Corriere della Sera 16.6.05
Lavoro e figli, lezioni per la mamma perfetta
Isabel Kallman ha fatto un bambino, lasciato Wall Street e ideato un canale tv
Su Alpha Mom programmi per essere genitori super informati, 24 ore al giorno
dal nostro corrispondente Alessandra Farkas
NEW YORK - E’ stata soprannominata «la Martha Stewart delle mamme in carriera», e secondo il New York Magazine , che le dedica la copertina del suo ultimo numero, è la punta di diamante di una tendenza ormai dilagante negli Stati Uniti. Lei, Isabel Kallman, 33 anni, si giustifica dicendo d’essere solo «la persona giusta nel posto e al momento giusto». Fatto sta che la fondatrice di Alpha Mom TV è diventata in pochissimo tempo il prototipo di quello che lei stessa ha ribattezzato «la mamma alfa», ovvero la nuova generazione di donne che riescono ad avere una carriera di successo senza rinunciare ad essere madri. Perfette e perfezioniste quanto le loro mamme e nonne, casalinghe.
«Ho ideato questo canale con l’idea di avere un’audience di mamme che vogliono essere sempre informate ed un passo in avanti sugli ultimi trend, invenzioni e ricerche sull’infanzia», spiega Kallman. Che ha abbandonato il suo strapagato lavoro come vice presidente di Salomon Smith Barney, a Wall Street, dopo aver partorito Ryland, due anni fa. Suo marito Craig è co-presidente della casa discografica Atlantic Records. Entrambi si sono laureati nelle migliori università Ivy League ed hanno sempre vissuto a New York. «Fu amore a prima vista - rievoca Craig, - lei frequentava i corsi serali per la laurea in business alla Columbia University e di giorno, per mantenersi, faceva la ballerina di video. Ho sempre ammirato questa sua determinazione».
Quando entrambi hanno capito che nessuno dei due avrebbe potuto mai rinunciare alla carriera, Isabel ha avuto il classico colpo di genio: unire l’utile al dilettevole, inventandosi un business che le avrebbe permesso di realizzarsi professionalmente, dedicandosi a tempo pieno al suo adorato Ryland. Nasce così Alpha Mom tv, che per 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, si propone di aiutare le donne ad essere mamme perfette e, insieme, ineccepibili businesswoman. «Se volete il meglio per i vostri figli, - recita il loro spot, - troverete qui tutte le informazioni su qualsiasi argomento. Dalle ultime ricerche scientifiche sull’infanzia agli asili nido più in. Dalla nuova moda bimbi, ai modelli di carrozzine più sicuri».
L’accoglienza, fino ad ora, è stata entusiasta. «La nuova generazione di mamme non è molto diversa dalle precedenti, - teorizza il New York - ma è più forte, più efficiente e più veloce. Il merito della Kallman è aver dimostrato che con le giuste risorse, un’etica professionale e un minimo di programmazione, si può essere donne perfette e realizzate. Senza rinunciare ad avere bambini contenti».
Come la loro guru, insomma. Alta, longilinea, lunghi capelli scuri e nasino all’insù, Isabel Kallman è il prototipo della mamma alfa. Nata e cresciuta a Brooklyn, Isabel è la classica «self made woman». «Sono felice solo quando ho le redini della situazione. Voglio essere la migliore e desidero lo stesso per mio figlio».
Dopo la nascita di Ryland, Isabel si è tuffata nella lettura di libri e riviste sulla maternità e l’infanzia, consultando i massimi esperti nel campo dello sviluppo. «Più imparavo e meno volevo stare chiusa in casa», racconta, «desideravo condividere con altre mamme ciò che avevo imparato. Amiche e conoscenti hanno cominciato a venire a casa mia per chiedermi consigli».
Il resto è storia. Secondo gli addetti ai lavori la sua tv colma una lacuna in un’America sempre più inondata da una miriade di riviste, libri e siti Internet tutti rivolti alla maternità. E se non mancano i critici («è una donna d’affari, che ne sa di pediatria e psicologia infantile?», «il suo approccio è troppo razionale e prammatico e per nulla istintivo e materno») nessuno sembra poterla fermare.
Di recente la Kallman ha firmato un contratto con la Comcast, il canale via cavo che porta la sua tv in 8.5 milioni di case ed è in corso di trattative con la Time Warner Cable, il gigante del Nord East con oltre 15 milioni di utenti.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 16 giugno 2005
il tempo e la musica
Il Mattino 16.6.05
Un viaggio sul tempo tra astronomia e musica promosso dalla Seconda Università di Napoli:
domani alle 17,30, nell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, terza tappa del ciclo con l’incontro tra il maestro Roberto De Simone e l’astronomo Massimo Capaccioli.
Massimo Capaccioli
Ci sono serie difficoltà a definire la realtà e le caratteristiche dello spazio e del tempo, sia in assoluto che relativamente al nostro modo di intenderli e di percepirli come contesto di tutte le nostre esperienze. Emblematica è in questo senso la dichiarazione di Agostino d’Ippona sul tempo, che dei due è quello che qui c’interessa. In sintesi, «so cos’è, ma non lo so dire». Ciò testimonia la fatica incontrata dall’uomo nel suo sforzo di oggettivizzare il tempo in una teoria fisica. Più semplice è stato invece misurarlo e numerarlo, assegnando al presente il ruolo di coordinata mobile lungo un asse che, come l’esperienza e la salvaguardia del principio di causa ed effetto paiono in prima istanza suggerire, vada dal passato al futuro. Il miglior soccorso alla misura del tempo, e il più antico, è venuto dai corpi celesti: dalla sfera delle «stelle fisse», che riflette il moto di rotazione diurna della Terra, ma anche dal Sole, dalla Luna e dalle «stelle erranti», i pianeti. Si tratta d’un aiuto coordinato con l’insieme del complesso programma col quale la natura ha realizzato noi e il nostro habitat. È nella capacità di relazionarsi al cosmo grazie all’osservazione, e nella apparente infinità e regolarità dei cicli celesti, che l’umanità ha trovato gli strumenti per materializzare i modelli mentali di eternità e di divinità. Il cielo come cronometro, che bene incarnava per Platone l’idea del tempo, mentre al più concreto Aristotele dava il modo per affrontare, oltre alle alte questioni della conoscenza, quelle altrettanto importanti della fisica. Il cielo come orologio e calendario, che per quadrante ha le stagioni o le fasi lunari dove scorre il ciclo d’un tempo lineare, e che ha secondato, influenzandola, la storia dell’uomo, segnando il sorgere ed il tramontare degli imperi, delle ideologie e delle fedi, consentendo di raccontare glorie e rovine, e regalando ai potenti l’illusione di poterlo governare. Il primo vero tentativo di fare del tempo un ente fisico si deve al genio di Newton che, sulla scia di Galilei, costruisce la sua meccanica postulando la realtà di un tempo «assoluto, vero e matematico». Per Newton spazio e tempo sono il palcoscenico di rappresentazioni, gli eventi, che se ne servono, o lo subiscono, senza poterlo modificare. Nel 1916, Einstein assestò un secondo, micidiale colpo alla fisica di classica, reinterpretando la gravitazione nel contesto della nuova relatività. Le conseguenze di questa teoria generale furono straordinarie soprattutto per comprendere le vicende di chi della gravità fa l’uso maggiore, l’universo. È singolare che l’autore di questa rivoluzione, nell’applicare la sua teoria all’interpretazione del cosmo, abbia scelto di non attribuire un tempo all’universo, immaginandone un modello stazionario, pretendendo pel figlio quell’eternità ch’è propria del padre. Per fare ciò si dispose a pagare un prezzo alto: non solo l’invenzione di una forza repulsiva proporzionale alla distanza, capace di equilibrare ovunque l’attrazione gravitazionale ma soprattutto l’accettazione di un modello instabile soggetto ad una continua «manutenzione straordinaria». Sbagliava, com’egli stesso ammise quando Hubble gli dimostrò che l’universo era vivo e vitale. È comunque sempre grazie ad Einstein che in seguito l’espansione cosmica scoperta da Hubble poté essere modellata. Un percorso nel tempo di cui possiamo oggi tracciare tutte le tappe, galileianamente «riprovando» le diverse previsioni per via dello straordinario progresso della tecnologia delle osservazioni astronomiche da Terra e dallo spazio: tutte le tappe salvo quella iniziale, la più critica. Essa riguarda un intervallo di tempo minuscolo, un’insignificante frazione di secondo subito dopo il Grande Scoppio, detta tempo di Planck, nel quale la nozione di tempo, oltre che di spazio e le leggi fisiche in generale, deve essere riformulata tenendo conto delle acquisizioni di un’altra grande rivoluzione della fisica del ’900, la Meccanica Quantistica.
Un viaggio sul tempo tra astronomia e musica promosso dalla Seconda Università di Napoli:
domani alle 17,30, nell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, terza tappa del ciclo con l’incontro tra il maestro Roberto De Simone e l’astronomo Massimo Capaccioli.
Massimo Capaccioli
Ci sono serie difficoltà a definire la realtà e le caratteristiche dello spazio e del tempo, sia in assoluto che relativamente al nostro modo di intenderli e di percepirli come contesto di tutte le nostre esperienze. Emblematica è in questo senso la dichiarazione di Agostino d’Ippona sul tempo, che dei due è quello che qui c’interessa. In sintesi, «so cos’è, ma non lo so dire». Ciò testimonia la fatica incontrata dall’uomo nel suo sforzo di oggettivizzare il tempo in una teoria fisica. Più semplice è stato invece misurarlo e numerarlo, assegnando al presente il ruolo di coordinata mobile lungo un asse che, come l’esperienza e la salvaguardia del principio di causa ed effetto paiono in prima istanza suggerire, vada dal passato al futuro. Il miglior soccorso alla misura del tempo, e il più antico, è venuto dai corpi celesti: dalla sfera delle «stelle fisse», che riflette il moto di rotazione diurna della Terra, ma anche dal Sole, dalla Luna e dalle «stelle erranti», i pianeti. Si tratta d’un aiuto coordinato con l’insieme del complesso programma col quale la natura ha realizzato noi e il nostro habitat. È nella capacità di relazionarsi al cosmo grazie all’osservazione, e nella apparente infinità e regolarità dei cicli celesti, che l’umanità ha trovato gli strumenti per materializzare i modelli mentali di eternità e di divinità. Il cielo come cronometro, che bene incarnava per Platone l’idea del tempo, mentre al più concreto Aristotele dava il modo per affrontare, oltre alle alte questioni della conoscenza, quelle altrettanto importanti della fisica. Il cielo come orologio e calendario, che per quadrante ha le stagioni o le fasi lunari dove scorre il ciclo d’un tempo lineare, e che ha secondato, influenzandola, la storia dell’uomo, segnando il sorgere ed il tramontare degli imperi, delle ideologie e delle fedi, consentendo di raccontare glorie e rovine, e regalando ai potenti l’illusione di poterlo governare. Il primo vero tentativo di fare del tempo un ente fisico si deve al genio di Newton che, sulla scia di Galilei, costruisce la sua meccanica postulando la realtà di un tempo «assoluto, vero e matematico». Per Newton spazio e tempo sono il palcoscenico di rappresentazioni, gli eventi, che se ne servono, o lo subiscono, senza poterlo modificare. Nel 1916, Einstein assestò un secondo, micidiale colpo alla fisica di classica, reinterpretando la gravitazione nel contesto della nuova relatività. Le conseguenze di questa teoria generale furono straordinarie soprattutto per comprendere le vicende di chi della gravità fa l’uso maggiore, l’universo. È singolare che l’autore di questa rivoluzione, nell’applicare la sua teoria all’interpretazione del cosmo, abbia scelto di non attribuire un tempo all’universo, immaginandone un modello stazionario, pretendendo pel figlio quell’eternità ch’è propria del padre. Per fare ciò si dispose a pagare un prezzo alto: non solo l’invenzione di una forza repulsiva proporzionale alla distanza, capace di equilibrare ovunque l’attrazione gravitazionale ma soprattutto l’accettazione di un modello instabile soggetto ad una continua «manutenzione straordinaria». Sbagliava, com’egli stesso ammise quando Hubble gli dimostrò che l’universo era vivo e vitale. È comunque sempre grazie ad Einstein che in seguito l’espansione cosmica scoperta da Hubble poté essere modellata. Un percorso nel tempo di cui possiamo oggi tracciare tutte le tappe, galileianamente «riprovando» le diverse previsioni per via dello straordinario progresso della tecnologia delle osservazioni astronomiche da Terra e dallo spazio: tutte le tappe salvo quella iniziale, la più critica. Essa riguarda un intervallo di tempo minuscolo, un’insignificante frazione di secondo subito dopo il Grande Scoppio, detta tempo di Planck, nel quale la nozione di tempo, oltre che di spazio e le leggi fisiche in generale, deve essere riformulata tenendo conto delle acquisizioni di un’altra grande rivoluzione della fisica del ’900, la Meccanica Quantistica.
D'Alema - per una volta - ha detto "qualcosa di sinistra"
Il Messaggero Giovedì 16 Giugno 2005
LA POLEMICA
Fecondazione, D’Alema attacca Ruini «Ora ci dirà lui quale tipo di ricerca fare»
ROMA - «Per capire in quali settori della ricerca e della sperimentazione saremo in grado di essere un paese all'avanguardia, forse dovremmo chiedere qualche indicazione al cardinale Ruini». Un duro attacco quello del leader dei Ds Massimo D’Alema al presidente della Cei. Insomma gli interventi di Ruini nel corso della campagna per l'abrogazione della legge 40 sono stati per D'Alema un boccone duro da mandare giù. Sono stati, infatti, una sorta di interferenza che il presidente della Quercia ha stigmatizzato.
(...)
LA POLEMICA
Fecondazione, D’Alema attacca Ruini «Ora ci dirà lui quale tipo di ricerca fare»
ROMA - «Per capire in quali settori della ricerca e della sperimentazione saremo in grado di essere un paese all'avanguardia, forse dovremmo chiedere qualche indicazione al cardinale Ruini». Un duro attacco quello del leader dei Ds Massimo D’Alema al presidente della Cei. Insomma gli interventi di Ruini nel corso della campagna per l'abrogazione della legge 40 sono stati per D'Alema un boccone duro da mandare giù. Sono stati, infatti, una sorta di interferenza che il presidente della Quercia ha stigmatizzato.
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«il primo dovere di un medico è chiedere perdono»
da "Il posto delle fragole" di I.Bergman
Yahoo! Salute giovedì 16 giugno 2005
Sanità
Epidemia di suicidi tra i medici, che fare?
Il Pensiero Scientifico Editore
Tra i medici la percentuale di suicidi è più alta che nel resto della popolazione. Ma la maggior parte delle volte del tema non si discute apertamente, nessuno analizza le cause del fenomeno, e nessun provvedimento viene preso per prevenirlo. Se ne parla, invece, e coraggiosamente, in un editoriale del New England Journal of Medicine.
Eva Schernhammer, professoressa di Medicina all’Harvard Medical School e al Brigham and Women’s Hospital di Boston, racconta: “Quando ero una praticante in Oncologia a Vienna una collega che aveva appena effettuato un giro di visite in corsia assieme a me andò a casa e si strangolò da sola. Solo in seguito venimmo a sapere che soffriva di depressione. Durante lo stesso anno, ben 3 medici che frequentavano il mio stesso ambiente si tolsero la vita. Questa catena di eventi terribili è stato il mio primo contatto con il suicidio dei medici, e mi ha lasciato dentro un importante messaggio: dobbiamo prenderci cura non solo dei nostri pazienti, ma anche di noi stessi”.
I dati provenienti da una serie di vasti studi sull’argomento indicano che le donne medico, in particolare, hanno una spiccata tendenza a togliersi la vita. I tassi di suicidio tra i medici maschi sono il 40 per cento più elevati che nella popolazione maschile generale, mentre per le donne medico la percentuale i tassi sono più elevati del 130 per cento rispetto alle donne in generale. Tra le donne medico sono inoltre più diffusi del normale alcolismo e depressione e anche l’abuso di sostanze chimiche, soprattutto fra le anestesiste. Senza trascurare il peso dello stress di eventuali episodi di discriminazione sessuale o molestie sul posto di lavoro (denunciati dal 37 per cento delle donne medico).
Una situazione preoccupante, che dovrebbe essere affrontata in modo di aiutare i medici a portare a compimento la loro missione: salvare vite umane. Comprese le loro.
Sanità
Epidemia di suicidi tra i medici, che fare?
Il Pensiero Scientifico Editore
Tra i medici la percentuale di suicidi è più alta che nel resto della popolazione. Ma la maggior parte delle volte del tema non si discute apertamente, nessuno analizza le cause del fenomeno, e nessun provvedimento viene preso per prevenirlo. Se ne parla, invece, e coraggiosamente, in un editoriale del New England Journal of Medicine.
Eva Schernhammer, professoressa di Medicina all’Harvard Medical School e al Brigham and Women’s Hospital di Boston, racconta: “Quando ero una praticante in Oncologia a Vienna una collega che aveva appena effettuato un giro di visite in corsia assieme a me andò a casa e si strangolò da sola. Solo in seguito venimmo a sapere che soffriva di depressione. Durante lo stesso anno, ben 3 medici che frequentavano il mio stesso ambiente si tolsero la vita. Questa catena di eventi terribili è stato il mio primo contatto con il suicidio dei medici, e mi ha lasciato dentro un importante messaggio: dobbiamo prenderci cura non solo dei nostri pazienti, ma anche di noi stessi”.
I dati provenienti da una serie di vasti studi sull’argomento indicano che le donne medico, in particolare, hanno una spiccata tendenza a togliersi la vita. I tassi di suicidio tra i medici maschi sono il 40 per cento più elevati che nella popolazione maschile generale, mentre per le donne medico la percentuale i tassi sono più elevati del 130 per cento rispetto alle donne in generale. Tra le donne medico sono inoltre più diffusi del normale alcolismo e depressione e anche l’abuso di sostanze chimiche, soprattutto fra le anestesiste. Senza trascurare il peso dello stress di eventuali episodi di discriminazione sessuale o molestie sul posto di lavoro (denunciati dal 37 per cento delle donne medico).
Una situazione preoccupante, che dovrebbe essere affrontata in modo di aiutare i medici a portare a compimento la loro missione: salvare vite umane. Comprese le loro.
Fonte: Schernhammer E. Taking Their Own Lives — The High Rate of Physician Suicide. New Eng J Med 2005; 352(24) : 2473-76.
Lea Melandri
una segnalazione di Paolo Izzo
Liberazione 16.6.05
Non basta più l'invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche
Referendum, perché la cultura laica è stata sconfitta
Lea Melandri
Per quanto il dibattito sulla Legge 40 si sia venuto via via allargando negli ultimi mesi a problematiche complesse, riguardanti la scienza, la morale, la filosofia, il rapporto tra i sessi, la crisi della famiglia, le nuove genitorialità, a prevalere, in vicinanza del referendum appena concluso, è stata ancora una volta la contrapposizione tra laicità e religione, tra clericalismo e anticlericalismo. Di conseguenza, quella che poteva essere materia di ripensamento di un'idea ormai del tutto irrealistica di politica -separata dalle vite, dai corpi, dai legami sociali su cui tuttavia è chiamata sempre più spesso a legiferare-, è tornata a configurarsi come il luogo dell' "opinabilità", della "coscienza personale", e quindi, in qualche modo, di quel "relativismo" che le gerarchie ecclesiastiche vanno stigmatizzando come segno di decadimento morale e civile.
Sul peso che ha avuto la Chiesa nel far sì che la legge sulla procreazione assistita trasformasse in reato quelle forme di unioni sessuali e di genitorialità da sempre considerate "innaturali" e peccaminose, nel tradurre in termini di diritto la subordinazione della madre al figlio, ora identificato con l'embrione-persona, è stato scritto molto. Lo stesso vale per un'ingerenza politica mai così aggressiva e diretta come l'invito all'astensione dal voto.
Nulla invece viene detto su quell'invasività ben più estesa, profonda e duratura, che passa attraverso la formazione di bambini e adolescenti negli oratori, che restano tutt'ora, soprattutto nei paesi, i primi e unici luoghi di socialità e ritrovo. L'automatismo con cui generalmente si identificano morale e valori con morale e valori cattolici, viene sicuramente da questa lunga inconsapevole abitudine a collocare sotto l'egida della religione vicende della vita umana come l'amore, la sofferenza, la morte, che la politica ha creduto di poter confinare nella sfera del privato e della storia dei singoli. L'indifferenza con cui la cultura laica, fiduciosa nella forza della razionalità, del progresso, delle passioni civili, ha guardato all'infanzia e alla memoria che essa consegna all'adulto, è una delle ragioni che sempre la spingono a considerare emozioni, sentimenti, paure, pregiudizi, come un fattore molesto, un ostacolo, un arcaismo, una riserva preziosa solo per torbidi manipolatori delle coscienze.
Il referendum sulla Legge 40 ha avuto quanto meno il merito di portare a conoscenza di un vasto pubblico problematiche che stanno nel cuore dei cambiamenti più significativi della nostra civiltà, mutazioni biologiche e culturali che fanno apparire, come già aveva scritto Gunter Anders, l'uomo "antiquato". La fecondazione in vitro, cioè la separazione della sessualità dal concepimento, l'isolamento di quel primo anello del processo generativo che è l'embrione, la riduzione delle figure di madri e padri alle loro cellule germinali, ovuli e spermatozoi, il passaggio del controllo sul corpo femminile dal possesso intimo, tenero e violento, che è stato storicamente dell'amore, delle relazioni famigliari, nelle mani della scienza e della legge, come poteva non sollevare interrogativi, dubbi, fantasie, immagini persecutive e attese salvifiche? Chi poteva pensare che non avrebbe riattivato e acceso di nuovo vigore l'immaginario della nascita, la preistoria inquietante dell'originaria indistinzione dal corpo materno, la contesa che intorno a quel segreto della vita ha contrapposto uomini e donne, l'ossessione con cui la scienza, la religione e la politica, accomunate dallo stesso impianto patriarcale, hanno perseguito una presa in consegna totale della generazione dell'umano, svincolandolo dall'imprevedibile potere che ha la donna di decidere sulla vita e sulla morte del figlio?
Il riduzionismo biologico è diventato, non a caso, l'asse portante delle posizioni della Chiesa e della sperimentazione genetica, con la differenza che, se la scomposizione del corpo, la messa a nudo della materia biologica di cui è fatto, può essere sempre nobilitata dalla chiesa in quanto volontà e "natura" divina, alla scienza resta invece il difficile compito di smentire ogni volta la sua complicità col mercato e con l'uso che potrebbe farne il potere politico. La riesumazione di mostri, che purtroppo non abitano solo l'inconscio e la letteratura, ma la nostra storia passata e presente, per quanto accompagnata in alcuni casi clamorosi da visionarietà, odio, pregiudizi razziali, meritava un'analisi spassionata, la capacità di riconoscere che a volte l'immaginario è più forte di ogni riscontro reale, che per tenere a bada le paure irrazionali occorre, come ha scritto Virginia Woolf a proposito della malattia, un «intelletto radicato nelle viscere della terra», una «robusta filosofia».
La rinascita di spiriti religiosi particolarmente aggressivi verso una società che sempre più si allontana dai dettami di una morale sessuofobica e misogina, si era già manifestata vistosamente nella liturgia di massa che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II e l'elezione del nuovo Papa. Ma in quell'occasione gran parte della cultura laica, sinistra compresa, forse intimorita o affascinata dall'ampiezza di quel consenso, non è sembrata altrettanto ansiosa di rimarcare i suoi confini, di interrogarsi sulla ripresa del fanatismo e dei fenomeni di massa.
La complessità, la problematizzazione, il racconto e la riflessione sull'esperienza - là dove si mescolano fantasie e ragionamenti - sono da sempre ospiti indesiderati, per non dire nemici, della politica. Ma la semplificazione, la logica contrappositiva, non sono evidentemente più in grado di rispondere in modo convincente ai dubbi di una modernità che assiste giorno dopo giorno al veloce smantellamento dei confini noti, tra spazio pubblico e privato, reale e virtuale, valori e interessi, corpi e macchine, natura e artificio, tempo ed eternità. E' più rassicurante credere di essere stati vinti da una Chiesa invasiva, sostenuta da alte cariche dello Stato obbedienti e genuflesse, piuttosto che ripercorrere la propria storia, riconoscerne limiti, mancanze, sordità, e provare nuove strade attraverso un'ampia, coraggiosa riflessione collettiva, che ridia parola a quel "popolo della sinistra" tanto invocato ma tenuto a debita distanza quando tenta di esprimere ciò che effettivamente gli passa nel cuore e nella testa. Se c'è una speranza di rimontare la pesante sconfitta, non è certo nella rancorosa invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche, e neppure nella difesa di una laicità astratta che invoca libertà e diritti -della scienza, della maternità - che meriterebbero quanto meno di essere discussi.
Per decantare l'influenza e l'invasività della Chiesa occorrerebbe innanzitutto toglierle la forza dei suoi argomenti, visionaria, paranoica o reale che sia, non regalarle, come è accaduto finora, un patrimonio di esperienze, passioni, pensieri, comportamenti che riguardano la quotidianità e le relazioni più significative di ogni essere umano. Ma per fare questo è necessario prioritariamente spostare lo sguardo su di sé, chiedersi per quale inclinazione, arrogante o masochista, la sinistra ha disperso, cancellato o dissipato, saperi, pratiche politiche innovative che l'hanno attraversata, una cultura e una politica della vita, quale è stata quella del femminismo, che è ora più attuale che mai, forse l'unico argine perché l'invadenza dello Stato e della Chiesa non diventino potere sugli individui, sui loro corpi e le loro menti. Ma quali voci di donne -biologhe, mediche, giuriste, filosofe, ecc. - sono state ascoltate per questo referendum? Quanti libri, documenti, prodotti nell'arco di trent'anni sui temi della sessualità, della maternità, della salute, sono stati letti e segnalati per evitare che si riparta ogni volta dal deserto?
La diffidenza, la superficialità, il pesante silenzio dei media e della classe politica sulla riflessione prodotta da più generazioni di femministe, non hanno solo contribuito a che restassero clandestini saperi oggi indispensabili alla comprensione del mondo, ma ha consolidato stereotipi informativi buoni per tutti gli eventi: elogio a parole della portata rivoluzionaria del movimento delle donne, attribuzione di responsabilità solo all'occorrenza, e per nascondere la propria ignoranza della cultura femminista, uso scandalistico della parola di singole donne per fomentare ostilità là dove ci sono, come in tutti i movimenti, differenze e conflitti di opinione. Se è vero, come si legge sul quotidiano La Repubblica (14.6.2005), che non c'è stata quell'aggregazione collettiva che ha contraddistinto i referendum sul divorzio e l'aborto, non è vero che non ci siano stati pensiero, scritture, lavoro di gruppi e associazioni da più di dieci anni a questa parte sulla fecondazione assistita e sulla scienza, così come non è di oggi la problematizzazione di una materia che non può non creare dubbi e inquietudini. Per saperlo basta ormai qualsiasi motore di ricerca su Internet. Per volerlo sapere ci vuole invece interesse, e, nel caso dei media, senso di responsabilità professionale. Ma l'immagine folcloristica delle "streghe" è più facile e più appagante, figura di quell'immaginario che deve restare fuori dalla storia e dalla politica.
Liberazione 16.6.05
Non basta più l'invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche
Referendum, perché la cultura laica è stata sconfitta
Lea Melandri
Per quanto il dibattito sulla Legge 40 si sia venuto via via allargando negli ultimi mesi a problematiche complesse, riguardanti la scienza, la morale, la filosofia, il rapporto tra i sessi, la crisi della famiglia, le nuove genitorialità, a prevalere, in vicinanza del referendum appena concluso, è stata ancora una volta la contrapposizione tra laicità e religione, tra clericalismo e anticlericalismo. Di conseguenza, quella che poteva essere materia di ripensamento di un'idea ormai del tutto irrealistica di politica -separata dalle vite, dai corpi, dai legami sociali su cui tuttavia è chiamata sempre più spesso a legiferare-, è tornata a configurarsi come il luogo dell' "opinabilità", della "coscienza personale", e quindi, in qualche modo, di quel "relativismo" che le gerarchie ecclesiastiche vanno stigmatizzando come segno di decadimento morale e civile.
Sul peso che ha avuto la Chiesa nel far sì che la legge sulla procreazione assistita trasformasse in reato quelle forme di unioni sessuali e di genitorialità da sempre considerate "innaturali" e peccaminose, nel tradurre in termini di diritto la subordinazione della madre al figlio, ora identificato con l'embrione-persona, è stato scritto molto. Lo stesso vale per un'ingerenza politica mai così aggressiva e diretta come l'invito all'astensione dal voto.
Nulla invece viene detto su quell'invasività ben più estesa, profonda e duratura, che passa attraverso la formazione di bambini e adolescenti negli oratori, che restano tutt'ora, soprattutto nei paesi, i primi e unici luoghi di socialità e ritrovo. L'automatismo con cui generalmente si identificano morale e valori con morale e valori cattolici, viene sicuramente da questa lunga inconsapevole abitudine a collocare sotto l'egida della religione vicende della vita umana come l'amore, la sofferenza, la morte, che la politica ha creduto di poter confinare nella sfera del privato e della storia dei singoli. L'indifferenza con cui la cultura laica, fiduciosa nella forza della razionalità, del progresso, delle passioni civili, ha guardato all'infanzia e alla memoria che essa consegna all'adulto, è una delle ragioni che sempre la spingono a considerare emozioni, sentimenti, paure, pregiudizi, come un fattore molesto, un ostacolo, un arcaismo, una riserva preziosa solo per torbidi manipolatori delle coscienze.
Il referendum sulla Legge 40 ha avuto quanto meno il merito di portare a conoscenza di un vasto pubblico problematiche che stanno nel cuore dei cambiamenti più significativi della nostra civiltà, mutazioni biologiche e culturali che fanno apparire, come già aveva scritto Gunter Anders, l'uomo "antiquato". La fecondazione in vitro, cioè la separazione della sessualità dal concepimento, l'isolamento di quel primo anello del processo generativo che è l'embrione, la riduzione delle figure di madri e padri alle loro cellule germinali, ovuli e spermatozoi, il passaggio del controllo sul corpo femminile dal possesso intimo, tenero e violento, che è stato storicamente dell'amore, delle relazioni famigliari, nelle mani della scienza e della legge, come poteva non sollevare interrogativi, dubbi, fantasie, immagini persecutive e attese salvifiche? Chi poteva pensare che non avrebbe riattivato e acceso di nuovo vigore l'immaginario della nascita, la preistoria inquietante dell'originaria indistinzione dal corpo materno, la contesa che intorno a quel segreto della vita ha contrapposto uomini e donne, l'ossessione con cui la scienza, la religione e la politica, accomunate dallo stesso impianto patriarcale, hanno perseguito una presa in consegna totale della generazione dell'umano, svincolandolo dall'imprevedibile potere che ha la donna di decidere sulla vita e sulla morte del figlio?
Il riduzionismo biologico è diventato, non a caso, l'asse portante delle posizioni della Chiesa e della sperimentazione genetica, con la differenza che, se la scomposizione del corpo, la messa a nudo della materia biologica di cui è fatto, può essere sempre nobilitata dalla chiesa in quanto volontà e "natura" divina, alla scienza resta invece il difficile compito di smentire ogni volta la sua complicità col mercato e con l'uso che potrebbe farne il potere politico. La riesumazione di mostri, che purtroppo non abitano solo l'inconscio e la letteratura, ma la nostra storia passata e presente, per quanto accompagnata in alcuni casi clamorosi da visionarietà, odio, pregiudizi razziali, meritava un'analisi spassionata, la capacità di riconoscere che a volte l'immaginario è più forte di ogni riscontro reale, che per tenere a bada le paure irrazionali occorre, come ha scritto Virginia Woolf a proposito della malattia, un «intelletto radicato nelle viscere della terra», una «robusta filosofia».
La rinascita di spiriti religiosi particolarmente aggressivi verso una società che sempre più si allontana dai dettami di una morale sessuofobica e misogina, si era già manifestata vistosamente nella liturgia di massa che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II e l'elezione del nuovo Papa. Ma in quell'occasione gran parte della cultura laica, sinistra compresa, forse intimorita o affascinata dall'ampiezza di quel consenso, non è sembrata altrettanto ansiosa di rimarcare i suoi confini, di interrogarsi sulla ripresa del fanatismo e dei fenomeni di massa.
La complessità, la problematizzazione, il racconto e la riflessione sull'esperienza - là dove si mescolano fantasie e ragionamenti - sono da sempre ospiti indesiderati, per non dire nemici, della politica. Ma la semplificazione, la logica contrappositiva, non sono evidentemente più in grado di rispondere in modo convincente ai dubbi di una modernità che assiste giorno dopo giorno al veloce smantellamento dei confini noti, tra spazio pubblico e privato, reale e virtuale, valori e interessi, corpi e macchine, natura e artificio, tempo ed eternità. E' più rassicurante credere di essere stati vinti da una Chiesa invasiva, sostenuta da alte cariche dello Stato obbedienti e genuflesse, piuttosto che ripercorrere la propria storia, riconoscerne limiti, mancanze, sordità, e provare nuove strade attraverso un'ampia, coraggiosa riflessione collettiva, che ridia parola a quel "popolo della sinistra" tanto invocato ma tenuto a debita distanza quando tenta di esprimere ciò che effettivamente gli passa nel cuore e nella testa. Se c'è una speranza di rimontare la pesante sconfitta, non è certo nella rancorosa invettiva contro le gerarchie ecclesiastiche, e neppure nella difesa di una laicità astratta che invoca libertà e diritti -della scienza, della maternità - che meriterebbero quanto meno di essere discussi.
Per decantare l'influenza e l'invasività della Chiesa occorrerebbe innanzitutto toglierle la forza dei suoi argomenti, visionaria, paranoica o reale che sia, non regalarle, come è accaduto finora, un patrimonio di esperienze, passioni, pensieri, comportamenti che riguardano la quotidianità e le relazioni più significative di ogni essere umano. Ma per fare questo è necessario prioritariamente spostare lo sguardo su di sé, chiedersi per quale inclinazione, arrogante o masochista, la sinistra ha disperso, cancellato o dissipato, saperi, pratiche politiche innovative che l'hanno attraversata, una cultura e una politica della vita, quale è stata quella del femminismo, che è ora più attuale che mai, forse l'unico argine perché l'invadenza dello Stato e della Chiesa non diventino potere sugli individui, sui loro corpi e le loro menti. Ma quali voci di donne -biologhe, mediche, giuriste, filosofe, ecc. - sono state ascoltate per questo referendum? Quanti libri, documenti, prodotti nell'arco di trent'anni sui temi della sessualità, della maternità, della salute, sono stati letti e segnalati per evitare che si riparta ogni volta dal deserto?
La diffidenza, la superficialità, il pesante silenzio dei media e della classe politica sulla riflessione prodotta da più generazioni di femministe, non hanno solo contribuito a che restassero clandestini saperi oggi indispensabili alla comprensione del mondo, ma ha consolidato stereotipi informativi buoni per tutti gli eventi: elogio a parole della portata rivoluzionaria del movimento delle donne, attribuzione di responsabilità solo all'occorrenza, e per nascondere la propria ignoranza della cultura femminista, uso scandalistico della parola di singole donne per fomentare ostilità là dove ci sono, come in tutti i movimenti, differenze e conflitti di opinione. Se è vero, come si legge sul quotidiano La Repubblica (14.6.2005), che non c'è stata quell'aggregazione collettiva che ha contraddistinto i referendum sul divorzio e l'aborto, non è vero che non ci siano stati pensiero, scritture, lavoro di gruppi e associazioni da più di dieci anni a questa parte sulla fecondazione assistita e sulla scienza, così come non è di oggi la problematizzazione di una materia che non può non creare dubbi e inquietudini. Per saperlo basta ormai qualsiasi motore di ricerca su Internet. Per volerlo sapere ci vuole invece interesse, e, nel caso dei media, senso di responsabilità professionale. Ma l'immagine folcloristica delle "streghe" è più facile e più appagante, figura di quell'immaginario che deve restare fuori dalla storia e dalla politica.
Repubblica Salute 16.6.05
L'umore "alterato"
Disturbi bipolari: tra farmaci e psicoterapia
di Davide Dèttore *
Nell'ultimo decennio del secolo scorso è iniziata una rinascita d'interesse per i disturbi dell'umore di tipo bipolare (Disturbi Bipolari, DB), cioè costituiti dalla presenza di episodi di elevazione dell'umore, di entità inappropriata, con iperattività, alterazione dell'ideazione, esaltazione di sé, grandiosità, convinzione di potere eseguire vari e complessi progetti contemporaneamente, sensazione di energia elevata e scarso bisogno di sonno; tali episodi possono alternarsi o meno con episodi di tipo depressivo, donde il nome di disturbi bipolari, perché oscillano appunto da un polo all'altro dell'umore. Un tema discusso anche al recente congresso dell'AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva).
Il rinnovato ed esaltato interesse per questi tipi di disturbi ha portato allo sviluppo di interventi innovativi dal punto di vista farmacologico, che hanno migliorato la qualità di vita delle persone affette, anche se purtroppo tali disturbi rimangono ancora molto disabilitanti. Proprio tali osservazioni hanno fatto porre in risalto l'opportunità di coniugare alla terapia farmacologica dei disturbi bipolari, che continua a rimanere un elemento fondamentale e ineliminabile del trattamento (e deve di solito essere continuata per tutta la vita), anche interventi di tipo psicosociale.
L'aggiunta di approcci psicosociali alla farmacoterapia dei DB è importante perché:
1) fornisce interventi psicoeducativi a proposito dei sintomi;
2) promuove la compliance alla farmacoterapia;
3) affronta le condizioni in comorbilità;
4) tenta di ridurre lo stigma sociale e le conseguenze negative della diagnosi sull'autostima;
5) facilita un maggiore adattamento sociale e lavorativo;
6) giova a ridurre il rischio di suicidio;
7) identifica e diminuisce gli inneschi psicosociali che possono incrementare il rischio di ricaduta.
Esistono nella letteratura scientifica studi controllati e randomizzati che indicano che l'aggiunta della terapia comportamentale-cognitiva alla terapia farmacologica è più efficace della sola terapia farmacologica.
Nella stessa direzione vanno anche diversi altri studi aperti e rassegne retrospettive. Per cui è possibile concludere insieme a Jan Scott, uno dei maggiori esperti di trattamenti psicosociali per i DB: "L'uso della terapia psicologica come aggiunta ai farmaci è probabilmente benefico dal punto di vista clinico ed efficace rispetto alla riduzione dei costi, oltre che in grado di contribuire a un significativo miglioramento nella qualità della vita dei pazienti con DB e, indirettamente, per le altre persone per loro significative. Come tali, le terapie brevi basate sulle evidenze rappresentano una importante componente di una buona pratica clinica nella gestione dei DB"
* Associato di Psicologia Clinica Ateneo di Firenze; Past President AIAMC
Disturbi bipolari: tra farmaci e psicoterapia
di Davide Dèttore *
Nell'ultimo decennio del secolo scorso è iniziata una rinascita d'interesse per i disturbi dell'umore di tipo bipolare (Disturbi Bipolari, DB), cioè costituiti dalla presenza di episodi di elevazione dell'umore, di entità inappropriata, con iperattività, alterazione dell'ideazione, esaltazione di sé, grandiosità, convinzione di potere eseguire vari e complessi progetti contemporaneamente, sensazione di energia elevata e scarso bisogno di sonno; tali episodi possono alternarsi o meno con episodi di tipo depressivo, donde il nome di disturbi bipolari, perché oscillano appunto da un polo all'altro dell'umore. Un tema discusso anche al recente congresso dell'AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva).
Il rinnovato ed esaltato interesse per questi tipi di disturbi ha portato allo sviluppo di interventi innovativi dal punto di vista farmacologico, che hanno migliorato la qualità di vita delle persone affette, anche se purtroppo tali disturbi rimangono ancora molto disabilitanti. Proprio tali osservazioni hanno fatto porre in risalto l'opportunità di coniugare alla terapia farmacologica dei disturbi bipolari, che continua a rimanere un elemento fondamentale e ineliminabile del trattamento (e deve di solito essere continuata per tutta la vita), anche interventi di tipo psicosociale.
L'aggiunta di approcci psicosociali alla farmacoterapia dei DB è importante perché:
1) fornisce interventi psicoeducativi a proposito dei sintomi;
2) promuove la compliance alla farmacoterapia;
3) affronta le condizioni in comorbilità;
4) tenta di ridurre lo stigma sociale e le conseguenze negative della diagnosi sull'autostima;
5) facilita un maggiore adattamento sociale e lavorativo;
6) giova a ridurre il rischio di suicidio;
7) identifica e diminuisce gli inneschi psicosociali che possono incrementare il rischio di ricaduta.
Esistono nella letteratura scientifica studi controllati e randomizzati che indicano che l'aggiunta della terapia comportamentale-cognitiva alla terapia farmacologica è più efficace della sola terapia farmacologica.
Nella stessa direzione vanno anche diversi altri studi aperti e rassegne retrospettive. Per cui è possibile concludere insieme a Jan Scott, uno dei maggiori esperti di trattamenti psicosociali per i DB: "L'uso della terapia psicologica come aggiunta ai farmaci è probabilmente benefico dal punto di vista clinico ed efficace rispetto alla riduzione dei costi, oltre che in grado di contribuire a un significativo miglioramento nella qualità della vita dei pazienti con DB e, indirettamente, per le altre persone per loro significative. Come tali, le terapie brevi basate sulle evidenze rappresentano una importante componente di una buona pratica clinica nella gestione dei DB"
* Associato di Psicologia Clinica Ateneo di Firenze; Past President AIAMC
Baby depressione convegno a Roma
E proprio ai disturbi bipolari è dedicata domani la seconda giornata del convegno internazionale su "Le sindromi depressive in età evolutiva", oggi e domani a Roma (Sala Protomoteca in Campidoglio dalla ore 9), con una lezione magistrale di Barbara Geller. Oggi invece il tema del convegno sarà la depressione in età prescolare ed evolutiva con una lezione magistrale di Joan Luby.
E proprio ai disturbi bipolari è dedicata domani la seconda giornata del convegno internazionale su "Le sindromi depressive in età evolutiva", oggi e domani a Roma (Sala Protomoteca in Campidoglio dalla ore 9), con una lezione magistrale di Barbara Geller. Oggi invece il tema del convegno sarà la depressione in età prescolare ed evolutiva con una lezione magistrale di Joan Luby.
Lei& Lui
Inganni di coppia, quando serve la terapia a due
di Roberta Giommi *
Fare terapia di coppia occupandosi dei problemi della sessualità richiede un confronto continuo sulla vera domanda. Mentre in terapia individuale le persone hanno una idea soggettiva del loro malessere e cercano un aiuto individuale, nella terapia di coppia si deve valutare oltre i partner una terza identità rappresentata dal rapporto di coppia e questo condiziona fortemente l'azione dello psicoterapeuta. All'inizio del percorso i partner fanno una grande fatica a mettere da parte le loro abitudini, le delusioni contrattuali, le delusioni affettive e sessuali, continuano a esprimere la volontà di regalare la colpa delle loro crisi al partner.
Cosa spinge a consultare
I principali motivi per cui le coppie consultano possono essere diversi:
1) Perché sia amministrata la giustizia, perché il terapeuta dica chi ha ragione e chi ha torto, chi deve cambiare e chi può restare se stesso;
2) Perché uno dei due vuole salvare il rapporto e cerca aiuto per poterlo fare, perché spera di convincere l'altro a impegnarsi nel cambiamento, a prendere atto dei problemi. Nella seduta individuale, che fa parte del metodo di lavoro della psicoterapia di coppia e sessuale, si scoprono a volte tradimenti e interessi diversi, compare la voglia di restare o di farla finita, vengono confidati i malesseri più gravi.
Elemento importante per valutare se la coppia potrà avere prospettive nella soluzione dei problemi è rappresentato dalla positività della storia all'inizio del rapporto, dalla gravità o meno delle delusioni. Per esempio si può avere capito che non ci piace più vivere in un certo modo, che non desideriamo più il corpo dell'altro, che siamo capaci di stare da soli, che abbiamo guadagnato altre risorse, che siamo finalmente più belli e quindi più potenti, o più brutti con un nuovo bisogno di essere confermati dall'esterno. Ci sono dei casi in cui un partner trascina l'altro in terapia per affidarlo al terapeuta. E' come se si svolgesse un atto preparatorio alla separazione, si costruisce un aggancio per lasciare la persona che soffre.
L'altro che potrebbe essere sfinito di dare spiegazioni o vorrebbe poter andare via senza sensi di colpa, attua l'aggancio terapeutico, per trovare soluzioni nuove o per continuare nel proprio movimento senza sentire il laccio delle responsabilità. Il terapeuta deve capire se esiste questa intenzione e valutare se sia pericoloso introdursi nel rapporto. Come regola generale per accettare le persone in psicoterapia di coppia bisogna dichiarare che la terapia coinvolge la responsabilità delle due persone a condividere un obiettivo comune. La lettura della domanda nella prima seduta tende ad appurare che ci sia un intento comune nell'affrontare i problemi con la consapevolezza che ognuno deve fare dei cambiamenti e modificare il punto di vista. A volte sembra che la terapia di coppia tuteli poco la capacità di salvare i rapporti e questo accade se viene usata una tesi troppo forte nel cambiamento, rinforzando spesso solo uno dei soggetti o offrendo alternative di vita che la coppia non è capace di vivere.
Desiderare un futuro
La coppia - come la famiglia - può essere in certe fasi labile aggregazione, le spinte centrifughe sono forti, difficile la capacità di reggere il confronto e costruire. Si può essere spinti e rinforzati nei propri conflitti, senza valutare se la coppia sia in grado di sostituire il proprio precedente modello in modo efficace.
Mario aveva una nuova compagna, una ragazza di 25 anni che aveva lasciato subito il marito per lui, ma questa storia era la sua terza storia importante e non se la sentiva di lasciare Giulia che anni prima aveva lasciato il marito per lui. Così aveva deciso, forse inconsciamente, di portare Giulia in terapia di coppia per poi allontanarsi dichiarando il suo amore per la nuova compagna e affidando la donna alla psicoterapia.
Teresa aveva dichiarato nella seduta individuale che faceva sesso con altri uomini, ma non con il marito, esprimendo una disponibilità a "fare finta di fare terapia" per mantenere la pace in famiglia. Angelo aveva scoperto che la sua compagna non provava l'orgasmo ed essendo sensibile alla sua mancanza di un piacere importante aveva pensato che c'era qualcosa che doveva cambiare. Tre momenti difficili rispetto a stabilire il significato della domanda. Alla base di un buon contratto terapeutico c'è l'eliminazione del concetto di potere, il modello della reciprocità, la capacità di essere coinvolti nel lavoro terapeutico con pari doveri e responsabilità.
Inganni di coppia, quando serve la terapia a due
di Roberta Giommi *
Fare terapia di coppia occupandosi dei problemi della sessualità richiede un confronto continuo sulla vera domanda. Mentre in terapia individuale le persone hanno una idea soggettiva del loro malessere e cercano un aiuto individuale, nella terapia di coppia si deve valutare oltre i partner una terza identità rappresentata dal rapporto di coppia e questo condiziona fortemente l'azione dello psicoterapeuta. All'inizio del percorso i partner fanno una grande fatica a mettere da parte le loro abitudini, le delusioni contrattuali, le delusioni affettive e sessuali, continuano a esprimere la volontà di regalare la colpa delle loro crisi al partner.
Cosa spinge a consultare
I principali motivi per cui le coppie consultano possono essere diversi:
1) Perché sia amministrata la giustizia, perché il terapeuta dica chi ha ragione e chi ha torto, chi deve cambiare e chi può restare se stesso;
2) Perché uno dei due vuole salvare il rapporto e cerca aiuto per poterlo fare, perché spera di convincere l'altro a impegnarsi nel cambiamento, a prendere atto dei problemi. Nella seduta individuale, che fa parte del metodo di lavoro della psicoterapia di coppia e sessuale, si scoprono a volte tradimenti e interessi diversi, compare la voglia di restare o di farla finita, vengono confidati i malesseri più gravi.
Elemento importante per valutare se la coppia potrà avere prospettive nella soluzione dei problemi è rappresentato dalla positività della storia all'inizio del rapporto, dalla gravità o meno delle delusioni. Per esempio si può avere capito che non ci piace più vivere in un certo modo, che non desideriamo più il corpo dell'altro, che siamo capaci di stare da soli, che abbiamo guadagnato altre risorse, che siamo finalmente più belli e quindi più potenti, o più brutti con un nuovo bisogno di essere confermati dall'esterno. Ci sono dei casi in cui un partner trascina l'altro in terapia per affidarlo al terapeuta. E' come se si svolgesse un atto preparatorio alla separazione, si costruisce un aggancio per lasciare la persona che soffre.
L'altro che potrebbe essere sfinito di dare spiegazioni o vorrebbe poter andare via senza sensi di colpa, attua l'aggancio terapeutico, per trovare soluzioni nuove o per continuare nel proprio movimento senza sentire il laccio delle responsabilità. Il terapeuta deve capire se esiste questa intenzione e valutare se sia pericoloso introdursi nel rapporto. Come regola generale per accettare le persone in psicoterapia di coppia bisogna dichiarare che la terapia coinvolge la responsabilità delle due persone a condividere un obiettivo comune. La lettura della domanda nella prima seduta tende ad appurare che ci sia un intento comune nell'affrontare i problemi con la consapevolezza che ognuno deve fare dei cambiamenti e modificare il punto di vista. A volte sembra che la terapia di coppia tuteli poco la capacità di salvare i rapporti e questo accade se viene usata una tesi troppo forte nel cambiamento, rinforzando spesso solo uno dei soggetti o offrendo alternative di vita che la coppia non è capace di vivere.
Desiderare un futuro
La coppia - come la famiglia - può essere in certe fasi labile aggregazione, le spinte centrifughe sono forti, difficile la capacità di reggere il confronto e costruire. Si può essere spinti e rinforzati nei propri conflitti, senza valutare se la coppia sia in grado di sostituire il proprio precedente modello in modo efficace.
Mario aveva una nuova compagna, una ragazza di 25 anni che aveva lasciato subito il marito per lui, ma questa storia era la sua terza storia importante e non se la sentiva di lasciare Giulia che anni prima aveva lasciato il marito per lui. Così aveva deciso, forse inconsciamente, di portare Giulia in terapia di coppia per poi allontanarsi dichiarando il suo amore per la nuova compagna e affidando la donna alla psicoterapia.
Teresa aveva dichiarato nella seduta individuale che faceva sesso con altri uomini, ma non con il marito, esprimendo una disponibilità a "fare finta di fare terapia" per mantenere la pace in famiglia. Angelo aveva scoperto che la sua compagna non provava l'orgasmo ed essendo sensibile alla sua mancanza di un piacere importante aveva pensato che c'era qualcosa che doveva cambiare. Tre momenti difficili rispetto a stabilire il significato della domanda. Alla base di un buon contratto terapeutico c'è l'eliminazione del concetto di potere, il modello della reciprocità, la capacità di essere coinvolti nel lavoro terapeutico con pari doveri e responsabilità.
*Istituto Internazionale di Sessuologia Firenze www.irf-sessuologia.org
Sen sulla democrazia
e un convegno alla Bicocca "sulla felicità"
Corriere della Sera 16.5.05
NOI E IL MONDO ARABO
Democrazia, l’Occidente non ha il monopolio
di AMARTYA SEN
Premio Nobel per l’Economia
Il cambiamento politico più significativo del XX secolo è stato forse il diffondersi della convinzione che la democrazia sia una forma di governo «normale» a cui ogni nazione ha diritto. Sopravvive, però, una sotterranea vena di scetticismo sulle possibilità della democrazia nel mondo non occidentale. Scetticismo in grande misura alimentato dai recenti eventi iracheni. Chi critica l'intervento in Iraq passa spesso dalla giustificata condanna di un'operazione militare mal ponderata e controproducente a un molto meno giustificato scetticismo generale riferito a una qualsiasi nozione di Iraq democratico. Tanti, in realtà, muovono dal presupposto che la democrazia sia una produzione tipicamente occidentale, non in sintonia con i valori fondamentali propri di altri Paesi, come quelli arabi. Un equivoco di base sulla natura della democrazia sottende entrambi gli approcci, quello militarista e quello cinico.
La democrazia è per lo più considerata una possibilità di ragionamento collettivo e di processo decisionale pubblico - una forma di «governo attraverso il confronto». Il voto è, in prospettiva, solo un elemento in un quadro molto più ampio. La democrazia ha origine assai prima dell’affiorare di pratiche rigidamente definite e precisamente collocate. Un tributo va certamente reso al potente ruolo giocato dal pensiero occidentale moderno, collegato all’illuminismo europeo, nello sviluppo delle idee liberali e democratiche. Le radici di queste idee generali, però, possono essere rintracciate in Asia e Africa così come in Europa e America.
La convinzione che la democrazia sia un’idea intrinsecamente «occidentale» è spesso ancorata alla pratica del voto nell’antica Grecia, in particolare ad Atene. Questo è certo un primato ma il salto logico che porta a sostenere la natura tipicamente «occidentale» o «europea» della democrazia genera solo confusione. Il problema sostanziale qui concerne la suddivisione del mondo in categorie prevalentemente razziali, attraverso le quali l’antica Grecia è vista come parte integrante ed esclusiva di una tradizione «europea» riconoscibile.
Nell’ambito di questa prospettiva classificatoria, non pare affatto difficile considerare i discendenti dei Goti o dei Visigoti come i legittimi eredi della tradizione greca («sono tutti europei»), mentre si fa fatica a prendere atto dei legami intellettuali tra greci e antichi egizi, iraniani e indiani, malgrado l’interesse che gli stessi antichi greci mostrarono nei confronti di questi ultimi (piuttosto che dei Visigoti).
Un’ulteriore difficoltà riguarda il fatto che il confronto pubblico fiorì, sì, nell’antica Grecia, ma lo stesso accadde anche in altre civiltà antiche. Alcuni dei primi incontri pubblici specificamente volti a dirimere le controversie ebbero luogo in India, a partire dal VI sec. a.C., nei cosiddetti «consigli» buddhisti, nei quali i sostenitori di differenti punti di vista si riunivano per discutere le loro divergenze d’opinione. L’imperatore Ashoka, che nel III sec. a.C. ospitò il più grande di questi consigli nella capitale Pataliputra (oggi Patna), tentò anche di codificare e promuovere quella che deve essere stata una delle prime formulazioni di regole per il pubblico dibattito - una primitiva versione delle «Robert’s Rules of Order» del XIX secolo. Parimenti, la cosiddetta «Costituzione dei 17 articoli», redatta dal principe buddhista Shotoku nel 604 in Giappone, insisteva, in uno spirito molto simile a quello della «Magna Charta» di sei secoli successiva: «Le decisioni relative a importanti questioni non dovrebbero essere prese da una sola persona. Dovrebbero essere discusse da più individui».
Esistono precedenti di confronto pubblico e tolleranza nei confronti dell’eterodossia anche nei Paesi musulmani, mondo arabo incluso. Quando nel XII secolo il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a emigrare da un’Europa intollerante, trovò rifugio nel mondo arabo e andò a ricoprire una posizione di prestigio alla corte dell’imperatore Saladino al Cairo.
Per citare un altro esempio, quando nel 1600 per decisione del tribunale dell’Inquisizione l’eretico Giordano Bruno fu bruciato sul rogo a Roma, Akbar, il grande imperatore Moghul dell’India (nato e morto musulmano), aveva appena ultimato il suo progetto di codifica legale dei diritti delle minoranze, tra i quali rientrava la libertà di religione per tutti. Akbar istituì inoltre ad Agra quello che fu forse il primo gruppo di discussione multireligioso, nell’ambito del quale ebbero luogo incontri regolari tra induisti, musulmani, cristiani, giainisti, ebrei, parsi e persino atei, per discutere i punti e le ragioni delle loro differenti opinioni e per capire come convivere.
E l’Iraq, allora? Sarebbe un errore tentare di servirsi dei problemi immediati del Paese per rinnegare la generale possibilità, oltre che la necessità, di democrazia in Iraq, Medio Oriente o in qualsiasi altro luogo. D’altro canto, un’interpretazione ristretta e meccanica della democrazia sta costando all’Iraq un alto prezzo. Se è vero che le recenti elezioni sono state accolte calorosamente, è anche vero che in assenza di un dialogo adeguatamente aperto e partecipativo il processo elettorale è stato come previsto settario, improntato a formule etniche e religiose. Siamo di fronte a un problema simile in Afghanistan, dove si punta tanto sulle riunioni di capi tribali e sui consigli religiosi e non sulla promozione, più faticosa ma anche criticamente rilevante, di incontri aperti e generali.
Tra i requisiti della democrazia rientra lo sviluppo delle opportunità di un confronto pubblico partecipativo, anche in Iraq. Questo significa promuovere i diritti civili, tra i quali la tutela da arresti arbitrari (e, naturalmente, dalla tortura), assicurare strutture destinate agli incontri pubblici e una maggiore libertà di informazione. È importante assecondare, piuttosto che ostacolare, lo sviluppo delle identità non settarie di donne e uomini e la riaffermazione dell’autostima degli iracheni in quanto iracheni. Il primo passo consiste nel pervenire a una più lucida comprensione della natura del «governo attraverso il confronto».
Corriere della Sera 16.5.05
Cento studiosi a Milano per discutere di «economia del benessere» e contestare il Pil come unico indice di sviluppo di un Paese
Più si è ricchi, più si è infelici: il teorema di Kahneman
Serena Zoli
Quand’eravamo poveri ci ripetevano spesso che i soldi non danno la felicità. Dai pulpiti delle chiese si spingevano a farci compiangere i «poveri» ricchi perennemente oppressi (e noi fortunatamente no) da tremendi problemi quali: come investo? E se arrivano i ladri? E se non guadagno sempre di più? La gran massa di noi, potendo placidamente identificarsi di più con l’intrigante cammello, abilitato - ma chissà poi perché e come - a passare per la cruna dell’ago, si sentiva rassicurata. Più tardi, molto più tardi, conferma delle antiche prediche è venuta dal nuovo pulpito, la tv: Anche i ricchi piangono ha «dimostrato » una telenovela di fortuna semiplanetaria. Però, una volta scopertane l’origine - il Messico, Paese povero - ed essendo noi nel frattempo divenuti più scafati, s’è ripresentato il sospetto di una tesi autoconsolatoria. Ma adesso «i (troppi) soldi non danno la felicità, anzi inducono crescente infelicità» lo dicono studiosi «asettici» dediti all’analisi dei «poteri forti», quelli con cifre sempre alla mano e con il famoso Pil (ricordiamolo una volta per tutte: prodotto interno lordo di un Paese) sempre a far da bussola e da tormento. Gli economisti, insomma. Che, in un centinaio con altri studiosi, provenienti da tutto il mondo, lo ripeteranno in lungo e in largo per ben due giorni, oggi e domani, all’Università Bicocca di Milano, nel convegno internazionale Capabilities and Happiness . Il primo termine, intraducibile, si capisce a intuito (risorse, capacità, impegno), ma il secondo significa pari pari «felicità». Termine finora estraneo alla scienza dei conti e oggi parola guida di un nuovo filone di studi quale misuratore, con altri, della vera ricchezza di un Paese. Che comprende (come dovrebbe essere ovvio, ma non lo è) il benessere di chi ci abita.
Non di stravaganti e alternativi sognatori, si tratta. Ne fa testo il sigillo impresso dal Premio Nobel che, nel 2002, è stato assegnato per l’economia a uno psicologo, Daniel Kahneman, nome di punta della interdisciplinare e nuova «Economia della felicità». E Nobel per l’economia nel 1998 era stato proclamato l’indiano Amartya Sen (chiuderà il convegno) che è sì economista, ma accanto al Pil aveva elaborato lo Hdi (Human development index), un indicatore dello sviluppo che tiene presente lo stato di diritti civili, alfabetizzazione, aspettativa di vita... Dai due Nobel due filoni analoghi, dunque, che considerano e progettano una economia etico-umanistica.
Il primo a pensare l’incongruo binomio Pil e felicità è stato Richard Easterlin (oggi a Milano), spiega il professor Pierluigi Porta, direttore del dipartimento di Economia politica di Milano-Bicocca che ha promosso il convegno. «Cominciò nei primi anni Settanta, nel '74 arrivò in Italia un suo libro che si interrogava sul rapporto tra ricchezza e destino umano ed è stato Easterlin a individuare il "paradosso della felicità"». Che, supportato da cifre e grafici, recita più o meno così: in un Paese, quando si sia raggiunto un certo livello di benessere, ogni ulteriore aumento della ricchezza fa aumentare l’infelicità. Perché? Perché le persone investono troppe risorse per il consumo di beni materiali a scapito di altre parti dell’esistenza, in particolare la vita familiare e di relazione, dalle quali dipende in larga misura la nostra felicità. Ma perché allora si persiste in questa folle corsa al di più? Ecco entrare in campo lo psicoeconomista Kahneman, sempre armato non di buonismo, ma di indagini scientifiche: «Il consumo di cose comode e non stimolanti crea dipendenza», come una droga dunque, e «aumenta nel tempo il costo richiesto per cambiare stile di vita».
Che noi occidentali dobbiamo cambiare stile di vita o mal ce ne incorrerà, e già ce ne incorre, siamo in tanti a dirlo, ma se a questa generica constatazione dettata da cronaca, buonsenso ed etica si alleano gli studi di economia, quel che si prospetta è una vera rivoluzione culturale, di cui l’Università di Milano-Bicocca intende essere un centro propulsore.
Resta la fondamentale domanda: ma si può, e come, misurare l’elusiva felicità umana? Kahneman e gli altri dicono di sì. Ma seguono due diversi metodi. C’è chi si fida di analisi «oggettive» e guarda a dati come impegno civile, sviluppo delle relazioni interpersonali, volontariato, ricollegandosi alla riscoperta della aristotelica eudaimonia («buon demone») di filosofi come Martha Nussbaum. Altri puntano sulle dichiarazioni «soggettive» di benessere e si richiamano alla teoria di Bentham sulla felicità come utilità. Un’idea di utile rovesciata. Ma quanto dilettevole. E sensata.
NOI E IL MONDO ARABO
Democrazia, l’Occidente non ha il monopolio
di AMARTYA SEN
Premio Nobel per l’Economia
Il cambiamento politico più significativo del XX secolo è stato forse il diffondersi della convinzione che la democrazia sia una forma di governo «normale» a cui ogni nazione ha diritto. Sopravvive, però, una sotterranea vena di scetticismo sulle possibilità della democrazia nel mondo non occidentale. Scetticismo in grande misura alimentato dai recenti eventi iracheni. Chi critica l'intervento in Iraq passa spesso dalla giustificata condanna di un'operazione militare mal ponderata e controproducente a un molto meno giustificato scetticismo generale riferito a una qualsiasi nozione di Iraq democratico. Tanti, in realtà, muovono dal presupposto che la democrazia sia una produzione tipicamente occidentale, non in sintonia con i valori fondamentali propri di altri Paesi, come quelli arabi. Un equivoco di base sulla natura della democrazia sottende entrambi gli approcci, quello militarista e quello cinico.
La democrazia è per lo più considerata una possibilità di ragionamento collettivo e di processo decisionale pubblico - una forma di «governo attraverso il confronto». Il voto è, in prospettiva, solo un elemento in un quadro molto più ampio. La democrazia ha origine assai prima dell’affiorare di pratiche rigidamente definite e precisamente collocate. Un tributo va certamente reso al potente ruolo giocato dal pensiero occidentale moderno, collegato all’illuminismo europeo, nello sviluppo delle idee liberali e democratiche. Le radici di queste idee generali, però, possono essere rintracciate in Asia e Africa così come in Europa e America.
La convinzione che la democrazia sia un’idea intrinsecamente «occidentale» è spesso ancorata alla pratica del voto nell’antica Grecia, in particolare ad Atene. Questo è certo un primato ma il salto logico che porta a sostenere la natura tipicamente «occidentale» o «europea» della democrazia genera solo confusione. Il problema sostanziale qui concerne la suddivisione del mondo in categorie prevalentemente razziali, attraverso le quali l’antica Grecia è vista come parte integrante ed esclusiva di una tradizione «europea» riconoscibile.
Nell’ambito di questa prospettiva classificatoria, non pare affatto difficile considerare i discendenti dei Goti o dei Visigoti come i legittimi eredi della tradizione greca («sono tutti europei»), mentre si fa fatica a prendere atto dei legami intellettuali tra greci e antichi egizi, iraniani e indiani, malgrado l’interesse che gli stessi antichi greci mostrarono nei confronti di questi ultimi (piuttosto che dei Visigoti).
Un’ulteriore difficoltà riguarda il fatto che il confronto pubblico fiorì, sì, nell’antica Grecia, ma lo stesso accadde anche in altre civiltà antiche. Alcuni dei primi incontri pubblici specificamente volti a dirimere le controversie ebbero luogo in India, a partire dal VI sec. a.C., nei cosiddetti «consigli» buddhisti, nei quali i sostenitori di differenti punti di vista si riunivano per discutere le loro divergenze d’opinione. L’imperatore Ashoka, che nel III sec. a.C. ospitò il più grande di questi consigli nella capitale Pataliputra (oggi Patna), tentò anche di codificare e promuovere quella che deve essere stata una delle prime formulazioni di regole per il pubblico dibattito - una primitiva versione delle «Robert’s Rules of Order» del XIX secolo. Parimenti, la cosiddetta «Costituzione dei 17 articoli», redatta dal principe buddhista Shotoku nel 604 in Giappone, insisteva, in uno spirito molto simile a quello della «Magna Charta» di sei secoli successiva: «Le decisioni relative a importanti questioni non dovrebbero essere prese da una sola persona. Dovrebbero essere discusse da più individui».
Esistono precedenti di confronto pubblico e tolleranza nei confronti dell’eterodossia anche nei Paesi musulmani, mondo arabo incluso. Quando nel XII secolo il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a emigrare da un’Europa intollerante, trovò rifugio nel mondo arabo e andò a ricoprire una posizione di prestigio alla corte dell’imperatore Saladino al Cairo.
Per citare un altro esempio, quando nel 1600 per decisione del tribunale dell’Inquisizione l’eretico Giordano Bruno fu bruciato sul rogo a Roma, Akbar, il grande imperatore Moghul dell’India (nato e morto musulmano), aveva appena ultimato il suo progetto di codifica legale dei diritti delle minoranze, tra i quali rientrava la libertà di religione per tutti. Akbar istituì inoltre ad Agra quello che fu forse il primo gruppo di discussione multireligioso, nell’ambito del quale ebbero luogo incontri regolari tra induisti, musulmani, cristiani, giainisti, ebrei, parsi e persino atei, per discutere i punti e le ragioni delle loro differenti opinioni e per capire come convivere.
E l’Iraq, allora? Sarebbe un errore tentare di servirsi dei problemi immediati del Paese per rinnegare la generale possibilità, oltre che la necessità, di democrazia in Iraq, Medio Oriente o in qualsiasi altro luogo. D’altro canto, un’interpretazione ristretta e meccanica della democrazia sta costando all’Iraq un alto prezzo. Se è vero che le recenti elezioni sono state accolte calorosamente, è anche vero che in assenza di un dialogo adeguatamente aperto e partecipativo il processo elettorale è stato come previsto settario, improntato a formule etniche e religiose. Siamo di fronte a un problema simile in Afghanistan, dove si punta tanto sulle riunioni di capi tribali e sui consigli religiosi e non sulla promozione, più faticosa ma anche criticamente rilevante, di incontri aperti e generali.
Tra i requisiti della democrazia rientra lo sviluppo delle opportunità di un confronto pubblico partecipativo, anche in Iraq. Questo significa promuovere i diritti civili, tra i quali la tutela da arresti arbitrari (e, naturalmente, dalla tortura), assicurare strutture destinate agli incontri pubblici e una maggiore libertà di informazione. È importante assecondare, piuttosto che ostacolare, lo sviluppo delle identità non settarie di donne e uomini e la riaffermazione dell’autostima degli iracheni in quanto iracheni. Il primo passo consiste nel pervenire a una più lucida comprensione della natura del «governo attraverso il confronto».
(traduzione di Maria Serena Natale)
Corriere della Sera 16.5.05
Cento studiosi a Milano per discutere di «economia del benessere» e contestare il Pil come unico indice di sviluppo di un Paese
Più si è ricchi, più si è infelici: il teorema di Kahneman
Serena Zoli
Quand’eravamo poveri ci ripetevano spesso che i soldi non danno la felicità. Dai pulpiti delle chiese si spingevano a farci compiangere i «poveri» ricchi perennemente oppressi (e noi fortunatamente no) da tremendi problemi quali: come investo? E se arrivano i ladri? E se non guadagno sempre di più? La gran massa di noi, potendo placidamente identificarsi di più con l’intrigante cammello, abilitato - ma chissà poi perché e come - a passare per la cruna dell’ago, si sentiva rassicurata. Più tardi, molto più tardi, conferma delle antiche prediche è venuta dal nuovo pulpito, la tv: Anche i ricchi piangono ha «dimostrato » una telenovela di fortuna semiplanetaria. Però, una volta scopertane l’origine - il Messico, Paese povero - ed essendo noi nel frattempo divenuti più scafati, s’è ripresentato il sospetto di una tesi autoconsolatoria. Ma adesso «i (troppi) soldi non danno la felicità, anzi inducono crescente infelicità» lo dicono studiosi «asettici» dediti all’analisi dei «poteri forti», quelli con cifre sempre alla mano e con il famoso Pil (ricordiamolo una volta per tutte: prodotto interno lordo di un Paese) sempre a far da bussola e da tormento. Gli economisti, insomma. Che, in un centinaio con altri studiosi, provenienti da tutto il mondo, lo ripeteranno in lungo e in largo per ben due giorni, oggi e domani, all’Università Bicocca di Milano, nel convegno internazionale Capabilities and Happiness . Il primo termine, intraducibile, si capisce a intuito (risorse, capacità, impegno), ma il secondo significa pari pari «felicità». Termine finora estraneo alla scienza dei conti e oggi parola guida di un nuovo filone di studi quale misuratore, con altri, della vera ricchezza di un Paese. Che comprende (come dovrebbe essere ovvio, ma non lo è) il benessere di chi ci abita.
Non di stravaganti e alternativi sognatori, si tratta. Ne fa testo il sigillo impresso dal Premio Nobel che, nel 2002, è stato assegnato per l’economia a uno psicologo, Daniel Kahneman, nome di punta della interdisciplinare e nuova «Economia della felicità». E Nobel per l’economia nel 1998 era stato proclamato l’indiano Amartya Sen (chiuderà il convegno) che è sì economista, ma accanto al Pil aveva elaborato lo Hdi (Human development index), un indicatore dello sviluppo che tiene presente lo stato di diritti civili, alfabetizzazione, aspettativa di vita... Dai due Nobel due filoni analoghi, dunque, che considerano e progettano una economia etico-umanistica.
Il primo a pensare l’incongruo binomio Pil e felicità è stato Richard Easterlin (oggi a Milano), spiega il professor Pierluigi Porta, direttore del dipartimento di Economia politica di Milano-Bicocca che ha promosso il convegno. «Cominciò nei primi anni Settanta, nel '74 arrivò in Italia un suo libro che si interrogava sul rapporto tra ricchezza e destino umano ed è stato Easterlin a individuare il "paradosso della felicità"». Che, supportato da cifre e grafici, recita più o meno così: in un Paese, quando si sia raggiunto un certo livello di benessere, ogni ulteriore aumento della ricchezza fa aumentare l’infelicità. Perché? Perché le persone investono troppe risorse per il consumo di beni materiali a scapito di altre parti dell’esistenza, in particolare la vita familiare e di relazione, dalle quali dipende in larga misura la nostra felicità. Ma perché allora si persiste in questa folle corsa al di più? Ecco entrare in campo lo psicoeconomista Kahneman, sempre armato non di buonismo, ma di indagini scientifiche: «Il consumo di cose comode e non stimolanti crea dipendenza», come una droga dunque, e «aumenta nel tempo il costo richiesto per cambiare stile di vita».
Che noi occidentali dobbiamo cambiare stile di vita o mal ce ne incorrerà, e già ce ne incorre, siamo in tanti a dirlo, ma se a questa generica constatazione dettata da cronaca, buonsenso ed etica si alleano gli studi di economia, quel che si prospetta è una vera rivoluzione culturale, di cui l’Università di Milano-Bicocca intende essere un centro propulsore.
Resta la fondamentale domanda: ma si può, e come, misurare l’elusiva felicità umana? Kahneman e gli altri dicono di sì. Ma seguono due diversi metodi. C’è chi si fida di analisi «oggettive» e guarda a dati come impegno civile, sviluppo delle relazioni interpersonali, volontariato, ricollegandosi alla riscoperta della aristotelica eudaimonia («buon demone») di filosofi come Martha Nussbaum. Altri puntano sulle dichiarazioni «soggettive» di benessere e si richiamano alla teoria di Bentham sulla felicità come utilità. Un’idea di utile rovesciata. Ma quanto dilettevole. E sensata.
Cina
La Stampa 16 Giugno 2005
OPINIONI
La nuova Cina vuole bambini sicuri e felici
Francesco Sisci
In queste settimane al primo posto dei best seller c'è lei e al secondo c'è ancora lei. I titoli sono anche simili: «Dì al mondo che ce la posso fare», «Dì al figlio che è in gamba». Sono libri che insegnano ai cinesi moderni come devono tirare su i loro bambini. In un momento di passaggio millenario per il Paese, quando i vecchi sistemi educativi sono crollati, e quando il figlio è soltanto unico, questa è la vera scommessa del futuro per due generazioni, nonni e genitori. Per loro il successo e insieme la felicità del figlio sono la cosa più importante della terra.
Lu Qin, l'autrice cinquantenne, fornisce nuove regole, più democratiche, americanizzanti, di come dare una nuova coscienza ai figli unici cinesi. Lei è la superstar della materia. Direttrice del Giornale cinese dei piccoli il suo Scrivi alla mamma dei giovani ha venduto oltre due milioni di copie in libreria. Nelle bancarelle, tra i volumi contraffatti e che non pagano diritti d’autore, le vendite pare siano state decine di milioni.
Lei dice ai nuovi papà e mamma che insieme al bambino devono: «studiare, leggere, parlare di sesso, fare amicizie, andare su internet, condividere l'amore, creare la felicità». Spiega che l'amore e la tenerezza devono essere il primo motore per «incoraggiare, guidare, imporre delle proibizioni, ma anche punire il bambino». «Se cambio la mia coscienza cambio il mondo» urla dalle pagine la Lu Qin per le mamme e i papà cinesi, «se cambio il mio comportamento cambia la mia sorte» sottolinea. Questi sono discorsi ben noti da noi, dove Piaget e tutti i suoi epigoni sono entrati nella coscienza profonda da decenni, dove le punizioni corporali sono sparite per statuto da decenni.
È diverso in Cina dove la severità è ancora una richiesta che i genitori fanno agli insegnanti. I maestri devono essere esigenti, devono spingere il ragazzino a studiare, e il bambino deve avere successo, entrare nella difficilissima università per soddisfare gli antenati, i loro sacrifici, cose che qui hanno una importanza vera, solida, molto più che Gesù Cristo da noi. La Lu Qin ignora il grande esaminificio in cui è organizzato il sistema scolastico cinese e si ferma invece a spiegare ai genitori come possono rendere felice loro figlio. Un aspetto fondamentale è la crescita morale, spirituale, afferma. Per questo, l'autrice scrive, c'è bisogno di «rispetto, sfogo, approvazione, affrontare difficoltà, libertà, tolleranza, sogni». In questo modo una educazione spirituale, che in occidente è delegata o molto influenzata dalle pratiche religiose, viene qui data alla famiglia.
Questo affidamento è tradizionale. Da sempre i valori morali appartengono all'area della famiglia. Solo sotto il comunismo imperante nelle città alla famiglia era stata sostituita la scuola dove i bambini vivevano notte e giorno vedendo i genitori forse solo una volta al mese. I contenuti dell'educazione sono comunque cambiati. Ai nuovi bambini cinesi per Lu Qin deve essere accordato un diritto a sfogarsi, a essere liberi, a diventare tolleranti, ad avere dei sogni. Sono idee su cui chiunque in occidente può essere d'accordo. Ma sono idee diverse dalla Cina di una volta.
Una volta c'erano tanti bambini in una famiglia, e solo i più bravi studiavano, e lo studio per loro era solo un privilegio rispetto alla fatica del lavoro dei campi. Lo studio era per la famiglia e per lo stato, non certo per la felicità. Poi, con il comunismo feroce, lo studio era lotta di classe, quando non era guardare il lavoro degli operai e dei contadini. Libertà, sfogarsi, sognare, erano concetti, parole che semplicemente non esistevano. Quindi la Lu Qin compie un doppio salto mortale: introduce un nuovo modello di educazione per i bambini e nuovi concetti formativi della coscienza di questi che fra 20 saranno uomini.
Lei non parla di politica, ma certo questi nuovi uomini che lei, con l'appoggio delle autorità, vuole creare avranno un vocabolario culturale in gran parte uguale ai loro coetanei di Milano o New York. Così la Cina vuole smettere di essere diversa dall'Occidente. I cinesi futuri vogliono essere più uguali agli occidentali. Da questa parte però non dobbiamo farci soverchie illusioni «più uguali» anche fra 20 o 30 anni significherà comunque ancora tanto diversi.
La Stampa 16 Giugno 2005
«La fame non è più un problema»:
vecchia e nuova Cina nei reportage di Conversano e Griffagnini
La rivoluzione della pancia piena
SHANGAI, l'enorme, caotica, nevrotica, affascinante Shangai ha chiuso la serie di reportage «Buongiorno Cina», in onda per poco più di un mese in seconda/terza serata su Raitre. Gli autori sono Francesco Conversano e Nene Griffagnini, gli stessi di quell'altro straordinario viaggio, «Strade blu», dedicato invece alla provincia americana. Intanto abbiamo visto immagini molto belle, che si trattasse di illustrare uomini o cose, le campagne o le città. Su tutto, un avvertimento: le tappe dell'esplorazione di questo «continente» ancora misterioso, alla faccia del vecchio Marco Polo, sono sempre avvenute sotto la supervisione, chiamiamola così, dei funzionari del governo. D'altronde, raccontano le cronache che in Cina censurano pure Internet, impedendo l'uso di una ricerca diretta che parta dalle parole «libertà» o «democrazia». Eppure, c'è da scommetterci, i naviganti di là avranno ben saputo aggirare gli ostacoli. Comunque, se le cose stanno così, non c'è da stupirsi che i reporter stranieri intenzionati a percorrere l'immensa nazione alla ricerca di chiavi di lettura sociali, politiche, economiche, abbiano alle calcagna dei garanti del politicamente corretto. Il loro: ma ognuno ha il suo.
Lo spirito degli autori era quello di raccontare «il Paese che sta attualmente vivendo la più straordinaria crescita economica e sociale al mondo, teatro di grandi contraddizioni tra la ricchezza e lo sviluppo delle aree urbane e la povertà e l’arretratezza delle campagne. I filmati propongono di riflettere, attraverso frammenti di storie di vita quotidiana, sulla realtà attuale della Cina e di offrire elementi per la comprensione di un paese che, in un futuro prossimo, avrà un ruolo da protagonista». In questo mese e mezzo il ruolo è già bello acquisito, le cose cambiano ad una velocità impressionante. Ormai non passa giorno che i mezzi di comunicazione di massa (per l'appunto) non dicano di calze scarpe camicie abbigliamento mano d'opera, arte, censura, cultura, qualcosa comunque che venga di là.
E di argomenti su cui riflettere non ne sono mancati: durante la puntata dedicata alle campagne, a esempio, una signora diceva una cosa fondamentale: «Oggi il cibo non è più un problema. Non ho più fame». Questa è una dichiarazione sconvolgente, veramente rivoluzionaria. Uno scrittore spiegava così l'attuale esplosione cinese: «Noi siamo rimasti immobili a lungo come un fiume imbrigliato dalla chiuse e abbiamo accumulato energia. Che adesso liberiamo». Ci sono riforme, progressi, ma anche corruzione e degenerazione, «c'è più libertà di parola, ma non possiamo criticare liberamente il governo». E insomma, «arrivano i Cinesi, arrivano nuotando, dice Ruggero Orlando: "Domani sono qua"», cantava Bruno Lauzi, correvano gli Anni Sessanta.
OPINIONI
La nuova Cina vuole bambini sicuri e felici
Francesco Sisci
In queste settimane al primo posto dei best seller c'è lei e al secondo c'è ancora lei. I titoli sono anche simili: «Dì al mondo che ce la posso fare», «Dì al figlio che è in gamba». Sono libri che insegnano ai cinesi moderni come devono tirare su i loro bambini. In un momento di passaggio millenario per il Paese, quando i vecchi sistemi educativi sono crollati, e quando il figlio è soltanto unico, questa è la vera scommessa del futuro per due generazioni, nonni e genitori. Per loro il successo e insieme la felicità del figlio sono la cosa più importante della terra.
Lu Qin, l'autrice cinquantenne, fornisce nuove regole, più democratiche, americanizzanti, di come dare una nuova coscienza ai figli unici cinesi. Lei è la superstar della materia. Direttrice del Giornale cinese dei piccoli il suo Scrivi alla mamma dei giovani ha venduto oltre due milioni di copie in libreria. Nelle bancarelle, tra i volumi contraffatti e che non pagano diritti d’autore, le vendite pare siano state decine di milioni.
Lei dice ai nuovi papà e mamma che insieme al bambino devono: «studiare, leggere, parlare di sesso, fare amicizie, andare su internet, condividere l'amore, creare la felicità». Spiega che l'amore e la tenerezza devono essere il primo motore per «incoraggiare, guidare, imporre delle proibizioni, ma anche punire il bambino». «Se cambio la mia coscienza cambio il mondo» urla dalle pagine la Lu Qin per le mamme e i papà cinesi, «se cambio il mio comportamento cambia la mia sorte» sottolinea. Questi sono discorsi ben noti da noi, dove Piaget e tutti i suoi epigoni sono entrati nella coscienza profonda da decenni, dove le punizioni corporali sono sparite per statuto da decenni.
È diverso in Cina dove la severità è ancora una richiesta che i genitori fanno agli insegnanti. I maestri devono essere esigenti, devono spingere il ragazzino a studiare, e il bambino deve avere successo, entrare nella difficilissima università per soddisfare gli antenati, i loro sacrifici, cose che qui hanno una importanza vera, solida, molto più che Gesù Cristo da noi. La Lu Qin ignora il grande esaminificio in cui è organizzato il sistema scolastico cinese e si ferma invece a spiegare ai genitori come possono rendere felice loro figlio. Un aspetto fondamentale è la crescita morale, spirituale, afferma. Per questo, l'autrice scrive, c'è bisogno di «rispetto, sfogo, approvazione, affrontare difficoltà, libertà, tolleranza, sogni». In questo modo una educazione spirituale, che in occidente è delegata o molto influenzata dalle pratiche religiose, viene qui data alla famiglia.
Questo affidamento è tradizionale. Da sempre i valori morali appartengono all'area della famiglia. Solo sotto il comunismo imperante nelle città alla famiglia era stata sostituita la scuola dove i bambini vivevano notte e giorno vedendo i genitori forse solo una volta al mese. I contenuti dell'educazione sono comunque cambiati. Ai nuovi bambini cinesi per Lu Qin deve essere accordato un diritto a sfogarsi, a essere liberi, a diventare tolleranti, ad avere dei sogni. Sono idee su cui chiunque in occidente può essere d'accordo. Ma sono idee diverse dalla Cina di una volta.
Una volta c'erano tanti bambini in una famiglia, e solo i più bravi studiavano, e lo studio per loro era solo un privilegio rispetto alla fatica del lavoro dei campi. Lo studio era per la famiglia e per lo stato, non certo per la felicità. Poi, con il comunismo feroce, lo studio era lotta di classe, quando non era guardare il lavoro degli operai e dei contadini. Libertà, sfogarsi, sognare, erano concetti, parole che semplicemente non esistevano. Quindi la Lu Qin compie un doppio salto mortale: introduce un nuovo modello di educazione per i bambini e nuovi concetti formativi della coscienza di questi che fra 20 saranno uomini.
Lei non parla di politica, ma certo questi nuovi uomini che lei, con l'appoggio delle autorità, vuole creare avranno un vocabolario culturale in gran parte uguale ai loro coetanei di Milano o New York. Così la Cina vuole smettere di essere diversa dall'Occidente. I cinesi futuri vogliono essere più uguali agli occidentali. Da questa parte però non dobbiamo farci soverchie illusioni «più uguali» anche fra 20 o 30 anni significherà comunque ancora tanto diversi.
La Stampa 16 Giugno 2005
«La fame non è più un problema»:
vecchia e nuova Cina nei reportage di Conversano e Griffagnini
La rivoluzione della pancia piena
SHANGAI, l'enorme, caotica, nevrotica, affascinante Shangai ha chiuso la serie di reportage «Buongiorno Cina», in onda per poco più di un mese in seconda/terza serata su Raitre. Gli autori sono Francesco Conversano e Nene Griffagnini, gli stessi di quell'altro straordinario viaggio, «Strade blu», dedicato invece alla provincia americana. Intanto abbiamo visto immagini molto belle, che si trattasse di illustrare uomini o cose, le campagne o le città. Su tutto, un avvertimento: le tappe dell'esplorazione di questo «continente» ancora misterioso, alla faccia del vecchio Marco Polo, sono sempre avvenute sotto la supervisione, chiamiamola così, dei funzionari del governo. D'altronde, raccontano le cronache che in Cina censurano pure Internet, impedendo l'uso di una ricerca diretta che parta dalle parole «libertà» o «democrazia». Eppure, c'è da scommetterci, i naviganti di là avranno ben saputo aggirare gli ostacoli. Comunque, se le cose stanno così, non c'è da stupirsi che i reporter stranieri intenzionati a percorrere l'immensa nazione alla ricerca di chiavi di lettura sociali, politiche, economiche, abbiano alle calcagna dei garanti del politicamente corretto. Il loro: ma ognuno ha il suo.
Lo spirito degli autori era quello di raccontare «il Paese che sta attualmente vivendo la più straordinaria crescita economica e sociale al mondo, teatro di grandi contraddizioni tra la ricchezza e lo sviluppo delle aree urbane e la povertà e l’arretratezza delle campagne. I filmati propongono di riflettere, attraverso frammenti di storie di vita quotidiana, sulla realtà attuale della Cina e di offrire elementi per la comprensione di un paese che, in un futuro prossimo, avrà un ruolo da protagonista». In questo mese e mezzo il ruolo è già bello acquisito, le cose cambiano ad una velocità impressionante. Ormai non passa giorno che i mezzi di comunicazione di massa (per l'appunto) non dicano di calze scarpe camicie abbigliamento mano d'opera, arte, censura, cultura, qualcosa comunque che venga di là.
E di argomenti su cui riflettere non ne sono mancati: durante la puntata dedicata alle campagne, a esempio, una signora diceva una cosa fondamentale: «Oggi il cibo non è più un problema. Non ho più fame». Questa è una dichiarazione sconvolgente, veramente rivoluzionaria. Uno scrittore spiegava così l'attuale esplosione cinese: «Noi siamo rimasti immobili a lungo come un fiume imbrigliato dalla chiuse e abbiamo accumulato energia. Che adesso liberiamo». Ci sono riforme, progressi, ma anche corruzione e degenerazione, «c'è più libertà di parola, ma non possiamo criticare liberamente il governo». E insomma, «arrivano i Cinesi, arrivano nuotando, dice Ruggero Orlando: "Domani sono qua"», cantava Bruno Lauzi, correvano gli Anni Sessanta.
sinistra
lo stato dell'Unione
Corriere della Sera 16.6.05
Bertinotti: difendo Francesco, non piango se l’Ulivo sparisce
Il segretario di Rifondazione: non vuole passare con Berlusconi, pensarlo è offensivo. Romano? Con le primarie si salva
Daria Gorodisky
ROMA - Fausto Bertinotti, nessun imbarazzo per il fatto che Rutelli, uno degli alleati della sua Rifondazione, riceva l'invito da Berlusconi "a questo punto, vieni con noi"? «Lo dico chiaramente: non credo che Rutelli possa cambiare campo o voglia costruire una forza di centro capace di rompere lo schema politico attuale. Anzi, attribuzioni di questo tipo vanno bandite, sono offensive».
Difende Rutelli?
«Critico la sua politica, non la sua collocazione che, oggi, non può essere che nell'Unione».
Oggi, sottolinea. E domani?
«Siamo in una fase di transizione. Viviamo una crisi politica generale che provoca problemi al centrodestra e all'opposizione. È fallito il sistema in cui l'attuale governo ha preso forma; così le diverse forze si comportano come se vigesse un sistema proporzionale, senza arrivare al punto di mettere in discussione il maggioritario. Si ragiona ancora su coalizioni di governo. Però, una volta sconfitto Berlusconi, il quadro potrebbe scomporsi e ricomporsi».
Torniamo alla politica di Rutelli.
«Le avances di Berlusconi nei suoi confronti gli servono a spaccare l'opposizione. Aggiungo però che obiettivamente sono rese possibili dalle scelte del presidente della Margherita: che sono, lo ripeto, neocentriste di contenuto, non di collocazione».
Vediamo il contenuto, che in teoria sarebbe più importante.
«Particolare attenzione agli Usa; vicinanza con il Vaticano; scelte economico-sociali che, pur contrastando con quelle del governo Berlusconi per la loro inefficacia e contraddittorietà, vi si avvicinano quando l'esecutivo abbandona l'estremismo. Perché Rutelli ha queste posizioni? Perché pensa che la crisi del sistema berlusconiano spinga i poteri forti a ricollocarsi e rimetta in libertà voti. La crisi generale si ripercuote nella Margherita, nella costruzione ulivista e nella collocazione futura dei Ds».
Lei ripete al centrosinistra che è ora di pensare alle "cose concrete", al programma: come fa Rifondazione a condividerne uno che proponga anche i contenuti rutelliani?
«Le tesi di Rutelli nell'Unione sono da sconfiggere, ma non sono una malattia da esorcizzare; devono essere occasione di dialettica tra i partiti e le identità. Comunque non c'è incompatibilità».
Neppure sul piano delle scelte economico-sociali?
«Abbiamo appena avuto un incontro con Treu. Su scuola e lavoro, per esempio, esiste un buon punto di convergenza nella critica alla riforma Moratti e nella battaglia contro la precarietà: siamo d'accordo sulla necessità di tornare alla centralità dei contratti a tempo indeterminato».
La Margherita sembra vicina a una scissione. Come si ripercuoterebbe sulla vostra alleanza?
«La nuova fase di transizione a cui accennavo, che fa parte di una crisi della politica anche europea, produce e produrrà sempre più scossoni. Ma le diversità strategiche delle varie identità non vanno demonizzate. E comunque vadano le cose, va salvaguardata l'Unione perché ha l'obiettivo di sconfiggere Berlusconi e governare l'Italia».
Con quali strumenti si può salvaguardare?
«Quello che succede dell'Ulivo non mi riguarda, non piangerei se scomparisse e nascessero nuovi soggetti. Invece l'Unione si deve rafforzare attraverso una propria vita democratica: un'assemblea per decidere; consultazioni di ogni tipo, comprese le primarie: metterebbero Prodi al riparo».
Prima accennava ai Ds.
«Pensavano, con l'Ulivo, di poter evitare un bivio cruciale; ma le turbolenze della Margherita li riportano a scegliere tra due ipotesi: concorrere a raccogliere le forze moderate che si stanno liberando, o riposizionarsi verso il socialismo?»
La situazione diessina vi intriga. Uno scossone interno potrebbe allargare le fila rifondarole…
«Non ho uno spirito di bottega. Però la situazione, è vero, ci interessa molto. Noi speriamo che la scelta dei Ds sia verso le forze socialdemocratiche europee».
In modo da veder realizzato, per l’attuale opposizione, il suo schema preferito: centro-centrosinistra-sinistra (voi)?
«La sinistra radicale ha comunque uno spazio a sé. Diciamo che Rutelli e noi siamo le "estreme"; in mezzo ci sono gli altri, investiti dalla crisi. I confini resteranno fermi, il resto sarà mobile. E a lungo».
Bertinotti: difendo Francesco, non piango se l’Ulivo sparisce
Il segretario di Rifondazione: non vuole passare con Berlusconi, pensarlo è offensivo. Romano? Con le primarie si salva
Daria Gorodisky
ROMA - Fausto Bertinotti, nessun imbarazzo per il fatto che Rutelli, uno degli alleati della sua Rifondazione, riceva l'invito da Berlusconi "a questo punto, vieni con noi"? «Lo dico chiaramente: non credo che Rutelli possa cambiare campo o voglia costruire una forza di centro capace di rompere lo schema politico attuale. Anzi, attribuzioni di questo tipo vanno bandite, sono offensive».
Difende Rutelli?
«Critico la sua politica, non la sua collocazione che, oggi, non può essere che nell'Unione».
Oggi, sottolinea. E domani?
«Siamo in una fase di transizione. Viviamo una crisi politica generale che provoca problemi al centrodestra e all'opposizione. È fallito il sistema in cui l'attuale governo ha preso forma; così le diverse forze si comportano come se vigesse un sistema proporzionale, senza arrivare al punto di mettere in discussione il maggioritario. Si ragiona ancora su coalizioni di governo. Però, una volta sconfitto Berlusconi, il quadro potrebbe scomporsi e ricomporsi».
Torniamo alla politica di Rutelli.
«Le avances di Berlusconi nei suoi confronti gli servono a spaccare l'opposizione. Aggiungo però che obiettivamente sono rese possibili dalle scelte del presidente della Margherita: che sono, lo ripeto, neocentriste di contenuto, non di collocazione».
Vediamo il contenuto, che in teoria sarebbe più importante.
«Particolare attenzione agli Usa; vicinanza con il Vaticano; scelte economico-sociali che, pur contrastando con quelle del governo Berlusconi per la loro inefficacia e contraddittorietà, vi si avvicinano quando l'esecutivo abbandona l'estremismo. Perché Rutelli ha queste posizioni? Perché pensa che la crisi del sistema berlusconiano spinga i poteri forti a ricollocarsi e rimetta in libertà voti. La crisi generale si ripercuote nella Margherita, nella costruzione ulivista e nella collocazione futura dei Ds».
Lei ripete al centrosinistra che è ora di pensare alle "cose concrete", al programma: come fa Rifondazione a condividerne uno che proponga anche i contenuti rutelliani?
«Le tesi di Rutelli nell'Unione sono da sconfiggere, ma non sono una malattia da esorcizzare; devono essere occasione di dialettica tra i partiti e le identità. Comunque non c'è incompatibilità».
Neppure sul piano delle scelte economico-sociali?
«Abbiamo appena avuto un incontro con Treu. Su scuola e lavoro, per esempio, esiste un buon punto di convergenza nella critica alla riforma Moratti e nella battaglia contro la precarietà: siamo d'accordo sulla necessità di tornare alla centralità dei contratti a tempo indeterminato».
La Margherita sembra vicina a una scissione. Come si ripercuoterebbe sulla vostra alleanza?
«La nuova fase di transizione a cui accennavo, che fa parte di una crisi della politica anche europea, produce e produrrà sempre più scossoni. Ma le diversità strategiche delle varie identità non vanno demonizzate. E comunque vadano le cose, va salvaguardata l'Unione perché ha l'obiettivo di sconfiggere Berlusconi e governare l'Italia».
Con quali strumenti si può salvaguardare?
«Quello che succede dell'Ulivo non mi riguarda, non piangerei se scomparisse e nascessero nuovi soggetti. Invece l'Unione si deve rafforzare attraverso una propria vita democratica: un'assemblea per decidere; consultazioni di ogni tipo, comprese le primarie: metterebbero Prodi al riparo».
Prima accennava ai Ds.
«Pensavano, con l'Ulivo, di poter evitare un bivio cruciale; ma le turbolenze della Margherita li riportano a scegliere tra due ipotesi: concorrere a raccogliere le forze moderate che si stanno liberando, o riposizionarsi verso il socialismo?»
La situazione diessina vi intriga. Uno scossone interno potrebbe allargare le fila rifondarole…
«Non ho uno spirito di bottega. Però la situazione, è vero, ci interessa molto. Noi speriamo che la scelta dei Ds sia verso le forze socialdemocratiche europee».
In modo da veder realizzato, per l’attuale opposizione, il suo schema preferito: centro-centrosinistra-sinistra (voi)?
«La sinistra radicale ha comunque uno spazio a sé. Diciamo che Rutelli e noi siamo le "estreme"; in mezzo ci sono gli altri, investiti dalla crisi. I confini resteranno fermi, il resto sarà mobile. E a lungo».
Munch a Roma
Gazzetta del Sud 16.6.05
La retrospettiva romana di Edvard Munch
L'uomo che volle dipingere l'assurdità dell'esistenza
Roberta Nunnari
Un grande successo, con più di centomila visitatori in due mesi, alla retrospettiva romana di Edvard Munch, pittore tra i più amati, perfino dai ladri, che più volte hanno sottratto alcune delle sue opere dai musei norvegesi. Dal debutto trionfale a marzo, fino a oggi, le tele del gigante dell'espressionismo, popolate da spettri della mente e fantasmi dell'anima, hanno attratto un pubblico di visitatori non solo italiano ma internazionale, considerato l'affollamento di turisti a Roma nella stagione primaverile. Si può dire che il protagonista di questa interessante stagione di eventi artistici nella capitale sia stato proprio Munch, con un grande pubblico di visitatori che ha affollato le sale del Vittoriano per ammirare gli oltre cento capolavori che resteranno esposti fino al 19 giugno prossimo. Tra le opere esposte, una sessantina di olii e decine di grafiche, figura persino (in litografia) il celeberrimo quadro «L'urlo», sottratto insieme con la famosa «Madonna» nell'agosto scorso dal museo di Oslo da uomini armati di pistola. Con il titolo «Edvard Munch 1863-1944», la mostra romana ha consentito di ricostruire l'intera esistenza dell'artista che voleva dipingere l'assurdità dell'esistenza. «La mia arte – ha lasciato scritto Munch – è un'autoconfessione. Con essa cerco di chiarire il mio rapporto con la vita». Munch è considerato uno dei maggiori esponenti dell'Espressionismo, corrente pittorica nata tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 e con la quale si intende esprimere fortemente il sentimento individuale dell'artista, piuttosto che rappresentare oggettivamente la realtà, deformando coscientemente quest'ultima affinché risulti evidente che ciò che noi vediamo nella tela non è la produzione di un oggetto così come appare, ma come lo sente l'autore che proietta in esso la propria vita anteriore. Munch voleva raccontare la propria vita attraverso la pittura, ma anche costringere lo spettatore a vivere i suoi stessi sentimenti, con immediatezza e coinvolgimento, provocandogli emozioni e reazioni psicologiche. Al centro dell'interesse di Munch, come testimoniano le sue opere-diario, molte delle quali possono essere ammirate in questa mostra italiana, c'è l'uomo, con il dramma del suo esistere, i suoi conflitti psichici e le sue paure. I dipinti dell'artista norvegese, non sono una semplice illustrazione didascalica, ma diventano opera d'arte compiuta in sé, a cominciare da tele che hanno come titolo «Melanconia», «Disperazione», «Paura», e che mettono insieme le suggestioni dei drammi di Ibsen e Strindberg, la filosofia esistenzialista di Kierkegard e le teorie di Freud. Munch, nato il 12 dicembre 1863 a Löten, in Norvegia, decise di fare il pittore esordendo con soggetti familiari, ma importanti per la sua formazione artistica sono stati i viaggi a Parigi, in Italia e in Germania. «Non si possono più dipingere interni con uomini che leggono e donne che lavorano a maglia, ma si dipingeranno – scriveva Munch – esseri viventi che respirano e sentono, soffrono e amano. Sento che lo farò che sarà facile. Bisogna che la carne prenda forma e che i colori vivano». Ed è da queste convinzioni che nasce la sua forma di espressionismo. L'incolumità del dolore, il suono quasi assordante del silenzio che separa i vivi racchiusi in una stanza divenuta quasi prigione, si percepiscono nella « Morte nella camera della malata » (1893), in cui è raffigurata la morte della sorellina Sophie quando lui aveva 14 anni. Nel 1908 qualcosa si spezza nella mente di Munch e la follia esplode. Per manie di persecuzioni e allucinazioni che gli procurano una paralisi agli arti, il pittore rimane per otto mesi in una clinica di Copenaghen. Poi l'esilio desiderato da lui stesso, in seguito torna in Norvegia, dove sceglie di vivere lontano dalla città a contatto con la natura. Nel 1937, ottantadue dipinti dell'artista vengono bollati dai nazisti come arte degenerata. Alla sua morte, nel gennaio 1944, Munch lascia tutti i suoi averi in eredità al Comune di Oslo, dove nel 1963 è stato inaugurato il Museo a lui dedicato. A Roma, nella mostra promossa dal Comune, ci sono opere che provengono dal Munch-Museet, dalla Nasjonalgalleriet di Oslo, dal Bergen Kunstmuseum di Bergen, dallo Statene Museum for Kunst di Copenaghen, dall'Ateneumin Taidemuseo di Helsinki, dal Wallraf-Richartz-Museum di Colonia, dallo Sørlandest Kunstmuseum di Kristiansand, dal Lillehammer Kunstmuseum di Lillehammer, dal Trondheim Kunstmuseum di Trondheim e dal Rogaland Kunstmuseum. L'esposizione, curata da Øivind Storm Bjercke, si è avvalsa di un prestigioso comitato scientifico composto da Claudio Strinati, Enrik Mørstad, Achille Bonito Oliva, Einar Petterson e Renato Barilli.
La retrospettiva romana di Edvard Munch
L'uomo che volle dipingere l'assurdità dell'esistenza
Roberta Nunnari
Un grande successo, con più di centomila visitatori in due mesi, alla retrospettiva romana di Edvard Munch, pittore tra i più amati, perfino dai ladri, che più volte hanno sottratto alcune delle sue opere dai musei norvegesi. Dal debutto trionfale a marzo, fino a oggi, le tele del gigante dell'espressionismo, popolate da spettri della mente e fantasmi dell'anima, hanno attratto un pubblico di visitatori non solo italiano ma internazionale, considerato l'affollamento di turisti a Roma nella stagione primaverile. Si può dire che il protagonista di questa interessante stagione di eventi artistici nella capitale sia stato proprio Munch, con un grande pubblico di visitatori che ha affollato le sale del Vittoriano per ammirare gli oltre cento capolavori che resteranno esposti fino al 19 giugno prossimo. Tra le opere esposte, una sessantina di olii e decine di grafiche, figura persino (in litografia) il celeberrimo quadro «L'urlo», sottratto insieme con la famosa «Madonna» nell'agosto scorso dal museo di Oslo da uomini armati di pistola. Con il titolo «Edvard Munch 1863-1944», la mostra romana ha consentito di ricostruire l'intera esistenza dell'artista che voleva dipingere l'assurdità dell'esistenza. «La mia arte – ha lasciato scritto Munch – è un'autoconfessione. Con essa cerco di chiarire il mio rapporto con la vita». Munch è considerato uno dei maggiori esponenti dell'Espressionismo, corrente pittorica nata tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 e con la quale si intende esprimere fortemente il sentimento individuale dell'artista, piuttosto che rappresentare oggettivamente la realtà, deformando coscientemente quest'ultima affinché risulti evidente che ciò che noi vediamo nella tela non è la produzione di un oggetto così come appare, ma come lo sente l'autore che proietta in esso la propria vita anteriore. Munch voleva raccontare la propria vita attraverso la pittura, ma anche costringere lo spettatore a vivere i suoi stessi sentimenti, con immediatezza e coinvolgimento, provocandogli emozioni e reazioni psicologiche. Al centro dell'interesse di Munch, come testimoniano le sue opere-diario, molte delle quali possono essere ammirate in questa mostra italiana, c'è l'uomo, con il dramma del suo esistere, i suoi conflitti psichici e le sue paure. I dipinti dell'artista norvegese, non sono una semplice illustrazione didascalica, ma diventano opera d'arte compiuta in sé, a cominciare da tele che hanno come titolo «Melanconia», «Disperazione», «Paura», e che mettono insieme le suggestioni dei drammi di Ibsen e Strindberg, la filosofia esistenzialista di Kierkegard e le teorie di Freud. Munch, nato il 12 dicembre 1863 a Löten, in Norvegia, decise di fare il pittore esordendo con soggetti familiari, ma importanti per la sua formazione artistica sono stati i viaggi a Parigi, in Italia e in Germania. «Non si possono più dipingere interni con uomini che leggono e donne che lavorano a maglia, ma si dipingeranno – scriveva Munch – esseri viventi che respirano e sentono, soffrono e amano. Sento che lo farò che sarà facile. Bisogna che la carne prenda forma e che i colori vivano». Ed è da queste convinzioni che nasce la sua forma di espressionismo. L'incolumità del dolore, il suono quasi assordante del silenzio che separa i vivi racchiusi in una stanza divenuta quasi prigione, si percepiscono nella « Morte nella camera della malata » (1893), in cui è raffigurata la morte della sorellina Sophie quando lui aveva 14 anni. Nel 1908 qualcosa si spezza nella mente di Munch e la follia esplode. Per manie di persecuzioni e allucinazioni che gli procurano una paralisi agli arti, il pittore rimane per otto mesi in una clinica di Copenaghen. Poi l'esilio desiderato da lui stesso, in seguito torna in Norvegia, dove sceglie di vivere lontano dalla città a contatto con la natura. Nel 1937, ottantadue dipinti dell'artista vengono bollati dai nazisti come arte degenerata. Alla sua morte, nel gennaio 1944, Munch lascia tutti i suoi averi in eredità al Comune di Oslo, dove nel 1963 è stato inaugurato il Museo a lui dedicato. A Roma, nella mostra promossa dal Comune, ci sono opere che provengono dal Munch-Museet, dalla Nasjonalgalleriet di Oslo, dal Bergen Kunstmuseum di Bergen, dallo Statene Museum for Kunst di Copenaghen, dall'Ateneumin Taidemuseo di Helsinki, dal Wallraf-Richartz-Museum di Colonia, dallo Sørlandest Kunstmuseum di Kristiansand, dal Lillehammer Kunstmuseum di Lillehammer, dal Trondheim Kunstmuseum di Trondheim e dal Rogaland Kunstmuseum. L'esposizione, curata da Øivind Storm Bjercke, si è avvalsa di un prestigioso comitato scientifico composto da Claudio Strinati, Enrik Mørstad, Achille Bonito Oliva, Einar Petterson e Renato Barilli.
«meglio sapere che ignorare»
La Stampa 16.6.05
Risultato zero?
Proprio no
Lietta Tornabuoni
VERSO la fine di discussioni, dibattiti e confronti sul referendum, diciamo mercoledì o giovedì scorsi, alla parola «embrione» già si cambiava di scatto canale televisivo o si buttava il giornale, tanto non se ne poteva più. Era esasperante stare a guardare uomini di solito anziani e brutti, sparuti o grassi, in giacca e cravatta, supponenti o suadenti, che con autorità e prosopopea discettavano all'infinito di cose che sovente non conoscevano affatto, che facevano loro impressione solo a nominarle, che non appartenevano al loro mondo e che avevano imparato mezza giornata prima di andare in tv. Oppure apprendere quali e quanti sgambetti, gherminelle, trappole, falso spirito, silenzi ipocriti venissero messi in atto su temi che gli stessi governanti affermavano essere cruciali, essenziali.
Eppure, come sempre, il referendum ha avuto una funzione culturale importante. Siamo stati costretti a riflettere su questioni di rilievo, a parlare di faccende solitamente trascurate. Forse i quesiti erano davvero troppo complicati e «delicati»: continuano a ripeterlo tutti, benché il termine «eterologa» non sia poi molto più difficile di «spinterogeno». Ma è stato impossibile sottrarsi al martellante indottrinamento televisivo, e abbiamo imparato molte cose nuove. Era accaduto quasi lo stesso (magari un po' meno) in occasione del referendum sull'articolo 18 o di altri referendum. Politicamente, il risultato zero può essere ritenuto da sinistra un fallimento, un errore; certo per come si è svolto non può essere giudicato da destra un successo, e ci vuole proprio uno come il presidente del Consiglio per definirlo un trionfo moderato significativo.
Ma culturalmente è stato prezioso. Ci ha dato pure un'idea più esatta dello stato del Paese, dei risultati di pressioni e ricatti reciproci, del comportamento di alcuni leader ai quali invano il presidente Ciampi raccomanderebbe di «tenere la schiena dritta», del peso del Vaticano negli affari pubblici d'Italia. Magari non sono informazioni rassicuranti: però, come sempre, meglio sapere che ignorare.
Risultato zero?
Proprio no
Lietta Tornabuoni
VERSO la fine di discussioni, dibattiti e confronti sul referendum, diciamo mercoledì o giovedì scorsi, alla parola «embrione» già si cambiava di scatto canale televisivo o si buttava il giornale, tanto non se ne poteva più. Era esasperante stare a guardare uomini di solito anziani e brutti, sparuti o grassi, in giacca e cravatta, supponenti o suadenti, che con autorità e prosopopea discettavano all'infinito di cose che sovente non conoscevano affatto, che facevano loro impressione solo a nominarle, che non appartenevano al loro mondo e che avevano imparato mezza giornata prima di andare in tv. Oppure apprendere quali e quanti sgambetti, gherminelle, trappole, falso spirito, silenzi ipocriti venissero messi in atto su temi che gli stessi governanti affermavano essere cruciali, essenziali.
Eppure, come sempre, il referendum ha avuto una funzione culturale importante. Siamo stati costretti a riflettere su questioni di rilievo, a parlare di faccende solitamente trascurate. Forse i quesiti erano davvero troppo complicati e «delicati»: continuano a ripeterlo tutti, benché il termine «eterologa» non sia poi molto più difficile di «spinterogeno». Ma è stato impossibile sottrarsi al martellante indottrinamento televisivo, e abbiamo imparato molte cose nuove. Era accaduto quasi lo stesso (magari un po' meno) in occasione del referendum sull'articolo 18 o di altri referendum. Politicamente, il risultato zero può essere ritenuto da sinistra un fallimento, un errore; certo per come si è svolto non può essere giudicato da destra un successo, e ci vuole proprio uno come il presidente del Consiglio per definirlo un trionfo moderato significativo.
Ma culturalmente è stato prezioso. Ci ha dato pure un'idea più esatta dello stato del Paese, dei risultati di pressioni e ricatti reciproci, del comportamento di alcuni leader ai quali invano il presidente Ciampi raccomanderebbe di «tenere la schiena dritta», del peso del Vaticano negli affari pubblici d'Italia. Magari non sono informazioni rassicuranti: però, come sempre, meglio sapere che ignorare.
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