebo provoca mutamenti nel cervello dei pazienti, ad esempio in casi di depressione.
L'effetto placebo è stato conosciuto per secoli e la parola stessa viene dal latino, coniugazione al tempo futuro del verbo piacere, "piacerò".
Per secoli i medici hanno prescritto pillole di zucchero a pazienti che non potevano aiutare altrimenti. L'effetto placebo è talmente forte che gli studi medici includono generalmente un "ramo placebo" per accertare che un farmaco abbia davvero effetto con un meccanismo unico.
Si stima che circa il 30% dei pazienti in diverse condizioni si senta meglio semplicemente con una pillola, un'iniezione o un trattamento medico.
Ma gli effetti, pur se psicologici, sono reali. L'equipe di Casey ha dimostrato che i placebo possono influire sulle zone del cervello che provocano la sensazione di dolore.
"L'attività cerebrale è significativa per determinare quel che sentiamo, come ci sentiamo ed in questo caso di dolore, quanto ne avvertiamo", ha detto Casey nel corso di un'intervista telefonica.
"Quando la gente si aspetta che il dolore diminuisca, i percorsi del dolore, quelle aree del cervello che sappiamo essere attivate dal dolore, dimostrano minore attività, anche se lo stimolo è lo stesso".
(Reuters) Effetto placebo funziona davvero, anche se solo sul cervello
WASHINGTON (Reuters) - Uno studio effettuato sul cervello, i cui risultati sono stati pubblicati ieri, ha dimostrato che l'effetto placebo è davvero efficace sul dolore, anche se agisce esclusivamente sul cervello stesso.
Le persone alle quali vengono somministrati falsi farmaci che ritengono antidolorifici, secondo la ricerca hanno dimostrato una riduzione dell'attività cerebrale nella parte del cervello che regola proprio il dolore.
"Quel che abbiamo provato con lo studio è che quando si ricorre all'effetto placebo, questo ha davvero un qualche effetto sul cervello che riduce la sensibilità", ha detto il dottor Kenneth Casey, neurologo dell'Università del Michigan, che ha condotto la ricerca assieme e a studiosi dell'Università di Princeton.
Lo studio è in linea con altre ricerche che hanno dimostrato che l'effetto placebo provoca mutamenti nel cervello dei pazienti, ad esempio in casi di depressione.
L'effetto placebo è stato conosciuto per secoli e la parola stessa viene dal latino, coniugazione al tempo futuro del verbo piacere, "piacerò".
Per secoli i medici hanno prescritto pillole di zucchero a pazienti che non potevano aiutare altrimenti. L'effetto placebo è talmente forte che gli studi medici includono generalmente un "ramo placebo" per accertare che un farmaco abbia davvero effetto con un meccanismo unico.
Si stima che circa il 30% dei pazienti in diverse condizioni si senta meglio semplicemente con una pillola, un'iniezione o un trattamento medico.
Ma gli effetti, pur se psicologici, sono reali. L'equipe di Casey ha dimostrato che i placebo possono influire sulle zone del cervello che provocano la sensazione di dolore.
"L'attività cerebrale è significativa per determinare quel che sentiamo, come ci sentiamo ed in questo caso di dolore, quanto ne avvertiamo", ha detto Casey nel corso di un'intervista telefonica.
"Quando la gente si aspetta che il dolore diminuisca, i percorsi del dolore, quelle aree del cervello che sappiamo essere attivate dal dolore, dimostrano minore attività, anche se lo stimolo è lo stesso".
Jean Rouch:
la macchina da presa può vedere le qualità interne degli esseri
il manifesto 20.2.04
RICORDO
Uno stregone eccentrico del cuore
Sintetizzò le tendenze di Dziga Vertov e Robert Flaherty, i suoi «antenati totemici»
ENRICO FULCHIGNONI*
Anche se tutte le storie del cinema menzionano il nome di Jean Rouch, egli continua tuttavia a rimanere uno degli autori più «criptici nel gotha della settima arte». Può anche darsi che sia un'ingiustizia, ma è certo anche il modo che Rouch ha, in questo modo sfuggente, di riaffermare orgogliosamente i suoi poteri di stregone. Uno stregone le cui opere rivelano una straordinaria vitalità: un'ansia di muoversi, di correre, di invadere, di inerpicarsi che lo avvicina irresistibilmente a uno dei suoi «antenati totemici»: Vertov. Giovane, vivace, disposto a allearsi anche col diavolo, raffinato, divertente, mordace, generoso, l'esatto contrario del francese medio insomma, Rouch invece rappresenta per me il francese tipo. Con la sua noncuranza, la sua vivacità, la sua gentilezza di stampo antico e le sue ampiezze - mai una caduta di stile, mai una mancanza di tatto - Jean Rouch ama la vita, e ne viene ampiamente contraccambiato. Egli è moderato ma senza avarizie, elegante ma senza ostentazione, amichevole ma senza indiscrezioni, gaudente ma senza eccessi. Rouch ha la stessa levatura dei La Pérouse e dei Cartier, il suo buonumore è irresistibile, rebelaisiano. E finirà col passare la sua vita intera filmando, come fanno i pesci nuotando nell'acqua: e continuando a aver fiducia nell'autenticità degli uomini nella loro vera natura.
Ma c'è un'altra «chiave» per capire il suo lavoro creativo. Rouch, come Flaherty, l'altro suo «antenato totemico», crede nel potere che ha la macchina da presa di vedere, oltre le possibilità dell'occhio umano, le qualità interne degli esseri e le cose. Ed è in questo senso che impiega il termine «magia» per descrivere la sua operazione alchemica. A causa di questa sfasatura, i suoi personaggi ci offrono, quasi sempre, un carattere di singolare buffoneria, intinta di un'emozione misteriosa nel comico come nel dramma, perché la loro natura resta completamente differente da quella di coloro che ci capita di incontrare per strada. Il contrasto è strano e costante: le creature di Rouch, già in apertura, ci sono familiari, e tuttavia si collocano nella notte dei tempi; vivono nel presente ma si situano all'origine di tutto. Non smettono mai di affascinarci poiché, sotto le apparenze del visibile, restano in realtà inaccessibili. E questo incessante andirivieni dalla più estrema lontananza alla più intima familiarità restituisce davanti a noi la sua vera dimensione all'avventura umana. Tutto ciò potrebbe tuttavia sfociare in uno di quei prodotti intellettualistici che tanto appassionano ristrette conventicole di iniziati. Se non fosse che Rouch è l'esatto contrario di un artista intellettuale: la sua adesione carnale ai mondi che sa rivelarci, apre la strada per penetrare in quella relazione sofferta, esaltante, tesa, ma conforme a un'armonia cosmica tra l'uomo e il suo ambiente, che costituisce in fondo, il tema principale della sua opera. Ma c'è qualcos'altro che lo difende dall'intellettualismo: la sua grande bontà. Non credo infatti che Rouch abbia rivolto, neanche una volta in tutta la sua vita, uno sguardo sprezzante su qualcuno o su qualcosa.
Non lo si sente mai sparlare di nessuno, perché non c'è veleno nella sua anima che è ancora, in fondo, piena di entusiasmi infantili. I suoi paesaggi, le sue creature ci apportano sentimenti di pace e di amicizia che assolvono a una funzione rassicurante, pur senza mai passare attraverso scorciatoie come l'analogia, il principio d'identità, le facili emozioni. Tutto ciò non può non derivare da una costanza pratica, dalla solidarietà e dal rispetto umano. Rouch infatti è capace - nella vita - delle più ardue e umili prove di devozione, quanto delle più clamorose follie d'amicizia. È il più straordinario e seducente eccentrico del cuore. In lui c'è come qualcosa di commovente e burlesco al tempo stesso. L'aspetto farsesco deriva dal pudore: anche se pochi, come lui, hanno saputo - e le sue opere sono piene di attestati in tal senso - testimoniare con gravità e nobiltà i momenti più alti di uomini e civiltà. Una regione segreta, una certa solitudine altera in cui si rifugiano gli esseri e le cose: da ciò deriva la particolare bellezza dei territori più recentemente frequentati da Rouch. Solitudine che non è mai condizione miserabile, quanto piuttosto regalità segreta, territorio in cui l'artista, il veggente, riesce a rivelare per noi l'aldilà delle cose, risalire i millenni, raggiungere l'immemorabile notte popolata di morti, farci immergere, insomma, nell'acqua vivificante di miti che si credeva perduti per sempre.
* Il ricordo di Enrico Fulchignoni, docente di psicologia, alto funzionario dell'Unesco e regista di «I due foscari» (1942), «L'ebreo errante» (1947) e «Anni difficili» (1948), è inserito all'interno del catalogo «Jean Rouch - le Renard Pâle» del Museo nazionale del cinema di Torino
RICORDO
Uno stregone eccentrico del cuore
Sintetizzò le tendenze di Dziga Vertov e Robert Flaherty, i suoi «antenati totemici»
ENRICO FULCHIGNONI*
Anche se tutte le storie del cinema menzionano il nome di Jean Rouch, egli continua tuttavia a rimanere uno degli autori più «criptici nel gotha della settima arte». Può anche darsi che sia un'ingiustizia, ma è certo anche il modo che Rouch ha, in questo modo sfuggente, di riaffermare orgogliosamente i suoi poteri di stregone. Uno stregone le cui opere rivelano una straordinaria vitalità: un'ansia di muoversi, di correre, di invadere, di inerpicarsi che lo avvicina irresistibilmente a uno dei suoi «antenati totemici»: Vertov. Giovane, vivace, disposto a allearsi anche col diavolo, raffinato, divertente, mordace, generoso, l'esatto contrario del francese medio insomma, Rouch invece rappresenta per me il francese tipo. Con la sua noncuranza, la sua vivacità, la sua gentilezza di stampo antico e le sue ampiezze - mai una caduta di stile, mai una mancanza di tatto - Jean Rouch ama la vita, e ne viene ampiamente contraccambiato. Egli è moderato ma senza avarizie, elegante ma senza ostentazione, amichevole ma senza indiscrezioni, gaudente ma senza eccessi. Rouch ha la stessa levatura dei La Pérouse e dei Cartier, il suo buonumore è irresistibile, rebelaisiano. E finirà col passare la sua vita intera filmando, come fanno i pesci nuotando nell'acqua: e continuando a aver fiducia nell'autenticità degli uomini nella loro vera natura.
Ma c'è un'altra «chiave» per capire il suo lavoro creativo. Rouch, come Flaherty, l'altro suo «antenato totemico», crede nel potere che ha la macchina da presa di vedere, oltre le possibilità dell'occhio umano, le qualità interne degli esseri e le cose. Ed è in questo senso che impiega il termine «magia» per descrivere la sua operazione alchemica. A causa di questa sfasatura, i suoi personaggi ci offrono, quasi sempre, un carattere di singolare buffoneria, intinta di un'emozione misteriosa nel comico come nel dramma, perché la loro natura resta completamente differente da quella di coloro che ci capita di incontrare per strada. Il contrasto è strano e costante: le creature di Rouch, già in apertura, ci sono familiari, e tuttavia si collocano nella notte dei tempi; vivono nel presente ma si situano all'origine di tutto. Non smettono mai di affascinarci poiché, sotto le apparenze del visibile, restano in realtà inaccessibili. E questo incessante andirivieni dalla più estrema lontananza alla più intima familiarità restituisce davanti a noi la sua vera dimensione all'avventura umana. Tutto ciò potrebbe tuttavia sfociare in uno di quei prodotti intellettualistici che tanto appassionano ristrette conventicole di iniziati. Se non fosse che Rouch è l'esatto contrario di un artista intellettuale: la sua adesione carnale ai mondi che sa rivelarci, apre la strada per penetrare in quella relazione sofferta, esaltante, tesa, ma conforme a un'armonia cosmica tra l'uomo e il suo ambiente, che costituisce in fondo, il tema principale della sua opera. Ma c'è qualcos'altro che lo difende dall'intellettualismo: la sua grande bontà. Non credo infatti che Rouch abbia rivolto, neanche una volta in tutta la sua vita, uno sguardo sprezzante su qualcuno o su qualcosa.
Non lo si sente mai sparlare di nessuno, perché non c'è veleno nella sua anima che è ancora, in fondo, piena di entusiasmi infantili. I suoi paesaggi, le sue creature ci apportano sentimenti di pace e di amicizia che assolvono a una funzione rassicurante, pur senza mai passare attraverso scorciatoie come l'analogia, il principio d'identità, le facili emozioni. Tutto ciò non può non derivare da una costanza pratica, dalla solidarietà e dal rispetto umano. Rouch infatti è capace - nella vita - delle più ardue e umili prove di devozione, quanto delle più clamorose follie d'amicizia. È il più straordinario e seducente eccentrico del cuore. In lui c'è come qualcosa di commovente e burlesco al tempo stesso. L'aspetto farsesco deriva dal pudore: anche se pochi, come lui, hanno saputo - e le sue opere sono piene di attestati in tal senso - testimoniare con gravità e nobiltà i momenti più alti di uomini e civiltà. Una regione segreta, una certa solitudine altera in cui si rifugiano gli esseri e le cose: da ciò deriva la particolare bellezza dei territori più recentemente frequentati da Rouch. Solitudine che non è mai condizione miserabile, quanto piuttosto regalità segreta, territorio in cui l'artista, il veggente, riesce a rivelare per noi l'aldilà delle cose, risalire i millenni, raggiungere l'immemorabile notte popolata di morti, farci immergere, insomma, nell'acqua vivificante di miti che si credeva perduti per sempre.
* Il ricordo di Enrico Fulchignoni, docente di psicologia, alto funzionario dell'Unesco e regista di «I due foscari» (1942), «L'ebreo errante» (1947) e «Anni difficili» (1948), è inserito all'interno del catalogo «Jean Rouch - le Renard Pâle» del Museo nazionale del cinema di Torino
pigrizia?
La Stampa 20.2.04
DA SOCRATE A OBLOMOV, DA EINSTEIN ALLA ARENDT: ESCE IN GERMANIA L'«ENCICLOPEDIA DELLA PIGRIZIA». SENZA CONTRIBUTI ITALIANI
Chi dorme piglia pesci
e scrive capolavori
di Alessandro Melazzini
COS'HANNO in comune Albert Einstein, Richard Wagner, Thomas Mann e Hermann Hesse? La convinzione che il loro illustre compatriota Immanuel Kant si sia sbagliato. Il filosofo tedesco, noto per il suo rigorismo etico, considerava infatti la pigrizia come uno dei vizi peggiori. D'altronde Kant non è certo l'unico intento a confermare l'immagine del tedesco solerte lavoratore, magari in contrasto a quella dell'italiano un poco scansafatiche. L'attuale cancelliere Gerard Schröder, qualche tempo fa, ha ribadito ad esempio che in Germania «nessuno ha diritto alla pigrizia». Chissà se così dicendo si sarebbe ingraziato il voto di Einstein, noto per aver bisogno ogni giorno di almeno 12 ore di sonno.
A conferma che il dolce far niente ha sempre avuto molti ammiratori, proprio in Germania, presso i tipi della Eichborn di Francoforte, è uscita un'Enciclopedia della pigrizia. Curata dal giornalista e storico Wolfgang Schneider, l'opera è anche una gustosa antologia di inni all'ozio, cantati da illustri «pigroni» nel corso degli ultimi tremila anni. Come ben sapevano i Romani, era proprio nel momento dell'otium che l'uomo, finalmente libero dagli affari e dalle occupazioni quotidiane (i negotia), si poteva interamente dedicare a se stesso e alla nobile attività della contemplazione. Del resto, con quale diritto si devono condannare il riposo e l'inazione come vizi capitali? Se San Paolo mette severamente in guardia i Tessalonicesi, ammonendoli con il proverbiale detto «chi non lavora, non mangia», già nella Grecia pagana il grande Socrate considerava il tempo libero da impegni come il bene maggiore. Su questo punto anche Aristotele, solitamente critico verso le idee del saggio portavoce di Platone, si dimostra in accordo con il suo maestro. «Virtù e lavoro», afferma solennemente lo Stagirita, si escludono a vicenda; il lavoro, liquida sdegnoso, è cosa per gli schiavi.
Il lettore che volga lo sguardo al secolo da poco trascorso non fatica a trovare triste conferma di questo sferzante giudizio. Senza pensare alla lugubre insegna che accoglieva i deportati nei campi di concentramento nazisti, cos'è stata la propaganda comunista sovietica, così tenacemente volta alla spasmodica esaltazione del lavoro (si pensi al mito di Stakanov), se non il preciso progetto di ridurre l'uomo libero a ingranaggio della fabbrica totalitaria, per asservirlo e schiavizzarlo?
Immuni al fascino della pigrizia non sono stati neppure i filosofi del Novecento: Hannah Arendt, ad esempio, che trovava spesso ispirazione nei momenti di relax sull'amaca, o Miguel de Unamuno che, tra una riflessione e l'altra sul Sentimento tragico della vita, innalzava lodi all'indolenza, notando come lo sfaccendato sia «uno degli uomini più attivi».
E nonostante l'esortazione dell'apostolo Paolo, non si pensi che gli elogi all'inattività siano esclusi dal messaggio cristiano. Anzi, proprio nel famoso Discorso della Montagna, non è forse Gesù stesso a osservare che, pur senza filare e faticare, i gigli della campagna vantano abiti più eleganti di quelli del glorioso Salomone?
Alla figura dello scioperato sono poi state dedicate affascinanti pagine letterarie. In ambito tedesco, si pensi ad esempio alla Vita di un perdigiorno di Eichendorff o allo Knulp di Hermann Hesse. Ma è forse nell'Oblomov del russo Goncharov che l'apatia viene elevata a stile di vita e «Weltanschauung». Oblomov, un proprietario provinciale di Pietroburgo, trascorre tutto il suo tempo a rivoltarsi nel letto, inconcludente e insensibile, aspettando sonnolento che sia la vita a bussargli alla porta.
Molti intellettuali, infine, seppur più produttivi di Oblomov, in gioventù sono stati ben lontanti dal dedicare impegno ed energia all'attività scolastica. Sia Thomas Mann sia Richard Wagner, così come Hermann Hesse, addirittura non portarono a compimento i loro studi. Se quest'ultimo era solito affermare che la scuola gli aveva causato «molti danni», nondimeno Thomas Mann ricorda di essere stato un alunno «pigro, impenitente e pieno di sarcasmo».
Ma chi, abbandonata la cultura, volesse cercare nella natura il riscatto del lavoro, andrebbe incontro a notevoli sorprese. Dopotutto, si potrebbe opinare, non è forse nel regno animale, in cui domina la lotta per la vita, che vi sono i più edificanti esempi di impegno e operosità? Senza contare che in natura abbondano lumache, tartarughe e cicale, i controesempi sono numerosi. Si pensi agli astuti orsi dell'Alaska, che per cacciare i pesci si piazzano sotto le cascate, aspettando placidamente che la preda cada loro in bocca. Oppure al furbo cucù, talmente lavativo da posare le uova nei nidi degli altri uccelli, risparmiandosi così la fatica di allevare i pargoli affamati. Le uniche a salvarsi paiono essere le api operaie, simbolo per eccellenza di alacre laboriosità. E invece gli scienziati hanno scoperto che un'ape trascorre addirittura il 70 per cento della sua giornata a oziare. Senza contare l'inverno, quando gli unici impegni sono consumare le dispense di miele e conservare calda l'arnia. Forse uno stile di vita da imitare, se si guarda al numero sempre crescente di infarti e malattie da stress dovuti ai troppo frenetici ritmi di lavoro della società contemporanea.
Nella sfilata antologica di intellettuali arruolati da Schneider per difendere la fannulloneria si nota con sorpresa l'assenza di contributi italiani. Ma, come sapeva bene Cesare Pavese, Lavorare stanca, e ulteriori ricerche sarebbero probabilmente costate a Schneider troppa fatica.
DA SOCRATE A OBLOMOV, DA EINSTEIN ALLA ARENDT: ESCE IN GERMANIA L'«ENCICLOPEDIA DELLA PIGRIZIA». SENZA CONTRIBUTI ITALIANI
Chi dorme piglia pesci
e scrive capolavori
di Alessandro Melazzini
COS'HANNO in comune Albert Einstein, Richard Wagner, Thomas Mann e Hermann Hesse? La convinzione che il loro illustre compatriota Immanuel Kant si sia sbagliato. Il filosofo tedesco, noto per il suo rigorismo etico, considerava infatti la pigrizia come uno dei vizi peggiori. D'altronde Kant non è certo l'unico intento a confermare l'immagine del tedesco solerte lavoratore, magari in contrasto a quella dell'italiano un poco scansafatiche. L'attuale cancelliere Gerard Schröder, qualche tempo fa, ha ribadito ad esempio che in Germania «nessuno ha diritto alla pigrizia». Chissà se così dicendo si sarebbe ingraziato il voto di Einstein, noto per aver bisogno ogni giorno di almeno 12 ore di sonno.
A conferma che il dolce far niente ha sempre avuto molti ammiratori, proprio in Germania, presso i tipi della Eichborn di Francoforte, è uscita un'Enciclopedia della pigrizia. Curata dal giornalista e storico Wolfgang Schneider, l'opera è anche una gustosa antologia di inni all'ozio, cantati da illustri «pigroni» nel corso degli ultimi tremila anni. Come ben sapevano i Romani, era proprio nel momento dell'otium che l'uomo, finalmente libero dagli affari e dalle occupazioni quotidiane (i negotia), si poteva interamente dedicare a se stesso e alla nobile attività della contemplazione. Del resto, con quale diritto si devono condannare il riposo e l'inazione come vizi capitali? Se San Paolo mette severamente in guardia i Tessalonicesi, ammonendoli con il proverbiale detto «chi non lavora, non mangia», già nella Grecia pagana il grande Socrate considerava il tempo libero da impegni come il bene maggiore. Su questo punto anche Aristotele, solitamente critico verso le idee del saggio portavoce di Platone, si dimostra in accordo con il suo maestro. «Virtù e lavoro», afferma solennemente lo Stagirita, si escludono a vicenda; il lavoro, liquida sdegnoso, è cosa per gli schiavi.
Il lettore che volga lo sguardo al secolo da poco trascorso non fatica a trovare triste conferma di questo sferzante giudizio. Senza pensare alla lugubre insegna che accoglieva i deportati nei campi di concentramento nazisti, cos'è stata la propaganda comunista sovietica, così tenacemente volta alla spasmodica esaltazione del lavoro (si pensi al mito di Stakanov), se non il preciso progetto di ridurre l'uomo libero a ingranaggio della fabbrica totalitaria, per asservirlo e schiavizzarlo?
Immuni al fascino della pigrizia non sono stati neppure i filosofi del Novecento: Hannah Arendt, ad esempio, che trovava spesso ispirazione nei momenti di relax sull'amaca, o Miguel de Unamuno che, tra una riflessione e l'altra sul Sentimento tragico della vita, innalzava lodi all'indolenza, notando come lo sfaccendato sia «uno degli uomini più attivi».
E nonostante l'esortazione dell'apostolo Paolo, non si pensi che gli elogi all'inattività siano esclusi dal messaggio cristiano. Anzi, proprio nel famoso Discorso della Montagna, non è forse Gesù stesso a osservare che, pur senza filare e faticare, i gigli della campagna vantano abiti più eleganti di quelli del glorioso Salomone?
Alla figura dello scioperato sono poi state dedicate affascinanti pagine letterarie. In ambito tedesco, si pensi ad esempio alla Vita di un perdigiorno di Eichendorff o allo Knulp di Hermann Hesse. Ma è forse nell'Oblomov del russo Goncharov che l'apatia viene elevata a stile di vita e «Weltanschauung». Oblomov, un proprietario provinciale di Pietroburgo, trascorre tutto il suo tempo a rivoltarsi nel letto, inconcludente e insensibile, aspettando sonnolento che sia la vita a bussargli alla porta.
Molti intellettuali, infine, seppur più produttivi di Oblomov, in gioventù sono stati ben lontanti dal dedicare impegno ed energia all'attività scolastica. Sia Thomas Mann sia Richard Wagner, così come Hermann Hesse, addirittura non portarono a compimento i loro studi. Se quest'ultimo era solito affermare che la scuola gli aveva causato «molti danni», nondimeno Thomas Mann ricorda di essere stato un alunno «pigro, impenitente e pieno di sarcasmo».
Ma chi, abbandonata la cultura, volesse cercare nella natura il riscatto del lavoro, andrebbe incontro a notevoli sorprese. Dopotutto, si potrebbe opinare, non è forse nel regno animale, in cui domina la lotta per la vita, che vi sono i più edificanti esempi di impegno e operosità? Senza contare che in natura abbondano lumache, tartarughe e cicale, i controesempi sono numerosi. Si pensi agli astuti orsi dell'Alaska, che per cacciare i pesci si piazzano sotto le cascate, aspettando placidamente che la preda cada loro in bocca. Oppure al furbo cucù, talmente lavativo da posare le uova nei nidi degli altri uccelli, risparmiandosi così la fatica di allevare i pargoli affamati. Le uniche a salvarsi paiono essere le api operaie, simbolo per eccellenza di alacre laboriosità. E invece gli scienziati hanno scoperto che un'ape trascorre addirittura il 70 per cento della sua giornata a oziare. Senza contare l'inverno, quando gli unici impegni sono consumare le dispense di miele e conservare calda l'arnia. Forse uno stile di vita da imitare, se si guarda al numero sempre crescente di infarti e malattie da stress dovuti ai troppo frenetici ritmi di lavoro della società contemporanea.
Nella sfilata antologica di intellettuali arruolati da Schneider per difendere la fannulloneria si nota con sorpresa l'assenza di contributi italiani. Ma, come sapeva bene Cesare Pavese, Lavorare stanca, e ulteriori ricerche sarebbero probabilmente costate a Schneider troppa fatica.
in «tempi difficili»
Corriere della Sera 20.2.04
«Quando il vivere si fa incivile, rinasce la poesia»
di GIUSEPPINA MANIN
«A Milano la gente fa la coda per ascoltare la poesia? A Roma, qualche sera fa al Teatro Argentina, per ascoltare la Bibbia letta e chiosata da Gioele Dix, c'era una fila che prendeva tutta la piazza...» assicura Giorgio Albertazzi. Notizie belle, piccoli miracoli.
«Più che sorprendersi, bisognerebbe aprire gli occhi. Rendersi conto anzitutto che non si vive, neanche in Italia, di sola tv. E poi capire che la poesia, l'arte, sono importanti spie sociali. Quando da qualche parte ne riscoppia la passione, vuol dire che lì si sta vivendo un momento particolare. I formalisti russi, così cari ad Arbasino e anche a me, sono nati nella Russia di Sdanov, nei tempi bui dello stalinismo. Nell'ultima guerra, mentre Londra e Berlino venivano massacrate dalle bombe, i teatri erano pieni, la gente voleva sentire Shakespeare e Goethe. I grandi movimenti culturali arrivano sempre durante i regimi, i governi liberticidi. Quando il vivere si fa incivile, la poesia ricompare: a esorcizzare morte e dolore, a indicare che non tutto è perduto».
In molti però sostengono che la poesia è esperienza solo letteraria, che non bisognerebbe mai recitarla.
«Che follia... È vero l'esatto contrario: la poesia non è fatta per essere letta ma per essere detta. È suono, ritmo, musica. La puoi capire solo leggendola ad alta voce. Me lo insegnò mio padre, tanti anni fa. Ero un ragazzino, stavo ancora alle medie, quando un giorno, invece del solito libro d'avventure, lui mi regalò la Divina Commedia. Lo sfogliai, incuriosito di trovarmi davanti, anziché le righe piene della prosa, quelle più corte dei versi. Lui mi guardava, spiava le mie reazioni. A un certo punto mi chiese di leggere quel che avevo sotto gli occhi, di farlo partecipe. Attaccai: "Nel mezzo del cammin di nostra vita...", di colpo quelle parole che mi parevano oscure presero corpo, si animarono. Scoprii che la poesia è parola. Qualche anno dopo, al liceo, scoprii che è anche azione, in greco poiesis è fare, ma anche dire poesia».
Un amore a prima vista.
«Diciamo a seconda. La cotta vera arrivò qualche classe dopo. Con i capelli rossi e gli occhi azzurri di una "prof" di lettere fascinosa come una sirena. Ero innamorato pazzo di lei. Quando mi chiamava a leggere Dante non capivo niente ma non volevo più smettere per stare un po' di più lì, accanto a lei».
Altri incontri per rinsaldare la passione?
«Neruda. Negli anni Settanta abbiamo inciso insieme un disco: "Venti poesie d'amore e una canzone disperata". Lui le diceva in spagnolo, io in italiano. Diventammo amici e andai a trovarlo a Isla Negra, in Cile, dove abitava con una donna bellissima, una sorta di deità latino americana. Sentire i versi di Pablo dalla bocca di Pablo era ipnotizzante: lui li cantava. Poi mi spiegò che quei versi li scriveva pensando di volta in volta a singoli strumenti musicali andini, a fiato o a corda. Ciascuno era modulato su un suono speciale, e quello andava ricreato dal lettore».
Lei conobbe anche Eliot.
«Quando venne a sapere che avevo registrato in italiano i suoi Four Quartets, si entusiasmò. È la lingua che amo di più, mi disse. E dopo aver ascoltato l'incisione: "Mi piacerebbe che qualcosa del genere venisse fatta anche in Gran Bretagna, ma dubito che qui esista un attore come Albertazzi". Naturalmente non è così, l'Inghilterra è la patria dei più grandi interpreti... Ma mi fece ugualmente un gran piacere».
A proposito d'attori, chi a suo parere aveva più affinità con la poesia?
«Ci sapeva fare Gérard Philippe. Insieme tentammo la scommessa dei poeti francesi, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire... Sempre in disco, una facciata lui in francese, l'altra io in italiano. Lui aveva un naturale talento per cogliere i ritmi, a differenza dei suoi colleghi francesi, così spesso afflitti da quell'insopportabile "ron ron", quella cadenza che rende tutto noiosamente uguale. La voce di Gérard, delicata e gentile, scavava dentro il verso, andava dritta alla sua musicalità».
E gli italiani? Come ce la caviamo noi, popolo di poeti, con i «reading»?
«Forse la colpa è di alcune scuole di recitazione, ma i nostri attori non sembrano avere un grande orecchio. Al contrario dei tedeschi o dei russi, trascurano il fatto che il ritmo ha a che fare con la metrica, anche quando è libero. Pochi l'hanno capito: Gassman, che è stato maestro nelle letture degli americani, Ferlinghetti, Corso... Anna Proclemer: il 33° canto del Paradiso lei lo legge in modo ineguagliabile. E naturalmente Carmelo Bene, il più grande di tutti, un vero musicista».
I versi più difficili?
«Quelli leopardiani. Ho studiato le sue poesie per 30 anni, per cercare l'atmosfera giusta ho inciso il disco di notte, a Venezia. Il trabocchetto di Leopardi è che spesso lo si crede un romantico. Non lo è. Lo si crede pessimista. Non lo è. Solo dopo aver ascoltato mille volte "L'infinito" ho capito come dirlo, come un grande inno alla natura».
I versi più moderni?
«Quelli di Dante e di Shakespeare. Perché sanno comunicare con tutti. Shakespeare si faceva intendere dagli analfabeti che affollavano il suo Globe, Dante, se lo sai dire, trascina le folle. L'estate scorsa, una notte di luglio, dalla Torre degli Asinelli di Bologna, ho letto canti dall'Inferno, Purgatorio, Paradiso. Sotto, ad ascoltare, erano in ventimila. Un'esperienza straordinaria. La poesia cantata nelle piazze può diventare davvero qualcosa di collettivo, di massa. Altro che Grandi Fratelli... Raidue pare intenzionata a mandare in onda prossimamente un pezzetto di quell'evento. Ma la tv di oggi è totalmente allergica alla poesia».
Pensa che potrebbe funzionare in video?
«Molti anni fa ci avevo provato. Conducevo un programma, "Pomeridiana", dove arrivavano i maggiori poeti viventi, da Luzi a Zanzotto, da Petrocchi a Gatto. Lo studio era il prato della mia villa di Roma. Lì, sdraiati sull'erba insieme a gruppetti di studenti, li invitavo a leggere ciascuno le proprie poesie, in modo che quei giovani si abituassero, come diceva Saffo, a riconoscere la sonorità del verso. Che poi è la stessa del coro greco, del melodramma. Perché i grandi sentimenti li devi cantare. Ma lo puoi fare solo se sai leggere la partitura».
«Quando il vivere si fa incivile, rinasce la poesia»
di GIUSEPPINA MANIN
«A Milano la gente fa la coda per ascoltare la poesia? A Roma, qualche sera fa al Teatro Argentina, per ascoltare la Bibbia letta e chiosata da Gioele Dix, c'era una fila che prendeva tutta la piazza...» assicura Giorgio Albertazzi. Notizie belle, piccoli miracoli.
«Più che sorprendersi, bisognerebbe aprire gli occhi. Rendersi conto anzitutto che non si vive, neanche in Italia, di sola tv. E poi capire che la poesia, l'arte, sono importanti spie sociali. Quando da qualche parte ne riscoppia la passione, vuol dire che lì si sta vivendo un momento particolare. I formalisti russi, così cari ad Arbasino e anche a me, sono nati nella Russia di Sdanov, nei tempi bui dello stalinismo. Nell'ultima guerra, mentre Londra e Berlino venivano massacrate dalle bombe, i teatri erano pieni, la gente voleva sentire Shakespeare e Goethe. I grandi movimenti culturali arrivano sempre durante i regimi, i governi liberticidi. Quando il vivere si fa incivile, la poesia ricompare: a esorcizzare morte e dolore, a indicare che non tutto è perduto».
In molti però sostengono che la poesia è esperienza solo letteraria, che non bisognerebbe mai recitarla.
«Che follia... È vero l'esatto contrario: la poesia non è fatta per essere letta ma per essere detta. È suono, ritmo, musica. La puoi capire solo leggendola ad alta voce. Me lo insegnò mio padre, tanti anni fa. Ero un ragazzino, stavo ancora alle medie, quando un giorno, invece del solito libro d'avventure, lui mi regalò la Divina Commedia. Lo sfogliai, incuriosito di trovarmi davanti, anziché le righe piene della prosa, quelle più corte dei versi. Lui mi guardava, spiava le mie reazioni. A un certo punto mi chiese di leggere quel che avevo sotto gli occhi, di farlo partecipe. Attaccai: "Nel mezzo del cammin di nostra vita...", di colpo quelle parole che mi parevano oscure presero corpo, si animarono. Scoprii che la poesia è parola. Qualche anno dopo, al liceo, scoprii che è anche azione, in greco poiesis è fare, ma anche dire poesia».
Un amore a prima vista.
«Diciamo a seconda. La cotta vera arrivò qualche classe dopo. Con i capelli rossi e gli occhi azzurri di una "prof" di lettere fascinosa come una sirena. Ero innamorato pazzo di lei. Quando mi chiamava a leggere Dante non capivo niente ma non volevo più smettere per stare un po' di più lì, accanto a lei».
Altri incontri per rinsaldare la passione?
«Neruda. Negli anni Settanta abbiamo inciso insieme un disco: "Venti poesie d'amore e una canzone disperata". Lui le diceva in spagnolo, io in italiano. Diventammo amici e andai a trovarlo a Isla Negra, in Cile, dove abitava con una donna bellissima, una sorta di deità latino americana. Sentire i versi di Pablo dalla bocca di Pablo era ipnotizzante: lui li cantava. Poi mi spiegò che quei versi li scriveva pensando di volta in volta a singoli strumenti musicali andini, a fiato o a corda. Ciascuno era modulato su un suono speciale, e quello andava ricreato dal lettore».
Lei conobbe anche Eliot.
«Quando venne a sapere che avevo registrato in italiano i suoi Four Quartets, si entusiasmò. È la lingua che amo di più, mi disse. E dopo aver ascoltato l'incisione: "Mi piacerebbe che qualcosa del genere venisse fatta anche in Gran Bretagna, ma dubito che qui esista un attore come Albertazzi". Naturalmente non è così, l'Inghilterra è la patria dei più grandi interpreti... Ma mi fece ugualmente un gran piacere».
A proposito d'attori, chi a suo parere aveva più affinità con la poesia?
«Ci sapeva fare Gérard Philippe. Insieme tentammo la scommessa dei poeti francesi, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire... Sempre in disco, una facciata lui in francese, l'altra io in italiano. Lui aveva un naturale talento per cogliere i ritmi, a differenza dei suoi colleghi francesi, così spesso afflitti da quell'insopportabile "ron ron", quella cadenza che rende tutto noiosamente uguale. La voce di Gérard, delicata e gentile, scavava dentro il verso, andava dritta alla sua musicalità».
E gli italiani? Come ce la caviamo noi, popolo di poeti, con i «reading»?
«Forse la colpa è di alcune scuole di recitazione, ma i nostri attori non sembrano avere un grande orecchio. Al contrario dei tedeschi o dei russi, trascurano il fatto che il ritmo ha a che fare con la metrica, anche quando è libero. Pochi l'hanno capito: Gassman, che è stato maestro nelle letture degli americani, Ferlinghetti, Corso... Anna Proclemer: il 33° canto del Paradiso lei lo legge in modo ineguagliabile. E naturalmente Carmelo Bene, il più grande di tutti, un vero musicista».
I versi più difficili?
«Quelli leopardiani. Ho studiato le sue poesie per 30 anni, per cercare l'atmosfera giusta ho inciso il disco di notte, a Venezia. Il trabocchetto di Leopardi è che spesso lo si crede un romantico. Non lo è. Lo si crede pessimista. Non lo è. Solo dopo aver ascoltato mille volte "L'infinito" ho capito come dirlo, come un grande inno alla natura».
I versi più moderni?
«Quelli di Dante e di Shakespeare. Perché sanno comunicare con tutti. Shakespeare si faceva intendere dagli analfabeti che affollavano il suo Globe, Dante, se lo sai dire, trascina le folle. L'estate scorsa, una notte di luglio, dalla Torre degli Asinelli di Bologna, ho letto canti dall'Inferno, Purgatorio, Paradiso. Sotto, ad ascoltare, erano in ventimila. Un'esperienza straordinaria. La poesia cantata nelle piazze può diventare davvero qualcosa di collettivo, di massa. Altro che Grandi Fratelli... Raidue pare intenzionata a mandare in onda prossimamente un pezzetto di quell'evento. Ma la tv di oggi è totalmente allergica alla poesia».
Pensa che potrebbe funzionare in video?
«Molti anni fa ci avevo provato. Conducevo un programma, "Pomeridiana", dove arrivavano i maggiori poeti viventi, da Luzi a Zanzotto, da Petrocchi a Gatto. Lo studio era il prato della mia villa di Roma. Lì, sdraiati sull'erba insieme a gruppetti di studenti, li invitavo a leggere ciascuno le proprie poesie, in modo che quei giovani si abituassero, come diceva Saffo, a riconoscere la sonorità del verso. Che poi è la stessa del coro greco, del melodramma. Perché i grandi sentimenti li devi cantare. Ma lo puoi fare solo se sai leggere la partitura».
complicità tra stregoni vecchi e vecchissimi
Repubblica 20.2.04
Vaticano: con l'aiuto degli esperti
"Prevenire i crimini dei preti pedofili"
CITTÀ DEL VATICANO - Prevenire i crimini dei preti pedofili con una maggiore collaborazione tra Chiesa e esperti in sessuologia, psicologi, andrologi e psichiatri. Lo chiede un documento della Pontificia accademia per la vita, la cui sintesi ieri è stata anticipata dal «Catholic news service» dei vescovi americani. Si tratta di un rapporto di 220 pagine che raccoglie gli atti del convegno di esperti tenuto lo scorso aprile in Vaticano per affrontare il problema dei preti pedofili che aveva travolto la Chiesa degli Stati Uniti
Vaticano: con l'aiuto degli esperti
"Prevenire i crimini dei preti pedofili"
CITTÀ DEL VATICANO - Prevenire i crimini dei preti pedofili con una maggiore collaborazione tra Chiesa e esperti in sessuologia, psicologi, andrologi e psichiatri. Lo chiede un documento della Pontificia accademia per la vita, la cui sintesi ieri è stata anticipata dal «Catholic news service» dei vescovi americani. Si tratta di un rapporto di 220 pagine che raccoglie gli atti del convegno di esperti tenuto lo scorso aprile in Vaticano per affrontare il problema dei preti pedofili che aveva travolto la Chiesa degli Stati Uniti
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