ilmanifesto.it 12 maggio 2005
La psicoanalisi guarda a coppie e famiglie
Due utili collettanee di studi curati da Anna Nicolò e Gemma Trapanese
NICOLE MARTINA
Nel percorso evolutivo che la psicoanalisi ha conosciuto, soprattutto nel corso degli ultimi cinquant'anni, ha acquisto un ruolo sempre più necessario la cura rivolta alla coppia e la nucleo familiare. Del resto, un precedente era già stato impostato dallo stesso Freud quando affrontò i problemi fobici del piccolo Hans attraverso l'ascolto del padre, che veniva così ricondotto, tramite il suo coinvolgimento diretto, a soddisfare quella richiesta di attenzione da cui (è una delle ipotesi) la patologia del bambino era stata motivata. Due volumi recenti, entrambi curati da Anna Maria Nicolò e da Gemma Trapanese, chiedendosi fin dai titoli Quale psicoanalisi per la coppia? e Quale psicoanalisi per la famiglia? (Franco Angeli, 2005) arrivano a fornire il più esaustivo panorama tentato fino ad ora, collezionando una serie di interventi a ampio spettro, che investono - tra l'altro - tutte le collusioni, e le intriezioni di fantasie implicate nelle dinamiche delle relazioni vissute quotidianamente. Più ancora di un modello forte da adottare, scrivono le autrici, occore che gli psicoanalisti impegnati in questa variante del setting, condividano una prospettiva di osservazione che privilegi il legame tra le persone e le interazioni con l'analista, enfatizzando una attenzione rivolta non più soltanto ai contenuti incosci individuali. Inoltre, non ci si limiterà a analizzare quel che viene detto, perché una speciale considerazione verrà accordata anche a quel che viene agito, prendendo in esame oltre alle fantasie e alla produzione onirica dei diversi membri della famiglia o della coppia anche, se non soprattutto, il modo in cui queste attività della mente si declinano nel rapporto con gli altri, attivando memorie, mitologie e immagini provenienti dalle altre generazioni. Quello che è considerato dalle autrici il manifesto di nascita della terapia familiare ha ormai quasi mezzo secolo, essendo stato scritto da Searles nel 1959: il titolo era di per sé eloquente, Il tentativo di fare impazzire l'altro partecipante al rapporto: una componente dell'etiologia e della psicoterapia della schizofrenia, dove venivano presi in esame i modi di entrare in relazione con l'altro forieri di patologia. Tra gli anni `50 e i `70, nel nord America alcune teorie più o meno derivate dalla psicoanalisi tradizionale si dedicarono in particolare ai problemi della famiglia, e Nathan Ackerman fondò una clinica successivamente intitolata al suo nome che divenne a New York uno dei punti di riferimento di questo genere di cura. Del resto, Ackerman - cui si deve la prima formulazione del concetto di «capro espiatorio» - era stato un precursore, avendo scritto già nel 1938 un articolo titolato The Unity of the Family, cui ne seguì un altro nel 1950, Family Diagnosis in cui analizzava la situazione dei bambini in età prescolare e fondava implicitamente uno dei capisaldi della terapia rivolta alla famiglia. A una posizione analoga si rifaceva anche Murray Bowen che si occupò in particolare delle famigle degli schizofrenici, fondando un reparto in cui venivano accolti e seguiti i familiari dei suoi pazienti più gravi. «Ci vogliono tre generazioni per fare uno psicotico» - diceva - implicitamente alludendo alle componenti patologiche maturate nei legami familiari. Tutti conoscono, per restare agli anni `50, il contributo di Gregory Bateson e i fertili incroci tra la sua rivoluzione epistemologica e la psichiatria ispirata agli studi di Sullivan, temperie di fermenti in cui nacque il gruppo di ricerca che si riuniva a Palo Alto in California, presso il Mental Research Institut. Quando lo sguardo di Gemma Trapanese e di Anna Maria Nicolò si sposta sull'Europa, individua nell'incrocio con il movimento dell'antipsichiatria il contesto ideale in cui la terapia analitica rivolta alle famiglie acquisì un rinnovato vigore. Erano gli anni in cui il disagio mentale veniva imprescindibilmente analizzato alla luce dell'ambito culturale in cui si erano andati formando i suoi presupposti, e Ronald Laing divenne, con i suoi studi, uno speciale punto di riferimento. L'Inghilterra fu probabilmente, il paese in cui si concetrarono le ricerche più avanzate: alla Tavistock Clinic, per esempio, e poi nello studio di Wilfred Bion, che nel `61 inagurò con Esperienze nei gruppi un filone terapeutico che non ha ancora finito di esaurire tutte le potenzialità di studio avviate. Il panorama disegnato dalle autrici tocca naturalmente anche la Francia - in particolare gli studi di Didier Anzieu - e l'Argentina con il contributo di Pichon Rivière, evidenziando tutte le diverse cordinate in cui si iscrive l'attualità di questi studi il cui compito principale è «rimuovere gli ostacoli che impediscono alla famiglia di rispondere alle necessità evolutive» dell'individuo: perché ognuno di noi porta in sé una identità non limitata ai confini della sua persona bensì estesa a inglobare, innanzi tutto, le relazioni che determinano le fasi del suo progresso evolutivo, oppure le sue stasi.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 13 maggio 2005
da Avvenimenti in edicola
Avvenimenti n 19, dal 13-19 MAGGIO 2005
CATTIVI MEDICI PER LEGGE
Luca Gianaroli: "Questo governo ci costringe alla malasanità"
Simona Maggiorelli
C’è un sinitro spot che circola in rete. Un messaggio di smaccata propaganda. S’intitola Ancora un referendum contro la vita, ed è pieno zeppo di assurdità del tipo: l’impianto di tre embrioni (sani o malati che siano) giova alla salute della donna; la diagnosi genetica preimpianto non è un esame scientifico. tutto ciò che è artificiale è contro natura e via di questo passo. Mentre in primo piano scorrono immagini da manuale di medicina medievale con un omuncolo disegnato al computer, che miniaturizza le fattezze umane, chiamato di volta in volta, indifferentemente “embrione”, “feto”, “bambino”, come se indicassero realtà equivalenti. È arrivato a mezzo milione di italiani. Su questo che ci appare come l’ennesimo tentativo di confondere da parte di chi antepone la propria fede alla scienza, nell'avvicinarsi del referendum del 12 e 13 giugno, abbiamo chiesto lumi al professor Luca Gianaroli, direttore della società italiana di medicina riproduttiva, che di fecondazione assistita si occupa da 25 anni, in Italia e all'estero.
Facciamo un po' di chiarezza professore, che cos’è l’embrione?
"Da un punto di vista strettamente scientifico è quell’entità in via di sviluppo che si ha 24 ore dopo la fertilizzazione. E bisogna dire che nei primi 14 giorni l’embrione nell’utero non dà segno di sé.
Il fatto mistificatorio, in primis, riguarda la parola “concepimento”:prima delle tecniche di fecondazione in vitro, si riferiva al momento in cui la donna, con il ritardo mestruale, sapeva di essere incinta. Dopo la nascita, nel 1978, di Louise Brown, la prima bambina avuta con procreazione medicalmente assistita, si è cominciato a istillare nella mente della gente l’idea che il concepimento coincidesse con il momento in cui l’uovo viene fecondato. Dimenticando che questa cellula fecondata non ha un patrimonio suo, autonomo. Tanto è vero che, nei giorni successivi, l’embrione si può dividere in due dando origine a due gemelli. Ma può anche trasformarsi in carcinoma: uno dei tumori più invasivi e distruttivi della donna. Dunque, dire che la cellula uovo fecondata sia un individuo è un errore grossolano, perché quella cellula può diventare tutto, un tumore, un aborto, può diventare nulla. Sia con fecondazione naturale che artificiale, c’è solo un15 per cento di possibilità che quella cellula diventi embrione e poi individuo".
C’è anche chi sostiene che prima di 24 settimane non si possa ugualmente parlare di individuo, dal momento che il feto non può vivere fuori dall’utero. Lei, cosa ne pensa?
"Non entro nel merito perché a questo livello ci potrebbero essere concezioni diverse. Ma tengo molto a ribadire che il pensiero che la cellula uovo fecondata sia una persona è assolutamente non corrispondente al vero. Su questo assunto falso si basa la convinzione che debba essere ad ogni costo salvaguardato vietando la fecondazione assistita".
Ma le tecniche non si limitano a riprodurre in vitro ciò che avviene in natura?
"Veniamo al punto. Una coppia fertile ha il 20-25 per cento di possibilità di concepire ogni mese. I circa 500mila bambini che nascono in Italia con rapporti naturali sono il prodotto di 2 milioni e mezzo di embrioni, di cui 2 milioni, vanno persi all’interno dell’apparato genitale. È patetico pensare che la cellula uovo fecondata che i medici trasferiscono nell’utero venga “buttata via” se non s’impianta. È un evento naturale. Senza contare che spesso l’ovulo fecondato ha tali anomalie cromosomiche da non potersi in nessun caso sviluppare. Esattamente come succede in natura. La gente deve capire che la cellula uovo fecondata non è sinonimo di bambino. Nei nostri laboratori essa segue la stessa strada che seguirebbe per vie naturali".
Quanto è importante la diagnosi genetica preimpianto?
"Questo tipo di diagnosi genetica è nata per ridurre il più possibile la sofferenza delle coppie. Fino aun anno fa, prima che la legge 40 bloccasse tutto, eravamo fra quelli che ne avevano eseguite di più. Nei nostri laboratori al Sismer venivano pazienti che avevavo abortito 2, 4, 5 volte pur di non mettere al mondo dei bambini gravemente malati. Piccoli che nel giro di un anno erano destinati a morire. Ci sono malattie genetiche che portano alla morte nel giro di 6 mesi. Esistono anomalie cromosomiche per cui una gravidanza naturale abortisce al quinto e sesto mese. Non è assolutamente pensabile che si possa abolire una metodica come la diagnosi preimpianto che riduce gli aborti, limitandosi solo a non trasferire quelle cellule che forse non avrebbero nemmeno la possibilità di impiantarsi".
La legge 40, da un anno, proibisce l’eterologa, negando a persone infertili o malate di poter ricevere i gameti da donatori esterni alla coppia. Con quali conseguenze?
"In tutti i paesi europei è ammessa l’eterologa. Solo in Italia è proibita. Così le coppie vanno all’estero e non si rivolgono più ai medici di fiducia, nemmeno per dei consigli, dal momento che la nuova legge ci proibisce anche di dare informazioni. Molti cercano su internet, trovando di tutto. Cominciamo già adesso a vederne le conseguenze con disgrazie e i incidenti di percorso, che tornano ai nostri medici. E una paziente che riporta dei danni da centri di paesi lontani, come può denunciare il proprio caso ed avere, almeno, un risarcimento? Al sistema sanitario italiano resta solo di tentare di curare la complicanza".
Sta cominciando anche la fuga all’estero dei nostri scienziati?
"Inevitabilmente. Il problema è ancora poco sentito. Ma nel giro di poco tempo, se le cose non cambieranno,diventerà una questione seria. La nostra sarà sempre più una comunità scientifica che non cresce, potendo confrontarsi solo con se stessa. In nessun altro paese al mondo un medico è costretto a fare quello che questa legge ci obbliga a fare, facendo perdere tempo e denaro alle coppie. Intanto chi si è impegnato nella ricerca si troverà le porte chiuse di riviste internazionali, di certo non interessate a pubblicare studi arretrati. E sappiamo bene che ciò che tiene alta la dignità del ricercatore sono le sue pubblicazioni scientifiche".
Come può un medico che dovrebbe operare secondo “scienza e coscienza” trasferire in una paziente tre embrioni anche se malati?
"I medici finiscono in prima pagina quando fanno errori o si suppone che li facciano. Ma oggi noi abbiamo una legge che ci costringe ogni giorno a fare della mala sanità, ed è drammatico. Trovarmi a lavorare a scartamento ridotto dopo che per 25 anni, con sforzi enormi, le ricerche sono avanzate, mi sembra terribile. Come medico poi è stato particolarmente umiliante vedere il nostro consenso informato redatto dal ministero di Grazia e Giustizia e non solo da quello della Salute. Significa che non si ha la minima fiducia nella medicina e nella ricerca".
Da quando è entrata in vigore la nuova legge si sono ridotte le nascite?
" I dati diconpo di un calo del 10-15 per cento, se non di più. Quando in Italia ormai eravamo arrivati al punto che ,in ogni classe di 30 bambini,ce n’era uno concepito con la fecondazione in vitro. Oggi si assiste anche a un forte aumento dei costi e dei cicli di trattamento.
Un enorme dispendio di energia e di denaro, se si considera che le coppie in causa sono nel pieno dell’età lavorativa, costrette a lasciare tutto e a prendere armi e bagagli per andare all’estero. Oppure, restando in Italia, obbligate a ripetere più e più volte i trattamenti. Per quale scopo poi? Solo per poter dire che la cellula uovo fecondata è “uno di noi”. Con un assunto che non corrisponde al vero. È raccapricciante".
Che fine faranno gli embrioni congelati?
"La legge, o meglio lelinee guida, permettono di scongelare quelli conservati prima della sua entrata in vigore. Ma si determina un effetto paradossale. Una volta le coppie che volevano un altro figlio o quelle che, non avendone avuti, volevano riprovarci, tornavano a chiederci di poter riavere i propri embrioni congelati. Contrariamente a quello che sente dire oggi, la crioconservazione nacque nel
tentativo di salvaguardare un patrimonio genetico che avrebbe potuto avere un ruolo importante per la coppia. Oggi chi potrebbe tornare a chiederli, non lo fa, forse per paura. Coppie con due o tre embrioni conservati, preferiscono piuttosto andare all’estero e ricominciare tutto il ciclo di trattamenti da capo".
Di recente l’Accademia dei Lincei si è pronunciata a favore della ricerca sugli embrioni già congelati e non più richiesti. Che destinazione avranno?
"Se le cose non cambieranno, come ha stabilito Sirchia quando era ministro, dovranno essere inviati attraverso l’Istituto Superiore di Sanità a un centro di conservazione di Milano, noto nel settore trasfusionale, ma che non ha il know how della crioconservazione degli embrioni e dei gameti".
Verranno utilizzati per fare ricerca come da ultimo aveva detto Sirchia stesso?
"E come? Per poter fare ricerca su così poche cellule occorrono tecniche sofisticatissime, ma questi materiali vengono allontanati dai nostri centri attrezzati a farla. Ricerca, non dimentichiamolo, che legge 40 proibisce. Ma che poi permette con un decreto ministeriale. È il festival della contraddizione".
CATTIVI MEDICI PER LEGGE
Luca Gianaroli: "Questo governo ci costringe alla malasanità"
Simona Maggiorelli
C’è un sinitro spot che circola in rete. Un messaggio di smaccata propaganda. S’intitola Ancora un referendum contro la vita, ed è pieno zeppo di assurdità del tipo: l’impianto di tre embrioni (sani o malati che siano) giova alla salute della donna; la diagnosi genetica preimpianto non è un esame scientifico. tutto ciò che è artificiale è contro natura e via di questo passo. Mentre in primo piano scorrono immagini da manuale di medicina medievale con un omuncolo disegnato al computer, che miniaturizza le fattezze umane, chiamato di volta in volta, indifferentemente “embrione”, “feto”, “bambino”, come se indicassero realtà equivalenti. È arrivato a mezzo milione di italiani. Su questo che ci appare come l’ennesimo tentativo di confondere da parte di chi antepone la propria fede alla scienza, nell'avvicinarsi del referendum del 12 e 13 giugno, abbiamo chiesto lumi al professor Luca Gianaroli, direttore della società italiana di medicina riproduttiva, che di fecondazione assistita si occupa da 25 anni, in Italia e all'estero.
Facciamo un po' di chiarezza professore, che cos’è l’embrione?
"Da un punto di vista strettamente scientifico è quell’entità in via di sviluppo che si ha 24 ore dopo la fertilizzazione. E bisogna dire che nei primi 14 giorni l’embrione nell’utero non dà segno di sé.
Il fatto mistificatorio, in primis, riguarda la parola “concepimento”:prima delle tecniche di fecondazione in vitro, si riferiva al momento in cui la donna, con il ritardo mestruale, sapeva di essere incinta. Dopo la nascita, nel 1978, di Louise Brown, la prima bambina avuta con procreazione medicalmente assistita, si è cominciato a istillare nella mente della gente l’idea che il concepimento coincidesse con il momento in cui l’uovo viene fecondato. Dimenticando che questa cellula fecondata non ha un patrimonio suo, autonomo. Tanto è vero che, nei giorni successivi, l’embrione si può dividere in due dando origine a due gemelli. Ma può anche trasformarsi in carcinoma: uno dei tumori più invasivi e distruttivi della donna. Dunque, dire che la cellula uovo fecondata sia un individuo è un errore grossolano, perché quella cellula può diventare tutto, un tumore, un aborto, può diventare nulla. Sia con fecondazione naturale che artificiale, c’è solo un15 per cento di possibilità che quella cellula diventi embrione e poi individuo".
C’è anche chi sostiene che prima di 24 settimane non si possa ugualmente parlare di individuo, dal momento che il feto non può vivere fuori dall’utero. Lei, cosa ne pensa?
"Non entro nel merito perché a questo livello ci potrebbero essere concezioni diverse. Ma tengo molto a ribadire che il pensiero che la cellula uovo fecondata sia una persona è assolutamente non corrispondente al vero. Su questo assunto falso si basa la convinzione che debba essere ad ogni costo salvaguardato vietando la fecondazione assistita".
Ma le tecniche non si limitano a riprodurre in vitro ciò che avviene in natura?
"Veniamo al punto. Una coppia fertile ha il 20-25 per cento di possibilità di concepire ogni mese. I circa 500mila bambini che nascono in Italia con rapporti naturali sono il prodotto di 2 milioni e mezzo di embrioni, di cui 2 milioni, vanno persi all’interno dell’apparato genitale. È patetico pensare che la cellula uovo fecondata che i medici trasferiscono nell’utero venga “buttata via” se non s’impianta. È un evento naturale. Senza contare che spesso l’ovulo fecondato ha tali anomalie cromosomiche da non potersi in nessun caso sviluppare. Esattamente come succede in natura. La gente deve capire che la cellula uovo fecondata non è sinonimo di bambino. Nei nostri laboratori essa segue la stessa strada che seguirebbe per vie naturali".
Quanto è importante la diagnosi genetica preimpianto?
"Questo tipo di diagnosi genetica è nata per ridurre il più possibile la sofferenza delle coppie. Fino aun anno fa, prima che la legge 40 bloccasse tutto, eravamo fra quelli che ne avevano eseguite di più. Nei nostri laboratori al Sismer venivano pazienti che avevavo abortito 2, 4, 5 volte pur di non mettere al mondo dei bambini gravemente malati. Piccoli che nel giro di un anno erano destinati a morire. Ci sono malattie genetiche che portano alla morte nel giro di 6 mesi. Esistono anomalie cromosomiche per cui una gravidanza naturale abortisce al quinto e sesto mese. Non è assolutamente pensabile che si possa abolire una metodica come la diagnosi preimpianto che riduce gli aborti, limitandosi solo a non trasferire quelle cellule che forse non avrebbero nemmeno la possibilità di impiantarsi".
La legge 40, da un anno, proibisce l’eterologa, negando a persone infertili o malate di poter ricevere i gameti da donatori esterni alla coppia. Con quali conseguenze?
"In tutti i paesi europei è ammessa l’eterologa. Solo in Italia è proibita. Così le coppie vanno all’estero e non si rivolgono più ai medici di fiducia, nemmeno per dei consigli, dal momento che la nuova legge ci proibisce anche di dare informazioni. Molti cercano su internet, trovando di tutto. Cominciamo già adesso a vederne le conseguenze con disgrazie e i incidenti di percorso, che tornano ai nostri medici. E una paziente che riporta dei danni da centri di paesi lontani, come può denunciare il proprio caso ed avere, almeno, un risarcimento? Al sistema sanitario italiano resta solo di tentare di curare la complicanza".
Sta cominciando anche la fuga all’estero dei nostri scienziati?
"Inevitabilmente. Il problema è ancora poco sentito. Ma nel giro di poco tempo, se le cose non cambieranno,diventerà una questione seria. La nostra sarà sempre più una comunità scientifica che non cresce, potendo confrontarsi solo con se stessa. In nessun altro paese al mondo un medico è costretto a fare quello che questa legge ci obbliga a fare, facendo perdere tempo e denaro alle coppie. Intanto chi si è impegnato nella ricerca si troverà le porte chiuse di riviste internazionali, di certo non interessate a pubblicare studi arretrati. E sappiamo bene che ciò che tiene alta la dignità del ricercatore sono le sue pubblicazioni scientifiche".
Come può un medico che dovrebbe operare secondo “scienza e coscienza” trasferire in una paziente tre embrioni anche se malati?
"I medici finiscono in prima pagina quando fanno errori o si suppone che li facciano. Ma oggi noi abbiamo una legge che ci costringe ogni giorno a fare della mala sanità, ed è drammatico. Trovarmi a lavorare a scartamento ridotto dopo che per 25 anni, con sforzi enormi, le ricerche sono avanzate, mi sembra terribile. Come medico poi è stato particolarmente umiliante vedere il nostro consenso informato redatto dal ministero di Grazia e Giustizia e non solo da quello della Salute. Significa che non si ha la minima fiducia nella medicina e nella ricerca".
Da quando è entrata in vigore la nuova legge si sono ridotte le nascite?
" I dati diconpo di un calo del 10-15 per cento, se non di più. Quando in Italia ormai eravamo arrivati al punto che ,in ogni classe di 30 bambini,ce n’era uno concepito con la fecondazione in vitro. Oggi si assiste anche a un forte aumento dei costi e dei cicli di trattamento.
Un enorme dispendio di energia e di denaro, se si considera che le coppie in causa sono nel pieno dell’età lavorativa, costrette a lasciare tutto e a prendere armi e bagagli per andare all’estero. Oppure, restando in Italia, obbligate a ripetere più e più volte i trattamenti. Per quale scopo poi? Solo per poter dire che la cellula uovo fecondata è “uno di noi”. Con un assunto che non corrisponde al vero. È raccapricciante".
Che fine faranno gli embrioni congelati?
"La legge, o meglio lelinee guida, permettono di scongelare quelli conservati prima della sua entrata in vigore. Ma si determina un effetto paradossale. Una volta le coppie che volevano un altro figlio o quelle che, non avendone avuti, volevano riprovarci, tornavano a chiederci di poter riavere i propri embrioni congelati. Contrariamente a quello che sente dire oggi, la crioconservazione nacque nel
tentativo di salvaguardare un patrimonio genetico che avrebbe potuto avere un ruolo importante per la coppia. Oggi chi potrebbe tornare a chiederli, non lo fa, forse per paura. Coppie con due o tre embrioni conservati, preferiscono piuttosto andare all’estero e ricominciare tutto il ciclo di trattamenti da capo".
Di recente l’Accademia dei Lincei si è pronunciata a favore della ricerca sugli embrioni già congelati e non più richiesti. Che destinazione avranno?
"Se le cose non cambieranno, come ha stabilito Sirchia quando era ministro, dovranno essere inviati attraverso l’Istituto Superiore di Sanità a un centro di conservazione di Milano, noto nel settore trasfusionale, ma che non ha il know how della crioconservazione degli embrioni e dei gameti".
Verranno utilizzati per fare ricerca come da ultimo aveva detto Sirchia stesso?
"E come? Per poter fare ricerca su così poche cellule occorrono tecniche sofisticatissime, ma questi materiali vengono allontanati dai nostri centri attrezzati a farla. Ricerca, non dimentichiamolo, che legge 40 proibisce. Ma che poi permette con un decreto ministeriale. È il festival della contraddizione".
cecità
ilmanifesto.it 11 maggio 2005
L'elaborazione del significato quando manca la vista
Un cieco potrà mai sapere cos'è la cecità senza aver avuto esperienza di ciò che gli manca? Intorno a questo interrogativo ruota un dibattito di cui rendono conto alcuni libri recenti. In gioco c'è il fatto che l'informazione che conta per elaborare significati non passa attraverso gli occhi. Il che implica, intanto, una revisione del concetto di esperienza percettiva
FRANCESCO FERRETTI
Il disco del semaforo è verde, ma le auto rimangono immobili. È inutile suonare il clacson: la macchina in prima fila non si muove. E non per il solito incidente. Al suo interno c'è un uomo con le mani aggrappate al volante che urla in preda alla disperazione: «Sono diventato cieco!». Questa è la scena di apertura del romanzo Cecità di José Saramago (Einaudi). A colpire il guidatore è un'epidemia che non risparmia nessuno e che è destinata a cambiare il corso della vita di tutti gli abitanti della città. Il contagio progressivo della malattia crea nel lettore sconcerto e apprensione, ma a spiazzarlo del tutto è la descrizione che il guidatore fa di quanto gli è accaduto: «è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte». A spiazzare il lettore è la cecità intesa come un «male bianco». Per noi tutti, infatti, la cecità è il buio: è il nero, piuttosto che il bianco. A pensarci bene, tuttavia, il bianco e il nero sono metafore che valgono solo per i vedenti. Cos'è la cecità per chi non ha mai visto? La risposta più interessante alla domanda chiama in causa il tema del rapporto tra pensiero e linguaggio. Ed è proprio in relazione a questo tema che il dibattito sulla cecità (che ha ricevuto in passato l'attenzione di numerosi filosofi - si pensi soltanto alla Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono di Denis Diderot) conosce oggi, anche in Italia, un rinnovato interesse. Lo testimonia, la pubblicazione di Sviluppo del linguaggio e dell'interazione sociale nei bambini ciechi di Miguel Pérez-Pereira e di Gina Conti-Ramsden (Edizioni Junior di Brescia), un importante e aggiornatissimo saggio che affronta la questione della cecità tenendo conto di alcune delle ricerche più significative della scienza cognitiva contemporanea, e offre lo spunto per alcune considerazioni di carattere più generale.
«Come sai che sei cieco?» È la prima domanda che Bryan Magee, filosofo vedente, rivolge a Martin Milligan, cieco dalla nascita, in un avvincente scambio epistolare tradotto di recente in italiano (Sulla cecità, Astrolabio). Sembra una domanda dalla risposta banale e scontata, ma non è così. Dietro di essa si celano problemi complicati, del tipo di quelli indagati da Thomas Nagel nel suo celebre saggio «Cosa si prova ad essere un pipistrello?». Problemi che mettono in evidenza lo scarto tra il «sapere come funziona» un sistema percettivo e il «conoscere cosa si prova» a percepire il mondo attraverso quel sistema percettivo. Il cieco potrà mai sapere cos'è la cecità senza aver avuto esperienza di ciò che gli manca?
Secondo Magee è la società dei parlanti a dire al non vedente cosa gli manca. Può farlo perché il linguaggio è in grado di veicolare tutta l'informazione utile alla conoscenza. Si prenda la comprensione del significato della parola «oscurità». I ciechi non vivono, come erroneamente si crede, «circondati dall'oscurità» (non avendo esperienza diretta della luce, non possono averla neppure dell'oscurità). Tuttavia, come argomenta Magee, essi conoscono «il significato principale di `oscurità', ossia una situazione in cui c'è poca o nessuna luminosità. (...). Nei dizionari esistono delle definizioni di queste parole e i ciechi dalla nascita possono comprendere e usare le parole in accordo con esse altrettanto bene dei vedenti». Seguendo questa strada si può sostenere che i ciechi, attraverso l'uso dei termini usati dal gruppo sociale, possono costruire una rappresentazione della realtà analoga a quella dei vedenti. Qui il punto chiave è nel riferimento alla conoscenza mediata dal linguaggio (la conoscenza «per descrizione»), ovvero all'idea che tale conoscenza esaurisca tutta l'informazione utile al soggetto.
Ma davvero tutta la conoscenza è conoscenza per descrizione? Bertrand Russell nei suoi Problemi della filosofia (Feltrinelli) ha criticato fortemente questa tesi. Lo ha fatto appellandosi al caso dei ciechi: «Si dice talvolta che "la luce è un moto ondulatorio", ma l'espressione è errata e conduce a malintesi, perché la luce di cui noi abbiamo la sensazione visiva immediata, la luce che conosciamo direttamente attraverso i sensi, non è un moto ondulatorio, ma qualcosa di totalmente diverso; qualcosa che tutti conosciamo bene se non siamo ciechi, pur non sapendola descrivere in modo da comunicare la nostra conoscenza a un cieco». Secondo Russell c'è un tipo di conoscenza non codificabile nel linguaggio: la «conoscenza diretta» (la conoscenza sensoriale alla base dell'apparenza degli oggetti). Ora, poiché questo tipo di conoscenza non è riducibile alla conoscenza per descrizione i ciechi non possono conoscere l'apparenza visiva degli oggetti. E dunque il significato dei termini che fanno riferimento a questo tipo di esperienza è per loro fortemente compromesso.
Stabilire il ruolo della percezione visiva nel linguaggio non è solo un tema filosofico. Qui sono in ballo questioni che toccano da vicino il problema di come l'handicap cognitivo e le deprivazioni sensoriali sono (e debbano essere) considerati nella cosiddetta società dei normali. Sostenere che i ciechi hanno un sistema concettuale deficitario significa sostanziare la tesi della differenza qualitativa tra vedenti e non vedenti. Non a caso, il dibattito tra Milligan e Magee si sposta spesso (a tratti in modo molto duro) dal piano teorico a quello eminentemente politico e sociale. Cosa ci dice la ricerca sperimentale rispetto a questo dibattito? Nel libro Vision and the Emergence of Meaning (Cambridge University Press), Anne Dunlea sembra portare dati a conforto della tesi di Russell. I ciechi parlano, evidentemente. Tuttavia, per quanto utilizzino gli stessi termini, il modo in cui essi intendono tali termini è diverso da quello dei vedenti. Se, infatti, la percezione visiva ha un ruolo nella formazione dei concetti e se i significati hanno una relazione con gli schemi concettuali dei parlanti, allora un deficit visivo porta a una comprensione del significato deficitaria. La Dunlea sposa la tesi del primato dell'esperienza cognitiva (concettuale) su quella linguistica. Se si porta questa tesi alle estreme conseguenze, tuttavia, si arriva a considerare il linguaggio dei non vedenti come una forma di «verbalismo» - come un sistema in cui i termini utilizzati sono concettualmente vuoti. Il caso per eccellenza del verbalismo è rappresentato, secondo alcuni, dal linguaggio per formule (costruzioni stereotipate e ripetitive) caratteristico del parlare dei bambini non vedenti. Un linguaggio di questo tipo è, per tali autori, inutile se non addirittura dannoso per lo sviluppo concettuale di chi lo produce.
A questa visione si contrappone oggi la tesi del linguaggio come un componente autonomo dalla cognizione. Qui il primato è accordato alla capacità di parlare: il linguaggio è uno strumento (compensativo) di conoscenza del mondo esterno. In questa prospettiva il ruolo assegnato al linguaggio stereotipato è del tutto diverso. Secondo Miguel Pérez-Pereira e Gina Conti-Ramsden, ad esempio, le formule utilizzate dai ciechi hanno un ruolo decisivo nell'apprendimento del linguaggio: mantenere con poco sforzo in memoria entità linguistiche complesse permette un'analisi fine della loro struttura formale. Tale analisi è di primaria importanza ai fini cognitivi. I ciechi prestano maggiore attenzione al linguaggio di quanto non facciano i vedenti perché trovano nella struttura degli enunciati l'informazione che non hanno attraverso la visione.
Sostenere che il linguaggio è un potente veicolo di conoscenza è un modo per contrastare alla radice la tesi del verbalismo. Barbara Landau e Lila Gleitman hanno scritto un libro fondamentale a tale proposito, titolato Language and Experience (Harvard University Press), la cui tesi è che, dopo un primo ritardo iniziale, i bambini ciechi parlano un linguaggio virtualmente identico a quello dei vedenti. A riprova di tale tesi, esse danno prova sperimentale della comprensione del significato di termini che sembrano richiedere una specifica esperienza visiva. Kelli (una bambina cieca congenita) mostra di padroneggiare la distinzione fine tra «guardare» e «vedere». Come può farlo? La risposta delle due autrici è nei termini di una concezione chomskiana del linguaggio: il sistema innato di elaborazione sintattica coglie, negli enunciati in cui occorrono, i tratti costituenti essenziali alla comprensione delle due espressioni. L'idea in altre parole è che «guardare» e «vedere» occorrano in contesti sintattici diversi e che l'analisi dell'informazione veicolata dai tipi diversi di strutture sintattiche sia decisiva per stabilire la diversità del significato dei due verbi. L'informazione che conta per il significato non passa attraverso gli occhi. Lo stesso modello viene applicato anche al caso dei termini di colore. Ciò che i ciechi sanno su questi termini dipende, proprio come per i vedenti, dal sistema di elaborazione del linguaggio. Non è legittimo dunque sostenere che i non vedenti utilizzino termini qualitativamente diversi da quelli dei vedenti. Nel caso dei colori sorge un problema, però. Portando alle estreme conseguenze la tesi di Barbara Landau e Lila Gleitman si potrebbe sostenere l'ipotesi della «perfetta coincidenza» dei significati prodotti dai ciechi e dai vedenti. Una tesi palesemente falsa (al pari del verbalismo, anche se per motivi speculari). Anche le due autrici parlano solo di una «coincidenza parziale» del significato dei termini di colore. Per quanto rappresentino un caso limite, i colori evidenziano una cosa importante: che il linguaggio, da solo, non «esaurisce» tutta l'informazione percettiva.
Sostenere che alcune proprietà dei colori restano precluse ai ciechi, riapre i termini della polemica tra Bryan Magee e Martin Milligan. Il residuo di informazione che il linguaggio non esaurisce incide sul sistema concettuale e dunque sulla diversa comprensione del significato da parte di chi vede e di chi non vede. Anche riconoscendo al linguaggio il ruolo di compensazione che esso svolge nel caso della costruzione del sistema concettuale dei ciechi, lo scarto tra i due sistemi concettuali appare un fatto difficilmente contestabile. D'altra parte, come abbiamo visto, insistere troppo sulla diversità di tali sistemi porta a considerare il linguaggio dei non vedenti come uno strumento costituito da (almeno alcuni) termini vuoti di significato. Come ovviare alle difficoltà di queste due opposte visioni del problema?
La risposta al quesito passa per una posizione capace di mantenere insieme le comunanze e le differenze dei sistemi concettuali dei vedenti e dei non vedenti. Il punto chiave è la revisione del concetto di esperienza percettiva. L'opposizione netta tra «conoscenza diretta» e «conoscenza per descrizione» poggia in effetti su una concezione ingenua di percezione. Secondo tale concezione, il percepire è un atto tipicamente passivo: quando apriamo gli occhi, il mondo ci entra dentro. Per quanto continui ad essere viva nel senso comune, questa idea della percezione è stata messa in discussione dalla «teoria delle inferenze inconsce» di Hermann von Helmholtz. Secondo tale teoria, che segna un punto di non ritorno negli studi sul tema, la percezione visiva è un processo attivo che dipende essenzialmente dai processi interni di elaborazione, oltre che dall'accesso sensoriale. Per riprendere il titolo di una bella raccolta di saggi sulla cecità curata da Dario Galati (Franco Angeli editore), si potrebbe sostenere che il percepire è innanzitutto un vedere con la mente, piuttosto che con gli occhi.
Un risultato importante delle tesi di Helmholtz (per una esposizione delle quali bisogna leggere il libro di Michel Meulders, Helmholtz. Dal secolo dei lumi alle neuroscienze, appena pubblicato da Bollati Boringhieri) è che la distinzione tra sensoriale e linguistico non esaurisce i termini della questione. Per dar conto sino in fondo del processo percettivo sembra necessario mettere in gioco un terzo livello di analisi: quello della rappresentazione e dell'elaborazione dell'informazione. L'apparenza degli oggetti non dipende soltanto dalle proprietà sensibili degli oggetti (non dipende soltanto dall'apparato sensoriale deputato a coglierle) ma dipende anche dal sistema interno di elaborazione dell'informazione. Ora, la cecità è spesso soltanto un disturbo periferico. Da questo punto di vista si potrebbe sostenere una tesi per certi versi paradossale: l'idea che i ciechi, pur non avendo accesso visivo (sensoriale) al mondo, possono avere accesso ad almeno una parte dell'apparenza visiva degli oggetti. Che prove abbiamo in favore di questa idea?
Gli straordinari esperimenti sui disegni dei ciechi proposti da John Kennedy in Drawing and the Blind (Yale University Press) sembrano testimoniare in favore di questa ipotesi. In tali esperimenti è stato provato che i non vedenti sono capaci di riprodurre proprietà tipiche dell'apparenza della visione (dipendenti dal punto di vista a distanza) come la prospettiva. L'idea di Kennedy è che gli stessi principi alla base della percezione prospettica siano comuni alla vista e al tatto (sia la vista sia il tatto accedono a uno stesso sistema di elaborazione dello spazio). Seguendo Kennedy è dunque possibile sostenere che i principi che regolano le configurazione pittoriche rappresentate nei disegni «sono intelligibili al cieco allo stesso modo di quanto lo siano al vedente». Esperimenti di questo tipo ci spingono a considerare in modo nuovo l'idea intuitiva che abbiamo della cecità.
La cecità è un disturbo periferico e la visione non è un processo che riguarda soltanto la periferia del sistema. Quando si dice che i ciechi sono privi dell'esperienza visiva bisogna intendersi sul senso da dare al termine esperienza. Detto in breve: se la periferia del sistema è impedita, non segue che sia impedito il sistema visivo di elaborazione. Opportunamente stimolato (anche attraverso altri sensi) tale sistema può produrre rappresentazioni della realtà con caratteristiche proprie dell'esperienza visiva. Un primo risultato di questo discorso è che, indipendentemente dal linguaggio, ci sono forti motivi per considerare il sistema concettuale dei ciechi molto simile a quello dei vedenti. Più simile ad ogni modo di quanto le nostre idee comuni sulla cecità lascino ipotizzare.
La cecità è spesso definita come un caso di deprivazione. Tale definizione è incentrata sul modello del vedente, ovvero a partire da ciò che manca alla percezione visiva. La percezione, tuttavia, così come la cognizione, è sempre una questione di grado. Le concezioni tutto-o-nulla non ci aiutano a comprendere il fenomeno in questione. Forse l'insegnamento più forte che emerge dalla lettura del libro di Pérez-Pereira e Conti-Ramsden - citato all'inizio - è che «i bambini ciechi non sono altro che un caso estremo delle differenze individuali esistenti nell'apprendimento del linguaggio, senza però differire in maniera speciale da altri bambini senza deficit visivi». Con questo non intendiamo certo sostenere che non esistano limiti cognitivi e difficoltà cui i non vedenti sono chiamati a far fronte ogni giorno. Intendiamo soltanto sottolineare che un modo corretto per affrontare i problemi è quello che parte dalla rimozione di alcuni dei pregiudizi che sono da ostacolo alla loro soluzione.
BIBLIOGRAFIA
Sulla tesi del primato del sistema concettuale sul linguaggio ha scritto A. Dunlea in Vision and the Emergence of Meaning. Blind in Sighted Cildren's Early Language, Cambridge University Press, 1989. In favore del ruolo del linguaggio come sistema di costituzione delle esperienze dei non vedenti si veda invece B. Landau & L. Gleitman, Language and Experience. Evidence from the Blind Child, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1985 e soprattutto il recente (e aggiornatissimo) M. Pérez-Pereira G. Conti-Ramsden, Sviluppo del linguaggio e dell'interazione sociale nei bambini ciechi, Edizioni Junior, 2002. Sul rapporto tra cecità e visione, D. Galati (a cura di) Vedere con la mente, Franco Angeli, 1992. Gli esperimenti sui disegni dei ciechi sono in J. Kennedy, Drawing & the Blind, Yale University Press. L'epistolario tra B. Magee e M. Milligan, Sulla Cecità è pubblicato da Astrolabio, 1997. Un libro appena uscito sulla rivoluzione di Helmholtz negli studi sulla percezione visiva è M. Meulders, Helmholtz. Dal secolo dei Lumi alle neuroscienze, Bollati Boringhieri, 2005.
L'elaborazione del significato quando manca la vista
Un cieco potrà mai sapere cos'è la cecità senza aver avuto esperienza di ciò che gli manca? Intorno a questo interrogativo ruota un dibattito di cui rendono conto alcuni libri recenti. In gioco c'è il fatto che l'informazione che conta per elaborare significati non passa attraverso gli occhi. Il che implica, intanto, una revisione del concetto di esperienza percettiva
FRANCESCO FERRETTI
Il disco del semaforo è verde, ma le auto rimangono immobili. È inutile suonare il clacson: la macchina in prima fila non si muove. E non per il solito incidente. Al suo interno c'è un uomo con le mani aggrappate al volante che urla in preda alla disperazione: «Sono diventato cieco!». Questa è la scena di apertura del romanzo Cecità di José Saramago (Einaudi). A colpire il guidatore è un'epidemia che non risparmia nessuno e che è destinata a cambiare il corso della vita di tutti gli abitanti della città. Il contagio progressivo della malattia crea nel lettore sconcerto e apprensione, ma a spiazzarlo del tutto è la descrizione che il guidatore fa di quanto gli è accaduto: «è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte». A spiazzare il lettore è la cecità intesa come un «male bianco». Per noi tutti, infatti, la cecità è il buio: è il nero, piuttosto che il bianco. A pensarci bene, tuttavia, il bianco e il nero sono metafore che valgono solo per i vedenti. Cos'è la cecità per chi non ha mai visto? La risposta più interessante alla domanda chiama in causa il tema del rapporto tra pensiero e linguaggio. Ed è proprio in relazione a questo tema che il dibattito sulla cecità (che ha ricevuto in passato l'attenzione di numerosi filosofi - si pensi soltanto alla Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono di Denis Diderot) conosce oggi, anche in Italia, un rinnovato interesse. Lo testimonia, la pubblicazione di Sviluppo del linguaggio e dell'interazione sociale nei bambini ciechi di Miguel Pérez-Pereira e di Gina Conti-Ramsden (Edizioni Junior di Brescia), un importante e aggiornatissimo saggio che affronta la questione della cecità tenendo conto di alcune delle ricerche più significative della scienza cognitiva contemporanea, e offre lo spunto per alcune considerazioni di carattere più generale.
«Come sai che sei cieco?» È la prima domanda che Bryan Magee, filosofo vedente, rivolge a Martin Milligan, cieco dalla nascita, in un avvincente scambio epistolare tradotto di recente in italiano (Sulla cecità, Astrolabio). Sembra una domanda dalla risposta banale e scontata, ma non è così. Dietro di essa si celano problemi complicati, del tipo di quelli indagati da Thomas Nagel nel suo celebre saggio «Cosa si prova ad essere un pipistrello?». Problemi che mettono in evidenza lo scarto tra il «sapere come funziona» un sistema percettivo e il «conoscere cosa si prova» a percepire il mondo attraverso quel sistema percettivo. Il cieco potrà mai sapere cos'è la cecità senza aver avuto esperienza di ciò che gli manca?
Secondo Magee è la società dei parlanti a dire al non vedente cosa gli manca. Può farlo perché il linguaggio è in grado di veicolare tutta l'informazione utile alla conoscenza. Si prenda la comprensione del significato della parola «oscurità». I ciechi non vivono, come erroneamente si crede, «circondati dall'oscurità» (non avendo esperienza diretta della luce, non possono averla neppure dell'oscurità). Tuttavia, come argomenta Magee, essi conoscono «il significato principale di `oscurità', ossia una situazione in cui c'è poca o nessuna luminosità. (...). Nei dizionari esistono delle definizioni di queste parole e i ciechi dalla nascita possono comprendere e usare le parole in accordo con esse altrettanto bene dei vedenti». Seguendo questa strada si può sostenere che i ciechi, attraverso l'uso dei termini usati dal gruppo sociale, possono costruire una rappresentazione della realtà analoga a quella dei vedenti. Qui il punto chiave è nel riferimento alla conoscenza mediata dal linguaggio (la conoscenza «per descrizione»), ovvero all'idea che tale conoscenza esaurisca tutta l'informazione utile al soggetto.
Ma davvero tutta la conoscenza è conoscenza per descrizione? Bertrand Russell nei suoi Problemi della filosofia (Feltrinelli) ha criticato fortemente questa tesi. Lo ha fatto appellandosi al caso dei ciechi: «Si dice talvolta che "la luce è un moto ondulatorio", ma l'espressione è errata e conduce a malintesi, perché la luce di cui noi abbiamo la sensazione visiva immediata, la luce che conosciamo direttamente attraverso i sensi, non è un moto ondulatorio, ma qualcosa di totalmente diverso; qualcosa che tutti conosciamo bene se non siamo ciechi, pur non sapendola descrivere in modo da comunicare la nostra conoscenza a un cieco». Secondo Russell c'è un tipo di conoscenza non codificabile nel linguaggio: la «conoscenza diretta» (la conoscenza sensoriale alla base dell'apparenza degli oggetti). Ora, poiché questo tipo di conoscenza non è riducibile alla conoscenza per descrizione i ciechi non possono conoscere l'apparenza visiva degli oggetti. E dunque il significato dei termini che fanno riferimento a questo tipo di esperienza è per loro fortemente compromesso.
Stabilire il ruolo della percezione visiva nel linguaggio non è solo un tema filosofico. Qui sono in ballo questioni che toccano da vicino il problema di come l'handicap cognitivo e le deprivazioni sensoriali sono (e debbano essere) considerati nella cosiddetta società dei normali. Sostenere che i ciechi hanno un sistema concettuale deficitario significa sostanziare la tesi della differenza qualitativa tra vedenti e non vedenti. Non a caso, il dibattito tra Milligan e Magee si sposta spesso (a tratti in modo molto duro) dal piano teorico a quello eminentemente politico e sociale. Cosa ci dice la ricerca sperimentale rispetto a questo dibattito? Nel libro Vision and the Emergence of Meaning (Cambridge University Press), Anne Dunlea sembra portare dati a conforto della tesi di Russell. I ciechi parlano, evidentemente. Tuttavia, per quanto utilizzino gli stessi termini, il modo in cui essi intendono tali termini è diverso da quello dei vedenti. Se, infatti, la percezione visiva ha un ruolo nella formazione dei concetti e se i significati hanno una relazione con gli schemi concettuali dei parlanti, allora un deficit visivo porta a una comprensione del significato deficitaria. La Dunlea sposa la tesi del primato dell'esperienza cognitiva (concettuale) su quella linguistica. Se si porta questa tesi alle estreme conseguenze, tuttavia, si arriva a considerare il linguaggio dei non vedenti come una forma di «verbalismo» - come un sistema in cui i termini utilizzati sono concettualmente vuoti. Il caso per eccellenza del verbalismo è rappresentato, secondo alcuni, dal linguaggio per formule (costruzioni stereotipate e ripetitive) caratteristico del parlare dei bambini non vedenti. Un linguaggio di questo tipo è, per tali autori, inutile se non addirittura dannoso per lo sviluppo concettuale di chi lo produce.
A questa visione si contrappone oggi la tesi del linguaggio come un componente autonomo dalla cognizione. Qui il primato è accordato alla capacità di parlare: il linguaggio è uno strumento (compensativo) di conoscenza del mondo esterno. In questa prospettiva il ruolo assegnato al linguaggio stereotipato è del tutto diverso. Secondo Miguel Pérez-Pereira e Gina Conti-Ramsden, ad esempio, le formule utilizzate dai ciechi hanno un ruolo decisivo nell'apprendimento del linguaggio: mantenere con poco sforzo in memoria entità linguistiche complesse permette un'analisi fine della loro struttura formale. Tale analisi è di primaria importanza ai fini cognitivi. I ciechi prestano maggiore attenzione al linguaggio di quanto non facciano i vedenti perché trovano nella struttura degli enunciati l'informazione che non hanno attraverso la visione.
Sostenere che il linguaggio è un potente veicolo di conoscenza è un modo per contrastare alla radice la tesi del verbalismo. Barbara Landau e Lila Gleitman hanno scritto un libro fondamentale a tale proposito, titolato Language and Experience (Harvard University Press), la cui tesi è che, dopo un primo ritardo iniziale, i bambini ciechi parlano un linguaggio virtualmente identico a quello dei vedenti. A riprova di tale tesi, esse danno prova sperimentale della comprensione del significato di termini che sembrano richiedere una specifica esperienza visiva. Kelli (una bambina cieca congenita) mostra di padroneggiare la distinzione fine tra «guardare» e «vedere». Come può farlo? La risposta delle due autrici è nei termini di una concezione chomskiana del linguaggio: il sistema innato di elaborazione sintattica coglie, negli enunciati in cui occorrono, i tratti costituenti essenziali alla comprensione delle due espressioni. L'idea in altre parole è che «guardare» e «vedere» occorrano in contesti sintattici diversi e che l'analisi dell'informazione veicolata dai tipi diversi di strutture sintattiche sia decisiva per stabilire la diversità del significato dei due verbi. L'informazione che conta per il significato non passa attraverso gli occhi. Lo stesso modello viene applicato anche al caso dei termini di colore. Ciò che i ciechi sanno su questi termini dipende, proprio come per i vedenti, dal sistema di elaborazione del linguaggio. Non è legittimo dunque sostenere che i non vedenti utilizzino termini qualitativamente diversi da quelli dei vedenti. Nel caso dei colori sorge un problema, però. Portando alle estreme conseguenze la tesi di Barbara Landau e Lila Gleitman si potrebbe sostenere l'ipotesi della «perfetta coincidenza» dei significati prodotti dai ciechi e dai vedenti. Una tesi palesemente falsa (al pari del verbalismo, anche se per motivi speculari). Anche le due autrici parlano solo di una «coincidenza parziale» del significato dei termini di colore. Per quanto rappresentino un caso limite, i colori evidenziano una cosa importante: che il linguaggio, da solo, non «esaurisce» tutta l'informazione percettiva.
Sostenere che alcune proprietà dei colori restano precluse ai ciechi, riapre i termini della polemica tra Bryan Magee e Martin Milligan. Il residuo di informazione che il linguaggio non esaurisce incide sul sistema concettuale e dunque sulla diversa comprensione del significato da parte di chi vede e di chi non vede. Anche riconoscendo al linguaggio il ruolo di compensazione che esso svolge nel caso della costruzione del sistema concettuale dei ciechi, lo scarto tra i due sistemi concettuali appare un fatto difficilmente contestabile. D'altra parte, come abbiamo visto, insistere troppo sulla diversità di tali sistemi porta a considerare il linguaggio dei non vedenti come uno strumento costituito da (almeno alcuni) termini vuoti di significato. Come ovviare alle difficoltà di queste due opposte visioni del problema?
La risposta al quesito passa per una posizione capace di mantenere insieme le comunanze e le differenze dei sistemi concettuali dei vedenti e dei non vedenti. Il punto chiave è la revisione del concetto di esperienza percettiva. L'opposizione netta tra «conoscenza diretta» e «conoscenza per descrizione» poggia in effetti su una concezione ingenua di percezione. Secondo tale concezione, il percepire è un atto tipicamente passivo: quando apriamo gli occhi, il mondo ci entra dentro. Per quanto continui ad essere viva nel senso comune, questa idea della percezione è stata messa in discussione dalla «teoria delle inferenze inconsce» di Hermann von Helmholtz. Secondo tale teoria, che segna un punto di non ritorno negli studi sul tema, la percezione visiva è un processo attivo che dipende essenzialmente dai processi interni di elaborazione, oltre che dall'accesso sensoriale. Per riprendere il titolo di una bella raccolta di saggi sulla cecità curata da Dario Galati (Franco Angeli editore), si potrebbe sostenere che il percepire è innanzitutto un vedere con la mente, piuttosto che con gli occhi.
Un risultato importante delle tesi di Helmholtz (per una esposizione delle quali bisogna leggere il libro di Michel Meulders, Helmholtz. Dal secolo dei lumi alle neuroscienze, appena pubblicato da Bollati Boringhieri) è che la distinzione tra sensoriale e linguistico non esaurisce i termini della questione. Per dar conto sino in fondo del processo percettivo sembra necessario mettere in gioco un terzo livello di analisi: quello della rappresentazione e dell'elaborazione dell'informazione. L'apparenza degli oggetti non dipende soltanto dalle proprietà sensibili degli oggetti (non dipende soltanto dall'apparato sensoriale deputato a coglierle) ma dipende anche dal sistema interno di elaborazione dell'informazione. Ora, la cecità è spesso soltanto un disturbo periferico. Da questo punto di vista si potrebbe sostenere una tesi per certi versi paradossale: l'idea che i ciechi, pur non avendo accesso visivo (sensoriale) al mondo, possono avere accesso ad almeno una parte dell'apparenza visiva degli oggetti. Che prove abbiamo in favore di questa idea?
Gli straordinari esperimenti sui disegni dei ciechi proposti da John Kennedy in Drawing and the Blind (Yale University Press) sembrano testimoniare in favore di questa ipotesi. In tali esperimenti è stato provato che i non vedenti sono capaci di riprodurre proprietà tipiche dell'apparenza della visione (dipendenti dal punto di vista a distanza) come la prospettiva. L'idea di Kennedy è che gli stessi principi alla base della percezione prospettica siano comuni alla vista e al tatto (sia la vista sia il tatto accedono a uno stesso sistema di elaborazione dello spazio). Seguendo Kennedy è dunque possibile sostenere che i principi che regolano le configurazione pittoriche rappresentate nei disegni «sono intelligibili al cieco allo stesso modo di quanto lo siano al vedente». Esperimenti di questo tipo ci spingono a considerare in modo nuovo l'idea intuitiva che abbiamo della cecità.
La cecità è un disturbo periferico e la visione non è un processo che riguarda soltanto la periferia del sistema. Quando si dice che i ciechi sono privi dell'esperienza visiva bisogna intendersi sul senso da dare al termine esperienza. Detto in breve: se la periferia del sistema è impedita, non segue che sia impedito il sistema visivo di elaborazione. Opportunamente stimolato (anche attraverso altri sensi) tale sistema può produrre rappresentazioni della realtà con caratteristiche proprie dell'esperienza visiva. Un primo risultato di questo discorso è che, indipendentemente dal linguaggio, ci sono forti motivi per considerare il sistema concettuale dei ciechi molto simile a quello dei vedenti. Più simile ad ogni modo di quanto le nostre idee comuni sulla cecità lascino ipotizzare.
La cecità è spesso definita come un caso di deprivazione. Tale definizione è incentrata sul modello del vedente, ovvero a partire da ciò che manca alla percezione visiva. La percezione, tuttavia, così come la cognizione, è sempre una questione di grado. Le concezioni tutto-o-nulla non ci aiutano a comprendere il fenomeno in questione. Forse l'insegnamento più forte che emerge dalla lettura del libro di Pérez-Pereira e Conti-Ramsden - citato all'inizio - è che «i bambini ciechi non sono altro che un caso estremo delle differenze individuali esistenti nell'apprendimento del linguaggio, senza però differire in maniera speciale da altri bambini senza deficit visivi». Con questo non intendiamo certo sostenere che non esistano limiti cognitivi e difficoltà cui i non vedenti sono chiamati a far fronte ogni giorno. Intendiamo soltanto sottolineare che un modo corretto per affrontare i problemi è quello che parte dalla rimozione di alcuni dei pregiudizi che sono da ostacolo alla loro soluzione.
BIBLIOGRAFIA
Sulla tesi del primato del sistema concettuale sul linguaggio ha scritto A. Dunlea in Vision and the Emergence of Meaning. Blind in Sighted Cildren's Early Language, Cambridge University Press, 1989. In favore del ruolo del linguaggio come sistema di costituzione delle esperienze dei non vedenti si veda invece B. Landau & L. Gleitman, Language and Experience. Evidence from the Blind Child, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1985 e soprattutto il recente (e aggiornatissimo) M. Pérez-Pereira G. Conti-Ramsden, Sviluppo del linguaggio e dell'interazione sociale nei bambini ciechi, Edizioni Junior, 2002. Sul rapporto tra cecità e visione, D. Galati (a cura di) Vedere con la mente, Franco Angeli, 1992. Gli esperimenti sui disegni dei ciechi sono in J. Kennedy, Drawing & the Blind, Yale University Press. L'epistolario tra B. Magee e M. Milligan, Sulla Cecità è pubblicato da Astrolabio, 1997. Un libro appena uscito sulla rivoluzione di Helmholtz negli studi sulla percezione visiva è M. Meulders, Helmholtz. Dal secolo dei Lumi alle neuroscienze, Bollati Boringhieri, 2005.
il tempo
La Stampa TuttoScienze 11 Maggio 2005
MENTRE A TRENTO SI PREPARA UNA MOSTRA SUGLI OROLOGI
Tre i tipi di tempo
Come accordarli?
FISICA, BIOLOGIA E PSICOLOGIA NE DANNO VERSIONI
DIVERSE E ORA UN LIBRO CERCA DI METTERE ORDINE
Rosalba Miceli
SI può essere più o meno consapevoli di qualcosa anche senza comprenderne appieno il significato. Così è per il fluire del tempo, dentro e fuori di noi. La coscienza del tempo presenta grandi differenze di percezione tra individuo e individuo, al punto che due persone con orientamenti temporali molto diversi aranno difficoltà a collaborare insieme ad un progetto o a tenere in piedi un matrimonio, perché saranno sempre sfasati l'uno con l'altro. Ma uno stesso individuo può sperimentare, in alcuni momenti, la sensazione che il tempo scorra troppo rapidamente o, viceversa, non passi mai. In genere l'informazione temporale viene elaborata attraverso un raffronto automatico tra il nostro orologio mentale e il tempo ufficiale dei segnatempo fisici e culturali. E'verosimile che l'orologio cognitivo rallenti quando siamo impegnati in attività che ci procurano un piacere intenso o richiedono maggiore attenzione, allora si può avvertire una sorta di accelerazione del tempo convenzionale. La navigazione in Internet illustra bene questo effetto: l'aumentato carico di attenzione fa sì che la durata reale del collegamento venga sottostimata, mentre quei pochi secondi necessari alla connessione o al download di un file sembrano interminabili.
Esistono dunque modi conflittuali di rappresentare il tempo: un tempo "interno", proprio di ciascun essere umano, e un tempo "esterno" scandito dagli orologi e definito dalla fisica come una successione di istanti tutti uguali, senza particolari qualità o proprietà. Quest'ultimo dipende, ma solo su larga scala, dalla presenza di masse gravitazionali o dalle relative velocità di movimento degli osservatori, trascurabili nell'esperienza quotidiana. Il fluire del tempo è, in definitiva, un'illusione? Ma come spiegare la consapevolezza del suo scorrere che cambia, nel corso dell'esistenza, via via che approfondiamo la conoscenza della vita e del mondo? E dove nascono il senso di irreversibilità e il legame di causalità che segna le azioni dell'individuo?
Cerca di rispondere a queste domande il saggio «L'idea del tempo», di Margherita Hack, Pippo Battaglia e Rosolino Buccheri (Utet Libreria, 256 pagine, 18 euro), che sarà presentato venerdì a Palermo (Fondazione Banco di Sicilia Villa San Zito) da Piero Angela e Edoardo Boncinelli. Una lettura stimolante proprio perché affronta il problema da diversi punti di vista.
L'esigenza di scandire i ritmi dell'esistenza è anche il tema della mostra "La misura del tempo" che si aprirà a Trento, Palazzo del Buon Consiglio, il 25 giugno e rimarrà aperta fino al 6 novembre. Sarà la più grande esposizione realizzata in Italia nell'ultimo ventennio dedicata alla storia dell'orologeria italiana dal XV al XVIII secolo, con 300 esemplari preziosi provenienti da collezioni pubbliche e private, italiane e europee, dipinti e documenti. Pezzo forte è l'orologio astronomico "Borghesi" costruito dal maestro trentino Bartolomeo Antonio Bertolla, donato all'imperatrice Maria Teresa d'Austria e conservato al Museum of History and Techonology-Smithsonian Institution di Washington. L'itinerario parte dagli "svegliatori" usati nei monasteri per la preghiera e si snoda tra astrolabi, orologi solari, a cremagliera, a piano inclinato, da carrozza, notturni. Questi ultimi nacquero perché il papa Alessandro VII Chigi, che soffriva d'insonnia, commissionò un orologio muto, leggibile anche di notte. Come ci dicono la Hack, Buccheri e Battaglia, tutti, in un modo o nell'altro, devono fare i conti con il tempo. Si può eluderlo, forse negarlo, ma sfuggirgli (almeno fino ad ora), mai.
MENTRE A TRENTO SI PREPARA UNA MOSTRA SUGLI OROLOGI
Tre i tipi di tempo
Come accordarli?
FISICA, BIOLOGIA E PSICOLOGIA NE DANNO VERSIONI
DIVERSE E ORA UN LIBRO CERCA DI METTERE ORDINE
Rosalba Miceli
SI può essere più o meno consapevoli di qualcosa anche senza comprenderne appieno il significato. Così è per il fluire del tempo, dentro e fuori di noi. La coscienza del tempo presenta grandi differenze di percezione tra individuo e individuo, al punto che due persone con orientamenti temporali molto diversi aranno difficoltà a collaborare insieme ad un progetto o a tenere in piedi un matrimonio, perché saranno sempre sfasati l'uno con l'altro. Ma uno stesso individuo può sperimentare, in alcuni momenti, la sensazione che il tempo scorra troppo rapidamente o, viceversa, non passi mai. In genere l'informazione temporale viene elaborata attraverso un raffronto automatico tra il nostro orologio mentale e il tempo ufficiale dei segnatempo fisici e culturali. E'verosimile che l'orologio cognitivo rallenti quando siamo impegnati in attività che ci procurano un piacere intenso o richiedono maggiore attenzione, allora si può avvertire una sorta di accelerazione del tempo convenzionale. La navigazione in Internet illustra bene questo effetto: l'aumentato carico di attenzione fa sì che la durata reale del collegamento venga sottostimata, mentre quei pochi secondi necessari alla connessione o al download di un file sembrano interminabili.
Esistono dunque modi conflittuali di rappresentare il tempo: un tempo "interno", proprio di ciascun essere umano, e un tempo "esterno" scandito dagli orologi e definito dalla fisica come una successione di istanti tutti uguali, senza particolari qualità o proprietà. Quest'ultimo dipende, ma solo su larga scala, dalla presenza di masse gravitazionali o dalle relative velocità di movimento degli osservatori, trascurabili nell'esperienza quotidiana. Il fluire del tempo è, in definitiva, un'illusione? Ma come spiegare la consapevolezza del suo scorrere che cambia, nel corso dell'esistenza, via via che approfondiamo la conoscenza della vita e del mondo? E dove nascono il senso di irreversibilità e il legame di causalità che segna le azioni dell'individuo?
Cerca di rispondere a queste domande il saggio «L'idea del tempo», di Margherita Hack, Pippo Battaglia e Rosolino Buccheri (Utet Libreria, 256 pagine, 18 euro), che sarà presentato venerdì a Palermo (Fondazione Banco di Sicilia Villa San Zito) da Piero Angela e Edoardo Boncinelli. Una lettura stimolante proprio perché affronta il problema da diversi punti di vista.
L'esigenza di scandire i ritmi dell'esistenza è anche il tema della mostra "La misura del tempo" che si aprirà a Trento, Palazzo del Buon Consiglio, il 25 giugno e rimarrà aperta fino al 6 novembre. Sarà la più grande esposizione realizzata in Italia nell'ultimo ventennio dedicata alla storia dell'orologeria italiana dal XV al XVIII secolo, con 300 esemplari preziosi provenienti da collezioni pubbliche e private, italiane e europee, dipinti e documenti. Pezzo forte è l'orologio astronomico "Borghesi" costruito dal maestro trentino Bartolomeo Antonio Bertolla, donato all'imperatrice Maria Teresa d'Austria e conservato al Museum of History and Techonology-Smithsonian Institution di Washington. L'itinerario parte dagli "svegliatori" usati nei monasteri per la preghiera e si snoda tra astrolabi, orologi solari, a cremagliera, a piano inclinato, da carrozza, notturni. Questi ultimi nacquero perché il papa Alessandro VII Chigi, che soffriva d'insonnia, commissionò un orologio muto, leggibile anche di notte. Come ci dicono la Hack, Buccheri e Battaglia, tutti, in un modo o nell'altro, devono fare i conti con il tempo. Si può eluderlo, forse negarlo, ma sfuggirgli (almeno fino ad ora), mai.
l'astensione ai referendum?
una frode alla Costituzione
La Stampa 12 Maggio 2005, prima pagina
L'ASTENSIONE È UN TRUCCO
Michele Ainis
DAL 1974 al 1995 i referendum falliti per non aver toccato il quorum di votanti furono soltanto tre; dal 1997 a oggi, sotto l’astro della seconda Repubblica, per questa medesima ragione ne sono via via saltati 15. Ma è legittimo l’appello all'astensione? C’è davvero una terza via fra il sì e il no che la nostra Carta consegna alla volontà degli elettori? Per chiunque sappia di diritto, la risposta non può che essere una sola: l’astensionismo «militante» è una frode alla Costituzione. E il fatto che la frode duri ormai da tempo, la rende semmai ancora più grave. Ecco perché.
I costituenti avevano previsto inizialmente la partecipazione dei due quinti degli elettori per la validità dei referendum. Successivamente questa soglia fu elevata alla metà più uno per scongiurare il rischio che una legge, magari votata a larga maggioranza dalle Camere, fosse poi bocciata da una sparuta minoranza del Paese. In origine, dunque, il quorum serviva a presidiare la serietà della prova referendaria, e a castigare altresì l’indifferenza. Serviva (serve) a rendere almeno in questo caso coercitiva la norma che prescrive il voto come «dovere civico». Serviva (serve) a neutralizzare il disinteresse verso un atto così importante qual è l'abrogazione d'una legge, e a evitare che dal disinteresse scaturisca in ultimo l'effetto abrogativo. Ma chi cavalca l’astensione è invece talmente interessato all’esito del voto da impiegare trucchi, espedienti, scorciatoie pur di raggiungere il suo scopo. Tutto l’opposto dello scenario disegnato dai costituenti.
Insomma l’astensione è un trucco, e insieme un tradimento della Carta. D’altronde lo aveva già denunziato Bobbio, nel giugno 1990, dalle colonne di questo giornale. Aggiungendo che se il trucco avesse preso piede, il referendum - «la gemma della nostra Costituzione» - sarebbe andato al macero. Ma l’Italia non ha mai dato troppo ascolto ai suoi profeti. E del resto - per una capriola della storia - fu proprio il profeta dei referendum, Marco Pannella, a formulare il primo appello all’astensione. Cadeva il 1985, l’anno del referendum sulla scala mobile. Craxi in un primo tempo condivise quella tattica, poi accettò l’invito a rinunziarvi, nella sua veste di presidente del Consiglio. Sarebbe molto grave se a distanza di vent’anni il governo Berlusconi consumasse lo strappo che a suo tempo evitò il governo Craxi.
L'ASTENSIONE È UN TRUCCO
Michele Ainis
DAL 1974 al 1995 i referendum falliti per non aver toccato il quorum di votanti furono soltanto tre; dal 1997 a oggi, sotto l’astro della seconda Repubblica, per questa medesima ragione ne sono via via saltati 15. Ma è legittimo l’appello all'astensione? C’è davvero una terza via fra il sì e il no che la nostra Carta consegna alla volontà degli elettori? Per chiunque sappia di diritto, la risposta non può che essere una sola: l’astensionismo «militante» è una frode alla Costituzione. E il fatto che la frode duri ormai da tempo, la rende semmai ancora più grave. Ecco perché.
I costituenti avevano previsto inizialmente la partecipazione dei due quinti degli elettori per la validità dei referendum. Successivamente questa soglia fu elevata alla metà più uno per scongiurare il rischio che una legge, magari votata a larga maggioranza dalle Camere, fosse poi bocciata da una sparuta minoranza del Paese. In origine, dunque, il quorum serviva a presidiare la serietà della prova referendaria, e a castigare altresì l’indifferenza. Serviva (serve) a rendere almeno in questo caso coercitiva la norma che prescrive il voto come «dovere civico». Serviva (serve) a neutralizzare il disinteresse verso un atto così importante qual è l'abrogazione d'una legge, e a evitare che dal disinteresse scaturisca in ultimo l'effetto abrogativo. Ma chi cavalca l’astensione è invece talmente interessato all’esito del voto da impiegare trucchi, espedienti, scorciatoie pur di raggiungere il suo scopo. Tutto l’opposto dello scenario disegnato dai costituenti.
Insomma l’astensione è un trucco, e insieme un tradimento della Carta. D’altronde lo aveva già denunziato Bobbio, nel giugno 1990, dalle colonne di questo giornale. Aggiungendo che se il trucco avesse preso piede, il referendum - «la gemma della nostra Costituzione» - sarebbe andato al macero. Ma l’Italia non ha mai dato troppo ascolto ai suoi profeti. E del resto - per una capriola della storia - fu proprio il profeta dei referendum, Marco Pannella, a formulare il primo appello all’astensione. Cadeva il 1985, l’anno del referendum sulla scala mobile. Craxi in un primo tempo condivise quella tattica, poi accettò l’invito a rinunziarvi, nella sua veste di presidente del Consiglio. Sarebbe molto grave se a distanza di vent’anni il governo Berlusconi consumasse lo strappo che a suo tempo evitò il governo Craxi.
un film (da evitare)
La Stampa 13 Maggio 2005
BIOGRAFICO
«Modigliani, I colori dell'anima»
STORIA della tormentata e tragica storia d’amore tra il pittore Amedeo Modigliani (Andy Garcia) e Jeanne Hébuterne, madre della figlia Jeanne, che poco dopo la morte per tubercolosi dell’artista nel 1920 morì suicida; e storia dell’accanita rivalità di Modigliani nei confronti del maestro del suo tempo Pablo Picasso, manifestata soprattutto nelle grandi mostre collettive. L’unione tra il pittore e l’amante è malvista dal padre di lei, che sottrae loro la bambina. Cine-biografie più complete di Modigliani erano in «Montparnasse» di Jacques Becker, con Gérard Philipe e Anouk Aimée, e nel lavoro televisivo di Franco Taviani.
Una biografia del pittore banale e anacronistica
Povero Modigliani da genio a star turistica
Di regola, le biografie degli artisti del ‘900 sono più maledette degli artisti in questione; in compenso, mancano totalmente di genio. Ci eravamo ripresi a fatica da quella di Picasso con Anthony Hopkins e dal «biopic» su Pollock, cui prestò faccia (perdendocela) e regia Ed Harris; ed ecco arrivare la peggiore di tutte, a raccontarci l´ultimo atto della vita di Amedeo Modigliani. Nella Montparnasse del dopo (grande) guerra, il pittore fa la bohème, intrattenendo rapporti tumultuosi con donne e colleghi. In particolare con la musa Jeanne, legata a lui da una passione assoluta ma piena di triboli e che ci tiene informati, tra i singhiozzi, circa il genio autodistruttivo del suo Modì.
Quanto ai colleghi-concorrenti, la parte dei leone tocca a Picasso, interpretato dal poco noto Omid Djalili, che si agita e minaccia come se fosse convinto di trovarsi in un film di gangster. Il prodigio di avere banalizzato come più non si poteva un soggetto in sé appassionante è opera dello scozzese Mick Davis, passato alla storia per avere sceneggiato il seguito di "Nove settimane e mezzo". La ricostruzione della Parigi anni ‘20 sembra una lunga pubblicità per un'agenzia turistica (dell'epoca), con gli innamorati che si baciano sulle note delle canzoni di Edith Piaf; gli artisti in pieno impeto creativo vengono ripresi al rallentatore; tira un'aria di generale anacronismo, che rende il tutto un po' ridicolo. Quanto a Andy Garcia, sembra più che mai la controfigura di Al Pacino.
(r.n.)
BIOGRAFICO
«Modigliani, I colori dell'anima»
STORIA della tormentata e tragica storia d’amore tra il pittore Amedeo Modigliani (Andy Garcia) e Jeanne Hébuterne, madre della figlia Jeanne, che poco dopo la morte per tubercolosi dell’artista nel 1920 morì suicida; e storia dell’accanita rivalità di Modigliani nei confronti del maestro del suo tempo Pablo Picasso, manifestata soprattutto nelle grandi mostre collettive. L’unione tra il pittore e l’amante è malvista dal padre di lei, che sottrae loro la bambina. Cine-biografie più complete di Modigliani erano in «Montparnasse» di Jacques Becker, con Gérard Philipe e Anouk Aimée, e nel lavoro televisivo di Franco Taviani.
MODIGLIANIRepubblica 13.5.05
I COLORI DELL'ANIMA
di Mick Davis
con Andy Garcia, Elsa Zylberstein, Hyppolite Girardot, Eva Herzigova; Usa/Francia/Germania/Italia/Romania/Inghilterra, 2004
Una biografia del pittore banale e anacronistica
Povero Modigliani da genio a star turistica
Di regola, le biografie degli artisti del ‘900 sono più maledette degli artisti in questione; in compenso, mancano totalmente di genio. Ci eravamo ripresi a fatica da quella di Picasso con Anthony Hopkins e dal «biopic» su Pollock, cui prestò faccia (perdendocela) e regia Ed Harris; ed ecco arrivare la peggiore di tutte, a raccontarci l´ultimo atto della vita di Amedeo Modigliani. Nella Montparnasse del dopo (grande) guerra, il pittore fa la bohème, intrattenendo rapporti tumultuosi con donne e colleghi. In particolare con la musa Jeanne, legata a lui da una passione assoluta ma piena di triboli e che ci tiene informati, tra i singhiozzi, circa il genio autodistruttivo del suo Modì.
Quanto ai colleghi-concorrenti, la parte dei leone tocca a Picasso, interpretato dal poco noto Omid Djalili, che si agita e minaccia come se fosse convinto di trovarsi in un film di gangster. Il prodigio di avere banalizzato come più non si poteva un soggetto in sé appassionante è opera dello scozzese Mick Davis, passato alla storia per avere sceneggiato il seguito di "Nove settimane e mezzo". La ricostruzione della Parigi anni ‘20 sembra una lunga pubblicità per un'agenzia turistica (dell'epoca), con gli innamorati che si baciano sulle note delle canzoni di Edith Piaf; gli artisti in pieno impeto creativo vengono ripresi al rallentatore; tira un'aria di generale anacronismo, che rende il tutto un po' ridicolo. Quanto a Andy Garcia, sembra più che mai la controfigura di Al Pacino.
(r.n.)
sinistra
Bertinotti
aprileonline 13.5.05
Bertinotti sfida i riformisti: "Battaglia per l'egemonia"
Stanno maturando le condizioni perché nell'Unione la sinistra radicale possa esercitare la sua egemonia sulla coalizione di centrosinistra. Di questo è convinto il leader del Prc Fausto Bertinotti. Parlando, insieme a Pietro Folena, all'assemblea di fondazione della "Sinistra romana" Bertinotti saluta il "buon annuncio" dell'iniziativa e si augura che sia "l'inizio di una primavera per la sinistra radicale". La sfida per l'egemonia, il segretario di Rifondazione la sintentizza così: "Il riformismo è la resistenza alle politiche neoliberiste, noi dobbiamo essere l'alternativa".
Bertinotti è convinto che stiano "maturando le condizioni perché la sinistra radicale e antiliberista sia in grado di mettere fine alla condizione di minorità verso le forze riformiste e riaprire la sfida per l'egemonia". In questo Bertinotti indivudua anche il compito del suo partito dopo la svolta di Venezia: "Ci sono molti che condivdono le nostre posizioni, persino la nostra pratica, ma poi si rivolgono ai riformisti perché non ci individuano come alternativa credibile di governo. Noi dobbiamo dare forza all'alternativa di società".
Certo, spiega, "non con un'operazione verticista, di ceti politici, ma bisogna anche dare efficacia a questa iniziativa con la costruzione di un movimento, di un'aggregazione di forze capace di porsi il problema della trasformazione della società". (DIRE)
Bertinotti sfida i riformisti: "Battaglia per l'egemonia"
Stanno maturando le condizioni perché nell'Unione la sinistra radicale possa esercitare la sua egemonia sulla coalizione di centrosinistra. Di questo è convinto il leader del Prc Fausto Bertinotti. Parlando, insieme a Pietro Folena, all'assemblea di fondazione della "Sinistra romana" Bertinotti saluta il "buon annuncio" dell'iniziativa e si augura che sia "l'inizio di una primavera per la sinistra radicale". La sfida per l'egemonia, il segretario di Rifondazione la sintentizza così: "Il riformismo è la resistenza alle politiche neoliberiste, noi dobbiamo essere l'alternativa".
Bertinotti è convinto che stiano "maturando le condizioni perché la sinistra radicale e antiliberista sia in grado di mettere fine alla condizione di minorità verso le forze riformiste e riaprire la sfida per l'egemonia". In questo Bertinotti indivudua anche il compito del suo partito dopo la svolta di Venezia: "Ci sono molti che condivdono le nostre posizioni, persino la nostra pratica, ma poi si rivolgono ai riformisti perché non ci individuano come alternativa credibile di governo. Noi dobbiamo dare forza all'alternativa di società".
Certo, spiega, "non con un'operazione verticista, di ceti politici, ma bisogna anche dare efficacia a questa iniziativa con la costruzione di un movimento, di un'aggregazione di forze capace di porsi il problema della trasformazione della società". (DIRE)
nessuno produce più la pennicillina
una segnalazione di Alessandro Mazzetta e di Roberto Martina
Corriere della Sera 12.5.05
L'industria farmaceutica investe sui nuovi antibiotici
Scoperta per caso nel 1928 da Fleming. Ha curato malattie gravi e debellato la sifilide
Giuseppe Remuzzi
Da qualche giorno, in Italia, niente più penicillina. Con una lettera ( mandata ai medici degli ospedali e, credo, anche agli altri) così: «Penicillina G Sodica: sospensione della produzione. Con la presente, si rende nota la rinuncia alla commercializzazione del medicinale in oggetto da parte dell' unica ditta produttrice» . Non una parola di più, salvo la raccomandazione di « diffondere la presente informazione a tutto il personale interessato » . Sono passati ottant'anni precisi da quando Alexander Fleming, a Londra, si rigirava tra le mani delle piastre, quelle dove normalmente i microbiologi fanno crescere i batteri. Non sapeva nemmeno lui se tenerle o buttarle, parevano contaminate da muffe. Dove c'era la muffa i batteri non crescevano. Chissà, forse la muffa conteneva qualcosa capace di uccidere i batteri. Era proprio così. Ma la strada per scoprire la penicillina era ancora lunga e difficile. Fleming lavorò con Howard Florey che allora stava all' università di Oxford e poi con Ernst Boris Chain, un biochimico ebreo scappato dalla Germania, appena prima della guerra. E' stata forse la più importante scoperta della medicina moderna (nel 1945 tutti e tre ebbero il Nobel). Di antibiotici, dopo, ne sono stati fatti tantissimi e ne vengono fatti sempre di nuovi. Ma i batteri si stanno organizzando, cambiano le loro caratteristiche man mano che i ricercatori trovano nuove molecole, e si passano l'un l'altro le informazioni per « resistere » (agli antibiotici). E così nascono nuovi batteri. Sono «superbugs» , superbatteri. E' preoccupante. I germi resistenti si diffondono anche per il cattivo uso degli antibiotici. Che cosa fare? Ci vogliono nuovi farmaci, certo, ma intanto bisogna usare con grande garbo quelli che abbiamo, e solo quando c'è un'indicazione precisa. Non per il mal di gola dei bambini, per esempio, che quasi sempre ha una causa virale (contro i virus gli antibiotici non fanno niente). L'ho letta e riletta la lettera del mio ospedale, ho pensato che fosse uno scherzo. Invece è vero. «Ma - dirà qualcuno - non ci sono tanti altri antibiotici?» . Sì. Ma la penicillina serve ancora e per malattie gravissime. La fascite necrotizzante per esempio (una malattia rara, ma qualche volta mortale, il primo a descriverla fu Ippocrate, 5 secoli prima di Cristo), crea una necrosi dei tessuti molli, può colpire dappertutto. Con la penicillina G si cura anche l'endocardite batterica ( è un'infezione delle valvole del cuore, se non si cura bene e in fretta si muore). C'è un' altra malattia, rara anche questa, ha il nome di chi l'ha descritta per primo, Andre Lemierre. Si ammalano soprattutto gli adolescenti e i bambini, incomincia come una faringite, di quelle però che non guariscono bene. La febbre dura giorni e giorni poi dolore al collo, che tante volte si gonfia, dopo vengono i dolori alle articolazioni. Chi ne ha vista una la diagnosi non la sbaglia. Ma tante volte i medici arrivano tardi. Allora sono guai. Per fortuna c'è (è il caso di dire c' era) la penicillina. Anche la sifilide si cura con la penicillina. La penicillina ha contribuito a debellarla, oggi sta ritornando insieme al virus dell'Aids, nei Paesi poveri, ma anche da noi. Certe volte invade il cervello. Ci sono alternative? Forse. Ma nessuno finora l'ha dimostrato davvero. Ma se la penicillina è ancora così preziosa perché toglierla dal commercio? Perché costa troppo poco e a chi la vende non conviene più. Se un farmaco non rende abbastanza, non c'è margine per la pubblicità. Molto meglio convincere i medici a prescrivere antibiotici più nuovi, su cui l'industria ha importanti guadagni e quanto più c'è margine tanto più c'è la possibilità di indurre i medici a prescriverli. Lo si fa in tanti modi. L'industria ha a disposizione migliaia di collaboratori (un medico di medicina generale in Italia ha ogni anno 350 visite da parte di collaboratori di un centinaio di industrie). Si danno campioni gratuiti. Nel 2001 la grande industria multinazionale ha speso undici miliardi di dollari solo negli Stati Uniti di campioni gratuiti (che non sono affatto gratuiti, s'intende, il costo dei campioni lo si aggiunge al prezzo del farmaco che si vende). Per la penicillina no, non vale la pena. «Con la presente, si rende nota la rinuncia alla commercializzazione del medicinale in oggetto da parte dell' unica ditta produttrice» . Neanche due righe, per un delitto.
DAL 1928
Una rivoluzione La scoperta della penicillina avvenne nel 1928, per merito di Alexander Fleming. Lo studioso, controllando una coltura di batteri, vi individuò sopra uno strato muffa, che aveva annientato i batteri circostanti. La scoperta non suscitò grande entusiasmo: soltanto nel 1941 si dimostrò l'efficacia del farmaco contro le infezioni. Nel 1944 Alexander Fleming fu insignito del titolo di baronetto e l'anno dopo divise il premio Nobel con i suoi collaboratori Chain e Florey.
Corriere della Sera 12.5.05
L'industria farmaceutica investe sui nuovi antibiotici
Scoperta per caso nel 1928 da Fleming. Ha curato malattie gravi e debellato la sifilide
Giuseppe Remuzzi
Da qualche giorno, in Italia, niente più penicillina. Con una lettera ( mandata ai medici degli ospedali e, credo, anche agli altri) così: «Penicillina G Sodica: sospensione della produzione. Con la presente, si rende nota la rinuncia alla commercializzazione del medicinale in oggetto da parte dell' unica ditta produttrice» . Non una parola di più, salvo la raccomandazione di « diffondere la presente informazione a tutto il personale interessato » . Sono passati ottant'anni precisi da quando Alexander Fleming, a Londra, si rigirava tra le mani delle piastre, quelle dove normalmente i microbiologi fanno crescere i batteri. Non sapeva nemmeno lui se tenerle o buttarle, parevano contaminate da muffe. Dove c'era la muffa i batteri non crescevano. Chissà, forse la muffa conteneva qualcosa capace di uccidere i batteri. Era proprio così. Ma la strada per scoprire la penicillina era ancora lunga e difficile. Fleming lavorò con Howard Florey che allora stava all' università di Oxford e poi con Ernst Boris Chain, un biochimico ebreo scappato dalla Germania, appena prima della guerra. E' stata forse la più importante scoperta della medicina moderna (nel 1945 tutti e tre ebbero il Nobel). Di antibiotici, dopo, ne sono stati fatti tantissimi e ne vengono fatti sempre di nuovi. Ma i batteri si stanno organizzando, cambiano le loro caratteristiche man mano che i ricercatori trovano nuove molecole, e si passano l'un l'altro le informazioni per « resistere » (agli antibiotici). E così nascono nuovi batteri. Sono «superbugs» , superbatteri. E' preoccupante. I germi resistenti si diffondono anche per il cattivo uso degli antibiotici. Che cosa fare? Ci vogliono nuovi farmaci, certo, ma intanto bisogna usare con grande garbo quelli che abbiamo, e solo quando c'è un'indicazione precisa. Non per il mal di gola dei bambini, per esempio, che quasi sempre ha una causa virale (contro i virus gli antibiotici non fanno niente). L'ho letta e riletta la lettera del mio ospedale, ho pensato che fosse uno scherzo. Invece è vero. «Ma - dirà qualcuno - non ci sono tanti altri antibiotici?» . Sì. Ma la penicillina serve ancora e per malattie gravissime. La fascite necrotizzante per esempio (una malattia rara, ma qualche volta mortale, il primo a descriverla fu Ippocrate, 5 secoli prima di Cristo), crea una necrosi dei tessuti molli, può colpire dappertutto. Con la penicillina G si cura anche l'endocardite batterica ( è un'infezione delle valvole del cuore, se non si cura bene e in fretta si muore). C'è un' altra malattia, rara anche questa, ha il nome di chi l'ha descritta per primo, Andre Lemierre. Si ammalano soprattutto gli adolescenti e i bambini, incomincia come una faringite, di quelle però che non guariscono bene. La febbre dura giorni e giorni poi dolore al collo, che tante volte si gonfia, dopo vengono i dolori alle articolazioni. Chi ne ha vista una la diagnosi non la sbaglia. Ma tante volte i medici arrivano tardi. Allora sono guai. Per fortuna c'è (è il caso di dire c' era) la penicillina. Anche la sifilide si cura con la penicillina. La penicillina ha contribuito a debellarla, oggi sta ritornando insieme al virus dell'Aids, nei Paesi poveri, ma anche da noi. Certe volte invade il cervello. Ci sono alternative? Forse. Ma nessuno finora l'ha dimostrato davvero. Ma se la penicillina è ancora così preziosa perché toglierla dal commercio? Perché costa troppo poco e a chi la vende non conviene più. Se un farmaco non rende abbastanza, non c'è margine per la pubblicità. Molto meglio convincere i medici a prescrivere antibiotici più nuovi, su cui l'industria ha importanti guadagni e quanto più c'è margine tanto più c'è la possibilità di indurre i medici a prescriverli. Lo si fa in tanti modi. L'industria ha a disposizione migliaia di collaboratori (un medico di medicina generale in Italia ha ogni anno 350 visite da parte di collaboratori di un centinaio di industrie). Si danno campioni gratuiti. Nel 2001 la grande industria multinazionale ha speso undici miliardi di dollari solo negli Stati Uniti di campioni gratuiti (che non sono affatto gratuiti, s'intende, il costo dei campioni lo si aggiunge al prezzo del farmaco che si vende). Per la penicillina no, non vale la pena. «Con la presente, si rende nota la rinuncia alla commercializzazione del medicinale in oggetto da parte dell' unica ditta produttrice» . Neanche due righe, per un delitto.
DAL 1928
Una rivoluzione La scoperta della penicillina avvenne nel 1928, per merito di Alexander Fleming. Lo studioso, controllando una coltura di batteri, vi individuò sopra uno strato muffa, che aveva annientato i batteri circostanti. La scoperta non suscitò grande entusiasmo: soltanto nel 1941 si dimostrò l'efficacia del farmaco contro le infezioni. Nel 1944 Alexander Fleming fu insignito del titolo di baronetto e l'anno dopo divise il premio Nobel con i suoi collaboratori Chain e Florey.
fecondazione in provetta
ADN Kronos Salute 13.5.05
FECONDAZIONE:
SONO CATTOLICHE 7 COPPIE SU 10 FRA QUELLE CHE RICORRONO ALLA PROVETTA
Roma, 12 mag. (Adnkronos Salute) - In sette casi su dieci sono credenti e di religione cattolica. E molti, se fosse lecito, ricorrerebbero alla fecondazione eterologa. Questo il ritratto delle coppie italiane che ricorrono alle tecniche di procreazione assistita, disegnato grazie alle schede di 500 coppie raccolte in 5 centri specializzati e presso tre Associazioni di pazienti (''Amica Cicogna'', ''Cerco un bimbo'' e www.unbambino.it, Centro Andros, Centro Mediterraneo per la Medicina della Riproduzione, CRM di Roma e dal Sismer di Bologna). ( ... )
FECONDAZIONE:
SONO CATTOLICHE 7 COPPIE SU 10 FRA QUELLE CHE RICORRONO ALLA PROVETTA
Roma, 12 mag. (Adnkronos Salute) - In sette casi su dieci sono credenti e di religione cattolica. E molti, se fosse lecito, ricorrerebbero alla fecondazione eterologa. Questo il ritratto delle coppie italiane che ricorrono alle tecniche di procreazione assistita, disegnato grazie alle schede di 500 coppie raccolte in 5 centri specializzati e presso tre Associazioni di pazienti (''Amica Cicogna'', ''Cerco un bimbo'' e www.unbambino.it, Centro Andros, Centro Mediterraneo per la Medicina della Riproduzione, CRM di Roma e dal Sismer di Bologna). ( ... )
Pericle e la Legge
Repubblica 13.5.05
L'intervento di Canfora per la serie "Nomos Basileus" in corso a Bologna
IL DISCORSO DI PERICLE IN NOME DELLA LEGGE
Le norme ispirate alla natura riguardano sia gli uomini che gli dei
LUCIANO CANFORA
Pubblichiamo parte dell´intervento intitolato "La legge e la città" che ha letto ieri sera, nell´Aula Magna dell´università di Bologna, per il ciclo di conferenze "Nomos Basileus".
La legge scritta fu una conquista, nel mondo greco arcaico. Prima c´era il predominio di gruppi, aristocratici e sacerdotali, che "amministravano" una legge «atavica» di cui erano e si proclamavano i soli detentori ed interpreti; e la cui integrità testuale era incontrollabile. La legge scritta era stata dunque una conquista contro l´arbitrio di una «legge non scritta» promanante dall´alto e controllata da caste protette dal paravento della sacralità. Non è secondario che le «leggi non scritte» siano state sin dal principio fatte percepire come un bagaglio «primario» di principi fondamentali: in nuce una sorta di diritto di natura in cui sostanza comportamentale empirica ed alone di sacralità religiosa si fondevano.
Va da sé che lo sviluppo in direzione di una prassi democratica (decisioni condivise da un ampio corpo decisionale sulla base di norme, accettate e controllabili) è andato di pari passo con l´estendersi ed il consolidarsi della pratica della «legge scritta». Essa a sua volta si accompagna a una diffusione dell´alfabetismo, che non è facile definire e quantificare in modo puntuale ma che indubbiamente rientra, come componente, in questo quadro. S´intende che anche il non alfabetizzato può farsi leggere la norma alla quale intende richiamarsi, e che c´è - per esempio ad Atene - un mestiere che pertiene direttamente a questo ambito, una figura che «collega» i cittadini alla legge: i logografi (potremmo definirli anche, modernamente, avvocati).
Non deve perciò sorprendere che il maggiore statista dell´Atene classica, Pericle, sia rappresentato da uno storico suo contemporaneo e ammiratore (Tucidide) nell´atto di elogiare il sistema politico vigente nella città (che lui dice potersi definire faute de mieux, «democrazia») e di indicare nelle leggi scritte il baluardo della libertà individuale. Ma Pericle, in quel discorso solenne che forse pronunciò davvero all´incirca in quella forma in cui Tucidide lo fa parlare, dice anche tutta la sua considerazione per le «leggi non scritte» e lascia intendere che esse comportano, se violate, soprattutto una sanzione morale (lui dice «vergogna»).
Cos´era accaduto? Il grande fatto nuovo intervenuto tra l´albeggiare della democrazia e la matura età di Pericle era stato l´irrompere di un movimento di pensiero la cui ampiezza, pervasività, efficacia e capacità di fare immediatamente presa su larghe cerchie fu almeno pari a quella dell´Illuminismo: intendo la Sofistica. Forse la corrente di pensiero più influente, anche per i suoi effetti di lunga e lunghissima durata, di tutta l´età antica. La Sofistica aveva brandito una scoperta: che cioè la legge positiva, concreta, stabilita dalle varie città, è convenzione, mentre durevole e non di rado in contrasto con la legge convenzionale è quel nucleo profondo stabile e anche ben visibile e sempre riaffiorante (anche quando la si conculca) che è la natura. Di qui il proporsi di una antitesi legge/natura che però poteva avere gli esiti più diversi. Per un verso una rispettosa accettazione delle singole «convenzioni» (tolleranza, ai limiti avalutativa); per l´altro la pretesa di fare largo soprattutto alla natura, unica «vera».
Ma che idea alcuni di loro avevano, o suggerivano, della «natura»? Dall´esperienza avevano ricavato una visione realistica. Ed era difficile contrastare la veduta che apertamente affermavano che il rapporto di forza, la "naturale" prevalenza del più forte (nei più diversi campi, dalla politica al mondo animale) riflettesse appunto, e appieno, la fondamentale «legge di natura». Nel dialogo che lo stesso Tucidide immagina svolgersi tra Melii e Ateniesi, questi ultimi sostengono che tale legge vige anche tra gli dei, nel mondo degli dei!
Ecco dunque l´imbarazzo della città democratica di fronte a questa frastornante "rivelazione", ed ecco sorgere orientamenti di pensiero miranti a rintracciare altri fondamenti universali dell´agire (e del dover agire) umano non semplicemente regolati dalla ferina «naturalità» della forza. Tutto il socratismo fino alle sue propaggini moderne è stato impegnato in questo sforzo di superamento del possibile "baratro etico" aperto dalla Sofistica. Allo stesso fine, ma con risorse intellettuali arcaiche, mira la riscoperta, simboleggiata da Antigone, della «santità» delle leggi non scritte (ma "naturali").
E nel mondo della politica? Lì si produce, con lo sviluppo della democrazia radicale, una svolta inattesa, pur essa legata ai rapporti di forza. Sorge cioè col tempo all´interno della città democratica una polarità tra l´idea della superiorità della legge (nucleo di partenza della democrazia stessa contro il sopruso di casta) e l´idea, estrema, che il popolo è esso stesso al di sopra della legge. E´ quello che dicono i capipopolo, minacciosamente, durante la prima fase del processo dei generali vincitori alle Arginuse: «qui si vuole impedire al popolo di fare quello che vuole!».
L'intervento di Canfora per la serie "Nomos Basileus" in corso a Bologna
IL DISCORSO DI PERICLE IN NOME DELLA LEGGE
Le norme ispirate alla natura riguardano sia gli uomini che gli dei
LUCIANO CANFORA
Pubblichiamo parte dell´intervento intitolato "La legge e la città" che ha letto ieri sera, nell´Aula Magna dell´università di Bologna, per il ciclo di conferenze "Nomos Basileus".
La legge scritta fu una conquista, nel mondo greco arcaico. Prima c´era il predominio di gruppi, aristocratici e sacerdotali, che "amministravano" una legge «atavica» di cui erano e si proclamavano i soli detentori ed interpreti; e la cui integrità testuale era incontrollabile. La legge scritta era stata dunque una conquista contro l´arbitrio di una «legge non scritta» promanante dall´alto e controllata da caste protette dal paravento della sacralità. Non è secondario che le «leggi non scritte» siano state sin dal principio fatte percepire come un bagaglio «primario» di principi fondamentali: in nuce una sorta di diritto di natura in cui sostanza comportamentale empirica ed alone di sacralità religiosa si fondevano.
Va da sé che lo sviluppo in direzione di una prassi democratica (decisioni condivise da un ampio corpo decisionale sulla base di norme, accettate e controllabili) è andato di pari passo con l´estendersi ed il consolidarsi della pratica della «legge scritta». Essa a sua volta si accompagna a una diffusione dell´alfabetismo, che non è facile definire e quantificare in modo puntuale ma che indubbiamente rientra, come componente, in questo quadro. S´intende che anche il non alfabetizzato può farsi leggere la norma alla quale intende richiamarsi, e che c´è - per esempio ad Atene - un mestiere che pertiene direttamente a questo ambito, una figura che «collega» i cittadini alla legge: i logografi (potremmo definirli anche, modernamente, avvocati).
Non deve perciò sorprendere che il maggiore statista dell´Atene classica, Pericle, sia rappresentato da uno storico suo contemporaneo e ammiratore (Tucidide) nell´atto di elogiare il sistema politico vigente nella città (che lui dice potersi definire faute de mieux, «democrazia») e di indicare nelle leggi scritte il baluardo della libertà individuale. Ma Pericle, in quel discorso solenne che forse pronunciò davvero all´incirca in quella forma in cui Tucidide lo fa parlare, dice anche tutta la sua considerazione per le «leggi non scritte» e lascia intendere che esse comportano, se violate, soprattutto una sanzione morale (lui dice «vergogna»).
Cos´era accaduto? Il grande fatto nuovo intervenuto tra l´albeggiare della democrazia e la matura età di Pericle era stato l´irrompere di un movimento di pensiero la cui ampiezza, pervasività, efficacia e capacità di fare immediatamente presa su larghe cerchie fu almeno pari a quella dell´Illuminismo: intendo la Sofistica. Forse la corrente di pensiero più influente, anche per i suoi effetti di lunga e lunghissima durata, di tutta l´età antica. La Sofistica aveva brandito una scoperta: che cioè la legge positiva, concreta, stabilita dalle varie città, è convenzione, mentre durevole e non di rado in contrasto con la legge convenzionale è quel nucleo profondo stabile e anche ben visibile e sempre riaffiorante (anche quando la si conculca) che è la natura. Di qui il proporsi di una antitesi legge/natura che però poteva avere gli esiti più diversi. Per un verso una rispettosa accettazione delle singole «convenzioni» (tolleranza, ai limiti avalutativa); per l´altro la pretesa di fare largo soprattutto alla natura, unica «vera».
Ma che idea alcuni di loro avevano, o suggerivano, della «natura»? Dall´esperienza avevano ricavato una visione realistica. Ed era difficile contrastare la veduta che apertamente affermavano che il rapporto di forza, la "naturale" prevalenza del più forte (nei più diversi campi, dalla politica al mondo animale) riflettesse appunto, e appieno, la fondamentale «legge di natura». Nel dialogo che lo stesso Tucidide immagina svolgersi tra Melii e Ateniesi, questi ultimi sostengono che tale legge vige anche tra gli dei, nel mondo degli dei!
Ecco dunque l´imbarazzo della città democratica di fronte a questa frastornante "rivelazione", ed ecco sorgere orientamenti di pensiero miranti a rintracciare altri fondamenti universali dell´agire (e del dover agire) umano non semplicemente regolati dalla ferina «naturalità» della forza. Tutto il socratismo fino alle sue propaggini moderne è stato impegnato in questo sforzo di superamento del possibile "baratro etico" aperto dalla Sofistica. Allo stesso fine, ma con risorse intellettuali arcaiche, mira la riscoperta, simboleggiata da Antigone, della «santità» delle leggi non scritte (ma "naturali").
E nel mondo della politica? Lì si produce, con lo sviluppo della democrazia radicale, una svolta inattesa, pur essa legata ai rapporti di forza. Sorge cioè col tempo all´interno della città democratica una polarità tra l´idea della superiorità della legge (nucleo di partenza della democrazia stessa contro il sopruso di casta) e l´idea, estrema, che il popolo è esso stesso al di sopra della legge. E´ quello che dicono i capipopolo, minacciosamente, durante la prima fase del processo dei generali vincitori alle Arginuse: «qui si vuole impedire al popolo di fare quello che vuole!».
fine di Wittgenstein
Corriere della Sera 13.5.05
L’INTERPRETE
Vattimo: «Per noi era un profeta, ma oggi è inadeguato»
«Ci sono filosofi il cui pensiero è in rapporto con la vicenda biografica. Per un logico come Wittgenstein questo dovrebbe essere meno rilevante, anzi dovrebbe far parte di "ciò di cui non si può parlare e si deve tacere", ma...». Ma anche Gianni Vattimo, uno dei nostri maggiori filosofi, al dato biografico di Wittgenstein un po’ si appassiona: «Mi incuriosisce il suo senso del peccato, la sua omosessualità che non voleva riconoscere: ciò è strano per uno che era così logico! Ma i matematici sono spesso dei pazzi». Ma se le biografie lo stroncano, nemmeno il suo pensiero sembra godere più di grande favore. «Fino agli anni Settanta lui era tra i nuovi profeti che parlavano di logica e di filosofia della scienza, che da noi erano stati trascurati negli anni del crocianesimo». Poi avvennero delle appropriazioni indebite: «Esistenzialismo ed Ermeneutica lo hanno sottratto dalla sua sfera neopositivista. Rorty lo ha addirittura avvicinato al Pragmatismo. Ma queste interpretazioni si sono rivelate armi a doppio taglio, perché alla fine gli epistemologi lo hanno abbandonato. Ed ora nei Paesi anglosassoni nessuno parla più di lui e riscoprono Hegel».
E nemmeno da noi se la passa bene... «Oggi la filosofia si deve scontrare con i temi di politica e di bioetica; e su questi Wittgenstein non insegna niente. La possibilità di leggere di tutto nel suo pensiero, è diventato il suo limite. Inoltre non ha spessore storico nell’analisi del linguaggio. Ho l’impressione che, per un po’, resterà nel limbo».
L’INTERPRETE
Vattimo: «Per noi era un profeta, ma oggi è inadeguato»
«Ci sono filosofi il cui pensiero è in rapporto con la vicenda biografica. Per un logico come Wittgenstein questo dovrebbe essere meno rilevante, anzi dovrebbe far parte di "ciò di cui non si può parlare e si deve tacere", ma...». Ma anche Gianni Vattimo, uno dei nostri maggiori filosofi, al dato biografico di Wittgenstein un po’ si appassiona: «Mi incuriosisce il suo senso del peccato, la sua omosessualità che non voleva riconoscere: ciò è strano per uno che era così logico! Ma i matematici sono spesso dei pazzi». Ma se le biografie lo stroncano, nemmeno il suo pensiero sembra godere più di grande favore. «Fino agli anni Settanta lui era tra i nuovi profeti che parlavano di logica e di filosofia della scienza, che da noi erano stati trascurati negli anni del crocianesimo». Poi avvennero delle appropriazioni indebite: «Esistenzialismo ed Ermeneutica lo hanno sottratto dalla sua sfera neopositivista. Rorty lo ha addirittura avvicinato al Pragmatismo. Ma queste interpretazioni si sono rivelate armi a doppio taglio, perché alla fine gli epistemologi lo hanno abbandonato. Ed ora nei Paesi anglosassoni nessuno parla più di lui e riscoprono Hegel».
E nemmeno da noi se la passa bene... «Oggi la filosofia si deve scontrare con i temi di politica e di bioetica; e su questi Wittgenstein non insegna niente. La possibilità di leggere di tutto nel suo pensiero, è diventato il suo limite. Inoltre non ha spessore storico nell’analisi del linguaggio. Ho l’impressione che, per un po’, resterà nel limbo».
embrione: cellule, non individuo
Repubblica 13.5.05
INTERVISTA AL GENETISTA CARLO ALBERTO REDI
MA COME SI FA A DIRE INDIVIDUO
Definizioni. L'embrione è solo una delle fasi dello sviluppo dell'essere vivente ed è improprio attribuirgli la qualifica di "inizio dell'individuo"
Terminologia. Usare l'espressione "ricerca su embrioni" è improprio e forse fuorviante. La ricerca in realtà la si conduce sulle cellule
FRANCO PRATTICO
Siamo stati tutti embrioni. E ciò comporta una sorta di mozione degli affetti che ci porta a identificare teneramente il nostro caro "Io" con quel microscopico grappolino di cellule dal quale è partito il prezioso e irripetibile fenomeno che ha portato a noi stessi, attraverso uno straordinario processo che ha non solo consentito lo sviluppo di un organismo adulto e completo, un processo su cui oggi la scienza è in grado di gettare luce, ma anche di esprimere le straordinarie potenzialità racchiuse in nuce in ognuno.
Non è strano, perciò, che attorno all´attuale possibilità scientifica di "manipolare" embrioni si sia sviluppata una ondata emotiva aggrappata anche a concezioni etiche e religiose che entrano in conflitto con la fredda lucidità della scienza. Perciò abbiamo chiesto a Carlo Alberto Redi, genetista, biologo dello sviluppo, docente di zoologia e biologia dello sviluppo presso l´Università di Pavia, uno dei più giovani accademici dei Lincei italiani, di fornirci il suo parere (certamente, da scienziato, non disinteressato) su cosa, per la scienza, è un embrione.
Per un genetista come lei, qual è lo statuto dell'embrione?
«Per definizione, diciamo così, "scolastica", l´embrione è solo una delle fasi dello sviluppo di un essere vivente. Sono sconcertato dal fatto che anche personaggi di tutto rispetto parlino a tal proposito di "individuo". Per lo scienziato, per il genetista, per lo studioso dello sviluppo, si tratta in realtà di una fase dello sviluppo ontogenetico, alla quale sarebbe difficile attribuire una qualifica come "inizio dell´individuo" (definizione in sé impropria e che serve solo a caricare il discorso di significati emotivi), e tanto meno della vita umana. In biologia, la vita è un processo, che ha avuto inizio oltre quattro miliardi di anni or sono e che per esprimersi deve attraversare una serie di stadi: è un errore pensare che l´individuo appaia al momento della fecondazione, quando ancora non sono presenti tutta una serie di fasi che infine porteranno all´"inizio della vita": siamo ancora semmai all´ingresso d´un nuovo stadio dello sviluppo di un nuovo essere, che avrà una identità solo nel momento in cui - come del resto è stato chiaramente descritto fin dal 2000 sull´autorevole rivista Nature - le quattro cellule da cui in quel momento è formato lo zigote sono dotate del nuovo Dna (il materiale genetico che trasporta l´informazione che "fa" l´individuo), frutto della unione dei genomi paterno e materno, che nelle loro differenze ne fondano la specificità: fino allora sarà presente solo il Dna contenuto nell´ovulo materno fecondato».
E in quale momento avviene la fusione dei due patrimoni genetici che assicura la "specificità" dell´individuo?
«Appunto, nel momento in cui lo zigote è formato da quattro cellule, i patrimoni genetici (l´informazione che fa l´individuo) paterno e materno avranno dato luogo insieme al nuovo Dna del futuro individuo. Cioè un evento che si verifica, diciamo, dopo 40/50 ore, dopo un paio di giorni in media».
Quindi solo allora "comincia" la persona, la specificità che ci rende irripetibili e che rappresenta il nodo attorno al quale si stanno duramente scontrando in questo periodo diverse concezioni?
«Le rispondo da biologo. In biologia, il concetto di "persona" non esiste, è un concetto ideologico. Ma se vogliamo riferirci alla individualità, alla specificità di ognuno, non possiamo non riferirci al sistema nervoso. E allora dobbiamo rifarci al momento in cui cominciano a esprimersi le prime cellule che daranno poi luogo al sistema nervoso, poiché è il sistema nervoso che nel suo complesso presiede alla espressione dei caratteri (non solo fisici) di un individuo. È da quel momento che si possono considerare i caratteri fondanti dell´individualità. Ed è un processo che comincia all´incirca alla terza o quarta settimana dello sviluppo».
I nodi del contendere attuale - e in gran parte anche del prossimo referendum - riguardano appunto la possibilità per la scienza di condurre ricerche sugli embrioni (ovviamente, quelli umani) sia a fini terapeutici che conoscitivi. Ritiene importante dare il via a queste ricerche sugli embrioni, e perché?
«Mi scusi, ma usare il termine "ricerca su embrioni" è improprio e forse fuorviante. La ricerca in realtà la si conduce su cellule. E questo tipo di ricerca, sulle prime cellule, rappresenta senza dubbio oggi una grande opportunità, sia a livello terapeutico che conoscitivo, sia per studiare come le cellule si sviluppano e differenziano, sia i meccanismi molecolari coinvolti. E i cui errori possono dar luogo anche a patologie terribili. Si fa un gran parlare di cellule staminali, totipotenti, non ancora differenziate, quali sono appunto quelle embrionali. È importante per noi studiarle per comprendere come si instaurano una serie di relazioni fra cellule, e come questi processi presiedono alla formazione degli organi, alla loro specializzazione. Solo così possiamo capire come si forma un organo, una conoscenza che può avere enormi conseguenze terapeutiche».
È importante anche per comprendere l´evoluzione del nostro organismo?
«Certamente. Dobbiamo comprendere - studiando i meccanismi che presiedono alla formazione del nostro organismo - come da una cellula fecondata si evolvano e specializzino un milione di miliardi di cellule, quante sono quelle che mediamente formano il nostro corpo. Perché tutti noi deriviamo da una singola cellula. E dobbiamo studiare e comprendere in base a quali meccanismi molecolari le cellule si organizzano fino a formare un corpo, i processi che presiedono alla sua morfologia. È la ricerca fondamentale di questo millennio».
INTERVISTA AL GENETISTA CARLO ALBERTO REDI
MA COME SI FA A DIRE INDIVIDUO
Definizioni. L'embrione è solo una delle fasi dello sviluppo dell'essere vivente ed è improprio attribuirgli la qualifica di "inizio dell'individuo"
Terminologia. Usare l'espressione "ricerca su embrioni" è improprio e forse fuorviante. La ricerca in realtà la si conduce sulle cellule
FRANCO PRATTICO
Siamo stati tutti embrioni. E ciò comporta una sorta di mozione degli affetti che ci porta a identificare teneramente il nostro caro "Io" con quel microscopico grappolino di cellule dal quale è partito il prezioso e irripetibile fenomeno che ha portato a noi stessi, attraverso uno straordinario processo che ha non solo consentito lo sviluppo di un organismo adulto e completo, un processo su cui oggi la scienza è in grado di gettare luce, ma anche di esprimere le straordinarie potenzialità racchiuse in nuce in ognuno.
Non è strano, perciò, che attorno all´attuale possibilità scientifica di "manipolare" embrioni si sia sviluppata una ondata emotiva aggrappata anche a concezioni etiche e religiose che entrano in conflitto con la fredda lucidità della scienza. Perciò abbiamo chiesto a Carlo Alberto Redi, genetista, biologo dello sviluppo, docente di zoologia e biologia dello sviluppo presso l´Università di Pavia, uno dei più giovani accademici dei Lincei italiani, di fornirci il suo parere (certamente, da scienziato, non disinteressato) su cosa, per la scienza, è un embrione.
Per un genetista come lei, qual è lo statuto dell'embrione?
«Per definizione, diciamo così, "scolastica", l´embrione è solo una delle fasi dello sviluppo di un essere vivente. Sono sconcertato dal fatto che anche personaggi di tutto rispetto parlino a tal proposito di "individuo". Per lo scienziato, per il genetista, per lo studioso dello sviluppo, si tratta in realtà di una fase dello sviluppo ontogenetico, alla quale sarebbe difficile attribuire una qualifica come "inizio dell´individuo" (definizione in sé impropria e che serve solo a caricare il discorso di significati emotivi), e tanto meno della vita umana. In biologia, la vita è un processo, che ha avuto inizio oltre quattro miliardi di anni or sono e che per esprimersi deve attraversare una serie di stadi: è un errore pensare che l´individuo appaia al momento della fecondazione, quando ancora non sono presenti tutta una serie di fasi che infine porteranno all´"inizio della vita": siamo ancora semmai all´ingresso d´un nuovo stadio dello sviluppo di un nuovo essere, che avrà una identità solo nel momento in cui - come del resto è stato chiaramente descritto fin dal 2000 sull´autorevole rivista Nature - le quattro cellule da cui in quel momento è formato lo zigote sono dotate del nuovo Dna (il materiale genetico che trasporta l´informazione che "fa" l´individuo), frutto della unione dei genomi paterno e materno, che nelle loro differenze ne fondano la specificità: fino allora sarà presente solo il Dna contenuto nell´ovulo materno fecondato».
E in quale momento avviene la fusione dei due patrimoni genetici che assicura la "specificità" dell´individuo?
«Appunto, nel momento in cui lo zigote è formato da quattro cellule, i patrimoni genetici (l´informazione che fa l´individuo) paterno e materno avranno dato luogo insieme al nuovo Dna del futuro individuo. Cioè un evento che si verifica, diciamo, dopo 40/50 ore, dopo un paio di giorni in media».
Quindi solo allora "comincia" la persona, la specificità che ci rende irripetibili e che rappresenta il nodo attorno al quale si stanno duramente scontrando in questo periodo diverse concezioni?
«Le rispondo da biologo. In biologia, il concetto di "persona" non esiste, è un concetto ideologico. Ma se vogliamo riferirci alla individualità, alla specificità di ognuno, non possiamo non riferirci al sistema nervoso. E allora dobbiamo rifarci al momento in cui cominciano a esprimersi le prime cellule che daranno poi luogo al sistema nervoso, poiché è il sistema nervoso che nel suo complesso presiede alla espressione dei caratteri (non solo fisici) di un individuo. È da quel momento che si possono considerare i caratteri fondanti dell´individualità. Ed è un processo che comincia all´incirca alla terza o quarta settimana dello sviluppo».
I nodi del contendere attuale - e in gran parte anche del prossimo referendum - riguardano appunto la possibilità per la scienza di condurre ricerche sugli embrioni (ovviamente, quelli umani) sia a fini terapeutici che conoscitivi. Ritiene importante dare il via a queste ricerche sugli embrioni, e perché?
«Mi scusi, ma usare il termine "ricerca su embrioni" è improprio e forse fuorviante. La ricerca in realtà la si conduce su cellule. E questo tipo di ricerca, sulle prime cellule, rappresenta senza dubbio oggi una grande opportunità, sia a livello terapeutico che conoscitivo, sia per studiare come le cellule si sviluppano e differenziano, sia i meccanismi molecolari coinvolti. E i cui errori possono dar luogo anche a patologie terribili. Si fa un gran parlare di cellule staminali, totipotenti, non ancora differenziate, quali sono appunto quelle embrionali. È importante per noi studiarle per comprendere come si instaurano una serie di relazioni fra cellule, e come questi processi presiedono alla formazione degli organi, alla loro specializzazione. Solo così possiamo capire come si forma un organo, una conoscenza che può avere enormi conseguenze terapeutiche».
È importante anche per comprendere l´evoluzione del nostro organismo?
«Certamente. Dobbiamo comprendere - studiando i meccanismi che presiedono alla formazione del nostro organismo - come da una cellula fecondata si evolvano e specializzino un milione di miliardi di cellule, quante sono quelle che mediamente formano il nostro corpo. Perché tutti noi deriviamo da una singola cellula. E dobbiamo studiare e comprendere in base a quali meccanismi molecolari le cellule si organizzano fino a formare un corpo, i processi che presiedono alla sua morfologia. È la ricerca fondamentale di questo millennio».
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