lunedì 10 gennaio 2005

i crimini cattolici
...come i nazisti

Corriere della Sera 10.1.05
LA CHIESA, LA SHOAH
La storia e la condanna del male
di CLAUDIO MAGRIS


La Storia, ha scritto Giovanni Miccoli, non è giustiziera, non è un tribunale che emetta sentenze di assoluzione o di condanna. A questo principio, affermato da molti storici e anche da Croce in polemica con la storiografia che sconfina col giudizio morale o con l’inchiesta penale, si sono richiamati, in forme diverse, pure altri studiosi nella recente discussione sollevata dalle disposizioni impartite dalla Santa Sede che invitavano a non restituire alle loro famiglie i bambini ebrei nascosti e allevati da associazioni cattoliche durante la Seconda guerra mondiale per sottrarli allo sterminio nazista. Come ha rilevato lo stesso Miccoli, autore di un volume fondamentale e fondante sulla figura e l’opera di Pio XII in merito alla questione ebraica, la discussione giornalistica - che affronta il problema delle responsabilità non solo di Papa Pacelli, ma anche di personalità di solito a lui contrapposte, come i due suoi successori - è stata ed è anche pasticciona.
In molti casi sono state sottolineate con enfasi cose già note e ci si è basati su documenti, molti dettagli dei quali sono ancora incerti e da verificare.
Questo dibattito storiografico ha indubbiamente assunto il tono non di un accertamento di fatti e di una ricerca di fonti, bensì di arringhe d’accusa o di difesa, mosse non tanto da opinioni diverse sulla portata di un documento, quanto piuttosto da convinzioni ideologiche e aprioristiche sulla colpa o l’innocenza dei personaggi chiamati alla sbarra. Chi ha protestato contro tali posizioni - ad esempio Giorgio Rumi o Ernesto Galli della Loggia, ma non solo essi - ha ricordato che la storia non è un tribunale né penale né morale, non è un giudizio sugli uomini, bensì - come diceva uno storico veramente grande quale Franco Venturi - il tentativo di capire come e perché essi sono vissuti. Inoltre, è stato detto, non si può giudicare col senno del poi, bensì occorre calarsi nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti che si cerca di ricostruire e comprendere, nella mentalità e nei sentimenti, valori, abitudini, convinzioni di quell’epoca. Nemmeno il giudizio morale può prescindere dal contesto storico della civiltà e del periodo in cui si sono verificati gli eventi che si valutano: la schiavitù esistente nell’antichità classica, ha scritto giustamente Galli della Loggia, non può ricevere da noi lo stesso giudizio morale che diamo e dobbiamo dare su una schiavitù praticata oggi. Quando Popper mette sullo stesso piano, quali nemici della liberale «società aperta», Platone, Marx e Freud, sorvolando sui due millenni che li separano, compie una scorrettezza concettuale.
Anche l’antisemitismo, sostiene Galli della Loggia, dev’essere valutato nel suo contesto storico e, in particolare, a seconda che ci si riferisca a fatti accaduti o ad atteggiamenti assunti prima o dopo la Shoah - anzi, prima o dopo la presa radicale di coscienza, da parte del mondo, della Shoah e della sua inaudita mostruosità. Sotto un certo profilo, questo è vero: dopo la Shoah, niente è uguale a prima; anche una banale battuta antiebraica suona oggi diversa, impensabile, e quindi il diffuso pregiudizio antisemita presente prima della Shoah pure in tante brave persone, che mai avrebbero torto un capello a un ebreo, non può essere giudicato oggi come se fosse ancora condiviso. Da questo punto di vista, può darsi che Papa Pacelli abbia agito - come glielo consentivano un plurisecolare pregiudizio cattolico antisemita e gli angusti paraocchi della sua origine nobiliare papalina - senza la consapevolezza della reale portata della Shoah. Perciò non era in grado di chiedere perdono agli ebrei né di rivolgersi da cristiano a essi come a «fratelli maggiori», come ha fatto Giovanni Paolo II.
La storia - e la storiografia - non devono dunque essere un giudizio morale né una sentenza giudiziaria. Già dicendo queste parole, «non devono», si proclama tuttavia un imperativo morale, si prescrive ciò che si deve o non si deve fare. Ma è veramente possibile ricostruire come e perché gli uomini hanno vissuto la loro vita e la storia senza dare, quantomeno implicitamente, un giudizio morale? Calarsi nell’epoca in cui sono avvenute infami atrocità è necessario, ma questo significa forse che quelle atrocità diventano meno infami e atroci? Pure le spaventose stragi compiute da Stalin negli anni Trenta sono successe in anni lontani da noi, diversissimi e oggi quasi inimmaginabili nelle loro passioni, nella loro mentalità, nel loro modo di essere e concepire la vita, la storia, la politica, il partito, la violenza.
Anche le ecatombi staliniane vanno certo collocate nel loro contesto e non solo moralisticamente, ideologicamente o strumentalmente denunciate, per capire come e perché siano avvenute. Ma cessano per questo di essere bestiali delitti? È possibile capire la meccanica che ha portato ad Auschwitz senza dare un giudizio morale, anche morale, su quel culmine ineguagliato di orrore, bestialità e imbecille abiezione? Dire che Himmler è un porco non basta certo per capire il nazismo e la storia europea di quel periodo, ma nessuna rigorosa storiografia può eliminare il fatto che Himmler fosse un porco e che è necessario ripeterlo. Le grandi prospettive storiche generali non possono far dimenticare che tutto, ogni dettaglio individuale, sta pure, nell’eternità della sua grazia o del suo orrore, davanti a Dio.
La storia non è giustiziera, ma nemmeno giustificatrice. Calarsi concretamente nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti e i misfatti, come deve fare lo storico, significa ricostruire le concrete possibilità che, in quell’epoca e in quel contesto, si aprivano agli individui, alle forze politiche, alle Chiese. Solo così si può capire quali erano i concreti spazi di libertà di scelta, in base a cui un individuo - come un partito, una Chiesa - viene inevitabilmente giudicato nel suo agire. Non tutti, in una stessa situazione e nella stessa epoca, si comportano allo stesso modo; Farinacci e don Minzoni erano contemporanei, condizionati da tutti i pregiudizi del loro tempo, ma l’uno era un delinquente che schiacciava la libertà con la violenza e l’altro un martire che sacrificava la propria vita per la libertà.
Quando padre Gemelli, nel 1924, appresa la notizia del suicidio di Felice Momigliano, si augura che tutti «i giudei» muoiano insieme a lui, egli è certo radicato in un plurisecolare tessuto antisemita trasmessogli anche inconsciamente dalla tradizione, ma non per questo la sua uscita diviene meno bestiale. Negli stessi anni, tanti altri cattolici, tanti altri sacerdoti sentivano, pensavano e si comportavano diversamente. Anche diversamente da Pio XII, a maggior gloria di Dio e della Chiesa. Pure Pio XII non avrebbe potuto comportarsi come Gandhi o come padre Kolbe e sarebbe ingiusto pretenderlo: non glielo consentivano le condizioni storiche oggettive, come avrebbero detto i vecchi marxisti, il modo storicamente condizionato col quale egli intendeva la responsabilità del suo ruolo e, non ultimo, i talenti che gli erano stati dati dall’imperscrutabile volontà di Dio e che non erano quelli dati, ben più generosamente, a Gandhi o padre Kolbe.
Nel dibattito si è sottovalutato un elemento fondamentale. La Chiesa ha il merito - e il peso - di affermare valori assoluti. Per essa, la verità non è storicamente condizionata e relativa, ma immutabile; non è figlia del tempo, bensì, come dice la sua dottrina, mater temporis , madre del tempo. È dunque la stessa fede cattolica a esigere, pure nei confronti del comportamento della Chiesa, un giudizio non solo storico, bensì morale, basato sull’osservanza o meno dei Dieci Comandamenti, dati secondo essa da Dio a Mosè. Inoltre la Chiesa afferma di essere depositaria, almeno nella proclamazione ex cathedra di dottrina definita, della verità. Da essa dunque non solo si può, ma si deve, se la si prende sul serio, pretendere un comportamento diverso da quello di un governo, di un partito o anche di una confraternita di storici. L’affermazione di alcuni princìpi assoluti è un grande merito della Chiesa. Forse quei princìpi non sono fondati su nulla, forse per la storia dell’universo, tra il Big Bang e il collasso finale, la Shoah non è più rilevante dello spegnersi di una stella o della caduta di un meteorite, ma noi non potremmo comunque vivere senza stabilire una differenza sostanziale fra ciò che sentiamo come relativo e ciò che sentiamo come assoluto, fra una norma di comportamento sessuale che può variare nel tempo e il quinto comandamento o gli ancor più alti e inviolabili postulati dell’etica kantiana. Il suo meritorio richiamo ai princìpi indiscutibili accresce le responsabilità della Chiesa e il nostro diritto di chiamarla a giudizio. Non è colpa di Pio XII non essere stato un santo dinanzi alla Shoah, se non gli era dato di esserlo, ma, se non lo è stato, sarebbe mera inefficace retorica proclamarlo tale.

...e, finalmente, con Mario Pirani, si esprime anche Repubblica:

Repubblica 10.1.05
MARIO PIRANI
I BAMBINI EBREI
E IL PARADOSSO DELLA SHOAH


L'ampia disamina di Adriano Sofri (Repubblica dell´8 us) mi esime dal riassumere la discussione in corso sul Corriere sul rifiuto da parte del Vaticano di restituire quei bambini ebrei battezzati da sacerdoti o famiglie cattoliche che li avevano tratti in salvo dalle deportazioni naziste. Di qui l'aperta ostilità di alcuni, a cominciare dal presidente della Comunità ebraica, Amos Luzzatto, alla beatificazione di papa Pacelli.
Personalmente reputo che i processi di beatificazione rientrino in una ratio tutta interna alla Chiesa e che laici ed uomini di altra fede, liberissimi di esprimere critiche storiche, politiche od anche etiche non abbiano invece veste per giudicare giusta o sbagliata una santificazione liturgica. Vorrei invece intervenire su una tesi espressa, prima da Lucetta Scaraffia (Corriere del 4 us), secondo cui "la Chiesa non è stata mai antisemita, semmai antigiudaica, cosa molto diversa", tesi ripresa poi, con assai più ampio argomentare, da Ernesto Galli della Loggia (7 us). Il quale, partendo da una premessa ovvia, che ribadimmo proprio in polemica con lui, (a esempio sugli eccidi commessi da partigiani a cavallo della Liberazione) secondo cui "non si può giudicare moralmente e storicamente il passato con il metro che adottiamo per giudicare la presente", ne estremizza talmente il senso da renderlo un paradosso inaccettabile alla luce della verità e della più elementare consapevolezza etica. Qui posso solo riassumere il pensiero dell'articolista il quale, dai due assunti appena ricordati, ricava la conclusione che "scandalizzarsi per la mancata ripulsa settanta o ottanta anni fa da parte di uomini e organizzazioni di ciò che oggi definiamo antisemitismo costituisce una grave, indebita forzatura... Quando Pio XII e la Chiesa si muovevano circa la persecuzione antiebraica con il freddo distacco che sappiamo... l'Olocausto, sebbene in corso o da poco trascorso, in realtà non esisteva affatto e per esistere avrebbe dovuto aspettare ancora svariati anni... è infondato definire con il termine per noi oggi obbrobrioso di antisemitismo atteggiamenti che invece sono stati solo di indifferenza, antipatia, repulsa storico-religiosa, diffidenza sociale... Bisogna insomma capire... che l'Olocausto e la sua successiva concettualizzazione, risalente a non prima degli anni '60, hanno posto l'antisemitismo... su basi interamente nuove... Partire da queste nuove basi attuali per giudicare fatti e uomini del passato è... un puro moralismo privo di verità". Parole che destano in me una sensazione di attonito sbalordimento forse dovuto all'età e ai ricordi diretti di cosa fu l'antisemitismo nazi-fascista e l'orrore che percorse il mondo civile quando l'Armata rossa e gli Alleati liberarono gli ultimi sopravvissuti dei campi, fotografarono e filmarono le fosse dello sterminio, ne condannarono a Norimberga i principali responsabili. Possibile che Galli della Loggia abbia dovuto attendere il 1960 e la cosiddetta "concettualizzazione" della Shoah per accorgersi che c'era stata? E che questa tardiva presa di coscienza giustifichi un diverso giudizio morale e storico? Come, tra l'altro, ignorare che la percezione delle responsabilità europee nel non contrastare il Genocidio fu talmente incombente da spingere, più di ogni altro motivo, l'Onu a riconoscere Israele? Forse Galli elabora il suo giustificazionismo retroattivo attribuendo una qualche nobiltà alla rimozione iniziale che portò tanti tedeschi a dirsi che "non sapevano" o tanti francesi a dimenticare l'adesione convinta a Vichy e 3 milioni di delazioni contro gli ebrei durante l'occupazione, di cui solo ora si comincia a parlare. Quanto all'assoluzione della Chiesa, basata su una definizione dell'antigiudaismo come semplice "antipatia e repulsa storico-religiosa" essa semplicemente prescinde da duemila anni di roghi, massacri, ghetti, discriminazioni, battesimi forzati, persecuzioni di ogni tipo, tutte incardinate sulla colpa ebraica per la morte del Cristo.
Senza queste spaventose premesse, religiose e di fatto, la "soluzione finale" inventata da Hitler non sarebbe stata attuata nella indifferente acquiescenza di masse cattoliche, protestanti e ortodosse che avevano introiettato lo stilema secondo cui "a causa del loro crimine gli ebrei vanno tenuti in perpetua schiavitù", come, a esempio, nel Duecento recitava San Tommaso d'Acquino. Se così non fosse perché mai il Papa avrebbe chiesto perdono al Muro del pianto, sviluppando quella feconda revisione teologica inaugurata dal Concilio Vaticano II? Certo, se avesse ragionato come Galli della Loggia, se ne sarebbe astenuto.

sinistra
sull'Unità di oggi: una intervista a Fausto Bertinotti
a pag. 6

Apcom 10/01/2005 - 09:25
GAD/ BERTINOTTI: L'ALLEANZA NON HA ALTERNATIVE
Sull'Unità di oggi
"Non è importante entrare al Governo, ma battere Berlusconi"


Roma, 10 gen. (Apcom) - «L'Alleanza non ha alternative». Fausto Bertinotti è irremovibile: l'unione tra il centrosinistra e Rifondazione comunista è nel futuro, anche se costellato di incertezze. Per dire ciò, il segreatrio Prc sceglie come "tribuna" l'Unità, dalle cui pagine sottolinea come «l'obiettivo principale è mandare a casa questo esecutivo, espressione in Italia della crisi di civilità prodotta dalla rivoluzione capitalistica». Secondo Bertinotti «una forza di sinistra o fa questo oppure va in pensione».
«Una sola cosa non esiste - afferma a proposito dei rapporti con il centrosinistra - e cioé la desistenza. Oggi è impraticabile e quindi bisogna lavorare per costruire un programma comune» nella consapevolezza che «qualunque sia la collocazione che il Prc sceglie rispetto al governo, i suoi voti sono determinanti per battere Berlusconi». Quanto a Romano Prodi, prosegue, «è il leader dell'Alleanza, ma se si fanno le primarie io mi candido ed è naturale che vorrò guadagnare più consensi possibili».
In queste settimane Bertinotti, oltre alla Gad, è impegnato anche sul tavolo interno e nel corso dell'intervista ne dà ampio conto: il congrsso di Rifondazione è alle porte e il segretario deve guardarsi dalle opposizioni interne, particolarmente agguerrite sul no all'adesione alla Gad. «Vorrei che fosse chiaro che il congresso decide con il 51%. È nella sua podestà, altrimenti si toglie legittimità, e valore al voto degli iscritti (...) io non sono un segretario di sintesi, quella della sintesi è una categoria che non mi appartiene. Con la maggioranza si governa il partito».

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L'Unità 10.1.05
"L'ALLEANZA NON HA ALTERNATIVE"
Bertinotti replica alla minoranza Rc: «Non è importante entrare in un futuro governo, decisivo è battere Berlusconi»
Simone Collini

ROMA - Onorevole Bertinotti, al congresso di Rifondazione comunista sono state presentate quattro mozioni alternative alla sua, e tutte sono contrarie all'adesione del vostro partito all'Alleanza e all'entrata in un eventuale governo di centrosinistra. La cosa non la preoccupa?
«Intanto, ilcentro del congresso non è la questione del governo. Con questo appuntamento si porta a compimento la svolta attuata con la scelta della collocazione nei movimenti. E' la rifondazione di un pensiero e di una pratica comune il punto fondamentale. A lungo abbiamo inseguito un'uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio, che ora non casualmente ha portato all'accumulazione di elementi di innovazione che vanno dalla rottura con lo stalinismo fino alla scelta della nonviolenza».
Però nelle discussioni interne al partito l'adesione all'Alleanza ha finito per prendere il sopravvento.
«La crisi profonda che la politica vive in Europa, la vera e propria cris idi civiltà che ha prodotto questa rivoluzione capitalistica, in Italia è data dalla presenza del governo Berlusconi. La questione, su questo terreno, è: come si fa a cacciare Berlusconi? Se non si trova una risposta a questa domanda una forza di sinistra può anche andare in pensione, perché non intercetta la domanda fondamentale che viene dai popoli della sinistra».
E la risposta quale sarebbe?
«Costruire un'alternativa di governo, ovviamente».
Il presidente dei senatori Prc Luigi Malabarba, primo firmatario della mozione numero 4, sostiene che non sarebbe comunque un governo di alternativa, e che quindi Rifondazione comunista non ne dovrebbe fare parte.
«La costruzione dell'Alleanza democratica non può essere evitata se non si vuole aprire una crisi di fondo con la domanda che viene da tutto il popolo della sinistra. Le obiezioni mi paiono frutto di una resistenza che però non propone un'alternativa politica, se non quella che dice che non si può andare al governo in questa fase dello sviluppo capitalistico».
Nel suo partito c'è chi propone di stringere con il centrosinistra non un'alleanza programmatica e di governo ma un patto politico-elettorale con successivo appoggio esterno del Prc.
«E quale sarebbe il risultato? Quello di battere Berlusconi e poi non determinare le condizioni perché ci sia una maggioranza nel paese per governare? Questa posizione avrebbe come massima ambizione quella di far sì che Rifondazione comunista sia ininfluente o non determinante nella costruzione dell'alternativa, per cui se ne possa fare a meno. Per fortuna siamo invece determinanti, come dicono i numeri».
È un discorso riguardante i voti, quindi le elezioni, non necessariamente il governo.
«Quale che sia la collocazione che Rifondazione comuimista sceglie rispetto al governo, se si decide di contribuire all'alternativa a Berlusconi si deve sapere che i suoi voti sono determinanti. Ora, che siano determinanti dentro al governo o fuori dal governo è irrilevante per qualunque cittadino. Noi diciamo che una sola cosa non esiste: la desistenza. Oggi è impraticabile, e quindi bisogna lavorare per costruire un programma comune».
Allo stato attuale, viste anche le proposte avanzate da Rutelli nei giorni scorsi, vede i margini per la realizzazione di un programma condiviso?
«Il programma condiviso, come diceva un grande rivoluzionario, non è un pranzo di gala, è una lotta politica e sociale, è un processo politico in cui c'è il consenso e il conflitto. Quel che è sicuro già da ora è che per costruirlo bisogna battere delle propensioni neocentriste che ci sono nella coalizione».
La preoccupano?
«Mi preoccupa chi crede che si possa combattere la precarietà, chedovrà essere un obiettivo del governo di coalizione democratica, senza rimuovere la legge 30, la Bossi-Fini e la legge Moratti».
Secondo Malabarba quando si entrerà nel vivo della discussione programmatica verrà alla luce la distanza che vi separa dal centrosinistra e lei sarà costretto a dirottare dall'accordo di governo al patto politico-elettorale.
«Noi stiamo facendo un congresso in cui questo passaggio è nitido. Nel documento della maggioranza proponiamo che se si costruisce l'Alleanza democratica in alternativa a Berlusconi e il programma condiviso, Rifondazione comunista deve far parte a pieno titolo della formazione del governo. Questi sono i due passaggi previsti».
Pensa che riuscirà a guidare fino in fondo il partito in questo processo anche se non otterrà un ampio consenso al congresso?
«Vorrei che fosse chiaro che il congresso decide con il 51%. E' nella sua potestà, altrimenti si toglie legittimità e valore al voto degli iscritti al partito. Garantire che la maggioranza farà vivere la sua linea è un elemento di responsabilità necessaria per dare dignità al voto di ogni iscritto».
All'ultimo comitato politico nazionale la linea della maggioranza ha ottenuto circa il 56% dei consensi. È possibile che cercherà un accordo con le parti della minoranza meno distanti per cercare di portare avanti il processo?
«Io non sono un segretario di sintesi. Quella della sintesi è una categoria che non mi appartiene. Un partito, come ogni organismo democratico, è meglio se riesce ad essere il più unitario e convergente possibile in una scelta. Ma in ogni caso sale la democrazia: si scelgono e si praticano con nettezza delle scelte e ci si espone alla verifica del congresso, che dirà se la linea costruita ha il consenso oppure no. Ma se si supera il 50% vuol dire che il senso ce l'ha, punto, si governa il partito e si porta avanti quella linea».
La costruzione dell'Alleanza non rischia di far slittare la creazione di un'aggregazione di sinistra alternativa, che dite essere vostro obiettivo?
«Nient'affatto, le due cose sono anzi legate, perché il punto è sempre la costruzione di un programma di alternativa. E per spostare a sinistra, per spostare nella direzione della trasformazione l'asse programmatico di questa coalizione c'e bisogno di una soggettività politica con la forza necessaria per compiere questa operazione. E Rifondazione comunista pensa di poter farlo insieme ad altri, dato che in questi anni forze politiche, sociali, culturali, di movimento e di associazione sono andate configurando una significativa capacità di convergenza sugli obiettivi e sui programmi, persino al di là delle collocazioni di partito».
Le difficoltà incontrate da Prodi dal suo rientro in Italia la preoccupano, visto che ha costruito la sua operazione su un'Alleanza guidata da lui?
«Questo è un processo di costruzione di una coalizione, e in questo processo naturalmente c'e il ruolo riconosciuto di Prodi, a meno delle primarie».
Che vuole dire? Prodi è o no, secondo lei, il leader dell'Alleanza?
«Sì, ma se si fanno le primarie io mi candido, ed è naturale che mi proporrò di guadagnare più consensi possibili».
Nel suo partito c'è anche chi non vede di buon occhio la sua candidatura. Il primo firmatario della mozione numero 2, Claudio Grassi, fa notare che le primarie sono proprie del sistema maggioritario e alimentano la personalizzazione della politica, quindi non sono il terreno proprio di Rifondazione comunista.
«Forse che perche siamo proporzionalisti non ci presentiamo alle elezioni con il maggioritario? Le primarie, fosse per noi, non le avremmo fatte. Ma nel momento in cui vengono proposte diventano un terreno di iniziativa politica, al punto che possono anche costituire degli utili elementi per garantire una partecipazione altrimenti impossibile, come dimostra il caso della Puglia. Penso anzi sia giusto procedere su questa strada anche sui temi programmatici, perché l'idea che questa Alleanza faccia della democrazia uno degli elementi di ispirazione generale dei propri comportamenti può diventare una grande opportunità».

il linguaggio artistico dei bambini

Repubblica 10.1.05
Tre mostre e un libro affrontano il tema del rapporto tra infanzia e pittura
SE L'ARTISTA SI ISPIRA AI DISEGNI DEI BAMBINI
Uno sguardo puro in sintonia con la rivolta contro la tradizione accademica
MASSIMO AMMANNITI


Arte e bambini, un tema che si sta imponendo in questi ultimi mesi: una mostra che si è tenuta presso lo Shim Kunsthalle di Francoforte, una seconda mostra presso il Palazzo Te a Mantova e infine questa mostra Les enfants terribles. Il linguaggio dell'infanzia nell'arte 1909-2004 in corso presso il Museo Cantonale di Lugano. Ma anche libri come quello recentemente pubblicato in Italia della psicologa americana Claire Golomb L'arte dei bambini (Cortina Editore, pagg.165, euro 24,50).
Non si tratta certo di una moda, ma di un tema che ha sempre suscitato grande interesse sia in campo artistico che psicologico. Una prima prospettiva riguarda le immagini dell'infanzia nella pittura nel corso dei secoli. Prendiamo ad esempio il dipinto di Giovanni Francesco Caroto Fanciullo con disegno del 1521 esposto nella mostra. L'immagine del fanciullo è senz'altro rassicurante. Il fanciullo, infatti, è rivolto verso l'osservatore con un sorriso accattivante mentre mostra il suo disegno su cui ha tratteggiato la prima immagine grafica di ogni bambino, la figura umana. Ben diverso è il quadro di Oscar Kokoschka Bambini che giocano dipinto nei primi del '900. Le immagini dei due bambini trasmettono una nuova concezione dell'infanzia e una capacità di cogliere e di rappresentare l'atteggiamento tormentato e allo stesso tempo trasognato, che si esprime nei loro volti e nei corpi quasi contorti, segno della goffaggine e della disarmonia che caratterizza il passaggio dall'infanzia all'adolescenza.
Il quadro di Kokoschka non può non riflettere il nuovo clima culturale e scientifico che si respira a Vienna, in cui il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, mise profondamente in discussione la concezione dell'infanzia convenzionale e rassicurante che aveva fortemente impregnato la società asburgica, ipotizzando, al contrario, che «il bambino possa, sotto l'influsso della seduzione, diventare un perverso polimorfo e possa essere avviato a tutte le possibili prevaricazioni».
Ma oltre alle immagini dell'infanzia riflesse nell'arte vi è una seconda prospettiva che ha una maggiore rilevanza psicologica in quanto cerca di definire le tappe attraverso cui i bambini cominciano ad utilizzare il tratto grafico e il disegno per esprimere i propri sentimenti e i propri stati interiori. Chi osserva le figure disegnate dai bambini non può non rimanere stupito dalle strane figure umane cefaliche, ossia con un grande testone da cui fuoriescono arti filiformi.
Anche la critica artistica si è imbattuta nelle produzioni pittoriche dei bambini, chiedendosi se si potesse trattare di arte. Addirittura la critica artistica ha anticipato la psicologia: se rileggiamo, ad esempio, le pagine dello straordinario libro L'arte dei bambini, pubblicato nel 1887, dello storico dell'arte Corrado Ricci, che in seguito avrebbe avuto un ruolo decisivo nel mondo museale italiano di fine '800 dirigendo grandi Musei come Brera o gli Uffizi, ma anche contribuendo a fondare la moderna storia dell'arte. Le osservazioni di Ricci sono addirittura stupefacenti quando descrive la "trasparenza" tipica dei disegni infantili. Come annota nel suo libro se un bambino tratteggia una persona a cavallo il disegno mostra entrambe le gambe, nonostante una delle due sia coperta. Secondo Ricci la logica dei bambini quando disegnano è quella di rappresentare «l'uomo e le cose invece di riprodurle artisticamente; cercano di riprodurle nella loro complessione assoluta e non nella risultanza ottica».
Ci si può chiedere a questo punto perché l'infanzia abbia rappresentato un riferimento mitico per molti pittori dell'ultimo secolo, come ad esempio Picasso oppure Paul Klee o Kandinskij, mentre in precedenza nessuno vi aveva prestato attenzione, se non eccezionalmente lo storico dell'arte Ricci?
Era comune in questi pittori ed avanguardie artistiche il rifiuto della tradizione artistica, radicata nel naturalismo, e allo stesso tempo la ricerca di un modo più diretto ed immediato di rappresentare il mondo, che ai loro occhi emergeva dai disegni dei bambini. In momenti diversi della loro vita artisti come Léon Bakst, Marc Chagall, André Derain, Raoul Dufy, Vasilij Kandinskij, Ernst Ludwig Kirchner, Paul Klee, Joan Mirò, Gabriele Munter furono influenzati dai disegni dei bambini, forse con maggiore evidenza Paul Klee. Molti di questi artisti attribuirono grande valore ai propri disegni durante l'infanzia che avevano conservato e molti di loro, come si può osservare in questa mostra, collezionavano disegni di bambini.
Nel loro entusiasmo fantasticarono che i bambini con la loro curiosità e la loro capacità di meravigliarsi potessero percepire aspetti della realtà e misteri del mondo, che sono afferrabili solo da una mente ingenua, priva di pregiudizi e costruzioni difensive. Questa "visione originaria" era una sorta di Paradiso Perduto, a cui bisognava ritornare se si voleva far rinascere l'arte, che ormai nelle Accademie e nelle scuole artistiche era divenuta troppo convenzionale.

Gabriel Levi su La Stampa
«i disagi psicologici dei bambini»

La Stampa 10.1.05
I disagi psicologici dei bambini
Troppi lupi cattivi
di Gabriel Levi

Ordinario di Neuropsichiatria Infantile
Università «La Sapienza» di Roma
SPETTRI minacciosi si aggirano, in Italia, intorno ai bambini ed agli adolescenti. Negli ultimi mesi, la stampa ha dato e ripetuto diverse notizie impressionanti. Un bambino su cinque avrebbe problemi psichiatrici. I bambini che subiscono dei traumi psicologici importanti sono più di 30 su 100 e si prevede che, entro pochi anni, arriveranno a 50 su 100. Gli abusi sessuali sono in aumento, in particolare quelli extra-familiari. Più di 12 adolescenti su 100 riferiscono di aver subito un qualche abuso psicologico o sessuale. Due bambini su 100 sarebbero depressi. Cinque bambini su 100 avrebbero la sindrome di Iperattività - Disattenzione.
Le posizioni assunte sull'argomento sono contrastanti: le cure mediche sarebbero troppe. Le cure psicologiche sarebbero poche. Ma si dice anche il contrario. In particolare tutti sostengono che bisogna curare di meno ed educare di più. Dietro tutte queste patologie ci sarebbero delle situazioni sociali determinanti: l'aumento della violenza cui i ragazzi assistono e partecipano; la rarefazione della società civile, con un incremento temibile della solitudine infantile. Lo sviluppo di personalità sane sarebbe sempre più difficile se si propongono allo stesso tempo modelli iper adulti e modelli infantilizzanti. Oppure si precisa che una cultura della competitività ed una cultura del branco non sono integrabili con una cultura della solidarietà. O si propone ai ragazzi di farsi duri e furbi, perché la vita è una guerra. O si propone ai ragazzi di vivere il rispetto di sé attraverso l'educazione dei sentimenti.
Le domande che vorrei porre sono semplici: «Quale valore e quale senso hanno tutte queste segnalazioni allarmanti? Le interpretazioni di questi dati sono corrette? L'infanzia e l'adolescenza sono entrate nell'apocalisse? Che cosa si può fare per prevenire e bloccare il fenomeno?» In questo contesto mi interessa aprire un dibattito e prendo posizione, con chiarezza. I bambini che hanno problemi psicologici seri, che necessitano di cure per essere risolti, sono circa 8 su 100. Chi afferma il contrario e sbandiera epidemie catastrofiche non considera che un problema psicologico può presentarsi, nello stesso tempo, in diversi modi e quindi può essere conteggiato più volte. Per di più un problema si può presentare in forma molto lieve e transitoria oppure in forma molto più grave e duratura. Confondere queste due fasce di problema porta il rischio di curare i sani e di abbandonare i veri malati. I Servizi Pubblici di Neuropsichiatria e Psicologia Clinica dell'Età Evolutiva seguono stabilmente 4 bambini su 100 (negli USA meno di 2 su 100). Si tratta di raggiungere la popolazione sommersa che ha dei disagi, ma non dei disturbi.
Prima che un bambino presenti un problema clinico esiste un lungo periodo, che può durare anche quattro - sei anni, in cui lo stesso bambino presenta una nebulosa di piccole difficoltà, che potrebbero essere affrontate e risolte, con minore costo e minore sofferenza. Questa è la popolazione che andrebbe aiutata in toto, senza costruire dei casi clinici ma lavorando su tipologie di problemi nella popolazione generale. Tutti i bambini subiscono, con il fatto di crescere, dei piccoli - grandi traumi. E tutti i bambini debbono essere aiutati ad affrontare queste situazioni, in maniera da diventare allo stesso tempo più forti e più sensibili, con se stessi e con gli altri. Dobbiamo capire che «ama per il tuo prossimo quello che ami per te stesso» non è soltanto una massima morale. E' una pratica educativa, attraverso cui un bambino può imparare ad amare se stesso sviluppando relazioni positive con gli altri.
Viviamo un'epoca storica difficile. Cerchiamo di prepararci a costruire una realtà storica umana più ricca e di imparare dai nostri figli e dai nostri nipoti a giocare. Dovremmo riflettere sul fatto che, invece, i video-giochi più utilizzati dai bambini sono quelli in cui l'eroe verde deve ammazzare quanti più individui blu può. Il fatto è che questi sono quelli proposti dagli adulti ai ragazzi. Chi lavora giorno per giorno con i bambini che soffrono psicologicamente sa una cosa: lo sviluppo e la cultura dagli affetti non è cambiata nei bambini e negli adolescenti; sono cambiate le possibilità che bambini ed adolescenti hanno di esprimere i loro sentimenti. Senza compiacenza. Senza maschere. Senza caricature provocatorie.

da AVVENIMENTI adesso nelle edicole
«L'ARTE ABBANDONATA»

di Simona Maggiorelli

Sul numero di Avvenimenti in edicola c'è un dossier su tutte le malefatte di questo governo rispetto all'arte. Qui di seguito l'intervista che lo apre. La signora in questione Jadranka Bentini, è una figura importante nel panorama della tutela in Italia, che di recente, un anno prima della pensione, ha deciso di rinunciare al proprio ruolo in polemica con questo governo, ma la notizia è stata riportata solo in un trafiletto dal Resto del Carlino!
A seguire, acquistando il settimanale si può leggere un pezzo molto duro di Italia Nostra, firmato dalla presidente Desideria Pasolini dall'Onda e intitolato "Beni culturali lo Stato si suicida" e poi un pezzo che ricapitola tutte le decisioni del ministero dei Beni culturali, fra vendite della Patrimonio Spa, inadempienze e scippi - come sempre - perpretati a fine anno. Quando l'opinione pubblica è distratta dalle vacanze.
Avvenimenti
L’arte abbandonata

“Tutelare il nostro patrimonio è diventato un compito impossibile”. La dolorosa scelta della soprintendente emiliana Jadranka Bentini. Che si è dimessa. Per protesta
di Simona Maggiorelli

Avrebbe potuto rimanere un anno ancora, nel ruolo di soprintedente, che ha ricoperto per molti anni, a Bologna, a Modena, Ferrara e altrove. Ma Jadranka Bentini, cresciuta nella grande lezione di Gnudi e Emiliani, dopo il recente successo della mostra ferrarese dedicata ai tesori degli Este, ha deciso di abbandonare . “Avendo scelto, molti anni fa, la strada della tutela – racconta – per me è stato un dolore immenso lasciare”.
Che cosa l’ha spinta a farlo?
Nella situazione in cui versano le soprintendenze, non mi sentivo più utile. Ho pensato che avrei potuto meglio dare il mio contributo lavorando dall’esterno. Negli ultimi cinque anni, il lavoro in soprintendenza era diventato impossibile. Un’enorme e paralizzante ingegneria di procedure. Eravamo subissati a tal punto che, gran parte del nostro tempo, lo passavamo a confezionare tabelle. Una cosa alienante e assolutamente stupida.
Insomma, non poteva più fare il suo lavoro?
Mi sono trovata a vivere un periodo di grande umiliazione delle nostre discipline, di qual patrimonio di tutela, che al contrario ha elevato il nostro paese a livello mondiale. Un livello che non andava assolutamente né deluso, né appannato. Nel secolo scorso gli uffici di tutela, anche con poche risorse hanno fatto cose straordinarie, ma oggi non è più possibile.
La crisi delle soprintendenze quando è cominciata?
Già con il testo unico di riforma varato dal ministro Meandri era cominciato questo processo di burocratizzazione e di crescita delle strutture solo a livello di vertice che il ministro Urbani ha portato a livello esorbitante.
Italia Nostra sostiene che non si sia mai assistito a un attacco alla struttura pubblica della tutela di questa portata…
Sono assolutamente d’accordo. Ma vede i danni più grossi non vengono solo dal condono, dalla norma del silenzio- assenso alla vendita del patrimonio, questioni che giustamente hanno fatto scandalo, ma anche dal fatto che gli uffici della tutela, specie quelle più decentrati, sono soggetti oggi a un’ingegneria amministrativa che ne paralizza del tutto l’attività.
Quali prospettive ci sono per i giovani ricercatori?
Pochissime, purtroppo. È un aspetto per me molto doloroso. Non si sono più fatti concorsi, non c’è stato ricambio generazionale, né a livello di dirigenti né di funzionari. Per noi i giovani sono i cinquantenni. È mancato il rapporto fra università e musei, anche a livello gestionale. Si sono ingaggiati dei manager qualunque e si è preteso che venissero a fare miracoli..
Che cosa ha determinato questa situazione?
Il nodo è la mancanza di prospettiva e soprattutto la scarsa considerazione del patrimonio italiano. Una gran bella parola, contiene tesori inestimabili di cui la maggior parte degli italiani possiede una cognizione come di Araba fenice, di cosa straordinaria. Di fatto però ci si dedica ben poco. Il patrimonio ha sempre ricevuto risorse insufficienti, ma negli ultimi dieci anni è stato interpretato come un volano di tipo economicistico e non come un patrimonio da salvaguardare, come una storia da identificare e studiare. Il nodo è questo il patrimonio non è da sfruttare ma da far fruttare.
Dunque non è vero quello che diceva De Michelis: “L’arte come giacimento da sfruttare”?
Ma quale petrolio? Quale giacimento? De Michelis ha inventato una terminologia sbagliata. Lo ha fatto in modo provocatorio. Ma poi tutto questo è entrato nell’uso comune. Mi capita ancora oggi di sentire questo tipo di paragoni. Invece bisognerebbe riflettere su un’altra cosa, che il patrimonio ripaga in termini di crescita culturale, ma mai in termini di profitto economico.
Dunque non servono privatizzazioni a imitazione dei loro modelli museali americani, delle loro fondazioni?
Su questo Salvatore Settis che a lungo ha lavorato al Getty Museum è intervenuto con chiarezza. Lui conosce bene quella realtà e ha sempre detto che non bisognava prenderle a modello, perché la nostra storia è del tutto diversa, non funzionerebbe.
Ma non servono neanche le minacciose proposte del ministro Urbani: chiudiamo gli Uffizi…
Queste sue esternazioni lasciano sempre il tempo che trovano. Ma quello che è grave e che le abbia accompagnate anche con offese ai tecnici, a chi ci lavora.
Allora da dove si può ripartire?
Non credo sia semplice. Anche perché non si tratta solo dei musei, c’è anche quel museo diffuso che il nostro paesaggio. Quello che è certo è che bisogna rimettere in campo un parco di idee, bisogna ridare dignità alle nostre discipline, all’archeologia, alla storia dell’arte, alla storia. Non come la si sta facendo oggi. I temi della ricerca, della progettualità, della conoscenza devono essere riportati in primo piano. Bisogna riprendere a investire sulla cultura per i giovani che oggi si trovano a che fare con discipline meccanizzate e banalizzate.
Lei, nel frattempo come proseguirà il suo lavoro?
Mi occuperò del museo internazionale della ceramica di Faenza, non smetterò di organizzare mostre, ma soprattutto vorrei rimettermi a studiare. Ma c’è una cosa che vorrei dire ai giovani, vorrei dire loro che quello della tutela è il più bel mestiere al mondo.
Nonostante il dolore di vedere svendite, cartolarizzazioni?
Assolutamente sì, perché è un lavoro in perenne ebollizione, non c’è mai nulla di scontato, bisogna sempre conquistare le cose con una certa lotta. L’importante è che ci siano le armi per lottare. Ma quando sono così spuntate e non è rimasto che una trincea, diventa difficile andare avanti.

da AVVENIMENTI adesso nelle edicole
dentro lo tsunami

di Simona Maggiorelli

Avvenimenti
Fini, il ministro della leggerezza

di Simona Maggiorelli


Lally scrive: Simona....sono Laura, per favore rispondi
simon scrive:
Come state? Siete feriti?
simon scrive:
Laura sono Simona ( nessuna risposta)
Lally scrive:
male..io sono quella messa meglio, ho una fattura alla caviglia e tagli ovunque.
Lally scrive:
Andrea non so dove sia
Lally scrive:
mamma ha perso un dito e babbo ha la spalla fracassata.
Comincia così la conversazione in chat con mia nipote, di 15 anni, la sera del 26 dicembre. Era il primo contatto, le prime notizie che avevamo dell’intera famiglia in vacanza a Phuket. Dopo aver saputo del maremoto. Lo tsunami li ha sorpresi mentre giocavano a beach volley. Appena il tempo di mettere il più piccolo, Andrea, sopra il tetto di un bungalow, dopo il primo urto. I genitori e Laura vengono portati in ospedale. Di Andrea, il bambino di dieci anni, non si sa più niente. Una storia drammatica, come tante altre. Storia di ore e ore di ansia, di ricerca disperata, di tentativi a vuoto di mettersi in contatto con l’unità di crisi della Farnesina. Le linee perennemente occupate. Solo dopo molte ore una voce femminile risponde: è lei che chiede informazioni a me. La famiglia di mia sorella non risulta in nessuna delle loro liste. Turisti fai da te? Insinua. Come se chi non andasse con viaggio organizzato, fosse un clandestino, non all’estero con visto e regolare passaporto. L’impreparazione e il pressappochismo nella gestione della crisi, comincia a farsi spettro tangibile . Il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, ammette il 28 dicembre: “Potremmo anche potenziare le linee di emergenza, ma abbiamo deciso di non farlo, prima vogliamo essere certi delle notizie che diamo”. Leggo: “Non sapremmo cosa dire”. Nel frattempo Laura era riuscita a contattarmi dall’internet point dell’ospedale Phang-Nga, il più vicino alla spiaggia, quello dove erano stati trasportati i feriti più gravi. Attraverso questo esile filo, è riuscita a far sapere di sé e di altri italiani ricoverati, manda continui messaggi all’ambasciata italiana a Bangkok, cerca aiuto dalla Farnesina, invano. Finché, finalmente, un messaggio le arriva dall’ambasciata italiana in Thailandia: “Gentile signorina – dice- potrà mettersi in contatto con il Console onorario di Phuket, Sig.Franco Cavaliere che sta organizzando il raduno di tutti gli italiani al Central Department Store di Phuket...Vogliamo anche informarla che il Ministero degli Affari Esteri italiano sta inviando un aereo per l'evacuazione degli italiani che volessero rimpatriare. Ci auguriamo che sia già riuscita a rintracciare suo fratello. La preghiamo di assicuraci in merito. Distinti saluti Gianluca Greco Incaricato d'Affari a.i.”. Come dire, si arrangi. Questa la risposta della nostra ambasciata a una ragazzina in cerca di aiuto. In Italia, intanto, in tv rimbalzano i sorrisi stereotipati di Fini, le risposte preconfezionate. Collegata al sito della Rai, Laura continua a segnalarmi che nelle immagini delle tv italiani non si dice la verità. La gravità della situazione è ben altra. I giornali, da La Stampa, a Libero, al Giornale, suonano la gran cassa, sulla magnifica gestione della crisi da parte del governo. Certo, il maremoto era, forse, difficile da prevedere. Ma perché in un paese come la Thailandia, dove il turismo italiano è massiccio, non c’è un’ambasciata dotata di strutture e personale adeguati? Si domanda e mi domando. La Farnesina ammetterà giorni dopo: “Il 90 per cento degli italiani scomparsi si trovava in Thailandia”. Gli aiuti mandati dal governo sono arrivati, nonostante quello che si è detto e scritto, solo diversi giorni dopo. Nel frattempo, anche in Italia, si veniva a sapere che della spiaggia di Khao Lak rimaneva ben poco e che un intero albergo era crollato con ottocento morti sul colpo, che gli atolli circostanti erano stati sommersi dall’acqua. Di chi c’era sopra, nessuna notizia. Intanto il nostro Console si faceva sentire con gli italiani ricoverati al Phang-Nga hospital, consigliando loro di prendere un taxi per andare a un raduno a Phuket per essere rimpatriati. Come avrebbe potuto, gente portata all’ospedale con pronta solidarietà dai thailandesi a bordo di carri di cipolle, furgoncini e quello che potevano, persone che non potevano camminare, narcotizzate dagli anestetici, in attesa del proprio turno in affollatissime sale operatorie salire su un taxi (ammesso di trovarne) ed andarsene? "Se solo il console e gli altri avessero fatto un giro in ospedale, come facevano i loro colleghi svedesi o britannici, si sarebbero potuti rendere conto". Mi dirà poi mia sorella al ritorno. È grazie a un servizio televisivo di una rete locale thailandese e all’intervento di un amico thailandese, se poi Andrea, stordito, in amnesia, è stato ritrovato in un centro di accoglienza di a una trentina di chilometri di distanza. Era lì insieme ad altri bambini sgraffiati e sbuccicati, ma per fortuna senza ferite gravi. L’ultimo dell’anno lo rivedo disteso in un’ambulanza della Pubblica Assistenza della Toscana che è venuta a prendere tutta la famiglia a Fiumicino per riportarli a casa. Ha la febbre, l’espressione stranita. Pelle e ossa, naviga nella sgargiante tutina Dolce&Gabbana che Berlusconi gli ha spedito insieme a zainetti griffati, Levi’s, scarpe da ginnastica ultimo grido. Una volta il regime, distribuiva pane e sacchi di grano, scherziamo con mia sorella Silvia. “Certo – dice lei, tenendosi la mano ferita –, se invece di farci tornare a casa impacchettati come caramelle luccicanti, avessero mandato là più farmaci e aiuti…”

neo-romanticismo
gli accordi pre-matrimoniali

La Stampa 10.1.05
Prevenire è meglio che bisticciare

di Elena Loewenthal
«Accordi sulla crisi della famiglia e autonomia coniugale» è il titolo del convegno che si terrà a Verona il 14-15 gennaio presso la Facoltà di Giurisprudenza, con il patrocinio dell'Ordine degli Avvocati di Verona, dell'Osservatorio sul diritto di famiglia e con il contributo di Società Cattolica di Assicurazioni. Intervengono: Francesco Ruscllo, Pasquale Stanzione, Gabriella Autorino, Luigi Balestra, Giacomo Oberto, Massimo Dogliotti, Agnese Di Girolamo, Ernesto Capobianco, per un esame a tutto campo della questione. Segreteria organizzativa: Barbara Maria Lanza (0458005782) e Alessandra Cordiano (0458028828)
IN principio, come per molte altre cose, era assai più semplice: il mondo si divideva in due precise metà. Quella di chi per avere una moglie pagava un prezzo - magari in natura di pecore o cammelli -, e quella di chi era disposto a prendersi una moglie a condizione che questa gli arrivasse in casa fornita di adeguata dote. Amene e ironiche divagazioni a parte, questi due modi diversi di concepire e praticare il matrimonio sono lo spartiacque delle antiche civiltà. Nella Bibbia, ad esempio, una sposa può costare molto cara, come capitò a Giacobbe che lavorò quattordici anni pur di averla (e si ritrovò peraltro con due consorti al prezzo di una, ma questa è un'altra storia).
Al giorno d'oggi, possiamo indubbiamente andar fieri del fatto che sposarsi sia diventato più un affare di cuori che di portafogli. Ma, anche e soprattutto in considerazione degli sviluppi sociali più recenti, non si può negare che il matrimonio rappresenti un vasto insieme di fattori e implicazioni, non ultimo quello economico. Soppesando valori d'acquisto e convenienze finanziarie, in sostanza, i nostri antenati non erano necessariamente più primitivi di noi: si limitavano a prendere in considerazione solo uno degli aspetti dello sposarsi. Tornato purtroppo alla ribalta negli ultimi decenni, insieme al precipitoso disgregarsi dell'istituzione matrimoniale.
Nel decennio trascorso fra il 1985 e il 1995, ad esempio, il tasso di scioglimento delle unioni per separazione è passato gradualmente da 97,9 a 158,4 ogni mille matrimoni celebrati. E la tendenza, negli anni successivi, è rimasta invariata: le crisi coniugali sono in costante aumento, e per di più ci si sposa sempre meno. Quest'evidenza non piace probabilmente a nessuno, ma va presa tal quale è: con lucidità e coscienza. Andrebbe presa anche con gli strumenti adatti, se questi fossero sempre disponibili, ma non sempre è così. Sia sul piano sociale sia su quello giuridico: quest'ultimo in particolare fatica, come spesso capita, a stare al passo con i tempi che cambiano. Pensare che già il diritto romano, lungi dal considerare il matrimonio un sacramento indissolubile, prevedeva forme di «regolamentazione in via preventiva» di svariati aspetti patrimoniali del matrimonio. E la base del matrimonio ebraico è da sempre la ketubbah, (alla lettera: «scrittura»), un vero e proprio contratto concepito al fine di fornire alcune garanzie di base alla parte debole (la moglie) nel caso di scioglimento del legame.
Alla spinosa questione del matrimonio a rotoli Giacomo Oberto, magistrato di Cassazione, giudice del tribunale di Torino e professore a contratto presso l'Università di Torino, ha dedicato qualche anno fa due ponderosi tomi: un totale di circa 1660 pagine intitolate I contratti della crisi coniugale (pubblicato dall'ditore Giuffré). Al di là della trattazione giuridica, queste pagine sono uno spaccato sociale che desta interesse e preoccupazione in eguale misura.
La competenza degli addetti ai lavori si cimenta negli ultimi tempi con sfide che rispondono a sempre più complesse esigenze sociali: come mai, si domanda ancora Giacomo Oberto, le nuove coppie, specie nelle regioni settentrionali, optano in massa per il regime di separazione dei beni? «Cos'altro può significare ciò, se non una scelta compiuta in contemplation of divorce?». «Il fenomeno non può trovare una spiegazione se non nella crescente consapevolezza, da parte di vasti strati della popolazione, del serio rischio che corre oggi la famiglia italiana di andare incontro (e, in molti casi, assai presto) ad una crisi, e nel timore di dover venire un giorno a “fare i conti” con i complessi meccanismi giuridici legati allo scioglimento del regime legale», prosegue il magistrato in un suo studio dedicato, per l'appunto ai «Prenuptial agreements in contemplation of divorce e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale».
Al di là delle questioni giuridiche, il messaggio è molto chiaro: prevenire è meglio che bisticciare. Certo, gli accordi prematrimoniali sono ancora visti, qui da noi, come materia per scandali d'alta società. Siamo abituati a sentirne parlare dentro i film americani, ai piani alti di grattacieli lucidi, fra le pareti ovattate di lussuosi studi legali. O in casi non meno eclatanti come quella spartizione di un eventuale premio Nobel pattuita preventivamente, e poi attribuito al marito pochi giorni prima della scadenza della relativa clausola (… si tratta dell'economista Robert Lucas, premio Nobel per l'economia nel 1995). La realtà sociale ci invita invece a considerare con autentico spirito pratico l'eventualità di un accordo prematrimoniale che eviti, in caso di crisi coniugale, sfiancanti e spesso inconcludenti trattative. Giacomo Oberto presenta nel suo studio il caso di altri paesi - non solo gli Usa ma anche la Germania e la Francia - in cui gli accordi prematrimoniali non sono più un tabù. E invita a infrangere questo tabù anche nel nostro paese. All'imminente convegno di Verona si parlerà di questa istanza sociale ormai pressante.
Soprattutto per la parte debole della coppia (quasi sempre, ma non necessariamente donna), la cui giusta tutela risulta spesso difficile da praticare, una garanzia preventiva, un «accordo» all'atto del matrimonio, rappresenterebbe in molti casi la via per un percorso più semplice e sicuro, in caso di futuro scioglimento. L'obiezione di ordine culturale che si pone nel nostro paese alla pratica e alla regolamentazione giuridica degli accordi prematrimoniali è che essi potrebbero costituire un elemento di disgregazione nel matrimonio: in parole povere, sarebbe deprimente e anche rischioso, nel magico momento in cui ci si accinge a costituire una famiglia, mettersi a tavolino a parlare dell'assai meno magico (e solo probabile) momento in cui tutto andrà a catafascio. Ma «se la preoccupazione del legislatore fosse veramente quella di salvare la libertà del consenso sullo stato personale... andrebbe allora bandita ogni contrattazione sull'assegno che precedesse anche solo di un minuto la sentenza di divorzio», spiega Oberto. Questa obiezione, insomma, dovrebbe valere per ogni trattativa giudiziaria antecedente la rottura del matrimonio, creando una sorta di paradosso impraticabile. Sia moralmente sia giuridicamente, dunque, l'accordo prematrimoniale è cosa ammissibile, a prescindere dalla certezza che si prospetti una crisi coniugale. Una volta siglato, potrebbe diventare utile (anche se si spera che ciò non avvenga). In caso contrario, basterà riderci sopra con un sorriso, dopo una vita trascorsa felicemente insieme.

fantasie e leggende
la Terra Cava

Corriere della Sera 10.1.05
Dall’Europa ad Atlantide Leggende sotto la Terra
La secolare caccia alla civiltà nel centro del mondo L’idea, rilanciata dai nazisti, sopravvive in Internet
di Viviano Domenici


Che la Terra sia una sfera leggermente schiacciata ai poli è ormai una verità che non ha bisogno di prove o conferme scientifiche. Ma non accettata da tutti. Ancora oggi c’è chi la crede piatta come un disco o chi sostiene che sia cava come un pallone da calcio. E mentre l’idea piatta come un disco ha una sua radice istintiva, dettata dall’esperienza quotidiana, quella della terra cava sembrerebbe una curiosità d’archivio storico. In realtà basta affacciarsi a Internet per accorgersi che ha più sostenitori di quanti si possa immaginare e in passato ne ebbe di potentissimi tra le alte gerarchie naziste che videro in questa teoria un importante sostegno alle loro idee sull’esistenza di una razza di uomini superiori. La prima idea di una terra cava la propose il celebre astronomo Edmund Halley (scopritore dell’omonima cometa) il quale, per spiegare le variazioni del campo magnetico terrestre, nel 1692 ipotizzò che all’interno della Terra vi fossero ben quattro altre sfere, sempre più piccole. Secondo questa ipotesi l’interno della terra era abitato da un’umanità che poteva viverci grazie alla presenza di una sorta di atmosfera leggera. Ed era proprio questo strano gas che di tanto in tanto sfuggiva dai poli creando il fenomeno delle aurore boreali.
Questo fu il primo embrione della teoria che nel secolo successivo venne semplificata e precisata dal matematico svizzero Leonhard Euler (Eulero) secondo il quale la Terra era completamente cava e come un’immenso scrigno conteneva un piccolo Sole che illuminava l’esistenza di un popolo altamente civilizzato che viveva appunto dentro la terra cava. Era la metà del Settecento e le basi fondamentali della teoria erano state gettate. Mancava solo l’indicazione su come penetrare nel mondo interno. A questo provvide un americano, tale John Cleves Symnes, che comunque preferiva l’ipotesi di Halley e nel 1881 scrisse: « A tutto il mondo: io affermo che la Terra è vuota e abitabile all’interno, che contiene una serie di sfere solide una dentro l’altra e che è aperta ai poli». In sostanza Symnes affermava che al Polo Nord e al Polo Sud c’erano le porte d’ingresso e bastava andare a cercarle per poter entrare nel mondo di sotto.
Era talmente convinto della sua idea che si mise a cercar fondi per organizzare una spedizione al Polo Nord, e ci riuscì con l’aiuto di un editore di giornali che, intravisto lo scoop, riuscì a convincere il governo americano a finanziare l’avventura con 300 mila dollari. La spedizione partì ma non trovò l’ingresso sperato e l’idea della terra cava sembrò sul punto di sparire in un buco nero. Un aiuto insperato venne dalla Siberia ai primi dell’Ottocento, quando dal fango ghiacciato della tundra affiorò il corpo di un mammuth congelato e in discrete condizioni di conservazione; una scoperta che secondo alcuni provava l’esistenza di un mondo di sotto e di una «porta» d’ingresso ai poli. Il mammut, dissero i sostenitori della Terra Cava, era sbadatamente uscito dal mondo di sotto ed era morto di freddo.
Intanto anche antropologi e archeologi partecipavano - ognuno per le sue competenze e magari con qualche distinguo - alla costruzione della Terra Cava abitata all’interno. In realtà, sostenne un antropologo tedesco-sudamericano nel 1836, anche le differenze razziali riscontrabili nelle popolazioni presenti all’esterno del pianeta potevano essere spiegate con la teoria dalla Terra Cava: dall’apertura del Polo Nord erano uscite i popoli di pelle bianca, dal buco del Polo Sud quelli di pelle scura.
Tutti, però, trovando l’ambiente davvero freddino, s’erano poi diretti verso latitudini più temperate popolando il mondo.
Nel 1870 un certo Cyrus R. Teed ribaltò tutto affermando: la terra era cava, ma siamo noi i suoi abitanti e viviamo sulla superficie concava dell’interno; il cielo non è altro che una gigantesca bolla di un gas che riempie tutto e in certi punti presenta particolari fenomeni di brillantezza che noi chiamiamo Sole, Luna e stelle.
Con l’inizio del nuovo secolo le teorie della Terra Cava trovarono nuovo vigore soprattutto nei paesi dell’Europa settentrionale e in particolare in Germania, dove l’idea venne presa così sul serio da spingere i gerarchi nazisti a elaborare strategie di guerra che tenessero conto dell’ipotizzata concavità dell’ambiente terrestre. A questo scopo i nazisti avrebbero organizzato specifiche spedizioni di ricerca oltre il Circolo polare artico; ma senza abbandonare l’altra ipotesi, quella secondo cui l’umanità viveva all’esterno della Terra, mentre nell’interno cavo fioriva una civiltà creata da una razza superiore scampata alla catastrofe di Atlantide.