domenica 4 gennaio 2004

una recensione:
la colonna sonora di Toni Carnevale per il film di Francesca Pirani

TONI CARNEVALE
UNA BELLEZZA CHE NON LASCIA SCAMPO
ORIGINAL SOUNDTRACK


CD DGP Entertainment Records 002


Due persone si incontrano, si innamorano: lui compositore, lei aspirante a diventarlo: la musica diventa assoluta protagonista del loro amore, facendosi colonna sonora di ogni momento, di ogni gesto, sguardo, passione. Questa è la coinvolgente trama di Una bellezza che non lascia scampo, film di Francesca Pirani (Già regista de L’appartamento una delle allieve più promettente di Marco Bellocchio) dai sentimenti autenticamente istintivi, specchio senza eguali della natura umana nel suo essere e divenire. Narratrici di questi stati emotivi sono le composizioni di Toni Carnevale, apprezzato maestro, autore di tante sigle per la tv, per opere teatrali, per film ed anche di brani per Patty Pravo come La danzatrice di Bisanzio e, soprattutto, Ragazza passione. L’immenso merito di Carnevale è aver saputo intrecciare magnificamente la musica con le scene, rendendo veramente l’idea dei momenti vissuti da una coppia in tutta la loro purezza. Nell’ordine seguito dall’album (che è poi il medesimo della pellicola) si comincia dal Risveglio di una giovane donna fino ad arrivare all’incontro con Una bellezza che non lascia scampo nel turbinio de La festa al riecheggiare di Tamburi che fanno sembrare gli altri Dormienti. Attorno al pianoforte nasce Un’idea d un uomo capace di donare una utopica Carezza invisibile, ormai impossibile da trovare. Tutto ciò si rivela vero e crea il Malessere e la Frammentazione dell’anima che cerca di andare Via dal nulla pur rischiando di rimanere Sola. Così si prova a stare Più vicini ma non si può e del sentimento rimangono solamente Echi senza tempo e torna Il freddo sognato, la morte di qualcuno benché senza nessuna morte materiale. Tutto torna Come sempre e cresce l’Incertezza, la sensazione di Non posso scacciata via dalla dichiarazione d’amore muta del suo compagno, quasi fosse l’immagine di Amore e Psiche. Ritorna il movimento: si trasforma in Ballo rosso ed il ricordo, Indefinito, si ripropone con una ricerca verso lo sconosciuto, verso un Diverso dimenticato.

(Vincenzo Burragato)


Alcune altre immagini di ARCOSANTI
la città di Paolo Soleri in Arizona
possono essere viste collegandosi a
www.geocities.com/arcology

ed anche QUI

Qui, poi, si possono vedere alcuni suoi disegni


dalla scrivania di Ciampi al domenicale del quotidiano di Confindustria
Immanuel Kant

IL Sole 24 Ore - DOMENICA - 4.1.04
A due secoli dalla morte, le idee del maggior filosofo della modernità sono più vive che mai
SOTTO IL CIELO DI KANT

La sua «rivoluzione copericana» è stata una delle svolte più radicali nella storia del pensiero.
Ancora oggi non si può prescindere dalla sua lezione, non solo nella teoria della conoscenza, ma anche in etica, diritto e politica.
L'eco nei discorsi del Papa e le sue opere sul tavolo di Ciampi.
di Maurzio Ferraris


Quando morì, ottantenne, il 12 febbraio di duecento anni fa, Kant era immemore quanto lo è oggi Ronald Reagan, Per rimediare, si scriveva tutto su un grande foglio, in cui si mescolano riflessioni di metafisica e liste della spesa. Era la malinconica parodia di quello che Kant considerava come il principio supremo della sua filosofia, e cioè che l'Io penso deve accompagnare tutte le rappresentazioni, ossia che c'è un mondo solo per un io che se ne accorge, se lo annota, se ne ricorda e, in qualche modo, lo determina attraverso le sue categorie. Questa è un'idea che aveva variamente circolato nella filosofia prima di Kant, ma che lui trasforma in modo decisivo, nel senso che il riferimento alla soggettività non contraddice l'oggettività, ma la rende possibile, visto che l'io non è un ammasso di sensazioni, bensì un principio d'ordine, munito di due forme pure dell'intuizione, lo spazio e il tempo, e di dodici categorie, tra cui quella di "sostanza" e di "causa", che sono poi le vere fonti di quello che chiamiamo "oggettività".
Vale però la pena di chiedersi perché mai Kant avesse dovuto imboccare una via tanto eroica e difficile. Il problema di fondo è, che la filosofia prima di Kant era davvero giunta a un punto morto. Immaginiamo di dover decidere quanti angeli possono stare su una punta di spillo. A rigore, milioni, visto che gli angeli come si legge sui dizionari non hanno corpo, essendo puri spiriti.
Ed ecco pronta la risposta: di angeli su uno spillo ne possono stare quanti se ne vuole. Più o meno questo era lo stato della metafisica razionalista al tempo di Kant, che svolgeva delle definizioni puramente nominali, con la conseguenza, tutto sommato non piccola, che tra un libro di metafisica e un libro di fantascienza (chi ha detto che gli angeli esistono?), non si riesce a vedere, la differenza. Di qui l'idea degli empiristi, che della metafisica si potesse tranquillamente fare a meno. Il problema, però, che gli empiristi non riuscivano a mettere a fuoco, è che senza metafisica è difficile fare dei passi in avanti, e che se consideriamo la causa, la sostanza, lo spazio e il tempo come puri risultati delle nostre esperienze, allora la filosofia, la scienza e la morale sono destinate a svanire, perché il mondo intero si sbriciola tra le nostre mani.
La rivoluzione copernicana a cui Kant ha legato la sua fortuna filosofica suona dunque così: invece di chiederci come siano fatte le cose in se stesse, chiediamoci come debbano, esser fatte per venire conosciute da noi. Tutto è reale, ma lo è all'interno dei nostri schemi concettuali, il che significa - anche se Kant non lo avrebbe ammesso - che se anche fossimo dei cervelli messi in un bagno organico e stimolati elettricamente da uno scienziato pazzo, non cambierebbe niente quanto alla oggettività delle nostre conoscenze. Kant chiama questo “realismo empirico”, che non esclude, nella sua prospettiva, l'idealismo trascendentale, cioè per l'appunto la tesi secondo cui tutto dipende dagli schemi concettuali. I vantaggi sono almeno due: si è sconfitto lo scetticismo con una tesi che lo sfiora e lo corteggia, ma rendendo il mondo sicuro e indagabile razionalmente, e inoltre si è attuata una divisione del lavoro per cui gli scienziati si occuperanno del mondo, e i filosofi del modo in cui lo conosciamo.

Da questo momento, la filosofia moderna sarà in grandissima parte una nota a piè di pagina di Kant, proprio come la filosofia antica era stata una glossa a Platone. Non solo l'idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel, o l'anti-idealismo di Schopenhauer, ma anche autori diversi e spesso antiteticí come Nietzsche o Helmholtz, Heidegger o Quine, sono in ultima analisi incomprensibili senza l'apporto di Kant. La stessa fenomenologia, che era nata in un ambiente fortemente antikantiano (il realismo austriaco di stampo cattolico, ostile al soggettivismo protestante di Kant), finirà per sboccare, almeno formalmente, in un quadro di riferimento kantiano. E la svolta linguistica che ha caratterizzato un buon tratto del Novecento è, di nuovo, impensabile senza Kant, perché il linguaggio svolge qui la funzione trascendentale che per Kant assolvevano le categorie. Senza dimenticare poi che l'antropologia, la psicologia, le scienze umane in generale, e persino le scienze cognitive, traggono il loro impulso di fondo da un movente kantiano: se vuoi conoscere il mondo, devi, prima conoscere gli uomini, le loro menti e i loro sensi.
Come tutte le grandi rivoluzioni, quella di Kant, tuttavia, non è avvenuta senza spargimento di sangue, per almeno tre motivi. Primo, se il conoscibile si riduce a ciò che sta nello spazio e nel tempo, allora la metafisica non è che una propaggine della fisica e, soprattutto, si crea un amplissimo territorio delle cose che non si vedono e non si toccano, e che finiscono per equivalersi: Dio, l'origine del mondo, la passeggiata che ho fatto ieri, l'obbligo di guidare con la cintura di sicurezza.

Secondo, se ciò che conosciamo dipende da come siamo fatti, allora la filosofia diventa una propaggine della psicologia: la battaglia combattuta dalla filosofia negli ultimi duecento anni, che consiste nel separare gli atti psicologici dei soggetti dalla loro portata oggettiva, il fatto che io pensi un triangolo dal triangolo che penso, diventa una conseguenza inevitabile di questa impostazione.
Terzo, e soprattutto, tra "essere" e "conoscere" non c'è più nessuna differenza, vale a dire che proprio la distinzione tra oggettivo e soggettivo viene meno, malgrado tutte le migliori intenzioni di Kant. Kant fa un esempio famoso. lo posso guardare una casa dalle fondamenta al tetto o dal tetto alle fondamenta, questo è un ordine soggettivo che posso cambiare quando e come voglio. Ma se guardo una barca che scorre lungo il fiume, quella è una percezione oggettiva, nel senso che non posso invertire il processo a piacimento: la barca è laggiù, e non posso farla tornare indietro con un semplice movimento degli occhi o della testa. La distinzione tra soggettivo e oggettivo è già presupposta nel momento stesso in cui io credo di aver trovato un criterio per. distinguere il soggettivo e l'oggettìvo. E crolla non appena facciamo un caso solo un po' più complicato. Immaginiamo di starci avvicinando a una costa in barca: come facciamo a dire, in base al principi kantiani, che siamo noi che ci avviciniamo alla costa e non è la costa che si avvicina a noi?

Troppe vittime, dunque, nella gloriosa rivoluzione? Niente affatto. Kant ha combattuto con fin troppo successo l'idea del senso comune, di uno sguardo ingenuo sulle cose e di un rapporto immediato con il mondo, e non lo ha fatto con l'inconcludenza di uno scettico, bensì con la volontà costruttiva di un filosofo onesto - non dimentichiamoci che la sua preoccupazione maggiore era la morale, anche se il suo maggior successo si ebbe nella teoria- che era anche un grande del pensiero (se riferito a lui e a pochi altri questo sintagma non appare ironico). La via che ha suggerito si è spesso trasformata in una scorciatoia, ma era anche la sola che potesse trarre la metafisica dalle secche in cui era venuta a trovarsi. Il ritorno del realismo due secoli dopo la svolta kantiana non è dunque il risultato di un monotono movimento pendolare ma, probabilmente, il segno che quella svolta è stata definitivamente metabolizzata: uno sguardo ingenuo sul mondo è possibile, e anzi doveroso, ma l’ingenuità non è data, bisogna conquistarsela.

La morale fuori di noi
di Armando Massarenti


Magari letto in edizioni più economiche di quella apparsa sul tavolo del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi durante il suo discorso di fine anno, Immanuel Kant si è rivelato sempre di più nel tempo un filosofo per tutti.
Non perché le sue opere siano facili. Anzi, alcune, le principali - le tre famose Critiche -, presentano difficoltà di lettura quasi insormontabili. Ma la loro lezione è arrivata fino a noi attraverso discussioni che hanno attraversato tutti gli episodi più importanti della storia della filosofia, anche quando venivano proposti programmi apertamente antikantiani, dal neopositivismo del Circolo di Vienna alla Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno fino al postmodernismo di Richard Rorty. Nella letteratura specialistica, l'interesse per Kant non è mai svanito. Prima con gli studi di Peter Strawson, poi nella filosofia politica di John Rawls, nel neopragmatismo di Hilary Putnam (che ha voluto conciliarlo con Wittgenstein) e nella filosofia recente di John McDowell. Oggi è un allievo dell'antikantiano Rorty, A.W. Moore, a riproporlo con forza. In Germanìa, dopo la rinascita della "filosofia pratica", è stato Jürgen Habermas a riattualizzarne il messaggio illuministico.
Kant (via Habermas) è riecheggiato a Capodanno anche nel discorso del Papa per la giornata mondiale della pace. In quel suo ínsistere sulla necessità di estendere le prerogative dell'ordine giuridico internazionale, tutti potevano riconoscere il "progetto filosofico" Per la pace perpetua. Ed è proprio con saggi come questo che Kant si proponeva consapevolmente come filosofo per tutti (li trovate tutti raccolti nel bel volume Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo e Vittorio Mathieu, edito dalla Utet).
Ogni mente umana, in forza della sua stessa capacità raziocinativa, secondo Kant, ospita un filosofo. «Osa pensare! Abbi ilcoraggio di servirti della tua propria intelligenza!», era il motto con cui egli rispondeva, nelle prime righe di un altro di quei saggi, alla domanda Che cos'è l'Illuminismo? Che altro non è che «l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui egli solo è responsabile». Anche la trattazione dei più complessi problemi della filosofia trascendentale non è altro per Kant che un tentativo di delucidazione che aspira a chiarire le confusioni di pensiero in cui gli esseri umani inevitabilmente incorrono ogni qualvolta si apprestano a ragionare. Questo era e resta il compito dell'Illuminismo, anche se molti - non a torto - pensano che talvolta Kant si sia spinto troppo in là. Il suo pensiero morale, basato su inflessibili imperativi categorici validi in se', impermeabili a ogni conseguenza, ci impone un rigore che difficilmente oggi potremmo accettare. Ci impone di non mentire anche quando una piccola bugia può salvare la vita di un uomo. È lo stesso, inquietante, rigore descritto, in chiave antiprotestante, da Lars von Triers in Dogville.
Ma il Kant che la filosofia morale e politica oggi ci ripropongono è un Kant assai meno rigido e dogmatico. È il Kant dei limiti della ragione, della tolleranza, dei diritti umani, della lotta a ogni fanatismo, religioso o intellettuale, dell'autonomia della morale dalla religione. È il Kant rievocato da Isaiah Berlin, consapevole del fatto che «dal legno storto dell'umanità non si é mai cavata una cosa dritta», e che di questo dobbiamo tenere conto quando vogliamo disegnare le nostre istituzioni.

il marchese de Sade:
dal manicomio di Charenton

La Repubblica 4.1.04 Pag. 35 - Cultura
Quell'incantevole cognata
Le lettere inedite su un amore nascosto
Le missive tra il marchese e Anne Prospère costringono a rivedere il mito
di DARIA GALATERIA


A Charenton, il suo ultimo manicomio, il marchese de Sade godeva di alcuni privilegi. Il direttore, Coulmier - alto non più di un metro, e quel metro «assai sgraziato» - era stato superiore dei premostatensi; spretato dalla rivoluzione, e credendo nel teatro come terapia, considerò il marchese un inviato della Provvidenza, e lo usò per organizzare spettacoli, a cui accorrevano da Parigi. Così, concesse a Sade un salubre appartamento al secondo piano, sopra all'immondo padiglione dove gli internati vivevano sotterrati, sulla paglia, tra gli escrementi.
La camera principale di Sade e la biblioteca attigua davano sul giardino, verso la Marna. Sade vi riceveva le attrici, e viveva con una signora, la fedele madame Quesnet, che faceva passare per sua figlia. Il letto a colonne aveva cortine di seta a righe bianche e rosse; la bergère di velluto e le sedie di paglia riposavano accanto al caminetto. Alle pareti, il ritratto senza cornice del nonno e la miniatura della cognata.
La cognata, Anne Prospère de Launay. Al momento della morte, Sade non la vedeva da 47 anni, mezzo secolo; ma la miniatura era lì, quando la polizia accorse a sequestrare i manoscritti. Ora, quattro lettere ritrovate e pubblicate da Pierre Leroy (Donatien Alphonse François de Sade, Anne-Prospère de Launay, con un testo di Philippe Sollers, Gallimard, pagg. 80, euro 29,50) ci costringeranno a rivedere la storia, e perfino la leggenda di Sade.
Donatien ha trentadue anni, tre figli e un paio di scandali - in carcere due volte, per empietà e fustigazione di prostitute legate al letto «a decubito ventrale»: e cera bollente colata sulle ferite - quando, nel 1771, Anne Prospère arriva a La Coste, il castello di Sade, bianco e tozzo nido d'aquila sulla Provenza.
Anne Prospère ha vent'anni, e tutte le grazie che mancano alla sorella, devotissima moglie del marchese. È canonichessa delle benedettine. Intanto, grazie alle lettere ritrovate, sappiamo come mai la suocera di Sade, la temibile Présidente, ha in convento la più carina delle figlie. Lo racconta Sade stesso allo zio, abate de Saumane - un abate fuori del comune: Donatien, che è vissuto, nell'adolescenza, nel suo castello, ne dice che era «un bordello». Sade si confida così, in una bella lettera inedita, allo zio libertino: ha avuto, con «quell'angelo celeste» (17 anni!), «intime comunicazioni», da allora lei rifiuta ogni pretendente, e accusano Sade di incesto. E la fanciulla è in convento; ma ora arriva a La Coste.
Non si conoscevano finora, e vedremo perché, lettere di Sade e Anne Prospère. Due biglietti scritti in comune al notaio aprono ora spiragli su quel soggiorno. La canonichessa fa teatro con il «fratello», chiede una vasca, perché le hanno prescritto dei bagni, salutari: «e per fare teatro, bisogna star bene, no?». (Il medico è di fatto chiamato tre, quattro volte al suo capezzale, e dell'attrice madame Bourdais, «comédienne du Roi», anche lei ospite al castello - cosa avranno mai, queste gentildonne?). Sade ordina chiavistelli per la stanza della «sorella»: bisogna pure proteggere «quel tesoro»; in effetti, anche lo zio abate si è innamorato.
«Incesto, profanazione, sacrilegio», scrive il curatore Leroy: tutto quanto può stuzzicare Sade. Nel pieno della passione, il marchese parte col valletto a cercar soldi in città. È il notissimo «affare di Marsiglia»: i minimi particolari noti nel protocollare (e più gustoso) linguaggio della polizia, intervenuta per i malori postumi, da bombons afrodisiaci, di «giovanissime» prostitute assoldate dai nostri viaggiatori - che hanno segnato con un coltellino, sul legno del caminetto, i colpi di staffile: si conteranno 859 intacchi. Il Marchese e il valletto vengono condannati a morte, e al rogo in effigie: perché intanto Sade è partito per Venezia, con la cognata.
Del viaggio in Italia - tre mesi - di Donatien e Anne Prospère non si sa nulla. C'è una lista di sessanta luoghi da visitare a Venezia, e una trentina sono sbarrati: S. Marco, la biblioteca, Murano. Il 2 ottobre, Anne Prospère riappare a La Coste. Donatien è a Chambéry, che dipende dal regno di Sardegna. Ma la Présidente è ormai in guerra. Invoca dall'ambasciatore di Sardegna, conte Ferrero della Marmora, di arrestare e incarcerare per sempre il genero, e di mettere le mani su un cofanetto di legno rosso che appartiene alla figlia. La Présidente infatti ha scelto per mademoiselle de Launay un pretendente particolarmente timorato, il marchese de Beaumont, nipote dell'arcivescovo di Parigi. Per concludere le nozze, bisogna distruggere le lettere di Anne Prospère, e seppellire per sempre in carcere Sade.
A dicembre, dalla sua cella detta ironicamente «la Grande Speranza», Sade scrive al valletto di ritirare a Nizza gli effetti di Anne Prospère; «vi metterete in tasca quello che sapete» (la miniatura?). Il resto della vita, o quasi - ventotto anni - Sade li trascorrerà in carcere; e dalla «Seconda Libertà» - la cella, antifrastica, alla Bastiglia - sobillerà i parigini alla Rivoluzione. La famiglia cala il silenzio sulla vicenda. Anne Prospère muore in convento a 28 anni, e Sade non lo saprà mai. Solo una volta, la moglie risponde alle sue domande. Sade le ha scritto del suo «sogno di Laura», la Laura del Petrarca, che è un'antenata del marchese: le è apparsa morta e bellissima, gli ha detto: raggiungimi. «Mamma» ha chiamato in sogno il marchese. E subito accanto, Sade chiede alla moglie di Anne Prospère. Commossa evidentemente, madame Sade scrive al marito: dovunque ora Anne Prospère si trovi, nulla può disonorarla, o nuocere a Sade; del resto, «ogni risposta è inutile».
A Charenton, Sade era obeso, e rallentato nei movimenti; aveva occhi come «brace morente». E ancora, dopo tante prigioni e i rivolgimenti della storia, guardava nella miniatura di Anne Prospère i tratti dell'amore, e della sua rovina.

La confessione
«Caro zio ho incontrato un angelo»
Da una lettera di de Sade allo zio, abate de Saumane, da Parigi, 15 giugno 1771


Dal seno di questa famiglia virtuosa e ottusa è uscito un angelo celeste. Al ritorno a Parigi mi fanno vedere questa deliziosa cognata che conoscevo appena, aveva allora 17 anni; la libertà che ci lasciano porta presto a colloqui intimi che mi conquistano la confidenza e l'affetto della ragazzina. Si presentano dei partiti, lei li rifiuta; non tardano a accusarmi di stranezze, arrivano a suppormi dei progetti; un incesto a me, caro zio! convenite che non mi rendono giustizia; allontanano la sorellina, comincio io stesso a viaggiare per convincerli della mia innocenza; e usano intanto ogni mezzo per convincerla al matrimonio, ma niente; dopo due anni di persecuzioni, la ragazza è in convento: ne faremo una canonichessa. La buona madame de Sade, meno sospettosa, ha visto in questo legame solo un sentimento semplice e onesto... In coscienza, vi dirò che amo molto questa giovinetta, e credo che lei mi ricambi, ma non c'entro nulla nei suoi progetti di canonicato e nel suo disgusto per il matrimonio, come nella sua passione estrema per la libertà e tutte le altre follie dell'immaginazione che la hanno messa contro la sua famiglia.

Muore a 74 anni nell'ospedale dei pazzi
La vita dello scrittore tra condanne e fughe


Donatien Alphonse François de Sade, detto marchese di Sade, nasce a Parigi nel 1740. Figlio d'un diplomatico, prende parte alla guerra dei Sette anni: di ritorno a Parigi (1763) deve scontare la prima d'una serie di condanne per immoralità: cinque anni più tardi torna in prigione con l'accusa di perversione ed è condannato a morte in contumacia per il delitto di avvelenamento e sodomia (riuscirà a evadere dalla Fortezza di Miolans). Dopo alcuni anni trascorsi nel suo castello di La Coste, contrassegnati da nuovi scandali e caratterizzati dall'incontro con la cognata, viene di nuovo arrestato nel 1777 e rimane in prigione fino al 1790. Poi la breve stagione rivoluzionaria, nel 1797 ancora il carcere con l'accusa di empietà, poi la reclusione nell'ospedale dei pazzi di Charenton, dove muore nel 1814.

terrorismo cattolico:
anche de Sade ne restò turbato...

La Repubblica ed. di Roma 4.1.04
Nella chiesa di santo Stefano Rotondo al Celio i terribili affreschi espressione di un cristianesimo da tragedia
Le sante torture del Pomarancio
Quando i martiri dipinti scandalizzarono De Sade
di CLAUDIO RENDINA


Un carnefice che strappa un seno ad una giovane cristiana è la scena che ha sconvolto perfino il marchese de Sade nel suo viaggio a Roma nel 1775. È uno dei 34 riquadri affrescati dal Tempesta e dal Pomarancio alla fine del Cinquecento sulle pareti della chiesa di Santo Stefano Rotondo al Celio; raffigurano, in una suite terrificante, i martìri subiti dai santi durante le varie persecuzioni, per un'esaltazione del sacrificio in nome della fede voluta dalla Controriforma, secondo l'atteggiamento della Chiesa Romana Cattolica dopo il Concilio di Trento. Una rappresentazione del sacrificio dei santi sotto le più atroci torture per esortare i fedeli ad un'esistenza più severa e mistica.
E dire che la Chiesa deve la sua costruzione al papa Simplicio, nel V secolo...
[...]
E infine arrivano gli affreschi: un campionario di sadismo. È indiscutibile il contrasto notevole che creano quei supplizi all'insegna del più impressionante realismo a fronte del Cristo non crocifisso. Ecco santi schiacciati sotto pesantissime pietre, con gli intestini e gli occhi che escono dal corpo in un autentico gusto del macabro. E poi, santi divorati a brani, con metodo, dai leoni; santi affogati nel lago con una pietra al collo; santi bruciati vivi, accecati, storpiati, lapidati, privati dei denti e via così. Un martirologio per un cristianesimo da tragedia sconvolgente e non da pura estasi mistica.

storie:
Elisabeth e Ivan

Corriere della Sera 4.1.04
Viene alla luce una lettera dello zar cinquecentesco alla regina inglese, che lo aveva respinto
«Elisabetta sei come una serva», firmato Ivan il Terribile
di Cesare Medail


Nell’immaginario moderno, lui ha la barba appuntita sotto gli occhi cupi e magnetici di Nikolai Cherkasov, come appare nei due film che Eisenstein dedicò a Ivan il Terribile (1945-58); lei ha la maschera dura e sofferta di una grande Bette Davis, come appare ne La regina vergine, il film su Elisabetta I d’Inghilterra diretto da Henry Koster nel 1955. Due icone memorabili per uno zar (1530-1584) spietato nel reprimere i «boiari», gli aristocratici da cui si sentiva perseguitato fino alla paranoia; e per una sovrana (1533-1603), figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, altrettanto inflessibile nello stroncare nel sangue le pretese dinastiche della cugina Maria Stuarda.
Due personaggi di tragica grandezza che lo storico americano Felix Pryor fa scendere per un attimo dai troni, grazie a una lettera che lo zar inviò alla regina nel 1570 e che viene presentata nel volume Elizabeth I - Her Life in letters, edito dalla University of California Press.
Le biografie di Ivan IV Vasilevic detto il Terribile riportano che in quell’anno lo zar, sempre più ossessionato dai «boiari», aveva in animo di riparare in Inghilterra, lasciando per qualche tempo il trono a un re-fantoccio. Ma non era altrettanto noto che il Terribile, interessato al commercio inglese, avesse chiesto la mano di Elisabetta, oltre che l’asilo politico.
Benché presentata come «regina vergine» in vari film e romanzi, la sovrana ebbe favoriti e amanti, ma mandò sempre a monte ogni trattativa nuziale avviata per ragioni politiche. Tradizione vuole, infatti, che un difetto congenito le impedisse di avere figli.
Nel caso di Ivan, però, non si limitò a rifiutare la proposta, ma aggiunse l’offesa, facendogli sapere che sarebbe stato accolto oltremanica solo a patto che si pagasse le spese di viaggio e di soggiorno. Infischiandosene dell’etichetta e dei commerci, Ivan le spedì la lettera pubblicata da Pryor, dove accusa la regina di essere una «vecchia cameriera» in balia di «rozzi mercanti» e «zotici consiglieri».
Lasciando i posteri nel dubbio su chi fosse più «terribile»: lui o la Grande Elisabetta?

le parole e i lessici

Corriere della Sera 4.7.04
ELZEVIRO
Storia di una parola latina

Se vuoi sapere, vedi alla voce «machina»
di LUCIANO CANFORA


Tra l’8 e il 10 gennaio si terrà a Roma, a Villa Mirafiori, l’XI Colloquio Internazionale organizzato da Tullio Gregory con il «Lessico Intellettuale Europeo», dedicato quest'anno, al concetto di «Machina» nel pensiero occidentale. Interverranno, tra gli altri, Roberto Busa, Paolo Galluzzi, Lina Bolzoni, Natalino Irti e Luciano Canfora. A quest’ultimo, che terrà una relazione, abbiamo chiesto un intervento.
Secondo uno spiritoso sofisma, i lessici possono essere messi in crisi, sul piano «logico» osservando che spiegano le parole con altre parole anch'esse a loro volta meritevoli di una spiegazione e così via ad infinitum. Si infrange questo girare in tondo in vari modi: per esempio dando convenzionalmente per conosciute (e univocamente intese da una determinata comunità di parlanti) un certo numero di parole, servendosi delle quali spiegare tutte le altre. Una strada contenutisticamente più ricca è invece quella dei lessici che puntano alla storia delle parole: che indagano sul loro cammino attraverso le civiltà che le hanno adoperate, spesso serbandole intatte ma caricandole, attraverso il volgere dei secoli, di valori affatto diversi. Celebre è il caso della parola greca democrazia, i cui moderni contenuti sarebbero stati per un ateniese del V/IV secolo del tutto irriconoscibili e forse anche inconcepibili, e che però rimane lessicalmente intatta pur traversando i millenni e i continenti e approdando al suo opposto: non più la diretta gestione popolare del potere politico ma la delega. Persino in lingua turca, nonostante l'ellenofobia cha tanto a lungo vigoreggiò nella moderna Turchia, democrazia si dice così. Insomma gli unici «lessici» che aiutano davvero a capire sono quelli (che difficilmente raggiungeranno mai la completezza) che affrontano in profondità e in estensione la storia di concetti-cardine. Tale è in Italia il «Lessico intellettuale europeo» fondato e diretto da Tullio Gregory. Con questa denominazione si indica sia l'istituzione (una delle più importanti sorte nell'ambito del Cnr ormai inspiegabilmente «commissariato») sia il concreto lavoro lessicografico che tale istituzione produce da circa trent'anni, con l'apprezzamento dei dotti di mezzo mondo. Tra l'altro il «Lessico intellettuale» ha il merito di aver ridato il dovuto rilievo e spazio nel campo degli studi di storia e di storia del pensiero alla lingua che fino al XIX secolo fu tra i principali se non il principale veicolo di comunicazione scientifica: il latino. Quel latino «moderno» che solo gli ignoranti si chiedono cosa mai sia. Ignoranza condivisa dai riformatori, che per insipienza pensano che il latino sia unicamente qualcosa di «antico» e perciò vitando.
Da vari decenni il «Lessico» organizza, con cadenza biennale, dei «Colloqui» che hanno al centro una parola-cardine. I colloqui prendono poi regolarmente corpo in densi volumi di ricerche originali nelle quali convergono le conoscenze di studiosi di storia, linguisti, storici del pensiero etc. Basti solo qualche esempio dei termini già affrontati: Spiritus, Ordo, Phantasia, Res, Experientia. Questa volta, a partire dall'8 gennaio, presso la sede del Lessico, a Roma, nella Villa Mirafiori, Dipartimento di Filosofia della Sapienza, il protagonista sarà «Machina».
Salvatore Settis parlerà dell'«Archeologia delle macchine», e all'antico, geniale inventore Erone di Alessandria sarà dedicata la relazione di Gilbert Argoud. Sfileranno poi dinanzi ai convegnisti anche le machinae e i machinatores di Tommaso d'Aquino, le machinae pictae del Rinascimento, e poi Leibniz e Vico e La Mettrie, per giungere infine a Kant e all'odierna cibernetica, alle machines-à-parler, alle "macchine parlanti".
Macchina è una delle parole che non hanno mai cambiato forma dal greco al latino alle lingue moderne, sia romanze che germaniche. Essa ha serbato sin dal principio la sua polivalenza per un verso materiale (architettonica, militare, teatrale) e per l'altro metaforica (trama, macchinazione, insidia, ritrovato etc.), fino all'organicistica nozione dell'homme-machine del materialismo settecentesco e della machina machinarum, che è lo Stato: cioè noi tutti. Individui che - a nostra volta - di fronte alla macchina non dismettiamo mai, neanche oggi, la duplice e contraddittoria veste di dominati e dominatori. L'umanesimo integrale che ci vuole soggetti pienamente consapevoli dei processi entro i quali agiamo ci espone quotidianamente a questo esaltante dilemma.

il "Cavaliere Azzurro" in mostra a Milano

Il Messaggero, Domenica 4 Gennaio 2004
Mostre/ A Milano centoventi opere del “Cavaliere Azzurro” Tra favola e mito
di FLORIANO DE SANTI


SONO passati novantadue anni dalla nascita del “Cavaliere Azzurro”: meglio, dalla prima esposizione e dall’apparizione dell’Almanacco del gruppo che si denominò Der Blaue Reiter. Sono immagini note nella memoria critica, di quanti si sono volti a fare e studiare l’arte d’avanguardia del secolo da poco trascorso, immagini incentrate su Kandinskij, su Franz Marc, sulla Germania a cavallo tra la grande guerra e il dopoguerra. L’esposizione visitabile alla Fondazione Mazzotta di Milano sino al 20 gennaio 2004 si apre complessivamente, con i suoi centoventi tra dipinti e opere su carta, a tutte le articolazioni del movimento. Si comincia dagli svolgimenti della pittura kandiskijana sino al momento della fondazione del Blaue Reiter, per arrivare a Marc, ai rapporti di Munter e Macke con l’arte europea del periodo, alla serie di ritratti dei componenti, via via sino alle testimonianze sull’arte primitiva (che fu privilegiata da questi pittori) e a un ampio mannello di documenti e illustrazioni originali. Ci sono persino le quattro acqueforti incise da Picasso nel 1911 per Saint Matorel di Max Jacob e presentate nella seconda mostra del “Cavaliere Azzurro”. La culla del Blaue Reiter è stata Monaco di Baviera e la galleria Thannhauser che ne ospita la prima mostra negli ultimi giorni del dicembre 1911. Vi apparvero quadri di Kandinskij e Marc, russo il primo e tedesco il secondo, che furono i fondatori del gruppo; nonché opere di altri artisti, tra cui August Macke, Campendonck, Epstein e Gabriel Munter. Apparvero pure come artisti invitati opere del doganiere Rousseau, la cui fama venne diffusa dal poeta francese Apollinaire, e opere di Delaunay che a quel tempo dipingeva, ispirato dalle novità cubiste e futuriste, una serie di Torri Eiffel a esaltazione del simbolo del progresso industriale, la cui mole di ferro già occupava i cieli di Parigi. E’ pure molto significativo il fatto che a quella prima mostra del “Cavaliere Azzurro” si mostrassero quadri di Arnold Schönberg, il musicista che nelle stesse settimane maturava il suo Pierrot Lunaire, seme vivo della prima dodecafonia. In effetti la nuova pittura di Kandinskij sarà astratta, non oggettiva: avrà cioè una radice diversa dalla “sensazione” che Cézanne traeva dal vero naturale. Poiché al centro di tale ricerca vi furono le teorie dell’Einfuhlung, cioè la corrispondenza tra forme e stati mentali, essa sarà affondata nella spiritualità. Non per nulla il grande maestro moscovita dirà un giorno: «Dentro la Materia si cela lo spirito creatore», e si svilupperà questo concetto di astrazione ideale, dove avvertì anche un moto di quell’intelligenza astraente di pittori di icone, scrivendo nel 1912 un lungo saggio Dello spirituale dell’arte tradotto in italiano già dal 1936. Dopo l’esposizione del 1911 e fino al 1914 si realizzarono altre manifestazioni del Blaue Reiter, fino cioè allo scoppio della guerra mondiale che portò via ancora giovanissimi Franz Marc e August Macke. Il gruppo si infittì man mano di nuovi aderenti. Per diffondere e sostenere le idee, Kandinskji e Marc (il quale a dire il vero non fu mai pittore completamente astratto) progettarono e diffusero nel 1912 un “Almanacco del Cavaliere Azzurro”. Vi figurano le opere degli artisti del gruppo, e di coloro che essi ritenevano vicini: Picasso, Matisse, Van Gogh, Gauguin, Rousseau; e poi i colleghi espressionisti del gruppo Brücke di Dresda, e cioè Nolde, Kokoschka, Kirchner, Heckel, Pechstein, di cui tuttavia non condividevano l’impulso protestatario. E ancora vi compare una scelta straordinariamente diversa di esempi: dalla scultura negra, già in auge a Parigi nel 1905, alle terracotte precolombiane; dal Greco, scoperto dai critici viennesi, a Baldun Grien; da un frammento di mosaico veneziano alle marionette di un teatro di ombre; dalle stampe popolari di Epinal e dagli ex voto agli egiziani antichi; dai disegni infantili agli spartiti di Schönberg, Alban Berg e Webern.
Nella eccezionale rassegna di Milano troviamo documentato, a uso del visitatore, tutto questo e capolavori quali Il cortile di Henri Rousseau, Capriolo nel giardino del convento di Franz Marc, Macchia nera I di Vassilji Kandinskij, La casa rossa di Paul Klee. Ma alla fine è giusto chiedersi: che cosa aggiungono Kandiskji o Klee alla scoperta dell’arte primitiva, popolare, infantile, esotica già di volta in volta oggetto dell’interesse di questo o quel pittore e poeta? L’artista del Blaue Reiter scopre un’attenzione implicita ai contenuti, nell’intento di focalizzare una condizione o denominazione comune, a livello, in sostanza, di favole e di mito. Sono gli stessi anni in cui Jung, deviando dalla linea freudiana (proprio in un congresso del 1912 a Monaco, Freud e Jung si scambiavano le prime battute polemiche) ha l’intuizione dell’"Inconscio collettivo" come serbatoio del mito e produttore di una fervida ed inventiva "simbologia dello spirito".