domenica 18 luglio 2004

lo stile americano
contro l'ansia
il festival delle coccole a New York

Corriere della Sera 18.7.04
negli Usa SI USA
La festa delle coccole contro l’ansia urbana
di ALESSANDRA FARKAS


NEW YORK - Altroché negozi aperti tutta la notte e costose serate culturali all'aperto. Per alleviare l'ansia collettiva dei romani costretti in città durante la calura estiva, il sindaco Walter Veltroni dovrebbe prendere l'esempio dalla Grande Mela. L'ultima moda della «città che non dorme mai» si chiama Cuddle Party, ovvero festa delle coccole, dove tutti si abbracciano distesi per terra, in un appartamento privato. Guai però a chiamarle orge, perchè a queste feste della tenerezza tanto in voga nell'estate newyorchese è d'obbligo il pigiama ma il sesso è severamente bandito. A vigilare sullo spirito platonico dei party ci pensano le Cuddle Life Guards, castigamatti del pudore incaricati di ripescare i malintenzionati e rimetterli in riga.
«Si può anche portare un cuscino e un peluche - spiega Reid Mihalko, ideatore del nuovo modo di passare le serate insieme alla compagna Marcia Baczynky - ma prima di baciarsi bisogna chiedere il permesso». Qualcuno le ha già paragonate alla Summer of Love di San Francisco e alla Woodstock degli anni '60: raduni di massa il cui vero scopo è riscoprire il piacere semplice dello stare insieme, darsi affetto e comunicare.
A giudicare dal loro successo, i frenetici newyorchesi tengono moltissimo a riscoprire i valori perduti, spesso sacrificati dalla cultura anglosassone e puritana dove il contatto fisico rasenta il peccato. Non nei Cuddle Party: venti dollari all'entrata e si è liberi di coccolare chi si vuole per tre ore e mezza, dopo che sono state fatte le debite presentazioni tutti seduti in circolo e tutti con addosso il pigiama meno sexy del proprio guardaroba.
E dalla Grande Mela la ricetta anti-alienazione metropolitana sta già arrivando in altri Paesi. Secondo il sito web Cuddleparty.com, le Hawaii e le Isole Vergini sono state contagiate ed iniziative analoghe stanno nascendo in Inghilterra ed Australia. Ma a detta degli esperti la cosiddetta «rivoluzione di flanella» non è esportabile ovunque.
«Ti immagini manifestazioni di affetto e coccole senza secondi fini in un Cuddle Party a Roma? - ironizza il sociologo Bob Rosen - penso che non accadrebbe neppure se il papa fosse eletto presidente».

scuola islamica
com'era prima dell'integralismo

Repubblica 18.7.04
L'insegnamento consisteva nell'Islam, fondamenti e regole
Per molti bimbi la lezione dello sheikh era l'unica disponibile
Così si studiava alla Madrassa tra grammatica e Corano
Nelle scuole islamiche prima dell'integralismo
il testo religioso L'insegnamento si incentrava sulla memorizzazione, sulla ritmica e sullo studio dei riti e dei dogmi dell'Islam. Non capivamo molto: tutto si basava sulla capacità di memorizzare le sure
Un ricordo degli anni Sessanta, quando la cultura araba poteva convivere con quella occidentale tutti i giorni senza conflitti
la lezione Ci sedevamo a terra, con le gambe incrociate. Non tutti avevano il gesso e la lavagna, la maggior parte scriveva come cent'anni fa, con inchiostro vegetale su tavolette di legno ereditate dal genitore
di KHALED FOUAD ALLAM


Dopo aver vissuto la prima infanzia in Marocco, io, mia madre, mio fratello e le mie sorelle alla vigilia dell´indipendenza raggiungemmo l´Algeria per ritrovarvi mio padre che era andato a combattere per l´indipendenza (liberazione?) del paese. La guerra aveva causato la temporanea separazione della famiglia; in Marocco mia madre era direttrice di una scuola elementare, e al nostro ritorno in Algeria fu nominata direttrice della scuola femminile Capitain Zaghloul, in un quartiere popolare di Orano.
Mia madre fu la mia prima maestra, imparai da lei i primi rudimenti della lingua coranica e delle sue sure, ma anche della cultura europea, poiché ella credeva alla possibilità di una simbiosi fra le culture - ne è prova il fatto che risale a quegli anni la mia passione per la musica classica. Nonostante la guerra tra Francia e Algeria, per lei la cultura era in grado di unire tra loro gli esseri umani. Mi aveva iscritto nella sezione maschile della sua scuola, ma quando ebbi otto anni decise anche di completare il mio insegnamento religioso mandandomi in una piccola madrassa (scuola coranica).
Lì, tre volte alla settimana, sotto lo sguardo dolce e attento di un vecchio sheikh, mi confrontai con quello che più tardi ho chiamato l´universo coranico. Ci sedevamo a gambe incrociate, su stuoie stese a terra; non tutti possedevano allora il gesso e la lavagna, la maggior parte degli altri alunni scriveva come cent´anni fa con un inchiostro vegetale facilmente cancellabile su tavolette di legno che spesso si trasmettevano dal genitore al figlio, tavolette che oggi sono diventate oggetti d´antiquariato. Alla madrassa si imparava tutto ciò che è l´islam, i suoi fondamenti e le sue regole; ma la scuola coranica era anche il mezzo attraverso il quale i bambini, molti dei quali analfabeti, potevano accedere alla conoscenza della lingua e della grammatica, perché si partiva dal Corano per comprendere le forme grammaticali della lingua araba e della lingua coranica. Spesso la madrassa sostituiva la scuola statale, perché molti bambini dovevano lavorare per aiutare i genitori, e dunque non potevano frequentare la scuola durante il resto della giornata. L´insegnamento si incentrava sulla memorizzazione del testo coranico, sulla ritmica coranica e sullo studio dei riti e dei dogmi dell´islam; certo non capivamo molto, perché tutto si basava sulla capacità meccanica di memorizzare il Corano, ripetendone le sure quasi all´infinito.
Capii più tardi che, nel mondo arabo e più in generale nell´islam, questa insistenza sulla memorizzazione linguistica era il mezzo attraverso il quale l´islam si definiva, nel senso che in esso la coscienza linguistica serve a costruire la sua peculiare psicologia religiosa. Studiai due anni in questa madrassa, ma per me era forte il contrasto con l´altra scuola, quella in cui insegnava mia madre, dove giocavo con i compagni, mentre nella madrassa l´insegnamento era estremamente austero, e tutti i giorni sembravano ripetersi uguali a se stessi.
La sede della scuola statale era un insieme di capannoni militari in metallo, a forma di tenda; non c´era nemmeno un getto di cemento come pavimento, ma semplice terra battuta che quando faceva caldo si trasformava in polvere, come se volesse annunciare che il deserto non era lontano. Durante la primavera e l´estate nelle aule il caldo era terribile, il maestro lasciava sempre la porta aperta e talvolta si arrabbiava con noi alunni perché tutti cercavamo di guardare fuori, oltre la porta. Era come se volessimo impadronirci di una libertà che le ore scolastiche ci sottraevano.
La povertà era grande in quegli anni. L´orario scolastico era a tempo pieno, mattina e pomeriggio, e si mangiava a scuola. Mi ricordo come fosse ieri il piatto unico che consumavamo, in ciotole di alluminio: patate con pezzi di grasso di montone o di bovino, oppure minestra (shorba) fatta col pomodoro; per molti di quei bambini quel piatto sarebbe stato l´unico della giornata. All´epoca le classi non erano composte da alunni tutti della stessa età - io, quando avevo nove anni, mi trovavo anche insieme a ragazzi di tredici o quattordici anni - e talvolta vi era qualche disagio nel conciliare le esigenze e nell´impartire lo stesso insegnamento a bambini e a ragazzi che iniziavano l´adolescenza.
In quegli anni si insegnava ancora in due lingue, vale a dire in arabo e in francese: la storia, la geografia e la letteratura venivano insegnati in lingua araba, la matematica e le scienze in francese. Gli insegnanti di arabo provenivano da tutto il Medio Oriente, perché all´epoca l´Algeria quasi non disponeva di quadri capaci di insegnare in arabo: il colonialismo e la guerra avevano impedito l´emergere di una classe dirigente compiutamente arabizzata. Più tardi si seppe che molti di questi insegnanti provenienti dal Medio Oriente appartenevano al movimento fondamentalista islamico dei Fratelli Musulmani, e che essi ebbero un ruolo rilevante nel condizionare un´intera generazione di algerini tra fine degli anni ?60 e inizio degli anni ?70. E´ così che solo qualche anno dopo compresi il senso di un incidente accaduto nella mia classe, quando un insegnante proveniente dalla Siria ebbe qualcosa da dire su un comportamento che definì «poco musulmano» a un alunno che allora aveva quindici anni: tra i due vi fu una violenta colluttazione in cui fu persino rovesciata la cattedra del maestro, e dovette intervenire il direttore per separarli.
All´epoca, sia in Algeria che nel resto del mondo arabo, la scuola rappresentava l´elemento centrale su cui lo stato aveva puntato le speranze: tutti noi ci sentivamo in qualche modo depositari del destino della nazione e dell´islam. Ogni mattina alle otto, in piedi, anche in quella caserma divenuta scuola, dovevamo cantare in coro l´inno algerino (Kasaman), che finisce con la parola, ripetuta due volte, shuhada (martiri, nel senso di martiri della nazione). Mi ricordo che, sfogliando i miei libri di scuola, due parole ricorrevano spesso: thawra (rivoluzione) e turath (patrimonio), due parole chiave che per il mondo arabo rappresentano e riassumono tutto un periodo storico, ma che hanno anche definito la problematica con cui essi si rapportano con i mondi altri. Rivoluzione significava emancipazione dalla storia, dall´occidente, dal potere coloniale; ma significava anche modernizzazione, con un inizio di apertura rispetto alla rigida tradizione dell´islamica: ora le ragazze potevano accedere alla scuola, a volte potevano insegnare, come ad esempio mia madre. Ma tutto questo slancio iniziale contraddiceva e urtava con la nozione di turath, vale a dire con il recupero della personalità arabo-islamica, formalizzato e ricorrente nei manuali scolastici, e ribadito dal corpo insegnante. Questa contraddizione in atto nel mondo arabo e musulmano era presente anche nella mia scuola Capitain Zaghloul: vi si contrapponevano due mondi che rimanevano separati, tra i quali non veniva gettato alcun ponte, non si dava alcun passaggio, in modo che tutto tendeva a irrigidirsi; e spesso l´assenza di uno sguardo critico si coniugava alla povertà materiale.
Mi ricordo anche dell´inverno del 1966: mia madre mi convocò nel suo ufficio, a scuola, per dirmi che nel pomeriggio sarebbe passata una missione della Nazioni Unite per distribuire ai bambini della scuola un burnus, (mantello maghrebino fatto di lana grezza con un lungo cappuccio), e che io non dovevo mettermi in fila per ricevere quel dono perché noi stavamo bene mentre gli altri bambini erano molto poveri. Capii più tardi che non solo mia madre mi aveva inculcato questi principî di giustizia, ma li avevo imparati anche nella piccola madrassa: a contatto con la povertà e con la spiritualità dello sheikh, cresceva in me la necessità di capire l´altro.
Negli anni che seguirono tutto sarebbe diventato più difficile: sentivo indurirsi gli animi, mentre il conflitto israelo-palestinese sbarcava sulle nostre radio e televisioni e nelle nostre piazze. Tutto quanto perdeva in spiritualità e cresceva in ideologia; si possono leggere questi cambiamenti negli stessi manuali scolastici, analizzandone i discorsi ma anche le immagini. Mentre nella mia infanzia si potevano vedere immagini di persone vestite all´occidentale o all´araba, insieme, l´immagine dell´arabo occidentalizzato è gradualmente scomparsa; la donna che si era scoperta dal velo ora tende a ricoprirsi; e, come ne "La pelle di zigrino", il mondo si richiude su sé stesso. Parole di fuoco avrebbero incendiato la mia terra natale per poi riversarsi sul mondo intero. In quegli anni un mondo diverso era possibile, forse era a portata di mano: ma le nazioni non sempre mantengono la promettente bellezza dell´inizio.

l'autore di Fosca
il romanzo pacifista di uno dei più celebri autori della scapigliatura

La Gazzetta del Sud 18.7.04
«UNA NOBILE FOLLIA» DI IGINIO UGO TARCHETTI (1839 - 1869)
Quel romanzo pacifista dell'Ottocento
di Paolo Petroni


«Le disfatte di Custoza e Lissa hanno giovato al nostro Paese assai più che una grande vittoria, lo hanno liberato della piaga terribile del militarismo». Lo afferma Iginio Ugo Tarchetti, uno delle figure rappresentative della nostra scapigliatura, nella prefazione alla seconda edizione del suo romanzo «Una nobile follia» (Oscar Mondadori, pp. 198 - 6,80 euro), uscito nel 1867. Lo scrittore aggiunge: «Una voce è già sorta nel Parlamento a chiedere l'abolizione dell'esercito. Non è lontano il giorno in cui la condanna morale che pesa su questa istituzione avrà trionfato degli ultimi pregiudizi che la sostengono». Siamo in una posizione opposta a quella dei coevi bozzetti di «Vita militare» di Edmondo De Amicis, del resto nati su richiesta degli alti comandi militari che, proprio per contrastare il successo del romanzo di Tarchetti, chiesero di scrivere qualcosa al giovane tenente, futuro autore di «Cuore» e allora ancora militare. Naturalmente per arrivare a sostenere le sue tesi, Tarchetti usa lo strumento narrativo ad arte e racconta nel suo romanzo sia la battaglia del 16 agosto 1855 in Crimea, presso il ponte di Traktir sulla Cernaia, dove le truppe piemontesi sconfissero quelle russe, sia una visita al campo di combattimento di Inkermann del protagonista, Vincenzo D., dove si era svolta il novembre prima un'altra tremenda carneficina (si parla di 10 mila russi e 5 mila anglo-francesi) che aveva fatto soprannominare il luogo «Il Macello». Il curatore di questa edizione odierna, Roberto Carnero, inizia la sua introduzione facendo un paragone tra la descrizione di questa visita e poi della battaglia della Cernaia con le scene iniziali del film «Salvate il soldato Ryan» di Spielberg e i suoi primi piani cruenti e sanguinosi dello sbarco in Normandia. Tarchetti descrive «pozzanghere di sangue» divenute «croste ampie nerastre», «soldati insepolti», «cadaveri che cadevano a brani dai pruni dei dirupi cui erano rimasti sospesi», «mucchi di corpi corrotti» e così via, cui segue la non meno orribile battaglia. Una descrizione dall'interno che non salva nulla, non trova attenuanti, non scopre atti d'eroismo, non mostra momenti ideali di valore individuale, ma punta sul nonsenso generale dell'eccidio in atto, esprimendo tutta la negatività di quella «epopea di sangue». L'inizio della battaglia, dopo aver descritto il dispiegarsi degli eserciti in mezzo a una natura idillica, mette a fuoco i cannoni: «Tutte quelle bocche stanno spalancate, nere, ampie, inesorabili. Ancora non si sono vedute, ancora non si è tentato di fuggirle, che vomitano un'onda di ferro e fuoco, e atterrano, non salvando un sol uomo, i primi battaglioni». Poi vengono i «ruscelli di sangue» frutto di una lotta «non più di uomini ma di jene» con corpi «appesi per le vertebre ai rami spezzati poco prima dalla mitraglia» o «i verdi tappeti delle eriche» cosparsi «di membra e viscere lacerate», mentre dal comando piemontese arriva lo storico e orribile ordine di erigere trincee con i mucchi di cadaveri dietro cui ripararsi. E in questa situazione che Vincenzo D., contro ogni sua volontà, ammazzare per un gesto istintivo di legittima difesa un giovane nemico polacco, dopo di che, preda di quella «nobile follia» che dà il titolo al romanzo, decide di disertare, tanto che oggi potrebbe essere visto come un potenziale simbolo storico per quanti innalzano le bandiere con l'arcobaleno della pace, contro il perdurare delle guerre.

la legge sulla fecondazione: i Ds:
sì ai referendum per la laicità dello Stato

Repubblica, edizione di Firenze 18.7.04
L´INTERVENTO
Un referendum per riaffermare la laicità dello Stato
di MARISA NICCHI e ENRICO ROSSI

Gli autori sono consigliera regionale Ds e assessore regionale alla salute


Da tempo la Regione Toscana si è posta il compito di governare, a tutela del diritto alla salute, l´uso delle tecniche di fecondazione artificiale. A questo fine sono nati il regolamento che prevede i criteri sanitari e il consenso informato per accreditare i centri che operano in questa materia e la stipula di una convenzione con i privati per garantire l´accesso alle tecniche. L´approvazione della legge sulla procreazione assistita ha invece aperto seri problemi. E´iniziato il "turismo procreativo" di tante coppie italiane, e anche toscane, costrette a recarsi all´estero per realizzare il desiderio di avere figli, o per prevenire malattie, dal momento che lì sono ammesse tecniche fecondative qui vietate. Anziché governare, questa legge proibisce. L´esperienza insegna che il divieto, quando non corrisponde ad un convincimento - in questo caso nega aspirazioni sacrosante - è destinato ad essere aggirato, eluso, e rischia di diffondere il mercato clandestino a discapito della salute e del principio di non discriminazione. A questo saranno spinte le coppie a cui questa legge vieta la fecondazione eterologa (cioè la possibilità di ricorrere a un donatore esterno alla coppia stessa), quelle che vorranno ricorrere a tecniche particolari per rimediare a malattie, e quelle donne che non vorranno subire coattivamente interventi inutili e dannosi. La recente legge è inefficace e inapplicabile. Un manifesto che lede la responsabilità femminile nella procreazione e il desiderio di paternità, ostacola la ricerca di nuove cure e la deontologia medica, viola il principio di laicità dello Stato. Non garantisce, come invece hanno fatto i provvedimenti toscani, le condizioni di sicurezza e l´adeguata informazione a sostegno di scelte più consapevoli, ma si spinge piuttosto a sanzionare scelte private per eccellenza, come le relazioni familiari. Non a caso hanno espresso la propria indignazione le tante coppie lese e un´ampia opinione pubblica: medici, giuristi, scienziati, donne e uomini del mondo della cultura. Altro deve essere il modo di regolare questi temi, assicurando il rispetto di responsabilità liberamente assunte e, con il ruolo delle Regioni, il diritto alla salute. In questi giorni si è realizzato un fatto politico importante: la decisione di chiedere al Paese di esprimersi direttamente su questo delicato tema con quattro referendum su punti specifici della legge, che si aggiungono a quello che propone la cancellazione totale della legge. È l´occasione per un approfondito confronto e dialogo tra diverse culture e soggetti, per rispondere alle sofferenze di tante coppie e riaffermare la laicità dello Stato e il diritto alla salute.

Giulio Giorello
Giordano Bruno e il suo Candelaio

La Stampa 18.7.04
Il «Candelaio» di Giordano Bruno, un invito ad andare oltre le apparenze. Come svelare il fitto intreccio di travestimenti e sdoppiamenti nel «teatro del mondo»
Siamo tutti attori sul palcoscenico della vita
di GIULIO GIORELLO e NUCCIO ORDINE


Nelle diverse metafore che in generale comparano la vita e l'arte, quella del teatro del mondo ha conosciuto grande successo. Tra ciò che vediamo sul palcoscenico e ciò che accade sotto i nostri occhi nella realtà di tutti i giorni è possibile riscontrare una serie di analogie in grado di illuminare aspetti importanti dell'immensa scena su cui agisce il genere umano. Non a caso nel Globe Theatre di Shakespeare, luogo fondatore del dramma moderno, veniva ricordato agli spettatori, con un motto scolpito a grandi lettere («Totus mundus agit histrionem»), lo stretto rapporto che lega il mondo al teatro. Come accade per i topoi di lunga durata, non è possibile racchiudere il senso di questa comparazione all'interno di un unico e solo significato. Dal mondo classico (Platone, Seneca, Epitteto, Plotino) al Rinascimento (Ficino, Erasmo, Bruno, Campanella, Shakespeare, Cervantes, Calderón) l'immagine del teatro del mondo viene piegata a usi diversi, e talvolta opposti, spesso in opere di un medesimo autore.
Platone, Epitteto, Plotino - da punti di vista differenti - sottolineano il rapporto che si crea tra l'attore che recita in teatro e l'uomo che si muove sul palcoscenico della vita: entrambi non possono scegliersi i ruoli, ma sono costretti a giocare quella parte che viene loro assegnata da un regista esterno. E sovente nella commedia universale, come sottolinea Campanella in un bellissimo sonetto dedicato a una cruda analisi della realtà politica, gli attori prescelti non sono all'altezza di recitare quei ruoli di prestigio cui sono stati destinati: «Fra regi, sacerdoti, schiavi, eroi, / di volgar opinione ammascherati, / con poco senno, come veggiam poi / che gli empi spesso fûr canonizzati, / gli santi uccisi, e gli peggior tra noi / prìncipi finti contra i veri armati».
A partire da questa mancanza di corrispondenza tra il valore effettivo di chi recita e la parte che gli viene assegnata, è possibile rileggere la metafora teatrale anche alla luce dello scarto che si crea, nella vita e sul palcoscenico, tra realtà e apparenza, tra interiorità ed esteriorità. Seneca, per esempio, in diversi passaggi delle Lettere a Lucilio , non perde occasione di sottolineare il valore illusorio delle ricchezze e del potere. E lo fa paragonando appunto gli uomini agli attori. Chi occupa ruoli di prestigio nella vita deve fare attenzione a ciò che accade in una rappresentazione teatrale: l'istrione mascherato da re o da potente, una volta spogliato del suo travestimento, ritorna a essere quello che veramente era nel quotidiano. Dismessi abiti di porpora e toghe magistrali, solo la pura «nudità» potrà essere misura del suo valore.
Giordano Bruno, che impiega esplicitamente la metafora teatrale in un passaggio del De gli eroici furori, trasforma il Candelaio in un vero e proprio teatro del mondo, mettendo in scena le illusioni e le follie provocate dallo scarto tra realtà e apparenza. L'esteriorità, nella commedia e nella vita, inganna su diversi piani. Anzitutto su quello della poetica: com'è possibile separare tragedia e commedia, riso e pianto, quando questi contrari interagiscono continuamente sul palcoscenico della vita? Il Candelaio , è vero, si presenta come una commedia. Ma, dissolvendo tutti i precetti aristotelici, la pièce si rivela anche come un' ouverture musicale, in cui l'autore anticipa alcuni grandi temi della «nolana filosofia» che saranno poi sviluppati nei sei movimenti dei dialoghi londinesi. La stessa struttura teatrale finisce per anticipare i disorientamenti provocati dall'universo infinito: non più una storia unica, ma un intreccio di molteplici vicende che mettono in crisi qualsiasi centro assoluto. Già Copernico aveva compreso l'«apparenza» di uno spettacolo naturale: la volta celeste ogni ventiquattr’ore sembra compiere un giro intorno alla Terra. Tutto ciò però si basava sulla «fissità» del nostro Globo. Ma anche questa «fissità» era un ulteriore inganno! Bruno fa di più: ogni punto dell'immenso universo può essere il luogo di uno spettatore intorno a cui è «costruita» una personale platea. Macchine e macchinazioni possono tuttavia venir svelate dalla retta ragione, capace di intendere il carattere relativo di quel particolare punto di vista. Bruno, insomma, sul piano della cosmologia e sul piano dell'estetica, unisce ciò che Aristotele e gli aristotelismi avevano separato: il cielo e la terra, il serio e il comico. Natura e letteratura si presentano nella loro profonda unità.
L'immagine della commedia universale, attraverso il fitto intrecciarsi di travestimenti e sdoppiamenti, diventa uno specchio in cui è possibile ritrovare gli inganni che si vivono sulla scena del mondo. Bruno voleva mettere sotto gli occhi ciò che si nasconde dietro le apparenze, illuminare con il suo Candelaio un universo caratterizzato dalle ombre e dalle illusioni, dalle finzioni e dalle maschere, dalle mutazioni e dalle vicissitudini.

Il testo è tratto dalla relazione «Giordano Bruno e il teatro del mondo», che Giulio Giorello e Nuccio Ordine terranno domani alle ore 11, presso l'Hotel Murat di Positano, all’interno delle manifestazioni «Sole, mare e cultura»