Corriere della Sera
ANTEPRIMA
Nel «Dizionario medievale» la molteplice identità del continente
L’immagine dell’aldilà nasce nell’alto medioevo: nel cielo superiore sta il bene e il male è in basso
Essenzialmente, l’immagine cristiana di aldilà si definisce lungo l’alto medioevo. Per accedervi, è necessario passare sia attraverso il giudizio collettivo del giudizio finale, sia attraverso un giudizio individuale. Nel primo caso, l’attore principale è il Cristo - giudica assiso in un tribunale che ricorda la giustizia romana dell’antichità. I verdetti sono emessi dopo aver consultato i libri, tenuti dagli angeli, in cui vengono registrate le buone e le cattive azioni degli uomini. Nel secondo caso, il momento decisivo è quello della pesa delle anime, effettuata dall’arcangelo Gabriele dopo la resurrezione. Il custode del paradiso, san Pietro, e il signore dell’inferno, Satana, si disputano l’anima facendo peso sull’uno o sull’altro dei piatti della bilancia. Ottenuto il verdetto, gli eletti ascendono verso il paradiso, di cui san Pietro apre loro la porta, mentre i dannati sono gettati nella gola dell’inferno. Il paradiso è un luogo di pace e di gioia che gli eletti si godono con i principali sensi: fiori e luce per gli occhi, canti per le orecchie, soavi profumi per il naso, sapore di frutti deliziosi per la bocca, tessuti vellutati per le dita (in genere, infatti, i pudichi eletti indossano belle vesti bianche e solo sporadicamente qualche artista ha restituito loro quella ritrovata nudità che era stata caratteristica dell’innocente del paradiso terrestre prima della Caduta). Talvolta, il paradiso è circondato da alte mura di pietre preziose e comprende spazi concentrici, a loro volta protetti da mura, ognuno dei quali diventa più luminoso, più profumato, più saporito, più armonioso man mano che ci si avvicina al centro in cui sta Dio, che tiene in serbo la visione beatifica. Il paradiso della Genesi era un giardino, in conformità con le realtà del clima e dell’immaginario degli Orientali; il paradiso dell’Occidente medievale, mondo di città vecchie e nuove fu concepito perlopiù in forma urbana all’interno di una cinta di mura, sul modello della Gerusalemme celeste. Questo paradiso era strettamente riservato ai buoni battezzati, in quanto il battesimo era il passaporto necessario (benché non sufficiente) per il paradiso.
L’inferno è caratterizzato dal fuoco inestinguibile che brucia senza tregua i dannati e che illumina soltanto di sbuffi nerastri e di spaventosi baluginii rosseggianti un mondo di tenebre, di urla, di orrendi rumori, di lezzo. È un inferno rosso e nero. Il lato peggiore è che i dannati patiscono in perpetuo i crudeli supplizi inflitti da demoni raccapriccianti. Quando se ne intravede il passaggio, l’aldilà infernale risulta orribile, composto com’è di monti scoscesi, di valli profonde, di fiumi e di laghi puzzolenti colmi di metalli fusi, di rettili e di mostri. In questo inferno si arriva in seguito alla caduta dentro un pozzo, oppure dopo la prova, insormontabile, di camminare al di sopra degli abissi su di un ponte sempre più stretto e sempre più scivoloso. Alle volte, il luogo è diviso in ricettacoli che racchiudono le diverse categorie di peccatori dannati; in altri casi, è tutto d’un pezzo, ma strutturato in giorni specializzati a seconda delle punizioni inflitte ai dannati, oppure in piani sempre più oscuri e incandescenti che conducono fino alla massima profondità, dove regna Satana in persona.
Sebbene abbia raccolto gran parte del proprio bagaglio di immagini dagli aldilà pagani, l’aldilà cristiano medievale presenta una differenza di struttura sostanziale. Inferno e paradiso non sono infatti giustapposti sotto terra, bensì disposti fra l’alto e il basso, secondo un orientamento simbolico fondamentale nell’organizzazione spaziale cristiana: il cielo superiore, il bene, in alto; l’inferno inferiore, il male, in basso.
L’assimilazione cielo-paradiso palesa la visione di fondo del cristianesimo che, più di quanto non facessero le religioni e le filosofie precedenti, definisce l’itinerario dell’anima, il realizzarsi dell’ascesi salvifica come una elevazione verso l’alto, verso il cielo, ossia verso Dio. Si tratta di replicare il moto che corona la vita terrena di Gesù e quella della Vergine: Ascensione, Assunzione che riscatta dalla discesa agli inferi. Un’immagine veterotestamentaria conobbe notevole fortuna nell’iconografia medievale dell’aldilà celeste. È quella della scala di Giacobbe (Genesi, 28.10-22): «E fece un sogno, ed ecco una scala era poggiata sulla terra e la sua cima arrivava fino al cielo. Ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano per essa. Ed ecco, il Signore stava sopra di essa e diceva: "Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. Io darò a te e alla tua discendenza la terra sopra la quale tu ora sei coricato"».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 9 settembre 2003
Poincaré, il caos e l'intuizione
Repubblica 9.9.03
POINCARÉ LAMPI DI GENI
Un grande matematico e le sue ispirazioni improvvise
quanti sono i significati attribuiti al caos
i Nuovi studi dedicati al sistema solare
Torna in libreria "La scienza e l´ipotesi", il suo capolavoro divulgativo
Il suo motto era "Con la logica si dimostra, con l´intuizione si inventa"
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Il 21 gennaio 1889, giorno del suo sessantesimo compleanno, Oscar II, re di Svezia e Norvegia, consegnò il premio che qualche anno prima, «desideroso di fornire una nuova prova del suo interesse per il progresso delle scienze matematiche», aveva istituito per celebrare non solo il proprio regale genetliaco, ma anche la soluzione del problema, nientemeno, della stabilità del sistema solare.
Dopo aver dimostrato che un pianeta isolato si muove attorno al Sole secondo le leggi di Keplero, Newton aveva infatti osservato che questa era soltanto una prima approssimazione della realtà. Anzitutto, i pianeti si influenzano a vicenda: il che fa sì che le loro orbite non siano né perfettamente ellittiche, né necessariamente chiuse. Inoltre, il sistema solare è costituito non solo dal Sole e dai pianeti, ma da un numero imprecisato di satelliti, comete e asteroidi: il che fa sì che il problema del moto complessivo di questa «mirabile compagine», come la chiamava Newton, non sia affatto ovvio.
Il caso del Sole e di un pianeta è molto speciale, perché uno dei due corpi ha una massa trascurabile rispetto all´altro: si può dunque supporre che quello grande stia fermo, e l´altro gli ruoti attorno. Newton mostrò comunque che la soluzione è simile anche nel caso generale.
Risolto così il caso di due soli corpi, il passo successivo divenne la soluzione del problema dei tre corpi, che come ci si può aspettare dall´esperienza in altri campi è non solo più eccitante, ma anche molto più difficile da gestire. A parte i triangoli amorosi, gli esempi tipici sono il sistema del Sole, della Terra e della Luna, oppure del Sole e di due pianeti. Soluzioni approssimate si possono ottenere risolvendo dapprima il problema per due corpi, e poi perturbando la soluzione in modo da tener conto dell´influsso del terzo corpo, esattamente come si fa nella vita (extra)coniugale.
Appunto allo studio del problema dei tre corpi era dedicata la memoria vincitrice del «premio Oscar», di Henri Poincaré, che non riuscí a decidere se il sistema solare sia stabile o no, ma fece fare un salto di qualità allo studio dei sistemi dinamici, introducendo quelli che egli stesso chiamò, in una trilogia uscita fra il 1892 e il 1899, I nuovi metodi della meccanica celeste .
La sua scoperta più importante fu che il problema dei tre corpi è insolubile, instabile e caotico: più precisamente, benché si conoscano esattamente le forze in gioco, in generale il comportamento del sistema non si può descrivere esplicitamente, non si mantiene indefinitamente e dipende fortemente dalle condizioni iniziali. Il che permette infinite descrizioni approssimate (scientifiche o letterarie) dei rapporti fra tre corpi, spiega perché essi invariabilmente degenerino, e rende impossibile prevedere dove andranno a parare o che piega prenderanno: ancora una volta, esattamente come nella vita (extra)coniugale.
L´aggettivo «caotico» deriva ovviamente da caos: un concetto che, come molti di quelli che abbiamo incontrato finora, arriva da lontano. Nella Teogonia di Esiodo, Chaos è un abisso sotterraneo dal quale emersero Gaia ed Eros: la Terra e l´Amore o, se si preferisce, l´universo e l´energia. Ma in origine caos significava semplicemente fenditura o apertura, e indicava lo spazio atmosferico situato tra cielo e terra. E questo significato si è preservato nel termine «gas», che il suo inventore Jan Baptista von Helmont ha espressamente dichiarato di aver derivato da caos, translitterando il vocabolo in fiammingo: halitum illum Gas vocavi, non longe a Chao veterum secretum, «questo spirito l´ho chiamato Gas, non lontano dal Caos degli antichi».
Solo in latino caos acquistò il significato di ammasso confuso di materia, un esempio del quale era il disordine cosmico da cui il Demiurgo trae l´ordine nel Timeo platonico, o nel Genesi ebraico. Questo è il significato nel quale lo si usa ancor oggi nel linguaggio comune, ma il caos scoperto da Poincaré è di un tipo diverso: non emerge dal disordine ma dall´ordine, ed è provocato dal fatto che piccoli cambiamenti iniziali possono produrre grandi variazioni finali. Il risultato è che gli effetti diventano comunque indeterministici, benché le cause rimangano perfettamente deterministiche: per questo si parla appunto, ossimoricamente, di «caos deterministico».
E´ chiaro che a un matematico che si confronti con situazioni del genere, ogni professione di fede nel calculemus diventa sospetta, per non dire semplicemente ridicola. E così fu appunto per Poincaré, che nel suo capolavoro divulgativo La scienza e l´ipotesi, appena ripubblicato da Bompiani in una bella edizione con testo a fronte a cura di Corrado Sinigaglia, sferrò un attacco a tutto campo alla logica matematica e alla concezione assiomatica
Il motto di Poincaré era: «con la logica si dimostra, con l´intuizione si inventa». Ovvero, per dirla alla Kant: «la logica senza intuizione è vuota, e l´intuizione senza la logica è cieca». Della logica Poincaré non aveva certo una gran opinione. Ridicolizzava le sue pretese di concisione, dicendo: «Se ci vogliono 27 equazioni per provare che 1 è un numero, quante ce ne vorranno per dimostrare un vero teorema?». E a Giuseppe Peano che proclamava, nel suo latino maccheronico: Simbolismo da alas ad mente de homo, «il simbolismo dà ali alla mente dell´uomo», ribatteva: «Com´è che, avendo le ali, non avete mai cominciato a volare?»
Al massimo Poincaré ammetteva che la logica potesse servire a controllare le intuizioni, perché obbligava a dire tutto ciò che di solito si sottintende: un procedimento certo non più veloce, ma forse più sicuro. Questo lo sapeva per esperienza, visto che nella memoria che aveva presentato per il «premio Oscar» aveva sottinteso un po´ troppo, e quando trovò un errore dopo che essa era già stata pubblicata gli toccò pagare le spese di correzione, che ammontarono al cinquanta per cento in più del premio che aveva incassato.
Quanto all´assiomatizzazione, per Poincaré essa non era che un rigore artificiale, sovraimposto all'attività matematica quand´essa era ormai stata effettuata e conclusa: fra l´altro, solo temporaneamente, perché per lui nessun problema era definitivamente risolto, ma soltanto più o meno risolto. La finzione con la quale si presenta invece la matematica come un processo ordinato che parte dagli assiomi e arriva ai teoremi, gli sembrava analoga alla leggendaria macchina di Chicago nella quale i maiali entrano vivi e ne escono trasformati in prosciutti e salsicce.
Questo è certamente il modo in cui i matematici e i salumieri presentano la loro attività al pubblico ingenuo, ma la realtà è diversa. Per limitarsi ai primi produttori, basta l´esempio di Archimede, che aveva tradotto e tradito i suoi processi mentali dietro dimostrazioni analitiche e logiche, ma li aveva trovati con un metodo sintetico ed euristico che era andato perduto, e fu ritrovato soltanto nel 1906 da uno studioso tedesco, su un palinsesto della Biblioteca di Costantinopoli.
Poincaré non aveva comunque bisogno di rifarsi all´esperienza di Archimede, perché gli bastava la sua. Egli era infatti uno dei massimi matematici della sua epoca, se non il più grande, e la sua esperienza gli suggeriva che i suoi risultati più famosi, come lui stesso raccontò, gli erano venuti con ispirazioni improvvise: dopo aver bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus sul quale stava salendo, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada, ... In momenti, cioè, in cui l´inconscio aveva preso le redini del pensiero, dopo che a lungo e consciamente questo si era concentrato sui problemi da risolvere.
La cosa era confermata dalle sue abitudini di lavoro, studiate dallo psicologo Toulouse nel 1897. Esse consistevano nel concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare: se l´inizio gli risultava difficile, abbandonava l´argomento; altrimenti procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant´anni, cinquecento lavori e una trentina di libri, tra i quali un romanzo giovanile, che lo rendono uno dei più prolifici e profondi pensatori scientifici della sua epoca.
POINCARÉ LAMPI DI GENI
Un grande matematico e le sue ispirazioni improvvise
quanti sono i significati attribuiti al caos
i Nuovi studi dedicati al sistema solare
Torna in libreria "La scienza e l´ipotesi", il suo capolavoro divulgativo
Il suo motto era "Con la logica si dimostra, con l´intuizione si inventa"
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Il 21 gennaio 1889, giorno del suo sessantesimo compleanno, Oscar II, re di Svezia e Norvegia, consegnò il premio che qualche anno prima, «desideroso di fornire una nuova prova del suo interesse per il progresso delle scienze matematiche», aveva istituito per celebrare non solo il proprio regale genetliaco, ma anche la soluzione del problema, nientemeno, della stabilità del sistema solare.
Dopo aver dimostrato che un pianeta isolato si muove attorno al Sole secondo le leggi di Keplero, Newton aveva infatti osservato che questa era soltanto una prima approssimazione della realtà. Anzitutto, i pianeti si influenzano a vicenda: il che fa sì che le loro orbite non siano né perfettamente ellittiche, né necessariamente chiuse. Inoltre, il sistema solare è costituito non solo dal Sole e dai pianeti, ma da un numero imprecisato di satelliti, comete e asteroidi: il che fa sì che il problema del moto complessivo di questa «mirabile compagine», come la chiamava Newton, non sia affatto ovvio.
Il caso del Sole e di un pianeta è molto speciale, perché uno dei due corpi ha una massa trascurabile rispetto all´altro: si può dunque supporre che quello grande stia fermo, e l´altro gli ruoti attorno. Newton mostrò comunque che la soluzione è simile anche nel caso generale.
Risolto così il caso di due soli corpi, il passo successivo divenne la soluzione del problema dei tre corpi, che come ci si può aspettare dall´esperienza in altri campi è non solo più eccitante, ma anche molto più difficile da gestire. A parte i triangoli amorosi, gli esempi tipici sono il sistema del Sole, della Terra e della Luna, oppure del Sole e di due pianeti. Soluzioni approssimate si possono ottenere risolvendo dapprima il problema per due corpi, e poi perturbando la soluzione in modo da tener conto dell´influsso del terzo corpo, esattamente come si fa nella vita (extra)coniugale.
Appunto allo studio del problema dei tre corpi era dedicata la memoria vincitrice del «premio Oscar», di Henri Poincaré, che non riuscí a decidere se il sistema solare sia stabile o no, ma fece fare un salto di qualità allo studio dei sistemi dinamici, introducendo quelli che egli stesso chiamò, in una trilogia uscita fra il 1892 e il 1899, I nuovi metodi della meccanica celeste .
La sua scoperta più importante fu che il problema dei tre corpi è insolubile, instabile e caotico: più precisamente, benché si conoscano esattamente le forze in gioco, in generale il comportamento del sistema non si può descrivere esplicitamente, non si mantiene indefinitamente e dipende fortemente dalle condizioni iniziali. Il che permette infinite descrizioni approssimate (scientifiche o letterarie) dei rapporti fra tre corpi, spiega perché essi invariabilmente degenerino, e rende impossibile prevedere dove andranno a parare o che piega prenderanno: ancora una volta, esattamente come nella vita (extra)coniugale.
L´aggettivo «caotico» deriva ovviamente da caos: un concetto che, come molti di quelli che abbiamo incontrato finora, arriva da lontano. Nella Teogonia di Esiodo, Chaos è un abisso sotterraneo dal quale emersero Gaia ed Eros: la Terra e l´Amore o, se si preferisce, l´universo e l´energia. Ma in origine caos significava semplicemente fenditura o apertura, e indicava lo spazio atmosferico situato tra cielo e terra. E questo significato si è preservato nel termine «gas», che il suo inventore Jan Baptista von Helmont ha espressamente dichiarato di aver derivato da caos, translitterando il vocabolo in fiammingo: halitum illum Gas vocavi, non longe a Chao veterum secretum, «questo spirito l´ho chiamato Gas, non lontano dal Caos degli antichi».
Solo in latino caos acquistò il significato di ammasso confuso di materia, un esempio del quale era il disordine cosmico da cui il Demiurgo trae l´ordine nel Timeo platonico, o nel Genesi ebraico. Questo è il significato nel quale lo si usa ancor oggi nel linguaggio comune, ma il caos scoperto da Poincaré è di un tipo diverso: non emerge dal disordine ma dall´ordine, ed è provocato dal fatto che piccoli cambiamenti iniziali possono produrre grandi variazioni finali. Il risultato è che gli effetti diventano comunque indeterministici, benché le cause rimangano perfettamente deterministiche: per questo si parla appunto, ossimoricamente, di «caos deterministico».
E´ chiaro che a un matematico che si confronti con situazioni del genere, ogni professione di fede nel calculemus diventa sospetta, per non dire semplicemente ridicola. E così fu appunto per Poincaré, che nel suo capolavoro divulgativo La scienza e l´ipotesi, appena ripubblicato da Bompiani in una bella edizione con testo a fronte a cura di Corrado Sinigaglia, sferrò un attacco a tutto campo alla logica matematica e alla concezione assiomatica
Il motto di Poincaré era: «con la logica si dimostra, con l´intuizione si inventa». Ovvero, per dirla alla Kant: «la logica senza intuizione è vuota, e l´intuizione senza la logica è cieca». Della logica Poincaré non aveva certo una gran opinione. Ridicolizzava le sue pretese di concisione, dicendo: «Se ci vogliono 27 equazioni per provare che 1 è un numero, quante ce ne vorranno per dimostrare un vero teorema?». E a Giuseppe Peano che proclamava, nel suo latino maccheronico: Simbolismo da alas ad mente de homo, «il simbolismo dà ali alla mente dell´uomo», ribatteva: «Com´è che, avendo le ali, non avete mai cominciato a volare?»
Al massimo Poincaré ammetteva che la logica potesse servire a controllare le intuizioni, perché obbligava a dire tutto ciò che di solito si sottintende: un procedimento certo non più veloce, ma forse più sicuro. Questo lo sapeva per esperienza, visto che nella memoria che aveva presentato per il «premio Oscar» aveva sottinteso un po´ troppo, e quando trovò un errore dopo che essa era già stata pubblicata gli toccò pagare le spese di correzione, che ammontarono al cinquanta per cento in più del premio che aveva incassato.
Quanto all´assiomatizzazione, per Poincaré essa non era che un rigore artificiale, sovraimposto all'attività matematica quand´essa era ormai stata effettuata e conclusa: fra l´altro, solo temporaneamente, perché per lui nessun problema era definitivamente risolto, ma soltanto più o meno risolto. La finzione con la quale si presenta invece la matematica come un processo ordinato che parte dagli assiomi e arriva ai teoremi, gli sembrava analoga alla leggendaria macchina di Chicago nella quale i maiali entrano vivi e ne escono trasformati in prosciutti e salsicce.
Questo è certamente il modo in cui i matematici e i salumieri presentano la loro attività al pubblico ingenuo, ma la realtà è diversa. Per limitarsi ai primi produttori, basta l´esempio di Archimede, che aveva tradotto e tradito i suoi processi mentali dietro dimostrazioni analitiche e logiche, ma li aveva trovati con un metodo sintetico ed euristico che era andato perduto, e fu ritrovato soltanto nel 1906 da uno studioso tedesco, su un palinsesto della Biblioteca di Costantinopoli.
Poincaré non aveva comunque bisogno di rifarsi all´esperienza di Archimede, perché gli bastava la sua. Egli era infatti uno dei massimi matematici della sua epoca, se non il più grande, e la sua esperienza gli suggeriva che i suoi risultati più famosi, come lui stesso raccontò, gli erano venuti con ispirazioni improvvise: dopo aver bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus sul quale stava salendo, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada, ... In momenti, cioè, in cui l´inconscio aveva preso le redini del pensiero, dopo che a lungo e consciamente questo si era concentrato sui problemi da risolvere.
La cosa era confermata dalle sue abitudini di lavoro, studiate dallo psicologo Toulouse nel 1897. Esse consistevano nel concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare: se l´inizio gli risultava difficile, abbandonava l´argomento; altrimenti procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant´anni, cinquecento lavori e una trentina di libri, tra i quali un romanzo giovanile, che lo rendono uno dei più prolifici e profondi pensatori scientifici della sua epoca.
Liberazione
Liberazione 9.9.03
Magni, Lizzani e Bertolucci "difendono" Bellocchio
«E' la solita malattia di esterofilia, dalla quale siamo affetti noi italiani da almeno un secolo e mezzo». Luigi Magni commenta così il mancato Leone a Marco Bellocchio per "Buongiorno, notte". Secondo il regista di "State buoni se potete" il premio di consolazione assegnato al regista italiano dalla Mostra del cinema di Venezia è «ridicolo». In proposito si è pronunciato anche Carlo Lizzani: «Sono certo che Mario Monicelli, presidente della giuria, si sarà trovato drasticamente in minoranza rispetto alle opinioni degli altri giurati stranieri, altrimenti avrebbe cercato di difendere in ogni modo i nostri prodotti e in particolare "Buongiorno, notte"». Il regista ha poi concluso: «Può darsi che i giurati stranieri non conoscessero bene la tragedia Moro».
Infine Bernardo Bertolucci: «Mi rattrista che il bel film di Bellocchio non abbia trovato il riconoscimento adeguato. L'idea della liberazione di Moro è straordinaria e ha un grandissimo potere liberatorio. D'altronde le gare di sprint non sono fatte per vecchi elefanti feriti». (TamTam cinema)
Magni, Lizzani e Bertolucci "difendono" Bellocchio
«E' la solita malattia di esterofilia, dalla quale siamo affetti noi italiani da almeno un secolo e mezzo». Luigi Magni commenta così il mancato Leone a Marco Bellocchio per "Buongiorno, notte". Secondo il regista di "State buoni se potete" il premio di consolazione assegnato al regista italiano dalla Mostra del cinema di Venezia è «ridicolo». In proposito si è pronunciato anche Carlo Lizzani: «Sono certo che Mario Monicelli, presidente della giuria, si sarà trovato drasticamente in minoranza rispetto alle opinioni degli altri giurati stranieri, altrimenti avrebbe cercato di difendere in ogni modo i nostri prodotti e in particolare "Buongiorno, notte"». Il regista ha poi concluso: «Può darsi che i giurati stranieri non conoscessero bene la tragedia Moro».
Infine Bernardo Bertolucci: «Mi rattrista che il bel film di Bellocchio non abbia trovato il riconoscimento adeguato. L'idea della liberazione di Moro è straordinaria e ha un grandissimo potere liberatorio. D'altronde le gare di sprint non sono fatte per vecchi elefanti feriti». (TamTam cinema)
Corriere della Sera
Corriere della Sera 9.9.03
Stefano Accorsi, giurato a Venezia: nei verdetti vince la maggioranza
«Basta accuse, ho lottato per Bellocchio»
di Maurizio Porro
Lo scorso sabato sera finisce la 60ma Mostra del cinema: vince un film russo, Il ritorno ; a Bellocchio, il favorito italiano, va un premio minore che ritira per lui Luigi Lo Cascio. Monicelli, presidente della giuria, e Stefano Accorsi, che ne fa parte, vengono accusati di non aver difeso il nostro cinema: il regista risponde che gli stranieri certi nostri film non li capiscono proprio. Ora parla Accorsi: che è successo veramente? «Prima una premessa: mi sembra tutto esagerato, specie perché chi parla spesso non conosce i film in questione. Polemiche sul nulla che non è nella mia natura alimentare». E poi?
«Quello che abbiamo sempre detto e ritengo offensivo non venga creduto: abbiamo lottato fino in fondo per sostenere Buongiorno, notte , secondo regole democratiche».
Con magri risultati.
«Non era possibile ottenere di più. Il Leone d’oro è stato escluso da subito: è vero che gli stranieri non capivano granché della storia. Nei verdetti vince la maggioranza e la si rispetta, anche se capisco che le aspettative deluse fanno male».
Non c’era solo Bellocchio al Lido...
«Sugli altri film non si è impostato il dibattito. Chi alimenta queste polemiche povere, basate sulla dietrologia, fa male al nostro cinema».
Insomma l’avete difeso.
«Attenzione: non si difende il cinema italiano solo perché è italiano, cosa che sarebbe davvero provinciale, ma i film in cui si crede».
In Bellocchio credevate?
«Certo che sì, mi sembra un film importante sia nella forma sia nella sostanza. Ma le regole sono regole, io difendo l’operato della giuria internazionale, in un festival internazionale».
La Rai dice che così non verrà più.
«Chi va a un festival corre dei rischi. Ma ci pensi: che interesse avremmo avuto Monicelli ed io ad affossare il nostro cinema, quello in cui lavoriamo, in cui crediamo? Mi fa molto piacere che il film di Bellocchio vada bene nelle sale. Del resto il mio prossimo film diretto da Michele Placido è coprodotto dalla Rai».
E’ vero che il nostro cinema è provinciale?
«E’ vero che il film di Bellocchio è risultato troppo italiano, oscuro agli stranieri. Ma non credo che oggi facciamo film provinciali, forse una volta: basta vedere il successo che hanno all’estero registi come Ozpetek, Giordana, Crialese, Muccino, Garrone».
Dicono che lei doveva fare la parte di Lo Cascio nel film di Bellocchio .
«Non è vero. Ero stato contattato ma per un altro ruolo e alla fine non abbiamo combinato. Succede: ma mai e poi mai questo avrebbe influito comunque sul mio giudizio».
I rapporti col presidente Monicelli?
«Mario è una persona che dice sempre quello che pensa: non ci si rende conto che tesoro sia un uomo libero. Dire una bugia è facile, non si nega a nessuno, non ci avrebbe richiesto proprio alcuna fatica».
Stefano Accorsi, giurato a Venezia: nei verdetti vince la maggioranza
«Basta accuse, ho lottato per Bellocchio»
di Maurizio Porro
Lo scorso sabato sera finisce la 60ma Mostra del cinema: vince un film russo, Il ritorno ; a Bellocchio, il favorito italiano, va un premio minore che ritira per lui Luigi Lo Cascio. Monicelli, presidente della giuria, e Stefano Accorsi, che ne fa parte, vengono accusati di non aver difeso il nostro cinema: il regista risponde che gli stranieri certi nostri film non li capiscono proprio. Ora parla Accorsi: che è successo veramente? «Prima una premessa: mi sembra tutto esagerato, specie perché chi parla spesso non conosce i film in questione. Polemiche sul nulla che non è nella mia natura alimentare». E poi?
«Quello che abbiamo sempre detto e ritengo offensivo non venga creduto: abbiamo lottato fino in fondo per sostenere Buongiorno, notte , secondo regole democratiche».
Con magri risultati.
«Non era possibile ottenere di più. Il Leone d’oro è stato escluso da subito: è vero che gli stranieri non capivano granché della storia. Nei verdetti vince la maggioranza e la si rispetta, anche se capisco che le aspettative deluse fanno male».
Non c’era solo Bellocchio al Lido...
«Sugli altri film non si è impostato il dibattito. Chi alimenta queste polemiche povere, basate sulla dietrologia, fa male al nostro cinema».
Insomma l’avete difeso.
«Attenzione: non si difende il cinema italiano solo perché è italiano, cosa che sarebbe davvero provinciale, ma i film in cui si crede».
In Bellocchio credevate?
«Certo che sì, mi sembra un film importante sia nella forma sia nella sostanza. Ma le regole sono regole, io difendo l’operato della giuria internazionale, in un festival internazionale».
La Rai dice che così non verrà più.
«Chi va a un festival corre dei rischi. Ma ci pensi: che interesse avremmo avuto Monicelli ed io ad affossare il nostro cinema, quello in cui lavoriamo, in cui crediamo? Mi fa molto piacere che il film di Bellocchio vada bene nelle sale. Del resto il mio prossimo film diretto da Michele Placido è coprodotto dalla Rai».
E’ vero che il nostro cinema è provinciale?
«E’ vero che il film di Bellocchio è risultato troppo italiano, oscuro agli stranieri. Ma non credo che oggi facciamo film provinciali, forse una volta: basta vedere il successo che hanno all’estero registi come Ozpetek, Giordana, Crialese, Muccino, Garrone».
Dicono che lei doveva fare la parte di Lo Cascio nel film di Bellocchio .
«Non è vero. Ero stato contattato ma per un altro ruolo e alla fine non abbiamo combinato. Succede: ma mai e poi mai questo avrebbe influito comunque sul mio giudizio».
I rapporti col presidente Monicelli?
«Mario è una persona che dice sempre quello che pensa: non ci si rende conto che tesoro sia un uomo libero. Dire una bugia è facile, non si nega a nessuno, non ci avrebbe richiesto proprio alcuna fatica».
La Repubblica
La Repubblica, ediz. di Bari 9.9.03
A Bari record di spettatori per "Buongiorno, notte". "La storia si impara anche così"
I giovani scoprono Moro. Al cinema
"Per molti di noi era un comunista ucciso dalla mafia"
In tanti ignoravano la figura dello statista ucciso dalle Br venticinque anni fa
"Il problema è che nessuno si preoccupa di raccontarci l´Italia del Novecento"
ALDO MORO CHI? ASSUNTA SIMONI - domanda d´iscrizione a Giurisprudenza tra le mani - ha 18 anni ed è una delle tante. Una delle tante che quel 9 maggio 1978, esattamente 25 anni fa, ancora non c´era. «Ne ho sentito parlare, ma a scuola siamo arrivati alla Seconda guerra mondiale. Era importante?». In questo week end di programmazione barese, Buongiorno, notte, il bel film di Marco Bellocchio sul caso Moro, è stato un grande successo di pubblico. Sale piene, soprattutto di giovani. Quelli che come Assunta non c´erano e che oggi sono curiosi di sapere. Nel chiacchiericcio post proiezione, tra facce interrogative e provate, unico il giudizio («bello») e tante le domande: «Ma i brigatisti sono ancora in carcere?». «Li hanno uccisi?». «Ma chi erano quelli che facevano vedere in tivù?» (il riferimento era alle immagini dei telegiornali montate da Bellocchio nel film).
Sorprende, e deve fare pensare, come per scoperchiare un doloroso coperchio d´ignoranza storica ci sia voluto un film, una sceneggiatura, il verosimile mischiato alla storia. E impressiona la bella risposta dei giovani in una città come Bari, dove la figura di Moro dovrebbe essere di casa e invece continua a essere un oggetto sconosciuto. «Effettivamente sappiamo molto poco di Moro e delle Brigate rosse», spiega Stefania Filannino, studentessa di lettere, «perché quel momento storico vive in un pericoloso limbo temporale: è troppo recente per essere considerato storia dai libri, ma troppo antico per essere cronaca dai giornali». Il risultato è l´ignoranza: «Prima di venire al cinema», racconta Ornella, 20 anni, «nessuno ci aveva mai raccontato del clima di quegli anni, del dibattito politico, della trattativa. Siamo ignoranti».
La prova viene da un viaggio nelle strade della città, tra bar, negozi e università, dal quale riflette un quadro preoccupante. Un´ignoranza quasi grottesca. Su 50 intervistati, tutti under 25, alla domanda «Chi era Aldo Moro?» ecco le risposte che abbiamo raccolto. Un politico tutti (tre «non so»). Democristiano per la maggior parte (30). Comunista per qualcuno (15). Fascista per Gabriella e Giovanna, compagne di facoltà a Scienze dell´educazione. Moro è stato ucciso (47): dalle Brigate rosse (31), ma anche dai comunisti (10), dai fascisti (3) e secondo due giovani liceali persino dai russi. Moro era romano (25); pardon, milanese (110) o forse siciliano (5). «Sì, siciliano: è stato ucciso dalla mafia», rassicura Vanessa, diploma da ragioniera in tasca. Soltanto per sette persone Moro era pugliese. Un "bravo" a Riccardo, capelli rasta e berretto giamaicano, il quale ricorda addirittura che «era di Maglie. Proprio come Fitto». Su una cosa, però, sono tutti d´accordo: è stato un martire.
«Il problema», spiega con lucidità Sergio Adamo, rappresentante degli studenti alla facoltà di Giurisprudenza, «è che nessuno si sforza di spiegarci il perché sia stato un eroe. Nessun corso monografico all´università, soltanto noiosi convegni e pubblicazioni per pochi intimi. Noi vogliamo sapere. E abbiamo il diritto che qualcuno ce lo racconti».
(g.fosch.)
A Bari record di spettatori per "Buongiorno, notte". "La storia si impara anche così"
I giovani scoprono Moro. Al cinema
"Per molti di noi era un comunista ucciso dalla mafia"
In tanti ignoravano la figura dello statista ucciso dalle Br venticinque anni fa
"Il problema è che nessuno si preoccupa di raccontarci l´Italia del Novecento"
ALDO MORO CHI? ASSUNTA SIMONI - domanda d´iscrizione a Giurisprudenza tra le mani - ha 18 anni ed è una delle tante. Una delle tante che quel 9 maggio 1978, esattamente 25 anni fa, ancora non c´era. «Ne ho sentito parlare, ma a scuola siamo arrivati alla Seconda guerra mondiale. Era importante?». In questo week end di programmazione barese, Buongiorno, notte, il bel film di Marco Bellocchio sul caso Moro, è stato un grande successo di pubblico. Sale piene, soprattutto di giovani. Quelli che come Assunta non c´erano e che oggi sono curiosi di sapere. Nel chiacchiericcio post proiezione, tra facce interrogative e provate, unico il giudizio («bello») e tante le domande: «Ma i brigatisti sono ancora in carcere?». «Li hanno uccisi?». «Ma chi erano quelli che facevano vedere in tivù?» (il riferimento era alle immagini dei telegiornali montate da Bellocchio nel film).
Sorprende, e deve fare pensare, come per scoperchiare un doloroso coperchio d´ignoranza storica ci sia voluto un film, una sceneggiatura, il verosimile mischiato alla storia. E impressiona la bella risposta dei giovani in una città come Bari, dove la figura di Moro dovrebbe essere di casa e invece continua a essere un oggetto sconosciuto. «Effettivamente sappiamo molto poco di Moro e delle Brigate rosse», spiega Stefania Filannino, studentessa di lettere, «perché quel momento storico vive in un pericoloso limbo temporale: è troppo recente per essere considerato storia dai libri, ma troppo antico per essere cronaca dai giornali». Il risultato è l´ignoranza: «Prima di venire al cinema», racconta Ornella, 20 anni, «nessuno ci aveva mai raccontato del clima di quegli anni, del dibattito politico, della trattativa. Siamo ignoranti».
La prova viene da un viaggio nelle strade della città, tra bar, negozi e università, dal quale riflette un quadro preoccupante. Un´ignoranza quasi grottesca. Su 50 intervistati, tutti under 25, alla domanda «Chi era Aldo Moro?» ecco le risposte che abbiamo raccolto. Un politico tutti (tre «non so»). Democristiano per la maggior parte (30). Comunista per qualcuno (15). Fascista per Gabriella e Giovanna, compagne di facoltà a Scienze dell´educazione. Moro è stato ucciso (47): dalle Brigate rosse (31), ma anche dai comunisti (10), dai fascisti (3) e secondo due giovani liceali persino dai russi. Moro era romano (25); pardon, milanese (110) o forse siciliano (5). «Sì, siciliano: è stato ucciso dalla mafia», rassicura Vanessa, diploma da ragioniera in tasca. Soltanto per sette persone Moro era pugliese. Un "bravo" a Riccardo, capelli rasta e berretto giamaicano, il quale ricorda addirittura che «era di Maglie. Proprio come Fitto». Su una cosa, però, sono tutti d´accordo: è stato un martire.
«Il problema», spiega con lucidità Sergio Adamo, rappresentante degli studenti alla facoltà di Giurisprudenza, «è che nessuno si sforza di spiegarci il perché sia stato un eroe. Nessun corso monografico all´università, soltanto noiosi convegni e pubblicazioni per pochi intimi. Noi vogliamo sapere. E abbiamo il diritto che qualcuno ce lo racconti».
(g.fosch.)
il manifesto
il manifesto 9.9.03
POLITICA O QUASI
16/3 e 11/9, ricordi incrociati
IDA DOMINIJANNI
Il ricordo del sequestro di Aldo Moro fu una delle prime cose che mi passarono per la testa il pomeriggio dell'11 settembre di due anni fa. Non si trattava di un'associazione razionale fra due episodi di terrorismo, o del lucido timore di vedere riprodotti all'ennesima potenza (com'è poi puntualmente avvenuto) certi automatismi tipici della «risposta antiterrorista» e della «fermezza» statale, a cominciare dalle lesioni allo stato di diritto, che nel `78 e seguenti avevamo sperimentato in piccolo in Italia. Si trattava di un'associazione emotiva, la percezione immediata di un'analogia nell'impatto dei due eventi sui dispositivi della memoria individuale e collettiva, analogia che mi veniva suggerita dall'identico ricorrere di bocca in bocca della stessa domanda di allora, «dov'eri quando è arrivata la notizia?». Fissare il ricordo del luogo e della compagnia in cui un evento ci raggiunge è notoriamente il modo più semplice di cui la nostra mente dispone per legare la grande Storia alla piccola quotidianità, e contenere l'impatto di traumi destabilizzanti. La psiche individuale sa fare questa operazione; è il discorso del potere che si occupa poi, generalmente, di disfarla, tornando a separare la storia e la vita, la ragion di stato e i sentimenti. Ho ripensato a quell'associazione istintiva in questi giorni, dopo aver visto Buongiorno, notte e mentre leggo i resoconti e i commenti che ci avvicinano al secondo anniversario dell'11 settembre. Sul film di Bellocchio c'è poco da aggiungere a quanto è già stato scritto da più parti: il cinema riesce dove la politica ha fallito, libera Moro dal sequestro della rimozione collettiva, ne restituisce all'immaginazione l'eredità e ciò che egli avrebbe potuto ancora essere se fosse uscito vivo da quell'appartamento; e rimettendo in scena la sua immagine paterna riapre finalmente lo spazio per l'elaborazione della sua mancanza, in una società che ha trovato più comodo spostare la fine della prima Repubblica dalla morte del padre nel maggio del `78, quando di fatto avvenne, al giustizialismo delle monetine nel febbraio del `92. E poiché un film, come ogni testo, è fatto da chi lo scrive e da chi lo guarda, basta osservare l'assorta accoglienza di Buongiorno, notte nelle sale per capire che il tempo era più che maturo per riaccostare il vissuto collettivo di quella tragedia al diario terrorista nudo e crudo del sequestro, tolte di mezzo tutte le dietrologie, le teorie del complotto, le fantasie di oscuri retroscena e di potenti mandanti che per venticinque anni hanno funzionato da protesi retorica di uno stato ferito a morte ma incapace di accettare la propria vulnerabilità.
Il cinema italiano ritrova un suo vitale radicamento nella storia nazionale, dice qualcuno a commento di questo e altri titoli della mostra veneziana (The Dreamers, Segreti di Stato). O piuttosto si americanizza il rapporto fra cinema e politica, sì che qui come oltreoceano tocca al grande schermo dire ciò che resta indicibile nel discorso istituzionale? Anche sull'11 settembre Spike Lee con La venticinquesima ora, e Sean Penn e gli altri registi di 9/11/2001 hanno saputo mostrare e tenere assieme ciò che la retorica a stelle e strisce occulta o divide: la Storia planetaria e le storie individuali, il vissuto newyorkese del crollo delle Torri e tutt'altri vissuti in tutt'altre latitudini geografiche e politiche, e il corso imprevedibile di un trauma che lavora «underground zero» imprevedibilmente, non parla il linguaggio della ritorsione e della vendetta e ne conosce la completa inutilità. Nell'ufficialità dell'anniversario, invece, la mela torna a spaccarsi in due: di qua la parola dolente del vissuto, testimoni e superstiti che si interrogano incerti, di là la parola roboante dello stato, Bush che reclama soldi e soldati e galvanizza le viscere patriottiche col «duro lavoro» della guerra; e in mezzo solo sondaggi, ad avvertire che questa spaccatura non paga più. Quando un grande potere non sa venire a patti con la sua vulnerabilità molte sono le protesi che può indossare, dalla fermezza alle bombe, ma prima o poi deve sapersene spogliare, o ne muore.
POLITICA O QUASI
16/3 e 11/9, ricordi incrociati
IDA DOMINIJANNI
Il ricordo del sequestro di Aldo Moro fu una delle prime cose che mi passarono per la testa il pomeriggio dell'11 settembre di due anni fa. Non si trattava di un'associazione razionale fra due episodi di terrorismo, o del lucido timore di vedere riprodotti all'ennesima potenza (com'è poi puntualmente avvenuto) certi automatismi tipici della «risposta antiterrorista» e della «fermezza» statale, a cominciare dalle lesioni allo stato di diritto, che nel `78 e seguenti avevamo sperimentato in piccolo in Italia. Si trattava di un'associazione emotiva, la percezione immediata di un'analogia nell'impatto dei due eventi sui dispositivi della memoria individuale e collettiva, analogia che mi veniva suggerita dall'identico ricorrere di bocca in bocca della stessa domanda di allora, «dov'eri quando è arrivata la notizia?». Fissare il ricordo del luogo e della compagnia in cui un evento ci raggiunge è notoriamente il modo più semplice di cui la nostra mente dispone per legare la grande Storia alla piccola quotidianità, e contenere l'impatto di traumi destabilizzanti. La psiche individuale sa fare questa operazione; è il discorso del potere che si occupa poi, generalmente, di disfarla, tornando a separare la storia e la vita, la ragion di stato e i sentimenti. Ho ripensato a quell'associazione istintiva in questi giorni, dopo aver visto Buongiorno, notte e mentre leggo i resoconti e i commenti che ci avvicinano al secondo anniversario dell'11 settembre. Sul film di Bellocchio c'è poco da aggiungere a quanto è già stato scritto da più parti: il cinema riesce dove la politica ha fallito, libera Moro dal sequestro della rimozione collettiva, ne restituisce all'immaginazione l'eredità e ciò che egli avrebbe potuto ancora essere se fosse uscito vivo da quell'appartamento; e rimettendo in scena la sua immagine paterna riapre finalmente lo spazio per l'elaborazione della sua mancanza, in una società che ha trovato più comodo spostare la fine della prima Repubblica dalla morte del padre nel maggio del `78, quando di fatto avvenne, al giustizialismo delle monetine nel febbraio del `92. E poiché un film, come ogni testo, è fatto da chi lo scrive e da chi lo guarda, basta osservare l'assorta accoglienza di Buongiorno, notte nelle sale per capire che il tempo era più che maturo per riaccostare il vissuto collettivo di quella tragedia al diario terrorista nudo e crudo del sequestro, tolte di mezzo tutte le dietrologie, le teorie del complotto, le fantasie di oscuri retroscena e di potenti mandanti che per venticinque anni hanno funzionato da protesi retorica di uno stato ferito a morte ma incapace di accettare la propria vulnerabilità.
Il cinema italiano ritrova un suo vitale radicamento nella storia nazionale, dice qualcuno a commento di questo e altri titoli della mostra veneziana (The Dreamers, Segreti di Stato). O piuttosto si americanizza il rapporto fra cinema e politica, sì che qui come oltreoceano tocca al grande schermo dire ciò che resta indicibile nel discorso istituzionale? Anche sull'11 settembre Spike Lee con La venticinquesima ora, e Sean Penn e gli altri registi di 9/11/2001 hanno saputo mostrare e tenere assieme ciò che la retorica a stelle e strisce occulta o divide: la Storia planetaria e le storie individuali, il vissuto newyorkese del crollo delle Torri e tutt'altri vissuti in tutt'altre latitudini geografiche e politiche, e il corso imprevedibile di un trauma che lavora «underground zero» imprevedibilmente, non parla il linguaggio della ritorsione e della vendetta e ne conosce la completa inutilità. Nell'ufficialità dell'anniversario, invece, la mela torna a spaccarsi in due: di qua la parola dolente del vissuto, testimoni e superstiti che si interrogano incerti, di là la parola roboante dello stato, Bush che reclama soldi e soldati e galvanizza le viscere patriottiche col «duro lavoro» della guerra; e in mezzo solo sondaggi, ad avvertire che questa spaccatura non paga più. Quando un grande potere non sa venire a patti con la sua vulnerabilità molte sono le protesi che può indossare, dalla fermezza alle bombe, ma prima o poi deve sapersene spogliare, o ne muore.
il manifesto
il manifesto 9.9.03
VENEZIA
Rai, speriamo che non sia solo un bluff
La minaccia Rai di non andare più a Venezia è un escamotage tattico-promozionale o il segnale di un conflitto nella maggioranza?
ROBERTO SILVESTRI
«Non posso considerarmi membro di un club che tra i suoi iscritti annoveri un tipo come me». Lo diceva il grande comico Groucho Marx, involontariamente impersonato da Giancarlo Leone, amministratore delegato di RaiCinema, mentre annunciava solennemente - attraverso una lettera ufficiale al presidente-manager della Biennale Franco Bernabé - l'embargo dei prodotto Rai dalle prossime Mostre del cinema di Venezia. E ha aggiunto: da ora in poi andremo a Toronto, a Berlino o a Montreal, perché «dobbiamo tutelare gli autori e i produttori indipendenti che lavorano con noi». Ma perché questo coraggioso e bellicoso proclama (anche se troppo concede alle esternazioni, da talk show sciovinista, di Marina Cicogna e Pasquale Squitieri) è arrivato solo dopo il verdetto del Lido, che ha umiliato la sua tricolore opera «ammiraglia». Difetto di tatto? Di eleganza? Di umorismo? O semplicemente una genuflessione ai metodi fotocopiati dal nostro premier per far astuta politica coi media? Da qui l'ilarità generale suscitata, sulle prime.
Invece Giancarlo Leone ha ragione. Come ha scritto, in un delizioso corsivo contro il festival, anche Roberto Nepoti su La repubblica, Bellocchio non è stato battuto, secondo il verdetto di una giuria competente e autorevole almeno quanto guascona (ammesso che l'agonismo sia utile a aiutare film meritevoli: a Toronto non si gareggia affatto) da Alila di Amos Gitai, o dal Dragon Inn di King Hu-Tsai Ming-Liang, o da The agronomist di Jonathan Demme, lasciato «fuori gara» dagli ottocenteschi schemi mentali di un direttore sedicente star. O dagli altri film portatori di valori universali dentro un (uni)forme-cinema battagliera e antagonista (questa è l'arte, chi fa cinema lo sa fin troppo bene), ma da un conformista, molto «local» e involontariamente comico Infanzia di Ivan 6, soporifera psycho-soap-opera d'esordio di Zvyagintsev, ottima forse per lanciare con lo slogan «ecco il nuovo Tarkovski», un canale tematico di Sky; o per soddisfare parzialmente quel che per de Hadeln è il rovello interiore dell'uomo contemporaneo: «tutti si preoccupano dei figli». Infatti, allora, perché non ha stravinto il coreano hard di Im Sangsoo, De Oliveira o proprio Bellocchio, che ci parla di come e perché si elimino «i padre della patria» considerati più «rompicoglioni»?
Certo uno si chiede: ma come, la Rai, che quando era servizio davvero pubblico, mise sotto tutela, o sotto sponsor o sotto ipnosi che dir si voglia, il Lido (finanziato principalmente dallo stato) e trasformò, specialmente durante il regno di Craxi, l'appuntamento veneziano da mostra del cinema di qualità (anche commerciale) in un mega show sputa spot di due settimane da prima serata tv già di livello Marzullo-Chiambretti, dove «niente documentari please, e chissò sti Maori ?» (detto di Tamahori da un geniale cine-manager di Eta Beta) si lamenta adesso, solo per non aver vinto questo Leone d'oro, di essere capitata in un carrozzone inutile e ignorante, quasi in un covo esiziale mal pensato, mal organizzato, mal accessibile, dove anche alcuni bei film (scelti da chi?) sono stati messi nella sezione sbagliata, ostacolati o celati o nascosti (Sarah Moon Howe e il suo magnifico Non dire nulla alla mamma è stata addirittura cancellata dal catalogo Electa). E attacca il direttore de Hadeln perché non dà alcuna garanzia «né sui criteri di selezione dei film, né sulla composizione delle giurie né sull'attenzione verso l'industria italiana».
Ma se avesse vinto Bellocchio, Venezia 60 sarebbe stata invece il paradiso dell'Arte e del commercio cinematografico equo e solidale? Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, premiato per la sceneggiatura (da sempre la critica considera il cineasta piacentino anche un grande scrittore di copioni, ma in questo caso sembra proprio la virtù minore), non lo ha solo prodotto Raicinema (e in particolare il suo direttore generale Carlo Macchitella, che è anche presidente di «01», la società di distribuzione di RaiCinema). Ma lo ha proprio ideato a tavolino, come ai vecchi tempi dei produttori grintosi e invasati, come film-prototipo da far dirigere a Bellocchio, da mandare a Venezia, da far premiare, perché adatto al nuovo meccanismo di sfruttamento dei film in sala. Si dura poco tempo nei multiplex, due-tre settimane, bisogna massimizzare l'interesse e le copie. Bisogna far parlare del film a tutti i costi, con ogni mezzo necessario, finte polemiche, finte minacce comprese. Allora sì che si finirà anche su Sky1.
Insomma purtroppo crediamo che la provocazione di Leone rientrerà, e che de Hadeln resterà al suo posto e a Venezia 2004 copiosi film Rai presto si annunceranno. Anche perché ieri il festival e le sue orrende gerarchie congegnate da de Hadeln e sancite da un Monicelli che alla sua età può dire cosa vuole e dormire quando crede, sono stato sostenuto plebiscitariamente - destra e sinistra - dalla stampa francese (sempre unita se si tratta di mettere in difficoltà Venezia, la pericolosa avversaria di Cannes). E poi da Giancarlo Galan, presidente della regione Veneto e consigliere d'amministrazione della Biennale, che vuole più Brasile e Argentina perché c'è più presenza veneta...
(...)
VENEZIA
Rai, speriamo che non sia solo un bluff
La minaccia Rai di non andare più a Venezia è un escamotage tattico-promozionale o il segnale di un conflitto nella maggioranza?
ROBERTO SILVESTRI
«Non posso considerarmi membro di un club che tra i suoi iscritti annoveri un tipo come me». Lo diceva il grande comico Groucho Marx, involontariamente impersonato da Giancarlo Leone, amministratore delegato di RaiCinema, mentre annunciava solennemente - attraverso una lettera ufficiale al presidente-manager della Biennale Franco Bernabé - l'embargo dei prodotto Rai dalle prossime Mostre del cinema di Venezia. E ha aggiunto: da ora in poi andremo a Toronto, a Berlino o a Montreal, perché «dobbiamo tutelare gli autori e i produttori indipendenti che lavorano con noi». Ma perché questo coraggioso e bellicoso proclama (anche se troppo concede alle esternazioni, da talk show sciovinista, di Marina Cicogna e Pasquale Squitieri) è arrivato solo dopo il verdetto del Lido, che ha umiliato la sua tricolore opera «ammiraglia». Difetto di tatto? Di eleganza? Di umorismo? O semplicemente una genuflessione ai metodi fotocopiati dal nostro premier per far astuta politica coi media? Da qui l'ilarità generale suscitata, sulle prime.
Invece Giancarlo Leone ha ragione. Come ha scritto, in un delizioso corsivo contro il festival, anche Roberto Nepoti su La repubblica, Bellocchio non è stato battuto, secondo il verdetto di una giuria competente e autorevole almeno quanto guascona (ammesso che l'agonismo sia utile a aiutare film meritevoli: a Toronto non si gareggia affatto) da Alila di Amos Gitai, o dal Dragon Inn di King Hu-Tsai Ming-Liang, o da The agronomist di Jonathan Demme, lasciato «fuori gara» dagli ottocenteschi schemi mentali di un direttore sedicente star. O dagli altri film portatori di valori universali dentro un (uni)forme-cinema battagliera e antagonista (questa è l'arte, chi fa cinema lo sa fin troppo bene), ma da un conformista, molto «local» e involontariamente comico Infanzia di Ivan 6, soporifera psycho-soap-opera d'esordio di Zvyagintsev, ottima forse per lanciare con lo slogan «ecco il nuovo Tarkovski», un canale tematico di Sky; o per soddisfare parzialmente quel che per de Hadeln è il rovello interiore dell'uomo contemporaneo: «tutti si preoccupano dei figli». Infatti, allora, perché non ha stravinto il coreano hard di Im Sangsoo, De Oliveira o proprio Bellocchio, che ci parla di come e perché si elimino «i padre della patria» considerati più «rompicoglioni»?
Certo uno si chiede: ma come, la Rai, che quando era servizio davvero pubblico, mise sotto tutela, o sotto sponsor o sotto ipnosi che dir si voglia, il Lido (finanziato principalmente dallo stato) e trasformò, specialmente durante il regno di Craxi, l'appuntamento veneziano da mostra del cinema di qualità (anche commerciale) in un mega show sputa spot di due settimane da prima serata tv già di livello Marzullo-Chiambretti, dove «niente documentari please, e chissò sti Maori ?» (detto di Tamahori da un geniale cine-manager di Eta Beta) si lamenta adesso, solo per non aver vinto questo Leone d'oro, di essere capitata in un carrozzone inutile e ignorante, quasi in un covo esiziale mal pensato, mal organizzato, mal accessibile, dove anche alcuni bei film (scelti da chi?) sono stati messi nella sezione sbagliata, ostacolati o celati o nascosti (Sarah Moon Howe e il suo magnifico Non dire nulla alla mamma è stata addirittura cancellata dal catalogo Electa). E attacca il direttore de Hadeln perché non dà alcuna garanzia «né sui criteri di selezione dei film, né sulla composizione delle giurie né sull'attenzione verso l'industria italiana».
Ma se avesse vinto Bellocchio, Venezia 60 sarebbe stata invece il paradiso dell'Arte e del commercio cinematografico equo e solidale? Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, premiato per la sceneggiatura (da sempre la critica considera il cineasta piacentino anche un grande scrittore di copioni, ma in questo caso sembra proprio la virtù minore), non lo ha solo prodotto Raicinema (e in particolare il suo direttore generale Carlo Macchitella, che è anche presidente di «01», la società di distribuzione di RaiCinema). Ma lo ha proprio ideato a tavolino, come ai vecchi tempi dei produttori grintosi e invasati, come film-prototipo da far dirigere a Bellocchio, da mandare a Venezia, da far premiare, perché adatto al nuovo meccanismo di sfruttamento dei film in sala. Si dura poco tempo nei multiplex, due-tre settimane, bisogna massimizzare l'interesse e le copie. Bisogna far parlare del film a tutti i costi, con ogni mezzo necessario, finte polemiche, finte minacce comprese. Allora sì che si finirà anche su Sky1.
Insomma purtroppo crediamo che la provocazione di Leone rientrerà, e che de Hadeln resterà al suo posto e a Venezia 2004 copiosi film Rai presto si annunceranno. Anche perché ieri il festival e le sue orrende gerarchie congegnate da de Hadeln e sancite da un Monicelli che alla sua età può dire cosa vuole e dormire quando crede, sono stato sostenuto plebiscitariamente - destra e sinistra - dalla stampa francese (sempre unita se si tratta di mettere in difficoltà Venezia, la pericolosa avversaria di Cannes). E poi da Giancarlo Galan, presidente della regione Veneto e consigliere d'amministrazione della Biennale, che vuole più Brasile e Argentina perché c'è più presenza veneta...
(...)
Il Riformista e La Stampa
Il Riformista 9.9.03
pompati
di Monty Bragan
Casualmente a Venezia
in giuria c'era Accorsi
Non abbiamo nulla contro il vincitore della Mostra del Cinema di Venezia, «Il ritorno» di Zvjagintsev, ma vorremmo sapere perché in Italia sia proprio irremovibile il dogma critico secondo cui, per essere premiabile, un film debba essere per forza anche noioso. A far le spese del dogma, stavolta, «Buongiorno notte» di Marco Bellocchio. Che, giustamente dispiaciuto, ha commentato: «Gli italiani sono imbattibili a non difendere le loro cose». E sono pure imbattibili a mazzolare i cani sciolti come Bellocchio. «Buongiorno notte» ha il coraggio di raccontare la storia distanziandosi dalla storia, usando come spunto il diario della carceriera di Moro per arrivare alla trasfigurazione del presidente Dc, da statista (idealizzato) a ricordo del padre del regista. La tragedia pubblica diviene ferita privata, i piani narrativi si confondono, l'unica risposta è nell'onirismo della protagonista. Casualmente, tra i giurati c'era anche Accorsi; casualmente, Accorsi si era proposto per la parte del brigatista Moretti, poi interpretato da Lo Cascio; non casualmente, Bellocchio lo aveva bocciato
(...)
La Stampa 9 Settembre 2003
MORO, un ponte sull’abisso
di Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari
WASHINGTON «IL rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse sta costringendo i politici italiani a costruire un ponte sopra un abisso politico. Le molte questioni sollevate dal caso potrebbero condurre a cambiamenti fondamentali nella direzione del paese». Non nasconde la preoccupazione l'agente della Cia che il 27 aprile 1978 si siede al tavolo per scrivere queste parole. Ha il compito di inviare a Langley, la sede dell’agenzia americana, un memorandum, per valutare l'impatto sulla stabilità del paese dell'avvenimento più drammatico negli «anni di piombo». Titolo del documento, di cui siamo venuti in possesso: Il rapimento Moro e la politica italiana.
Il leader della Dc è ancora nelle mani dei terroristi, ma la spia di Washington parla quasi al passato, cercando di prevedere gli effetti dell’uscita di scena dello statista. «Uno degli ultimi governi guidati dal politico veterano democristiano Aldo Moro - si legge infatti nel memorandum che è venuto in possesso della Stampa - aveva occupato il periodo dalla rottura della vecchia coalizione di centro sinistra, nel 1974, fino alla impennata elettorale in favore dei comunisti nel 1975. La natura transitoria del suo esecutivo aveva spinto i politici italiani a soprannominarlo “il ponte verso l'ignoto”. Ora il rapimento sta costringendo quegli stessi personaggi a costruire un ponte sopra l'abisso politico». E' in pericolo la stabilità dell'Italia, prezioso alleato di frontiera negli anni della guerra fredda insanguinati dal terrorismo, e questa sembra la preoccupazione principale per l'analista della Central Intelligence Agency.
«Sei settimane dopo il rapimento - continua il rapporto - un'aria di incertezza e di sfiducia pervade la vita politica italiana. Questa sensazione risulta in parte dall'assenza di Moro, ma riflette anche la frustrazione molto diffusa per l'incapacità del governo di trovarlo». La spia di Washington punta il dito contro l'inefficienza del ministero degli Interni e delle forze dell'ordine, e poi cerca di inquadrare l'agguato di via Fani nella complicata situazione politica di Roma. «Moro è stato rapito quando i democristiani e i comunisti avevano appena completato due mesi di negoziati delicati su una nuova formula governativa. Nonostante i colloqui avessero prodotto un accordo, in base al quale il Pci sostiene in Parlamento l'esecutivo di minoranza guidato dal primo ministro Dc Andreotti, molti dettagli contenziosi riguardo le relazioni tra i due partiti non sono ancora stati sviscerati».
Da qui nascono alcuni dei timori della Cia per la stabilità dell'Italia: «Dal rapimento in poi, la preoccupazione per il crimine ha impedito a chiunque di affrontare questi altri problemi irrisolti in maniera sistematica. A volte - continua il documento ottenuto dalla Stampa - le relazioni tra la Dc e il Pci sono segnate da tensioni crescenti. I comunisti, ad esempio, hanno criticato pubblicamente il governo per la mancanza di progressi nelle indagini sul caso».
Quindi l'agente americano fa una valutazione, che potrebbe sorprendere chi per anni ha sospettato l'implicazione dei servizi segreti di Washington nel rapimento: «La tensione - spiega l'uomo della Cia ai suoi superiori - riflette l'assenza dell'influenza stabilizzante di Moro, tanto sul suo stesso partito, quanto sulle relazioni con i comunisti. La capacità di Moro di armonizzare i rapporti tra la Dc e il Pci era uno dei suoi maggiori contributi alla politica italiana».
L'analista della Company era preoccupato per la tenuta del partito che aveva ancorato il nostro paese al blocco atlantico dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Infatti chiudeva il suo rapporto interrogandosi sugli effetti che il rapimento avrebbe potuto avere, probabilmente, sulla coesione interna della Democrazia cristiana, e soprattutto «sulla sua capacità di restare la maggiore forza politica italiana».
Circa un anno dopo queste valutazioni, alla fine di maggio del 1979, la stazione della Cia in Italia poteva tracciare un primo bilancio del dramma, che nel frattempo si era concluso a via Caetani. L'analisi cominciava con lo studio dell'accordo programmatico del 1977 tra Dc e Pci, definito come «l'ultima occasione in cui i due partiti negoziarono seriamente su questioni concrete», prima delle crisi del gennaio 1978 e gennaio 1979, «così dominate da problemi politici che gli aspetti economici erano solo rifiniture di quell'intesa». La Cia dava un giudizio positivo degli accordi che erano stati raggiunti due anni prima per il sostegno comunista al governo Andreotti: «Il Pci e la Dc erano stati capaci di un inizio promettente in alcune aree, ma avevano dovuto evitare le questioni piu' scottanti su altre. L'intesa era piena di dettagli sulla politica economica. Dava ad Andreotti il mandato per continuare l'austerità, e appoggiava specificamente le linee guida del Fondo Monetario Internazionale per l'Italia, come la riduzione del deficit di bilancio, la riallocazione delle risorse dal consumo agli investimenti, e la riduzione del costo del lavoro.
Nonostante l'accordo si fermasse prima di raccomandare cambiamenti fondamentali nella riforma del meccanismo della scala mobile, sottolineava la necessità di un aumento della produttività e includeva provvedimenti per una maggiore mobilità del lavoro. Per mettere in pratica altri aspetti economici dell'intesa, i partiti proponevano un tetto alla spesa pubblica da parte delle autorità nazionali e locali, il ristabilimento di una limitata autoritè' fiscale per i governi locali, la riduzione dei costi della sicurezza sociale attaverso vari mezzi, e un temporaneo congelamento delle assunzioni nel settore pubblico, tanto a livello nazionale quanto locale. Una varietà di misure fiscali era dunque prevista per scoraggiare ulteriormente i consumi interni, stimolare gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro. L'accordo era anche piuttosto specifico sulle misure di ordine pubblico, ma diventava molto meno chiaro quando affrontava questioni politiche più scabrose, come la riforma della scuola, i cambiamenti nel controllo dei media, e le procedure per le nomine nel settore pubblico. La Cia, insomma, sembrava incoraggiata dai risultati politici del dialogo tra democristiani e comunisti.
Infatti in un successivo paragrafo si analizzava Cosa è andato storto: «La maggior parte delle proposte dell'accordo programmatico non sono mai uscite dalla carta. Le ragioni sono complesse, ma coinvolgono soprattutto la resistenza cresciuta all'interno di entrambi i partiti verso la cooperazione tra i loro leader. Primo, i sostenitori del Pci nel mondo del lavoro ritenevano che il partito stesse ricevendo troppo poco in cambio del suo appoggio per le misure dell'austerity. Questa pressione fu uno dei fattori chiave nella decisione presa da Berlinguer alla fine del 1977 di far cadere il governo Andreotti e spingere per un ruolo piu' diretto del Pci. Dopo due mesi di tortuosi negoziati con il leader democristiano Aldo Moro, Berlinguer aveva ottenuto quello che voleva: la membership formale nella maggioranza governativa, uno status che aveva a lungo visto come l'ultima stazione prima dell'ingresso del Pci nell'esecutivo».
A quel punto, continua l'agente della Cia, «l'accordo programmatico sembrava di nuovo sui binari, ma allora Moro fu rapito dalle Brigate Rosse, proprio nel giorno in cui il nuovo governo doveva entrare in carica. In questo periodo caotico, seguito dall'omicidio di Moro da parte delle Br due mesi dopo, i problemi di ordine pubblico avevano soppiantato tutto il resto, e la politica economica era stata semplicemente riposta nello scaffale. Moro, la principale figura politica italiana, aveva concluso che la collaborazione tra Dc e Pci era l'unica via d'uscita al dilemma del paese. Ma quando lui non c'era più a difendere questa visione, i suoi oppositori nella Democrazia cristiana avevano puntato i piedi. Questo, in ritorno, aveva confermato la convinzione dei quadri comunisti che cooperare con la Dc era un proposito perdente». L'uomo della Cia scaricava sul rapimento Moro e sulle resistenze dei suoi compagni di partito il fallimento di un esperimento che gli era parso promettente.
L’agenzia americana mostrava di ricavare due lezioni dalle vicende avvenute in Italia nel 1977-79: «Nonostante i leader del Pci abbiano a cuore l'idea di una “trasformazione socialista” nel paese, sono disposti a correre i rischi politici necessari per affrontare pragmaticamente i problemi immediati dell'Italia, ma solo se convinti che tale operazione porti un quid pro quo. I democristiani sono disposti a concludere compromessi col Pci e fare concessioni politiche, ma solo se convinti che non ci siano alternative».
Dunque concludeva l'analisi così, quasi con rammarico: «Queste due condizioni di cui abbiamo appena parlato, necessarie alla riuscita della collaborazione, sono state in effetto per non più di tre o quattro mesi nel periodo successivo al luglio del 1997, quando l'accordo programmatico era stato concluso. Percio' sarebbe prematuro dichiarare l'esperimento Moro-Andreotti un fallimento».
La Stampa 9 Settembre 2003
Bodrato: il golpe del terrorismo
«E la Dc sbagliava a identificare gli Usa con il Pentagono»
Paolo Passarini
ROMA «LA cosa che più mi ha sorpreso, siccome noi tendiamo ad attribuire alla Cia un ruolo di estremizzazione delle posizioni del governo americano, è che qui troviamo invece una lettura attenta, moderata, che tende a ridurre piuttosto che ad allargare i punti della polemica». L’ex ministro dc Guido Bodrato ricorda molto bene l'ultima occasione in cui poté vedere Aldo Moro: fu quando l'allora presidente della Dc pronunciò il suo famoso ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari del partito, alla vigilia del suo tragico rapimento.
Il rapporto della Cia definisce la strategia di Moro condensata in quel discorso «un ponte sopra l'abisso politico». Condivide questa definizione?
«Per chi lo ascoltò fu esattamente così. Lo si può sintetizzare in pochi punti. Innanzi tutto, il discorso venne pronunciato a conclusione di una serie molto fitta di incontri di Moro con i critici della sua politica, in cui lui, come al solito, ascoltò molto. Per quello che riguarda la trama del discorso, i punti sono tre: stiamo vivendo un passaggio storico, la Dc deve innanzitutto affrontarlo unita, dobbiamo favorire l'evolversi di posizioni di dialogo nella sinistra. Dobbiamo farlo - sottolineò Moro - anche se non sappiamo quale sarà l'approdo. E' un passaggio da vivere mantenendo unità e iniziativa politica. Moro convinse molti, ma l'opposizione rimaneva forte, tanto è vero che la raccolta delle firme sulla mozione contraria continuò per tutta la notte».
Ma al mattino venne ritirata. Poi ci fu il sequestro.
«Riflettiamo un attimo sulla situazione. In quel momento la politica di solidarietà nazionale era in crisi. I colloqui tra Dc e Pci si erano conclusi con una tregua armata. C'era un contrasto molto forte sulla composizione del nuovo governo Andreotti. I comunisti, come più tardi ha raccontato Gerardo Chiaromonte nelle sue memorie, avrebbero anche potuto votare contro. Quindi si può dire che il sequestro Moro, se da una parte indebolì la sua strategia politica, dall'altra ne accelerò la realizzazione. Fu la vittoria dell'idea del "passaggio obbligato". Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se il Pci avesse votato contro. Una rottura in Parlamento avrebbe provocato elezioni anticipate e queste avrebbero ancora di più radicalizzato una situazione piena delle emergenze che tutti ricordiamo, quando invece l'obiettivo era quello di tenere aperto il dialogo democratico nel paese».
Il rapporto sembra tener conto di questo aspetto...
«Sì, infatti, e questo mi fa ricordare quanto forte fosse allora la preoccupazione della Dc di spiegare agli americani il senso della solidarietà nazionale. Prima Galloni, che era vicesegretario, approfittò di un ciclo di conferenze nelle università americane. Poi fu il segretario Zaccagnini, assieme a Pisanu, a recarsi negli Usa per cercare di spiegare che l'obiettivo della nostra politica era avvicinare il Pci al Patto Atlantico».
E che reazioni ottennero?
«Miste. Incontrarono posizioni molto diverse. Ma allora prevaleva in noi l'impressione che la posizione ufficiale americana, quella vera, fosse improntata alla diffidenza, a quella che si potrebbe definire la "dottrina Kissinger"».
Secondo il rapporto, con la scomparsa di Moro, nella Dc prevalgono le opposizioni e il partito va fuori controllo. Condivide questa analisi?
«Con un'osservazione aggiuntiva: che a far formalmente saltare la politica della solidarietà nazionale fu l'opposizione comunista allo Sme. L'europeismo era ancora lontano. Questo favorì il prevalere nella Dc del cosiddetto "preambolo", che significava semplicemente "con i comunisti non si può". Ma nel frattempo anche il Pci, che considerava Moro l'unico interlocutore, si era già spostato».
Quindi è corretto concludere che la scomparsa di Moro cambiò il corso della politica italiana?
«Il corso è stato cambiato perchè venne indebolito uno degli interlocutori politici, la Dc e la strategia morotea. Ma non è che poi è iniziata un'altra storia. Le coordinate di fondo erano state già delineate. Ricordo quando Scalfari pubblicò su Repubblica un suo dialogo postumo con Moro, da cui emergeva che la strategia morotea prevedeva la realizzazione di una "grande coalizione" con il pieno coinvolgimento del Pci nel governo. Io resto all'ultimo discorso di Moro: l'esito è ignoto. Del resto, la strategia di Moro teneva conto degli imprevisti, ma era diversa da quella di Berlinguer, che puntava alla "grande coalizione" e voleva introdurre in Italia "elementi di socialismo". Moro pensava che questo fosse un grave errore. Chi può dire che queste due posizioni, senza la violenza del terrorismo, si sarebbero progressivamente riavvicinate? Semplicemente non lo sappiamo».
Lei ha detto di essere rimasto sorpreso dalla lettura del documento. Vuole spiegare meglio?
«Evidentemente qui emerge un'interpretazione da parte americana molto diversa da quella che in qualche modo è stata trasmessa attraverso gli anni. C'è un atteggiamento di attenzione positiva per quanto accadeva in quegli anni in Italia. Insomma: la solidarietà nazionale non mette, per così dire, a rischio i confini. Come dicevo, si riteneva che la preoccupazione di Kissinger per le frontiere fosse dominante. Questa è una lettura diversa. E questo vale anche per la valutazione del ruolo della Dc in quegli anni. Qui non emerge il quadro di una Dc che sta rinunciando alla sua identità storica, all'anticomunismo cioè. Emerge invece attenzione verso la strategia morotea, correttamente individuata come una politica imposta da una serie di necessità».
Una conclusione?
«Mi si è rafforzata un'idea alla quale penso da qualche tempo. Secondo me, il grande errore della Dc, intesa come partito della "terza via" in Europa, è stato proprio quello di far politica a partire dal presupposto che, come dire?, l'America fosse il Pentagono. Che, cioè, la visione americana delle cose coincidesse con quella del suo governo o di una parte di esso. Questo errore ci ha portato a trascurare tanti altri filoni di analisi esistenti e disponibili. Penso che questo errore di circoscrivere tutto ai governi e alle istituzioni abbia influito negativamente sulla storia dei rapporti tra le grandi democrazie».
pompati
di Monty Bragan
Casualmente a Venezia
in giuria c'era Accorsi
Non abbiamo nulla contro il vincitore della Mostra del Cinema di Venezia, «Il ritorno» di Zvjagintsev, ma vorremmo sapere perché in Italia sia proprio irremovibile il dogma critico secondo cui, per essere premiabile, un film debba essere per forza anche noioso. A far le spese del dogma, stavolta, «Buongiorno notte» di Marco Bellocchio. Che, giustamente dispiaciuto, ha commentato: «Gli italiani sono imbattibili a non difendere le loro cose». E sono pure imbattibili a mazzolare i cani sciolti come Bellocchio. «Buongiorno notte» ha il coraggio di raccontare la storia distanziandosi dalla storia, usando come spunto il diario della carceriera di Moro per arrivare alla trasfigurazione del presidente Dc, da statista (idealizzato) a ricordo del padre del regista. La tragedia pubblica diviene ferita privata, i piani narrativi si confondono, l'unica risposta è nell'onirismo della protagonista. Casualmente, tra i giurati c'era anche Accorsi; casualmente, Accorsi si era proposto per la parte del brigatista Moretti, poi interpretato da Lo Cascio; non casualmente, Bellocchio lo aveva bocciato
(...)
La Stampa 9 Settembre 2003
MORO, un ponte sull’abisso
di Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari
WASHINGTON «IL rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse sta costringendo i politici italiani a costruire un ponte sopra un abisso politico. Le molte questioni sollevate dal caso potrebbero condurre a cambiamenti fondamentali nella direzione del paese». Non nasconde la preoccupazione l'agente della Cia che il 27 aprile 1978 si siede al tavolo per scrivere queste parole. Ha il compito di inviare a Langley, la sede dell’agenzia americana, un memorandum, per valutare l'impatto sulla stabilità del paese dell'avvenimento più drammatico negli «anni di piombo». Titolo del documento, di cui siamo venuti in possesso: Il rapimento Moro e la politica italiana.
Il leader della Dc è ancora nelle mani dei terroristi, ma la spia di Washington parla quasi al passato, cercando di prevedere gli effetti dell’uscita di scena dello statista. «Uno degli ultimi governi guidati dal politico veterano democristiano Aldo Moro - si legge infatti nel memorandum che è venuto in possesso della Stampa - aveva occupato il periodo dalla rottura della vecchia coalizione di centro sinistra, nel 1974, fino alla impennata elettorale in favore dei comunisti nel 1975. La natura transitoria del suo esecutivo aveva spinto i politici italiani a soprannominarlo “il ponte verso l'ignoto”. Ora il rapimento sta costringendo quegli stessi personaggi a costruire un ponte sopra l'abisso politico». E' in pericolo la stabilità dell'Italia, prezioso alleato di frontiera negli anni della guerra fredda insanguinati dal terrorismo, e questa sembra la preoccupazione principale per l'analista della Central Intelligence Agency.
«Sei settimane dopo il rapimento - continua il rapporto - un'aria di incertezza e di sfiducia pervade la vita politica italiana. Questa sensazione risulta in parte dall'assenza di Moro, ma riflette anche la frustrazione molto diffusa per l'incapacità del governo di trovarlo». La spia di Washington punta il dito contro l'inefficienza del ministero degli Interni e delle forze dell'ordine, e poi cerca di inquadrare l'agguato di via Fani nella complicata situazione politica di Roma. «Moro è stato rapito quando i democristiani e i comunisti avevano appena completato due mesi di negoziati delicati su una nuova formula governativa. Nonostante i colloqui avessero prodotto un accordo, in base al quale il Pci sostiene in Parlamento l'esecutivo di minoranza guidato dal primo ministro Dc Andreotti, molti dettagli contenziosi riguardo le relazioni tra i due partiti non sono ancora stati sviscerati».
Da qui nascono alcuni dei timori della Cia per la stabilità dell'Italia: «Dal rapimento in poi, la preoccupazione per il crimine ha impedito a chiunque di affrontare questi altri problemi irrisolti in maniera sistematica. A volte - continua il documento ottenuto dalla Stampa - le relazioni tra la Dc e il Pci sono segnate da tensioni crescenti. I comunisti, ad esempio, hanno criticato pubblicamente il governo per la mancanza di progressi nelle indagini sul caso».
Quindi l'agente americano fa una valutazione, che potrebbe sorprendere chi per anni ha sospettato l'implicazione dei servizi segreti di Washington nel rapimento: «La tensione - spiega l'uomo della Cia ai suoi superiori - riflette l'assenza dell'influenza stabilizzante di Moro, tanto sul suo stesso partito, quanto sulle relazioni con i comunisti. La capacità di Moro di armonizzare i rapporti tra la Dc e il Pci era uno dei suoi maggiori contributi alla politica italiana».
L'analista della Company era preoccupato per la tenuta del partito che aveva ancorato il nostro paese al blocco atlantico dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Infatti chiudeva il suo rapporto interrogandosi sugli effetti che il rapimento avrebbe potuto avere, probabilmente, sulla coesione interna della Democrazia cristiana, e soprattutto «sulla sua capacità di restare la maggiore forza politica italiana».
Circa un anno dopo queste valutazioni, alla fine di maggio del 1979, la stazione della Cia in Italia poteva tracciare un primo bilancio del dramma, che nel frattempo si era concluso a via Caetani. L'analisi cominciava con lo studio dell'accordo programmatico del 1977 tra Dc e Pci, definito come «l'ultima occasione in cui i due partiti negoziarono seriamente su questioni concrete», prima delle crisi del gennaio 1978 e gennaio 1979, «così dominate da problemi politici che gli aspetti economici erano solo rifiniture di quell'intesa». La Cia dava un giudizio positivo degli accordi che erano stati raggiunti due anni prima per il sostegno comunista al governo Andreotti: «Il Pci e la Dc erano stati capaci di un inizio promettente in alcune aree, ma avevano dovuto evitare le questioni piu' scottanti su altre. L'intesa era piena di dettagli sulla politica economica. Dava ad Andreotti il mandato per continuare l'austerità, e appoggiava specificamente le linee guida del Fondo Monetario Internazionale per l'Italia, come la riduzione del deficit di bilancio, la riallocazione delle risorse dal consumo agli investimenti, e la riduzione del costo del lavoro.
Nonostante l'accordo si fermasse prima di raccomandare cambiamenti fondamentali nella riforma del meccanismo della scala mobile, sottolineava la necessità di un aumento della produttività e includeva provvedimenti per una maggiore mobilità del lavoro. Per mettere in pratica altri aspetti economici dell'intesa, i partiti proponevano un tetto alla spesa pubblica da parte delle autorità nazionali e locali, il ristabilimento di una limitata autoritè' fiscale per i governi locali, la riduzione dei costi della sicurezza sociale attaverso vari mezzi, e un temporaneo congelamento delle assunzioni nel settore pubblico, tanto a livello nazionale quanto locale. Una varietà di misure fiscali era dunque prevista per scoraggiare ulteriormente i consumi interni, stimolare gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro. L'accordo era anche piuttosto specifico sulle misure di ordine pubblico, ma diventava molto meno chiaro quando affrontava questioni politiche più scabrose, come la riforma della scuola, i cambiamenti nel controllo dei media, e le procedure per le nomine nel settore pubblico. La Cia, insomma, sembrava incoraggiata dai risultati politici del dialogo tra democristiani e comunisti.
Infatti in un successivo paragrafo si analizzava Cosa è andato storto: «La maggior parte delle proposte dell'accordo programmatico non sono mai uscite dalla carta. Le ragioni sono complesse, ma coinvolgono soprattutto la resistenza cresciuta all'interno di entrambi i partiti verso la cooperazione tra i loro leader. Primo, i sostenitori del Pci nel mondo del lavoro ritenevano che il partito stesse ricevendo troppo poco in cambio del suo appoggio per le misure dell'austerity. Questa pressione fu uno dei fattori chiave nella decisione presa da Berlinguer alla fine del 1977 di far cadere il governo Andreotti e spingere per un ruolo piu' diretto del Pci. Dopo due mesi di tortuosi negoziati con il leader democristiano Aldo Moro, Berlinguer aveva ottenuto quello che voleva: la membership formale nella maggioranza governativa, uno status che aveva a lungo visto come l'ultima stazione prima dell'ingresso del Pci nell'esecutivo».
A quel punto, continua l'agente della Cia, «l'accordo programmatico sembrava di nuovo sui binari, ma allora Moro fu rapito dalle Brigate Rosse, proprio nel giorno in cui il nuovo governo doveva entrare in carica. In questo periodo caotico, seguito dall'omicidio di Moro da parte delle Br due mesi dopo, i problemi di ordine pubblico avevano soppiantato tutto il resto, e la politica economica era stata semplicemente riposta nello scaffale. Moro, la principale figura politica italiana, aveva concluso che la collaborazione tra Dc e Pci era l'unica via d'uscita al dilemma del paese. Ma quando lui non c'era più a difendere questa visione, i suoi oppositori nella Democrazia cristiana avevano puntato i piedi. Questo, in ritorno, aveva confermato la convinzione dei quadri comunisti che cooperare con la Dc era un proposito perdente». L'uomo della Cia scaricava sul rapimento Moro e sulle resistenze dei suoi compagni di partito il fallimento di un esperimento che gli era parso promettente.
L’agenzia americana mostrava di ricavare due lezioni dalle vicende avvenute in Italia nel 1977-79: «Nonostante i leader del Pci abbiano a cuore l'idea di una “trasformazione socialista” nel paese, sono disposti a correre i rischi politici necessari per affrontare pragmaticamente i problemi immediati dell'Italia, ma solo se convinti che tale operazione porti un quid pro quo. I democristiani sono disposti a concludere compromessi col Pci e fare concessioni politiche, ma solo se convinti che non ci siano alternative».
Dunque concludeva l'analisi così, quasi con rammarico: «Queste due condizioni di cui abbiamo appena parlato, necessarie alla riuscita della collaborazione, sono state in effetto per non più di tre o quattro mesi nel periodo successivo al luglio del 1997, quando l'accordo programmatico era stato concluso. Percio' sarebbe prematuro dichiarare l'esperimento Moro-Andreotti un fallimento».
La Stampa 9 Settembre 2003
Bodrato: il golpe del terrorismo
«E la Dc sbagliava a identificare gli Usa con il Pentagono»
Paolo Passarini
ROMA «LA cosa che più mi ha sorpreso, siccome noi tendiamo ad attribuire alla Cia un ruolo di estremizzazione delle posizioni del governo americano, è che qui troviamo invece una lettura attenta, moderata, che tende a ridurre piuttosto che ad allargare i punti della polemica». L’ex ministro dc Guido Bodrato ricorda molto bene l'ultima occasione in cui poté vedere Aldo Moro: fu quando l'allora presidente della Dc pronunciò il suo famoso ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari del partito, alla vigilia del suo tragico rapimento.
Il rapporto della Cia definisce la strategia di Moro condensata in quel discorso «un ponte sopra l'abisso politico». Condivide questa definizione?
«Per chi lo ascoltò fu esattamente così. Lo si può sintetizzare in pochi punti. Innanzi tutto, il discorso venne pronunciato a conclusione di una serie molto fitta di incontri di Moro con i critici della sua politica, in cui lui, come al solito, ascoltò molto. Per quello che riguarda la trama del discorso, i punti sono tre: stiamo vivendo un passaggio storico, la Dc deve innanzitutto affrontarlo unita, dobbiamo favorire l'evolversi di posizioni di dialogo nella sinistra. Dobbiamo farlo - sottolineò Moro - anche se non sappiamo quale sarà l'approdo. E' un passaggio da vivere mantenendo unità e iniziativa politica. Moro convinse molti, ma l'opposizione rimaneva forte, tanto è vero che la raccolta delle firme sulla mozione contraria continuò per tutta la notte».
Ma al mattino venne ritirata. Poi ci fu il sequestro.
«Riflettiamo un attimo sulla situazione. In quel momento la politica di solidarietà nazionale era in crisi. I colloqui tra Dc e Pci si erano conclusi con una tregua armata. C'era un contrasto molto forte sulla composizione del nuovo governo Andreotti. I comunisti, come più tardi ha raccontato Gerardo Chiaromonte nelle sue memorie, avrebbero anche potuto votare contro. Quindi si può dire che il sequestro Moro, se da una parte indebolì la sua strategia politica, dall'altra ne accelerò la realizzazione. Fu la vittoria dell'idea del "passaggio obbligato". Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se il Pci avesse votato contro. Una rottura in Parlamento avrebbe provocato elezioni anticipate e queste avrebbero ancora di più radicalizzato una situazione piena delle emergenze che tutti ricordiamo, quando invece l'obiettivo era quello di tenere aperto il dialogo democratico nel paese».
Il rapporto sembra tener conto di questo aspetto...
«Sì, infatti, e questo mi fa ricordare quanto forte fosse allora la preoccupazione della Dc di spiegare agli americani il senso della solidarietà nazionale. Prima Galloni, che era vicesegretario, approfittò di un ciclo di conferenze nelle università americane. Poi fu il segretario Zaccagnini, assieme a Pisanu, a recarsi negli Usa per cercare di spiegare che l'obiettivo della nostra politica era avvicinare il Pci al Patto Atlantico».
E che reazioni ottennero?
«Miste. Incontrarono posizioni molto diverse. Ma allora prevaleva in noi l'impressione che la posizione ufficiale americana, quella vera, fosse improntata alla diffidenza, a quella che si potrebbe definire la "dottrina Kissinger"».
Secondo il rapporto, con la scomparsa di Moro, nella Dc prevalgono le opposizioni e il partito va fuori controllo. Condivide questa analisi?
«Con un'osservazione aggiuntiva: che a far formalmente saltare la politica della solidarietà nazionale fu l'opposizione comunista allo Sme. L'europeismo era ancora lontano. Questo favorì il prevalere nella Dc del cosiddetto "preambolo", che significava semplicemente "con i comunisti non si può". Ma nel frattempo anche il Pci, che considerava Moro l'unico interlocutore, si era già spostato».
Quindi è corretto concludere che la scomparsa di Moro cambiò il corso della politica italiana?
«Il corso è stato cambiato perchè venne indebolito uno degli interlocutori politici, la Dc e la strategia morotea. Ma non è che poi è iniziata un'altra storia. Le coordinate di fondo erano state già delineate. Ricordo quando Scalfari pubblicò su Repubblica un suo dialogo postumo con Moro, da cui emergeva che la strategia morotea prevedeva la realizzazione di una "grande coalizione" con il pieno coinvolgimento del Pci nel governo. Io resto all'ultimo discorso di Moro: l'esito è ignoto. Del resto, la strategia di Moro teneva conto degli imprevisti, ma era diversa da quella di Berlinguer, che puntava alla "grande coalizione" e voleva introdurre in Italia "elementi di socialismo". Moro pensava che questo fosse un grave errore. Chi può dire che queste due posizioni, senza la violenza del terrorismo, si sarebbero progressivamente riavvicinate? Semplicemente non lo sappiamo».
Lei ha detto di essere rimasto sorpreso dalla lettura del documento. Vuole spiegare meglio?
«Evidentemente qui emerge un'interpretazione da parte americana molto diversa da quella che in qualche modo è stata trasmessa attraverso gli anni. C'è un atteggiamento di attenzione positiva per quanto accadeva in quegli anni in Italia. Insomma: la solidarietà nazionale non mette, per così dire, a rischio i confini. Come dicevo, si riteneva che la preoccupazione di Kissinger per le frontiere fosse dominante. Questa è una lettura diversa. E questo vale anche per la valutazione del ruolo della Dc in quegli anni. Qui non emerge il quadro di una Dc che sta rinunciando alla sua identità storica, all'anticomunismo cioè. Emerge invece attenzione verso la strategia morotea, correttamente individuata come una politica imposta da una serie di necessità».
Una conclusione?
«Mi si è rafforzata un'idea alla quale penso da qualche tempo. Secondo me, il grande errore della Dc, intesa come partito della "terza via" in Europa, è stato proprio quello di far politica a partire dal presupposto che, come dire?, l'America fosse il Pentagono. Che, cioè, la visione americana delle cose coincidesse con quella del suo governo o di una parte di esso. Questo errore ci ha portato a trascurare tanti altri filoni di analisi esistenti e disponibili. Penso che questo errore di circoscrivere tutto ai governi e alle istituzioni abbia influito negativamente sulla storia dei rapporti tra le grandi democrazie».
Goffredo Fofi, la parabola di un se-dicente rivoluzionario dai Quaderni Piacentini al Messaggero
Il Messaggero 9 Settembre 2003
Snobbato Bellocchio? Bene, il suo è un film infantile
di GOFFREDO FOFI
LA REAZIONE scomposta e sciovinista della dirigenza Rai di fronte al verdetto della giuria veneziana che, presieduta da un italiano, ha osato non dare il massimo premio a un loro film, a un Film Italiano, Buongiorno notte di Marco Bellocchio (di questo passo, addio Oscar a Benigni, addio Palme a Moretti: che ognuno premi i suoi, valgano o non valgano, purché con i colori nazionali!); gli entusiasmi generali dei giornali e degli ”uomini di cultura” di destra, di centro e di sinistra per il medesimo film; l’essere a un tratto diventato Bellocchio emblema quanto Ciampi e la Nazionale di calcio dell’Unità della Patria, ricostituita attorno al suo modo di rievocare il caso Moro; tutto questo dovrebbe far riflettere il regista piacentino, ma dubito che ciò avverrà.
Il plebiscito di consensi (italiani) gli può far male, con la convinzione che gli porta di aver subito una clamorosa ingiustizia. E invece no, oltre al film russo a Venezia c’erano in concorso, nel pastrocchio delle divisioni imposte dai gusti e dalle tattiche del direttore della mostra, film ben migliori di Buongiorno notte, e fuori concorso anche.
Onestamente, sono tra coloro che hanno apprezzato diverse cose del film, ma che l’avrebbero fatto con più sentimento se non avesse tirato in ballo fatti e personaggi storici precisi, e li avesse reinventati con altri nomi e storie. Così com’è, Buongiorno notte è un film politico, che affronta una delle più tremende delle tante e vergognose storie che costellano il nostro passato e il nostro presente. E, «a film politico, giudizio politico», si diceva una volta. Specularmente al film di Bertolucci sul ’68, anche quello di Bellocchio non si distacca mai più di pochi centimetri dall’ombelico del regista. Bertolucci idealizza il suo ’68 molto borghese, Bellocchio ci parla del suo ”privato”, fa un film sui suoi miti e modelli familiari, e auspica riconciliazione e armonia di una famiglia che vuole anche ”famiglia Italia”, visti il soggetto, il modo di trattarlo e le soluzioni che gli offre.
Prima del ’68, il protagonista di I pugni in tasca buttava la madre nell’abisso, e quella madre era una certa Italia. Ora Bellocchio è cresciuto, e assolve i padri (il Padre per eccellenza, Moro) e i figli (i terroristi), e auspica una storia riconciliata per via materna (la figura femminile idealistica e idealizzata della terrorista materna, i cui sogni sono il film: è lei la morale del regista).
Il caso Moro fu una tragedia piena di responsabilità, piena di colpe, della classe dirigente e dei dopo-sessantotto, con cause definibili e lasciti altrettanto interpretabili. In ogni caso è Storia, come spezzoni tv e giornali ricordano nel film, e come rammentano i nomi stessi dei personaggi. Ma Bellocchio si serve di questo per dirci i suoi bisogni di ex figlio ribelle, diventato oggi padre ossequiente con figli obbedienti. Film onirico e psicanalitico, che però vuole chiamare in causa la realtà e la storia, Buongiorno notte è un film di conciliazione e di assoluzione delle principali parti in causa, e in esso tutto mi suona falso e idealizzato. Bellocchio, come Bertolucci, non sa interpretare neanche la sua stessa storia, il suo ”pubblico” e il suo ”privato” dentro il ”pubblico” di un quarantennio. Unici nemici che gli restano, Stalin (ma suvvia, se ormai perfino Rifondazione...!) e il Papa: guarda caso, quel Paolo VI che fu una delle poche persone pubbliche a uscire pulite dall’indecorosa vicenda politico-criminale del caso Moro.
Il Padre buono e incompreso pensa da ultimo alla famiglia e ai nipoti, come la terrorista buona che ha scoperto un padre, in mezzo a colleghi che proprio non fanno paura e che non somigliano affatto agli spietati individui della realtà. Che, tra l’altro, distrussero un movimento con il loro fanatismo imbecille e aprirono la strada agli abomini politici successivi. E’ un film privato e infantile, quello di Bellocchio, che purtroppo va visto in chiave antropologica, sociologica e politica come l’esempio di un’Italia oggi riconciliata dal denaro e dal conformismo dei comportamenti. Bellocchio ha unificato da perfetto ”uomo d’ordine” l’Italia 2003 politica, televisiva, giornalistica. Che immenso successo!
Maria Fida Moro: è uno schifo
ROMA «Disappunto, contrarietà e schifo» per il film di Marco Bellocchio sul caso Moro. Maria Fida Moro, la figlia dell'ex presidente della Dc ucciso dalle Br, non usa mezzi termini per scagliarsi contro la pellicola reduce dal Festival di Venezia, accusandola di rileggere la vicenda attraverso gli occhi dei terroristi. «Siamo in un paese libero premette e quindi la signora Laura Braghetti ha il diritto di esprimersi e il regista Bellocchio ha la facoltà di fare un film. Ma io ho il diritto sacrosanto di gridare il mio disappunto, la mia contrarietà e lo schifo. Vorrei silenzio sul caso Moro, visto che le parole e i ricordi sono quasi sempre a sproposito».
I commenti all’uscita delle sale dove si proietta “Buongiorno, notte”
Il pubblico si divide in due
di DIANA LETIZIA e SIMONA TAGLIAVENTI
ROMA - In un lunedì pomeriggio carico di pioggia, generazioni di romani si incontrano nei cinema della città in cui si proietta Buongiorno, notte di Marco Bellocchio. Le polemiche sulla mancata consegna del Leone al film (molti i favorevoli ma anche i contrari) si spostano dalla Laguna a Roma. Tutti quelli che escono dal cinema Tibur di San Lorenzo sembra abbiano una gran voglia di parlare, di commentare qualcosa che hanno sentito solo raccontare dai genitori o che hanno vissuto in prima persona. «E’ la dimensione umana che rende questo film meraviglioso - spiega Chiara Lorenzoni, insegnante di 56 anni – meritava un riconoscimento maggiore per la bellezza del confronto tra realtà e immaginazione». Altre parole di elogio arrivano da Francesco, trentenne (lo ha visto due volte): «Rivedendolo ho apprezzato ancora di più il montaggio e soprattutto ho colto particolari che non ero riuscito a capire». Carla, studentessa fuori sede di vent’anni, non ha dubbi: «Era ora che qualcuno ci raccontasse il caso Moro con sensibilità. La musica dei Pink Floyd è la migliore colonna sonora che il regista potesse scegliere». Nel cinema di San Lorenzo, Buongiorno, notte è in programmazione da venerdì e il direttore del Tibur sottolinea l’alto flusso di persone che sono andate a vederlo. Dall’altra parte della Capitale, al cinema Eden, i pareri sono piuttosto discordanti. «Lo sguardo del regista – commenta Anna Rita Pinto, 32 anni, sceneggiatrice – si sofferma sull’intimità dei personaggi, raccontando una vicenda che non aderisce in tutto e per tutto alla storia. Bello il finale di ampio respiro». È proprio la visione da un punto di vista diverso l’aspetto che ha suscitato nel pubblico grandi critiche o entusiastici apprezzamenti. «Sicuramente un bel film – spiega Giampiero Carocci, 84 anni – come belle sono le musiche che volutamente stonano con la tragicità della vicenda. I brigatisti però sembrano appartenere più al mondo di oggi che a quello di trent’anni fa». Delusa Luisa Collodi: «Non mi è piaciuto, non dà per niente l’idea della tragedia». Incompleto, carente e privo di approfondimenti Buongiorno, notte per Gemma D’Agostino: «Manca l’indagine su ciò che ha mosso l’azione dei brigatisti e questo è inaccettabile». Il pubblico giovane è più indulgente: «Non ha vinto a Venezia – azzarda Angelo Costabile, 25 anni, attore al fianco di Lo Cascio in La meglio gioventù – perché il regista è un italiano. Si tratta invece di un’opera d’arte, senza pretese di aderenza alla verità storica e chi lo critica non ha afferrato questo aspetto». Commossa e ancora col cuore in gola Sabina Incardina, studentessa al Dams: «Mi sono documentata prima di vedere questo film – racconta – e mi è sembrata un’idea geniale inserire tra i brigatisti una donna che è anche travagliata dai suoi problemi». Anche Mara Venier ha partecipato alla proiezione pomeridiana dell’Eden e ha commentato il film con un consiglio: «Vale la pena andarlo a vedere».
Snobbato Bellocchio? Bene, il suo è un film infantile
di GOFFREDO FOFI
LA REAZIONE scomposta e sciovinista della dirigenza Rai di fronte al verdetto della giuria veneziana che, presieduta da un italiano, ha osato non dare il massimo premio a un loro film, a un Film Italiano, Buongiorno notte di Marco Bellocchio (di questo passo, addio Oscar a Benigni, addio Palme a Moretti: che ognuno premi i suoi, valgano o non valgano, purché con i colori nazionali!); gli entusiasmi generali dei giornali e degli ”uomini di cultura” di destra, di centro e di sinistra per il medesimo film; l’essere a un tratto diventato Bellocchio emblema quanto Ciampi e la Nazionale di calcio dell’Unità della Patria, ricostituita attorno al suo modo di rievocare il caso Moro; tutto questo dovrebbe far riflettere il regista piacentino, ma dubito che ciò avverrà.
Il plebiscito di consensi (italiani) gli può far male, con la convinzione che gli porta di aver subito una clamorosa ingiustizia. E invece no, oltre al film russo a Venezia c’erano in concorso, nel pastrocchio delle divisioni imposte dai gusti e dalle tattiche del direttore della mostra, film ben migliori di Buongiorno notte, e fuori concorso anche.
Onestamente, sono tra coloro che hanno apprezzato diverse cose del film, ma che l’avrebbero fatto con più sentimento se non avesse tirato in ballo fatti e personaggi storici precisi, e li avesse reinventati con altri nomi e storie. Così com’è, Buongiorno notte è un film politico, che affronta una delle più tremende delle tante e vergognose storie che costellano il nostro passato e il nostro presente. E, «a film politico, giudizio politico», si diceva una volta. Specularmente al film di Bertolucci sul ’68, anche quello di Bellocchio non si distacca mai più di pochi centimetri dall’ombelico del regista. Bertolucci idealizza il suo ’68 molto borghese, Bellocchio ci parla del suo ”privato”, fa un film sui suoi miti e modelli familiari, e auspica riconciliazione e armonia di una famiglia che vuole anche ”famiglia Italia”, visti il soggetto, il modo di trattarlo e le soluzioni che gli offre.
Prima del ’68, il protagonista di I pugni in tasca buttava la madre nell’abisso, e quella madre era una certa Italia. Ora Bellocchio è cresciuto, e assolve i padri (il Padre per eccellenza, Moro) e i figli (i terroristi), e auspica una storia riconciliata per via materna (la figura femminile idealistica e idealizzata della terrorista materna, i cui sogni sono il film: è lei la morale del regista).
Il caso Moro fu una tragedia piena di responsabilità, piena di colpe, della classe dirigente e dei dopo-sessantotto, con cause definibili e lasciti altrettanto interpretabili. In ogni caso è Storia, come spezzoni tv e giornali ricordano nel film, e come rammentano i nomi stessi dei personaggi. Ma Bellocchio si serve di questo per dirci i suoi bisogni di ex figlio ribelle, diventato oggi padre ossequiente con figli obbedienti. Film onirico e psicanalitico, che però vuole chiamare in causa la realtà e la storia, Buongiorno notte è un film di conciliazione e di assoluzione delle principali parti in causa, e in esso tutto mi suona falso e idealizzato. Bellocchio, come Bertolucci, non sa interpretare neanche la sua stessa storia, il suo ”pubblico” e il suo ”privato” dentro il ”pubblico” di un quarantennio. Unici nemici che gli restano, Stalin (ma suvvia, se ormai perfino Rifondazione...!) e il Papa: guarda caso, quel Paolo VI che fu una delle poche persone pubbliche a uscire pulite dall’indecorosa vicenda politico-criminale del caso Moro.
Il Padre buono e incompreso pensa da ultimo alla famiglia e ai nipoti, come la terrorista buona che ha scoperto un padre, in mezzo a colleghi che proprio non fanno paura e che non somigliano affatto agli spietati individui della realtà. Che, tra l’altro, distrussero un movimento con il loro fanatismo imbecille e aprirono la strada agli abomini politici successivi. E’ un film privato e infantile, quello di Bellocchio, che purtroppo va visto in chiave antropologica, sociologica e politica come l’esempio di un’Italia oggi riconciliata dal denaro e dal conformismo dei comportamenti. Bellocchio ha unificato da perfetto ”uomo d’ordine” l’Italia 2003 politica, televisiva, giornalistica. Che immenso successo!
Maria Fida Moro: è uno schifo
ROMA «Disappunto, contrarietà e schifo» per il film di Marco Bellocchio sul caso Moro. Maria Fida Moro, la figlia dell'ex presidente della Dc ucciso dalle Br, non usa mezzi termini per scagliarsi contro la pellicola reduce dal Festival di Venezia, accusandola di rileggere la vicenda attraverso gli occhi dei terroristi. «Siamo in un paese libero premette e quindi la signora Laura Braghetti ha il diritto di esprimersi e il regista Bellocchio ha la facoltà di fare un film. Ma io ho il diritto sacrosanto di gridare il mio disappunto, la mia contrarietà e lo schifo. Vorrei silenzio sul caso Moro, visto che le parole e i ricordi sono quasi sempre a sproposito».
I commenti all’uscita delle sale dove si proietta “Buongiorno, notte”
Il pubblico si divide in due
di DIANA LETIZIA e SIMONA TAGLIAVENTI
ROMA - In un lunedì pomeriggio carico di pioggia, generazioni di romani si incontrano nei cinema della città in cui si proietta Buongiorno, notte di Marco Bellocchio. Le polemiche sulla mancata consegna del Leone al film (molti i favorevoli ma anche i contrari) si spostano dalla Laguna a Roma. Tutti quelli che escono dal cinema Tibur di San Lorenzo sembra abbiano una gran voglia di parlare, di commentare qualcosa che hanno sentito solo raccontare dai genitori o che hanno vissuto in prima persona. «E’ la dimensione umana che rende questo film meraviglioso - spiega Chiara Lorenzoni, insegnante di 56 anni – meritava un riconoscimento maggiore per la bellezza del confronto tra realtà e immaginazione». Altre parole di elogio arrivano da Francesco, trentenne (lo ha visto due volte): «Rivedendolo ho apprezzato ancora di più il montaggio e soprattutto ho colto particolari che non ero riuscito a capire». Carla, studentessa fuori sede di vent’anni, non ha dubbi: «Era ora che qualcuno ci raccontasse il caso Moro con sensibilità. La musica dei Pink Floyd è la migliore colonna sonora che il regista potesse scegliere». Nel cinema di San Lorenzo, Buongiorno, notte è in programmazione da venerdì e il direttore del Tibur sottolinea l’alto flusso di persone che sono andate a vederlo. Dall’altra parte della Capitale, al cinema Eden, i pareri sono piuttosto discordanti. «Lo sguardo del regista – commenta Anna Rita Pinto, 32 anni, sceneggiatrice – si sofferma sull’intimità dei personaggi, raccontando una vicenda che non aderisce in tutto e per tutto alla storia. Bello il finale di ampio respiro». È proprio la visione da un punto di vista diverso l’aspetto che ha suscitato nel pubblico grandi critiche o entusiastici apprezzamenti. «Sicuramente un bel film – spiega Giampiero Carocci, 84 anni – come belle sono le musiche che volutamente stonano con la tragicità della vicenda. I brigatisti però sembrano appartenere più al mondo di oggi che a quello di trent’anni fa». Delusa Luisa Collodi: «Non mi è piaciuto, non dà per niente l’idea della tragedia». Incompleto, carente e privo di approfondimenti Buongiorno, notte per Gemma D’Agostino: «Manca l’indagine su ciò che ha mosso l’azione dei brigatisti e questo è inaccettabile». Il pubblico giovane è più indulgente: «Non ha vinto a Venezia – azzarda Angelo Costabile, 25 anni, attore al fianco di Lo Cascio in La meglio gioventù – perché il regista è un italiano. Si tratta invece di un’opera d’arte, senza pretese di aderenza alla verità storica e chi lo critica non ha afferrato questo aspetto». Commossa e ancora col cuore in gola Sabina Incardina, studentessa al Dams: «Mi sono documentata prima di vedere questo film – racconta – e mi è sembrata un’idea geniale inserire tra i brigatisti una donna che è anche travagliata dai suoi problemi». Anche Mara Venier ha partecipato alla proiezione pomeridiana dell’Eden e ha commentato il film con un consiglio: «Vale la pena andarlo a vedere».
il manifesto, di domenica 7
il manifesto 7.9.03
Rabbia Bellocchio Il leone a un russo
Un biondo teenager indocile, abbandonato per 12 anni, mette alla prova il padre, che riappare. Sempre pronto a ucciderlo, però, se lui non sarà magnificamente autoritario come deve. Vince a Venezia la "voglia dell'uomo forte", proprio mentre il film sconfitto, di Marco Bellocchio, radiografa la debolezza interiore della violenza più armata. Premiando ieri sera l'opera prima russa Il ritorno, di Andrey Zvyagintsev, Venezia e la sua giuria evidenziano un film da prima serata televisiva, per grandi e piccini, non controverso, che non turbi troppo gli spot o i possidenti di tessera pay. Edizione pensata e gestita con lo stile manageriale Murdoch, mal impaginata e senza coraggio la Mostra entra in una grave crisi di identità, con troppo Marzullo e senza Nicole Kidman. Toronto è di nuovo pronta a ridimensionarla.
Quando il Leone non ruggisce
Il galà degli assenti Un doppio premio per «Il ritorno» del russo Andrej Zvjagintsev. Cerimonia, torrenziale e conferma per de Hadeln. Scoppia la polemica per Bellocchio
CRISTINA PICCINO
VENEZIA La Mostra «fuori fase», orari, programmazione «horror vacui» etc, non poteva finire che sforando tempi e umana resistenza con una delle peggiori cerimonie di premiazione degli ultimi anni. Sul palco, quella che doveva essere la strana coppia, Piero Chiambretti e il direttore Moritz de Hadeln, risucchiato comunque dal torrenziale ex-portalettere che dell'humor coinciso di quei bei tempi sembra avere perduto ogni ricordo... I premi. Tantissimi: menzioni, premi tecnici, leonicini e leoni, 17 in tutto, ognuno accompagnato da un «testimonial». De Hadeln scruta l'orologio un po' nervoso, è quasi tempo del Tg1, ma tanto che importa? Siamo su Raiset, lo dice pure Chiambretti che ci vuole il medium per vederla, i premi circolano sul Lido da almeno due giorni, tutti sanno della «delusione» di Marco Bellocchio, che a Roma per accompagnare in sala il suo Buongiorno, notte ha lasciato sul Lido a ritirare quel «contributo individuale di particolare rilievo» (lo consegna il critico Tullio Kezich, con un ironico «vuol dire tutto e niente») Luigi Lo Cascio al quale il pubblico in smoking e faville della Sala Grande - sì quello che piaceva a Marina Cicogna, anche lei sul palco a consegnare il premio speciale per la regia Controcorrente a Michael Schorr per Schultze gets the blues - regala l'applauso più caloroso. De Hadeln sorride tranquillo, e ne ha di che, il presidente Franco Bernabè lo conferma (se ce ne fosse bisogno) in diretta. Sul palco sfileranno a dispensare premi Iaia Forte, Claude Lelouch, Assumpta Serna, giurata «pazza» di Monicelli, il grande maestro della vita lo chiama affettuosa, Chiara Caselli e Nicoletta Romanoff. In sala stampa davanti allo schermo tv nessuno ride per le battute di Chiambretti, già perché dovrebbero spiegargli a lui e non solo che se si parla solo di italica tv, Marzullo e dintorni, il resto del mondo proprio non capisce... E a proposito di tormentoni: quello su Cannes martella, meglio Venezia o Cannes, come risalire la china discendente? Non solo: la traduzione è un disastro, anzi non c'è affatto, dei premiati ne mancano tantissimi. Non c'è Kitano Takeshi, Premio speciale per la regia con il magnifico Zaitochi. Il produttore ringrazia e dedica il film a Kurosawa, ieri Zaitochi, che ne è un omaggio contemporaneo, è uscito in Giappone: «è lo stesso giorno in cui Kurosawa è morto. È stato lui a indicare Takeshi come suo successore, dal cielo sarà contento». Non ci sono Sofia Coppola e la sua attrice Scarlett Johansson migliore interprete Controcorrente per Lost in Translation, uno dei film più «attraenti» della Mostra. Non c'è Asano Tadanobu, la nuova superstar giapponese, anche protagonista di Kitano, migliore attore però per Last life in the Universe film thai di Pen-ek Ratanaruang. Non c'è Najat Benssallem, attrice emergente premiata per Naja di Jacques Doillon, l'hanno «persa» in Marocco dicono. Sean Penn quando sale in sala stampa è molto applaudito, anche se le sedie sono vuote, la lunga premiazione ha fatto saltare ogni tempo. Ringrazia David Lynch che ha lanciato, Naomi Watts coprotagonista del film di Alejandro Inarritu che lo ha premiato, sigaretta accesa e aria stralunata, affonda polemico, e non risparmia la frecciata all'Academy Awards che lo aveva escluso dagli Oscar, molto per le sue battaglie contro la guerra di Bush. Dice Penn: «questo premio dimostra ancora una volta che l'Academy è lì a celebrare i buoni registi e i buoni film, ma che è soprattutto un gioco di denaro. Con festival come questo il discorso è diverso, sono un riconoscimento per i registi mostrando e sostenendo i film come questo, quelli che a me interessano di più». Katja Rieman, migliore attrice femminile è emozionata. Con Sean Penn ci farebbe subito un film insieme, per ora ringrazia Margarethe Von Trotta, la regista di Rosenstrasse, e dedica la Coppa Volpi alle donne che allora hanno lottato con tanto coraggio. Aggiunge: «trovo assurdo che oggi ancora si chieda se è diverso lavorare con un regista uomo o con una regista donna. Se ancora si fa questa domanda siamo lontani dall'emancipazione».
Il trionfo è per il film russo, Il ritorno di Andrej Zvjagintsev. Lo dedica al suo attore, Vladimir Garin, morto dopo le riprese, questo doppio Leone, l'opera prima Luigi De Laurentiis, (assegni e pellicola, con spottone in diretta alla Bnl), e il Leone d'oro, che guarda al cinema di Tarkovski col ragazzino Ivan quarant'anni dopo la sua «infanzia». «È un premio importante per il cinema russo, la coincidenza con Tarkovski è solo poetica, il premio significa il ritorno della Russia a livello mondiale». Sarà contento «l'amico» Putin, magari un po' meno per lo splendido esordio di Aleksej German jr. L'ultimo treno, menzione speciale opere prime, era nei Nuovi territori, il pubblico si guarda intorno con lieve imbarazzo, come per la menzione a La Quimera de Los Heroes di Daniel Rosenfeld (Controcorrente) che è argentino e non spagnolo come ulula Chiambretti, a prova che non va come dice de Hadeln, che un sacco di film non si arriva a vederli. Randa Chahal Sabbag saluta a pugno chiuso, ha appena preso il Gran premio della Giuria per L'aquilone, coproduzione di ammiccamenti francofoni. Dice: «ho fatto un film impegnato per mostrare al mondo la condizione dei palestinesi. Se Bush ha diviso il mondo in buoni e cattivi, io sto con i buoni e lui è il cattivo». Già però a Alila di Gitai l'hanno dimenticata e in patria, in Israele, per gli Oscar nazionali ha ottenuto un rifiuto secco. Meno sfumato il regista curdo - ma Chiambretti lo presenta come irakeno - vincitore di Controcorrente, Hiner Saleem, con Vodka Lemon. «Mentre giravo è caduto il regime di Saddam, aspettavo quel giorno sin da piccolo, adesso Kurdistan e Iraq sono all'anno zero. Spero che da questa tragedia arrivi la pace e il rispetto reciproco». Grazie Bush, insomma, e quello che accade questi giorni è nulla. Monicelli effervescente come sempre sale pure lui sul palco. Giura che non hanno mai litigato. Che poi oggi sarà polemica (Bellocchio o comunque nessun film italiano), lo sa pure lui e lancia la palla dichiarando a un agenzia «La vera fatica è stato vedere film come Il miracolo e Segreti di stato».
Rabbia Bellocchio Il leone a un russo
Un biondo teenager indocile, abbandonato per 12 anni, mette alla prova il padre, che riappare. Sempre pronto a ucciderlo, però, se lui non sarà magnificamente autoritario come deve. Vince a Venezia la "voglia dell'uomo forte", proprio mentre il film sconfitto, di Marco Bellocchio, radiografa la debolezza interiore della violenza più armata. Premiando ieri sera l'opera prima russa Il ritorno, di Andrey Zvyagintsev, Venezia e la sua giuria evidenziano un film da prima serata televisiva, per grandi e piccini, non controverso, che non turbi troppo gli spot o i possidenti di tessera pay. Edizione pensata e gestita con lo stile manageriale Murdoch, mal impaginata e senza coraggio la Mostra entra in una grave crisi di identità, con troppo Marzullo e senza Nicole Kidman. Toronto è di nuovo pronta a ridimensionarla.
Quando il Leone non ruggisce
Il galà degli assenti Un doppio premio per «Il ritorno» del russo Andrej Zvjagintsev. Cerimonia, torrenziale e conferma per de Hadeln. Scoppia la polemica per Bellocchio
CRISTINA PICCINO
VENEZIA La Mostra «fuori fase», orari, programmazione «horror vacui» etc, non poteva finire che sforando tempi e umana resistenza con una delle peggiori cerimonie di premiazione degli ultimi anni. Sul palco, quella che doveva essere la strana coppia, Piero Chiambretti e il direttore Moritz de Hadeln, risucchiato comunque dal torrenziale ex-portalettere che dell'humor coinciso di quei bei tempi sembra avere perduto ogni ricordo... I premi. Tantissimi: menzioni, premi tecnici, leonicini e leoni, 17 in tutto, ognuno accompagnato da un «testimonial». De Hadeln scruta l'orologio un po' nervoso, è quasi tempo del Tg1, ma tanto che importa? Siamo su Raiset, lo dice pure Chiambretti che ci vuole il medium per vederla, i premi circolano sul Lido da almeno due giorni, tutti sanno della «delusione» di Marco Bellocchio, che a Roma per accompagnare in sala il suo Buongiorno, notte ha lasciato sul Lido a ritirare quel «contributo individuale di particolare rilievo» (lo consegna il critico Tullio Kezich, con un ironico «vuol dire tutto e niente») Luigi Lo Cascio al quale il pubblico in smoking e faville della Sala Grande - sì quello che piaceva a Marina Cicogna, anche lei sul palco a consegnare il premio speciale per la regia Controcorrente a Michael Schorr per Schultze gets the blues - regala l'applauso più caloroso. De Hadeln sorride tranquillo, e ne ha di che, il presidente Franco Bernabè lo conferma (se ce ne fosse bisogno) in diretta. Sul palco sfileranno a dispensare premi Iaia Forte, Claude Lelouch, Assumpta Serna, giurata «pazza» di Monicelli, il grande maestro della vita lo chiama affettuosa, Chiara Caselli e Nicoletta Romanoff. In sala stampa davanti allo schermo tv nessuno ride per le battute di Chiambretti, già perché dovrebbero spiegargli a lui e non solo che se si parla solo di italica tv, Marzullo e dintorni, il resto del mondo proprio non capisce... E a proposito di tormentoni: quello su Cannes martella, meglio Venezia o Cannes, come risalire la china discendente? Non solo: la traduzione è un disastro, anzi non c'è affatto, dei premiati ne mancano tantissimi. Non c'è Kitano Takeshi, Premio speciale per la regia con il magnifico Zaitochi. Il produttore ringrazia e dedica il film a Kurosawa, ieri Zaitochi, che ne è un omaggio contemporaneo, è uscito in Giappone: «è lo stesso giorno in cui Kurosawa è morto. È stato lui a indicare Takeshi come suo successore, dal cielo sarà contento». Non ci sono Sofia Coppola e la sua attrice Scarlett Johansson migliore interprete Controcorrente per Lost in Translation, uno dei film più «attraenti» della Mostra. Non c'è Asano Tadanobu, la nuova superstar giapponese, anche protagonista di Kitano, migliore attore però per Last life in the Universe film thai di Pen-ek Ratanaruang. Non c'è Najat Benssallem, attrice emergente premiata per Naja di Jacques Doillon, l'hanno «persa» in Marocco dicono. Sean Penn quando sale in sala stampa è molto applaudito, anche se le sedie sono vuote, la lunga premiazione ha fatto saltare ogni tempo. Ringrazia David Lynch che ha lanciato, Naomi Watts coprotagonista del film di Alejandro Inarritu che lo ha premiato, sigaretta accesa e aria stralunata, affonda polemico, e non risparmia la frecciata all'Academy Awards che lo aveva escluso dagli Oscar, molto per le sue battaglie contro la guerra di Bush. Dice Penn: «questo premio dimostra ancora una volta che l'Academy è lì a celebrare i buoni registi e i buoni film, ma che è soprattutto un gioco di denaro. Con festival come questo il discorso è diverso, sono un riconoscimento per i registi mostrando e sostenendo i film come questo, quelli che a me interessano di più». Katja Rieman, migliore attrice femminile è emozionata. Con Sean Penn ci farebbe subito un film insieme, per ora ringrazia Margarethe Von Trotta, la regista di Rosenstrasse, e dedica la Coppa Volpi alle donne che allora hanno lottato con tanto coraggio. Aggiunge: «trovo assurdo che oggi ancora si chieda se è diverso lavorare con un regista uomo o con una regista donna. Se ancora si fa questa domanda siamo lontani dall'emancipazione».
Il trionfo è per il film russo, Il ritorno di Andrej Zvjagintsev. Lo dedica al suo attore, Vladimir Garin, morto dopo le riprese, questo doppio Leone, l'opera prima Luigi De Laurentiis, (assegni e pellicola, con spottone in diretta alla Bnl), e il Leone d'oro, che guarda al cinema di Tarkovski col ragazzino Ivan quarant'anni dopo la sua «infanzia». «È un premio importante per il cinema russo, la coincidenza con Tarkovski è solo poetica, il premio significa il ritorno della Russia a livello mondiale». Sarà contento «l'amico» Putin, magari un po' meno per lo splendido esordio di Aleksej German jr. L'ultimo treno, menzione speciale opere prime, era nei Nuovi territori, il pubblico si guarda intorno con lieve imbarazzo, come per la menzione a La Quimera de Los Heroes di Daniel Rosenfeld (Controcorrente) che è argentino e non spagnolo come ulula Chiambretti, a prova che non va come dice de Hadeln, che un sacco di film non si arriva a vederli. Randa Chahal Sabbag saluta a pugno chiuso, ha appena preso il Gran premio della Giuria per L'aquilone, coproduzione di ammiccamenti francofoni. Dice: «ho fatto un film impegnato per mostrare al mondo la condizione dei palestinesi. Se Bush ha diviso il mondo in buoni e cattivi, io sto con i buoni e lui è il cattivo». Già però a Alila di Gitai l'hanno dimenticata e in patria, in Israele, per gli Oscar nazionali ha ottenuto un rifiuto secco. Meno sfumato il regista curdo - ma Chiambretti lo presenta come irakeno - vincitore di Controcorrente, Hiner Saleem, con Vodka Lemon. «Mentre giravo è caduto il regime di Saddam, aspettavo quel giorno sin da piccolo, adesso Kurdistan e Iraq sono all'anno zero. Spero che da questa tragedia arrivi la pace e il rispetto reciproco». Grazie Bush, insomma, e quello che accade questi giorni è nulla. Monicelli effervescente come sempre sale pure lui sul palco. Giura che non hanno mai litigato. Che poi oggi sarà polemica (Bellocchio o comunque nessun film italiano), lo sa pure lui e lancia la palla dichiarando a un agenzia «La vera fatica è stato vedere film come Il miracolo e Segreti di stato».
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