IL Sole 24 Ore - DOMENICA - 4.1.04
A due secoli dalla morte, le idee del maggior filosofo della modernità sono più vive che mai
SOTTO IL CIELO DI KANT
La sua «rivoluzione copericana» è stata una delle svolte più radicali nella storia del pensiero.
Ancora oggi non si può prescindere dalla sua lezione, non solo nella teoria della conoscenza, ma anche in etica, diritto e politica.
L'eco nei discorsi del Papa e le sue opere sul tavolo di Ciampi.
di Maurzio Ferraris
Quando morì, ottantenne, il 12 febbraio di duecento anni fa, Kant era immemore quanto lo è oggi Ronald Reagan, Per rimediare, si scriveva tutto su un grande foglio, in cui si mescolano riflessioni di metafisica e liste della spesa. Era la malinconica parodia di quello che Kant considerava come il principio supremo della sua filosofia, e cioè che l'Io penso deve accompagnare tutte le rappresentazioni, ossia che c'è un mondo solo per un io che se ne accorge, se lo annota, se ne ricorda e, in qualche modo, lo determina attraverso le sue categorie. Questa è un'idea che aveva variamente circolato nella filosofia prima di Kant, ma che lui trasforma in modo decisivo, nel senso che il riferimento alla soggettività non contraddice l'oggettività, ma la rende possibile, visto che l'io non è un ammasso di sensazioni, bensì un principio d'ordine, munito di due forme pure dell'intuizione, lo spazio e il tempo, e di dodici categorie, tra cui quella di "sostanza" e di "causa", che sono poi le vere fonti di quello che chiamiamo "oggettività".
Vale però la pena di chiedersi perché mai Kant avesse dovuto imboccare una via tanto eroica e difficile. Il problema di fondo è, che la filosofia prima di Kant era davvero giunta a un punto morto. Immaginiamo di dover decidere quanti angeli possono stare su una punta di spillo. A rigore, milioni, visto che gli angeli come si legge sui dizionari non hanno corpo, essendo puri spiriti.
Ed ecco pronta la risposta: di angeli su uno spillo ne possono stare quanti se ne vuole. Più o meno questo era lo stato della metafisica razionalista al tempo di Kant, che svolgeva delle definizioni puramente nominali, con la conseguenza, tutto sommato non piccola, che tra un libro di metafisica e un libro di fantascienza (chi ha detto che gli angeli esistono?), non si riesce a vedere, la differenza. Di qui l'idea degli empiristi, che della metafisica si potesse tranquillamente fare a meno. Il problema, però, che gli empiristi non riuscivano a mettere a fuoco, è che senza metafisica è difficile fare dei passi in avanti, e che se consideriamo la causa, la sostanza, lo spazio e il tempo come puri risultati delle nostre esperienze, allora la filosofia, la scienza e la morale sono destinate a svanire, perché il mondo intero si sbriciola tra le nostre mani.
La rivoluzione copernicana a cui Kant ha legato la sua fortuna filosofica suona dunque così: invece di chiederci come siano fatte le cose in se stesse, chiediamoci come debbano, esser fatte per venire conosciute da noi. Tutto è reale, ma lo è all'interno dei nostri schemi concettuali, il che significa - anche se Kant non lo avrebbe ammesso - che se anche fossimo dei cervelli messi in un bagno organico e stimolati elettricamente da uno scienziato pazzo, non cambierebbe niente quanto alla oggettività delle nostre conoscenze. Kant chiama questo “realismo empirico”, che non esclude, nella sua prospettiva, l'idealismo trascendentale, cioè per l'appunto la tesi secondo cui tutto dipende dagli schemi concettuali. I vantaggi sono almeno due: si è sconfitto lo scetticismo con una tesi che lo sfiora e lo corteggia, ma rendendo il mondo sicuro e indagabile razionalmente, e inoltre si è attuata una divisione del lavoro per cui gli scienziati si occuperanno del mondo, e i filosofi del modo in cui lo conosciamo.
Da questo momento, la filosofia moderna sarà in grandissima parte una nota a piè di pagina di Kant, proprio come la filosofia antica era stata una glossa a Platone. Non solo l'idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel, o l'anti-idealismo di Schopenhauer, ma anche autori diversi e spesso antiteticí come Nietzsche o Helmholtz, Heidegger o Quine, sono in ultima analisi incomprensibili senza l'apporto di Kant. La stessa fenomenologia, che era nata in un ambiente fortemente antikantiano (il realismo austriaco di stampo cattolico, ostile al soggettivismo protestante di Kant), finirà per sboccare, almeno formalmente, in un quadro di riferimento kantiano. E la svolta linguistica che ha caratterizzato un buon tratto del Novecento è, di nuovo, impensabile senza Kant, perché il linguaggio svolge qui la funzione trascendentale che per Kant assolvevano le categorie. Senza dimenticare poi che l'antropologia, la psicologia, le scienze umane in generale, e persino le scienze cognitive, traggono il loro impulso di fondo da un movente kantiano: se vuoi conoscere il mondo, devi, prima conoscere gli uomini, le loro menti e i loro sensi.
Come tutte le grandi rivoluzioni, quella di Kant, tuttavia, non è avvenuta senza spargimento di sangue, per almeno tre motivi. Primo, se il conoscibile si riduce a ciò che sta nello spazio e nel tempo, allora la metafisica non è che una propaggine della fisica e, soprattutto, si crea un amplissimo territorio delle cose che non si vedono e non si toccano, e che finiscono per equivalersi: Dio, l'origine del mondo, la passeggiata che ho fatto ieri, l'obbligo di guidare con la cintura di sicurezza.
Secondo, se ciò che conosciamo dipende da come siamo fatti, allora la filosofia diventa una propaggine della psicologia: la battaglia combattuta dalla filosofia negli ultimi duecento anni, che consiste nel separare gli atti psicologici dei soggetti dalla loro portata oggettiva, il fatto che io pensi un triangolo dal triangolo che penso, diventa una conseguenza inevitabile di questa impostazione.
Terzo, e soprattutto, tra "essere" e "conoscere" non c'è più nessuna differenza, vale a dire che proprio la distinzione tra oggettivo e soggettivo viene meno, malgrado tutte le migliori intenzioni di Kant. Kant fa un esempio famoso. lo posso guardare una casa dalle fondamenta al tetto o dal tetto alle fondamenta, questo è un ordine soggettivo che posso cambiare quando e come voglio. Ma se guardo una barca che scorre lungo il fiume, quella è una percezione oggettiva, nel senso che non posso invertire il processo a piacimento: la barca è laggiù, e non posso farla tornare indietro con un semplice movimento degli occhi o della testa. La distinzione tra soggettivo e oggettivo è già presupposta nel momento stesso in cui io credo di aver trovato un criterio per. distinguere il soggettivo e l'oggettìvo. E crolla non appena facciamo un caso solo un po' più complicato. Immaginiamo di starci avvicinando a una costa in barca: come facciamo a dire, in base al principi kantiani, che siamo noi che ci avviciniamo alla costa e non è la costa che si avvicina a noi?
Troppe vittime, dunque, nella gloriosa rivoluzione? Niente affatto. Kant ha combattuto con fin troppo successo l'idea del senso comune, di uno sguardo ingenuo sulle cose e di un rapporto immediato con il mondo, e non lo ha fatto con l'inconcludenza di uno scettico, bensì con la volontà costruttiva di un filosofo onesto - non dimentichiamoci che la sua preoccupazione maggiore era la morale, anche se il suo maggior successo si ebbe nella teoria- che era anche un grande del pensiero (se riferito a lui e a pochi altri questo sintagma non appare ironico). La via che ha suggerito si è spesso trasformata in una scorciatoia, ma era anche la sola che potesse trarre la metafisica dalle secche in cui era venuta a trovarsi. Il ritorno del realismo due secoli dopo la svolta kantiana non è dunque il risultato di un monotono movimento pendolare ma, probabilmente, il segno che quella svolta è stata definitivamente metabolizzata: uno sguardo ingenuo sul mondo è possibile, e anzi doveroso, ma l’ingenuità non è data, bisogna conquistarsela.
La morale fuori di noi
di Armando Massarenti
Magari letto in edizioni più economiche di quella apparsa sul tavolo del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi durante il suo discorso di fine anno, Immanuel Kant si è rivelato sempre di più nel tempo un filosofo per tutti.
Non perché le sue opere siano facili. Anzi, alcune, le principali - le tre famose
Critiche -, presentano difficoltà di lettura quasi insormontabili. Ma la loro lezione è arrivata fino a noi attraverso discussioni che hanno attraversato tutti gli episodi più importanti della storia della filosofia, anche quando venivano proposti programmi apertamente antikantiani, dal neopositivismo del Circolo di Vienna alla
Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno fino al postmodernismo di Richard Rorty. Nella letteratura specialistica, l'interesse per Kant non è mai svanito. Prima con gli studi di Peter Strawson, poi nella filosofia politica di John Rawls, nel neopragmatismo di Hilary Putnam (che ha voluto conciliarlo con Wittgenstein) e nella filosofia recente di John McDowell. Oggi è un allievo dell'antikantiano Rorty, A.W. Moore, a riproporlo con forza. In Germanìa, dopo la rinascita della "filosofia pratica", è stato Jürgen Habermas a riattualizzarne il messaggio illuministico.
Kant (via Habermas) è riecheggiato a Capodanno anche nel discorso del Papa per la giornata mondiale della pace. In quel suo ínsistere sulla necessità di estendere le prerogative dell'ordine giuridico internazionale, tutti potevano riconoscere il "progetto filosofico"
Per la pace perpetua. Ed è proprio con saggi come questo che Kant si proponeva consapevolmente come filosofo per tutti (li trovate tutti raccolti nel bel volume
Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo e Vittorio Mathieu, edito dalla Utet).
Ogni mente umana, in forza della sua stessa capacità raziocinativa, secondo Kant, ospita un filosofo. «Osa pensare! Abbi ilcoraggio di servirti della tua propria intelligenza!», era il motto con cui egli rispondeva, nelle prime righe di un altro di quei saggi, alla domanda
Che cos'è l'Illuminismo? Che altro non è che «l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui egli solo è responsabile». Anche la trattazione dei più complessi problemi della filosofia trascendentale non è altro per Kant che un tentativo di delucidazione che aspira a chiarire le confusioni di pensiero in cui gli esseri umani inevitabilmente incorrono ogni qualvolta si apprestano a ragionare. Questo era e resta il compito dell'Illuminismo, anche se molti - non a torto - pensano che talvolta Kant si sia spinto troppo in là. Il suo pensiero morale, basato su inflessibili imperativi categorici validi in se', impermeabili a ogni conseguenza, ci impone un rigore che difficilmente oggi potremmo accettare. Ci impone di non mentire anche quando una piccola bugia può salvare la vita di un uomo. È lo stesso, inquietante, rigore descritto, in chiave antiprotestante, da Lars von Triers in
Dogville.
Ma il Kant che la filosofia morale e politica oggi ci ripropongono è un Kant assai meno rigido e dogmatico. È il Kant dei limiti della ragione, della tolleranza, dei diritti umani, della lotta a ogni fanatismo, religioso o intellettuale, dell'autonomia della morale dalla religione. È il Kant rievocato da Isaiah Berlin, consapevole del fatto che «dal legno storto dell'umanità non si é mai cavata una cosa dritta», e che di questo dobbiamo tenere conto quando vogliamo disegnare le nostre istituzioni.