mercoledì 5 novembre 2003

la scienza secondo Paolo Rossi

L'Unità 05.11.2003
Per una scienza libera
di Paolo Rossi*


Paolo Rossi ne è convinto, non sempre la storia si sviluppa con continuità. Talvolta il suo flusso è puntuato, segnato qui e là da forti discontinuità. Una di queste soluzioni di continuità è rappresentata da quella che lui stesso definisce, non a caso, «la rivoluzione scientifica». La novità, straordinaria nel senso letterale del termine, che nell’ambiente culturale dell’Europa del Seicento hanno introdotto Galileo, Cartesio, Newton. Quella rivoluzione, nei successivi quattrocento anni, ha informato di sé la storia del nostro continente e, poi, del mondo intero.
Paolo Rossi, nato a Urbino e laureatosi con Eugenio Garin, è professore emerito in Storia della filosofia presso l’università di Firenze e storico, tra i maggiori del mondo, della scienza. Quest’anno compie ottant’anni. E domani il suo compleanno sarà omaggiato, come si conviene a un grande studioso, con un convegno a Forlì.
Professor Rossi, perché in polemica con molti «continuisti» lei parla di «rivoluzione scientifica»?
«Vorrei precisare che il termine “rivoluzione scientifica” non l’ho inventato io. Era già in uso da tempo, anche se alcuni lo hanno criticato. Io, al contrario, sono convinto che si debba parlare di “rivoluzione scientifica” perché l’attività di Galileo e di tanti altri filosofi naturali nel Seicento ha rappresentato una forte novità. Come accade, appunto, nelle rivoluzioni. Noi non usiamo la parola come nella tradizione dell’astronomia, per cui rivoluzione è il ritorno al punto di partenza. Noi attribuiamo alla parola il significato che in sede storica ha acquisito dopo la rivoluzione americana e dopo la rivoluzione francese, di rottura con il passato. Per cui se uno elenca i punti di rottura con il passato dell’attività degli scienziati del Seicento ne trova almeno cinque o sei che sono di non ritorno, dove si affacciano nella storia cose nuove. Tra queste cose nuove c’è l’immagine della natura, in cui non c’è più distinzione di essenza tra corpi naturali e artificiali. Un’altra novità è il rapporto che si instaura tra gli studiosi, che formano una sorta di autonoma Repubblica della Scienza, che trascende i confini delle nazioni e dove non esiste l’ipse dixit».
Tra i caratteri fondanti e rivoluzionari della «scienza nuova» c’è dunque la dimensione della comunità dei filosofi naturali che la sostengono? Una dimensione che travalica i confini nazionali e diventa europea?
«Certo, uno dei punti di rottura tra la cultura scientifica del Seicento e la cultura precedente è proprio questa dimensione continentale e tendenzialmente globale. Uno dei filosofi del Seicento che io amo e ho molto studiato, Francis Bacon, conosciuto in Italia come Francesco Bacone, usò a questo proposito un concetto che poi, ai nostri tempi, ha avuto una risonanza straordinaria: il globo intellettuale deve coincidere, al limite, con il globus mundi, ovvero con l’intero globo terracqueo. Fu, quello di Francis Bacon, un modo di anticipare il tema della globalizzazione. Facciamo attenzione a questo concetto. Francis Bacon si era convinto che si fosse affacciato sul proscenio un tipo di cultura che avrebbe condotto il mondo all’unità del sapere. Al medesimo sapere diffuso in tutto il mondo. Lui, naturalmente, si faceva araldo di questa tesi, che era anche una speranza. Le previsione di Francis Bacon si è poi avverata. Non c’è dubbio, infatti, che la globalizzazione è ormai pienamente attuata nel campo del sapere scientifico. Le dirò qualcosa che può sembrare assolutamente banale: ma un ragazzo che intende oggi imparare la genetica si prepara sullo stesso manuale, magari scritto in lingua diversa, sia che studi in un’università africana, sia che studi in un’università giapponese o europea. Voglio dire che non c’è una genetica spagnola diversa da una genetica statunitense. C’è un unico sapere genetico in tutto il mondo. Anche se tutto ciò ci sembra ovvio, a ben vedere costituisce un fatto davvero straordinario. Non è stato sempre così. Prima della rivoluzione scientifica non era così».
Tuttavia la scienza non è uniformemente presente in tutto il mondo. E un giovane africano che intende studiare genetica ha più difficoltà di un giovane giapponese o europeo.
«È vero che la scienza oggi è limitata ad alcune parti del mondo. È vero che ci sono parti del mondo in cui ancora non c’è scienza o non c’è ancora scienza a sufficienza. Ma il processo di globalizzazione del sapere scientifico continuerà ad andare avanti. È un processo che non può essere arrestato».
L’universalità del sapere scientifico è intrinseca alla scienza stessa, è una componente essenziale dell’epistemologia scientifica, o è una costruzione storica, il frutto di una serie fortunata di contingenze? È è possibile immaginare una qualche forma di scienza nazionale, chiusa, locale?
«Direi proprio di no. Non è possibile immaginare una scienza nazionale, chiusa in un luogo. Dei tentativi in tal senso, per la verità, sono stati esperiti. E sono stati esperiti proprio nel XX secolo, nella Germania di Hitler e nell’Unione Sovietica di Stalin, dove c’era, rispettivamente, una fisica ariana che si contrapponeva alla fisica di Einstein - che nel frattempo era emigrato negli Stati Uniti - e c’era una genetica “non borghese”, diversa da quella sviluppata nel resto d’Europa. Questi tentativi di costruire una scienza nazionale o di classe, frutto in genere di interventi esterni alle comunità scientifiche, hanno avuto e avranno sempre, se saranno ritentati, degli effetti assolutamente deleteri. Bloccano lo sviluppo della scienza o di una disciplina scientifica, come è accaduto alla fisica tedesca nel periodo nazista. E come è accaduto alla genetica sovietica, che ha impiegato circa trent’anni per rimettersi al passo».
Lei pensa che un altro dei caratteri innovativi della cultura scientifica sia stata la rivendicazione di autonomia, che nel Seicento era una rivendicazione rispetto al potere religioso e che in seguito si è manifestata anche rispetto ad altri poteri?
«Certo, penso che anche questo sia un punto essenziale. Ed è un punto che non ha a che fare con una scienza particolare, con un teorema, con un esperimento o con una serie di dimostrazioni. Riguarda quella che si chiama “l’immagine della scienza”. Ovvero il problema di cosa sia la scienza e cosa deve essere. Mi lasci ribadire che questa dell’autonomia è un punto importantissimo, decisivo. È il punto dirimente, che rende o non rende la scienza elemento costitutivo di una civiltà. Quando la scienza moderna si è affacciata in Europa è accaduto che dei gruppi di uomini e di donne (poche, dati i tempi) si riunissero fuori dalle università, fuori dai conventi - cioè dai luoghi dove veniva elaborata la cultura - perché avevano esigenze diverse rispetto alle opportunità che offrivano i luoghi del sapere tradizionale. Nei luoghi in cui si riunivano, le Accademie - come la Royal Society o la stessa Accademia dei Lincei - fu stabilito un patto. Un patto ancora una volta banale in apparenza: in questo luogo non si parla né di politica né di religione. Qui restano fuori quegli elementi che sono essenziali nel più grande e drammatico e sanguinoso mondo fuori dalle nostre piccole Accademie. E, inoltre, qui c’è assoluta libertà di parola. Qui non vale l’autorità di chi parla. Qui non vale se uno è famoso oppure no, se ha ottant’anni oppure no. Qui vale solo quello che una persona dice. E ciò che una persona dice può e deve essere discusso da tutti e deve essere provato mediante esperimenti. Sensate esperienze e certe dimostrazioni, sosteneva Galileo Galilei. Faccio notare che questo non è solo un nuovo modo di dar vita a un sapere, ma è un nuovo modo di stare insieme. Che ha a che fare, fortemente, con ciò che noi chiamiamo democrazia. Certo, è una democrazia sperimentata in un mondo piccolo e artificiale. Ma è comunque una grande conquista. E una grande speranza. Una speranza, coltivata da filosofi come Hobbes o come lo stesso Cartesio, che questa democrazia potesse realizzarsi nel “grande mondo”, dove gli uomini hanno una certa propensione a scontrarsi e spesso a scannarsi».
Un altro punto di rottura della «nuova scienza» rispetto al vecchio «mondo di carta», come lo chiamava Galileo, è l’attacco a quello che Lei definisce il «paradigma della segretezza». Il sapere pubblico e trasparente è dunque coessenziale alla cultura scientifica?
«Lei ha toccato il punto importante. Per i fondatori della scienza moderna il sapere non è di pochi ma è, in linea di principio, di tutti. Nella cultura scientifica il segreto è un disvalore. La non comunicazione è un disvalore. La conoscenza scientifica va, per essenza, integralmente comunicata, perché il sapere scientifico è e deve essere praticabile da tutti. Oggi la fisica è, in linea di principio, accessibile a tutti. Chiunque, con più o meno sforzo, può arrivare al sapere fisico. Naturalmente questo non significa che tutti ci arrivino. Ebbene se solo si riflette per un momento sul fatto che per millenni il sapere vero era concepito come segreto, ermetico, accessibile in linea di principio a pochi, allora ci si rende conto che questo è un altro degli elementi che autorizzano a parlare di “rivoluzione scientifica”, di qualcosa di profondamente nuovo che si è affacciato nella storia. C’è, a ben vedere, qualcosa di letteralmente dissacrante nell’affacciarsi di questo sapere integralmente comunicabile a tutti. Perché in questo nuovo sapere non ci sono affermazioni sacre, non ci sono testi sacri. Tutto può e deve essere sottoposto, in linea di principio, a discussione. Nella nuova scienza la comunicazione è un valore. Un altro valore democratico. Tutto questo, non va nascosto, è nato in Europa. E si è diffuso in tutto il mondo. Certo, non sempre la cultura scientifica che ha la comunicazione integrale e quindi la trasparenza democratica come valori si è diffusa in modo che queste convinzioni accompagnassero lo sviluppo dell’intera società. Tuttavia da quattrocento anni c’è un pezzo di società in cui la comunicazione ha più valore della segretezza, in cui il linguaggio deve essere in linea di principio chiaro e accessibile - Descartes diceva che dobbiamo parlare come amici che fanno conversazione tra loro e nella Royal Society si diceva che bisogna parlare più come ai mercanti che come ai filosofi. E questo semplice fatto rende la “rivoluzione scientifica” un esempio costante per l’intera società. Un esempio da non disperdere».

* Storico della scienza

Erika e Lidia Ravera

Corriere della Sera 5.11.03
Un singolare libro dedicato dalla Ravera all’adolescente di Novi Ligure. A faccia a faccia con lo spettro della violenza
E Lidia disse a Erika: la scrittura ti salverà dai rimorsi
di Gian Mario Benzin


Si ha quasi paura, ad aprire questo libro, Il freddo dentro, di Lidia Ravera: una riflessione sul delitto di Novi Ligure. Paura di sentirsi travolti di nuovo nel gorgo di una tragedia di cui tutti abbiamo già letto troppo e troppo a lungo. Per carità, Erika e Omar ci hanno sconvolti abbastanza da non farci desiderare certo di ripercorrere quelle trame orrende e magari interrogarci e cercare di capire... Ecco il punto. Di questo delitto, in fondo, per quanto eccedente sia stata la massa della informazioni che per mesi ci ha sommersi, non sappiamo nulla, dal momento che non ne conosciamo le motivazioni. «Quello che nessuno sa, che nessuno spera di poter capire, che nessuno ha più voglia di chiedersi, è il perché. Perché l’hai fatto, Erika?», domanda la Ravera.
Ed è proprio da qui, da questa impellente, insostenibile inspiegabilità che il volume prende le mosse. Non è una semplice ricostruzione dei fatti, né una disquisizione psicoanalitica; la scrittrice non indulge al particolare sanguinario e non si compiace di alcuna sicumera esegetica. Non ha potuto incontrare gli assassini, non ha scoop per la cronaca nera. La sua analisi vibra piuttosto di passione umana. L’autrice si indigna, si scaglia, interroga, incalza. Contro l’attuale consegna del silenzio «che allontana il clamore e allevia il fastidio, ma lascia tutte le domande sepolte e insolute». Quasi vergasse di getto la sua "lettera a una bambina (purtroppo) nata", si rivolge a Erika in seconda persona, la chiama, la scuote, le dà della «piccola canaglia ignorante»; il suo è un appello, un’allocuzione continua; a tratti, un’affilata perorazione. «Erika, ascoltami, è orribile. Guardalo. Guarda quella scena. Abbi coraggio». Spaventosa, questa seconda persona, destabilizza il lettore come un terremoto edipico: di colpo, è come se Erika fossimo noi.
Infatti: con la sua prosa scarna e tagliente, e, insieme, con slancio che rasenta la poesia (i frequenti «a capo»), la scrittrice, soprattutto, mette in discussione se stessa (e noi). Tratteggia, sì, gli eventi, le indagini, l’inganno della finta rapina, l’ambiente familiare, la mancanza di ideali e di emozioni, l’incapacità di amare, la noia, il vuoto di quelle esistenze viziate e indifferenti. Ma subito trasforma ogni dato nello spunto di un confronto interiore.
Erika dice che la sua mamma era «bellissima e tranquilla». La Ravera sbigottisce e racconta della propria adolescenza, delle proprie ribellioni, di come credesse invece di odiare sua madre. Erika dice che lei e la mamma erano «uguali». La Ravera scatta: ma allora, «di che cosa ti sei voluta liberare, liberandoti di lei»? Ai suoi tempi, i giovani avevano Grandi Nemici Collettivi, i fascisti, i borghesi, la diccì, il presidente degli Stati Uniti; e oggi? Davvero il fine di quel delitto di coppia era «poter scopare liberamente», vista la libertà di cui tanti adolescenti sono oggi già sazi?
Così, a poco a poco, dal «primo piano» sulla villetta di Novi, il campo s’allarga ad una riflessione generazionale, sull’eternità dei ruoli di genitori e di figli, sull’eternità e la «normalità» del loro conflitto.
L’ultima inquadratura torna invece sul particolare e confida una delusione: la scrittrice voleva incontrare Erika (e non le è stato concesso), per offrirle il proprio corso di scrittura creativa. Perché scrivere è capire. Ed Erika dovrà capire. «Prima riuscirai a farlo, prima sarai libera». Il libro svela, così, da ultimo, il suo volto forse più profondo: un amaro, pudico inno alla parola che illumina e redime.

Il libro: «Il freddo dentro» di Lidia Ravera, editore Rizzoli, pagine 176, € 13,50. In libreria da domani

l'intervista di Ingrao citata al Martedì

La Repubblica 4.11.03
Pietro Ingrao interviene nel dibattito sulle nuove Br aperto su 'Repubblica' da Sergio Segio
La violenza di questi fantasmi ritorna con le guerre sante
l'intervista
di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - A Pietro Ingrao chiedo che cosa pensa delle Brigate rosse di oggi. «Le dico la verità: non mi interessano molto né la Lioce né gli altri. Per come li vedo io dal chiuso della mia casa, mi appaiono fantasmi, e credo che l' informazione abbia ancora parecchio lavoro da fare per ricostruire i loro percorsi e fissare la loro storia politica. Chi sono? Quali le loro vicende personali? Quali sono le loro fonti ideologiche e quali i libri che hanno sul tavolo? Dove si sono formati? Qual è l'humus che li alimenta?». Ma in attesa di queste storie, di cui comunque qualche brano comincia a emergere, qual è la stata la sua reazione al ritorno, diciamo così, delle Brigate rosse? «Collera. Provo nausea di fronte a questi neo-brigatisti che ammazzano gente innocente e pacifica sulla base di rozzi ideologismi da quattro soldi. Se davvero ci sono prove o anche gravi sospetti che abbiano assassinato D'Antona e Biagi, vanno ammanettati e chiusi in carcere e presto portati in tribunale, anche se non amo né i giudici né il carcere». Lei si chiedeva qual è l'humus che alimenta il nuovo terrorismo o quel che è sopravvissuto del terrorismo degli anni Settanta. Sergio Segio, che fu a capo di Prima Linea, avverte il pericolo che quell' humus oggi possa nascondersi nel movimento e nei settori più radicali del sindacato. Qual è la sua opinione? «Se si vuole sostenere che la Lioce e i suoi compagni sono parte e figli del movimento grandissimo che io ho visto dilagare in tutta Firenze, rispondo seccamente: no. Attenti, può anche darsi che la Lioce e i suoi complici girassero, in quelle ore, nelle vie fiorentine gremite fino all'inverosimile. Ma le centinaia di migliaia di persone che fecero grumo in quelle strade avevano in testa percorsi opposti e altre passioni. Di questo, sono certo...». ... Soltanto perché manifestavano per la pace e contro la guerra? «Non soltanto per questo, che pure conta; ma perché la grande maggioranza di quei manifestanti - moderati o estremisti che fossero - hanno in testa un'altra idea della politica: non credono che la rivoluzione - usiamo questa parola così alta e impegnativa - possa dipendere dal tagliare o meno una o due o dieci teste di economisti, per vicini che essi possano essere al potere». Alcuni - come Marco Revelli, ad esempio - ritengono che la sinistra e anche il movimento debba ancora fare molto per liberarsi dell' idea della politica come forza e, quindi, come violenza. Lo dico in modo brutale: c'è ancora nella sinistra un'idea della politica come "presa del potere", come violenza che può sostenere oggi, anche inconsapevolmente, le azioni dei terroristi e creare una pericolosa via d'uscita per minime porzioni del movimento? E' un'idea con cui la sinistra, dopo gli anni di piombo e addirittura dopo il 1989, non ha saputo fare i conti lasciando nella sua cultura quel sedimento distruttivo che ancora alimenta gli assassini della stella a cinque punte per quanto pochi, disperati e fantasmi essi possano essere. «Non sono d' accordo. Circa il rapporto tra politica, "presa del potere" e violenza, c'è un discorso ben più articolato da fare, e riguarda tutta la storia politica del Novecento, compreso Carl Schmitt. E sulla violenza, la riflessione della sinistra, con tutti i suoi limiti, è cominciata ben prima dell' 89. Io faticai molto ad accettare che i brigatisti rossi degli anni Settanta fossero comunisti». Perché? Lo dichiaravano. «Faticavo perché mi ero formato sulla convinzione che per abbattere il capitalismo, e soprattutto per costruire la nuova società socialista non valesse colpire il singolo, ma colpire il potere costituito e costruirne un altro. E ciò chiedeva un' azione collettiva, anche e soprattutto quando si giungeva all' urto decisivo: a quello che simbolicamente - e avendo in mente i film del grande cinema sovietico - si chiamava il mitico "assalto al palazzo d' inverno". Non mi è mai passato nella mente - anche quando agivo nel pieno della Resistenza italiana - di uccidere Agnelli e, nemmeno nel periodo della cospirazione, di attentare alla vita di Mussolini». E che cosa accadde quando vide "brigatisti" comunisti uccidere in nome della rivoluzione? «Respinsi a lungo, dentro di me, l'ipotesi che fossero veramente "rossi" o rivoluzionari che sbagliavano. Di quegli anni, ho nitido il ricordo di una discussione privata che ebbi con mia moglie. Mi sembra, all'indomani della morte di Mara Cagol. Mia moglie era comunista come me, e come me aveva partecipato alla lotta di Resistenza. Laura ha avuto il fratello incarcerato a Civitavecchia, e amici finiti in manette già prima del 25 luglio. Aveva partecipato alla cospirazione ed era scesa in lotta nella difficile Resistenza romana. Ma non condivideva il mio giudizio. Obiettò subito: "... dici così perché questi "brigatisti" non corrispondono all' immagine dei comunisti che hai nella tua testa. E invece no, si può essere comunisti in vari modi. Tu vedi solo dei comunisti uguali a te..."». E aveva ragione? «Aveva ragione. Io muovevo dalla lezione che avevo assorbito dall' inizio della mia esperienza cospirativa: avevo ostinatamente in testa la lotta di massa, l'azione collettiva della classe. Ricordo la distanza enorme che sentivamo verso le bombe e gli attentati degli anarchici; non solo perché sparavano e uccidevano, ma perché agivano da singoli e colpivano il singolo. E noi invece volevamo colpire la classe capitalista. Durante decenni e decenni di militanza comunista, ripeto, non mi è mai passato in mente il progetto di assassinare Agnelli e nemmeno Mussolini o Hitler. Non era per umanitarismo. Hitler mi appariva un potere collettivo, l'espressione di una classe. Bisognava contrapporre a ciò un altro potere collettivo e solo ciò poteva veramente sconfiggerlo. Questo era il grande compito per cui impegnarsi e attrezzarsi. Il resto per me, allora, era sbagliato e deviante. Mi fu oltremodo chiaro dinanzi alla tragedia di Moro». Quale fu la sua posizione in quei 55 giorni? «Fui sempre contro la trattativa con i "brigatisti"... Non per disciplina rispetto alla decisione del mio partito, ma perché avevo questa idea della politica. Ero presidente della Camera e potevo essere nel mirino anche io. Scrissi una lettera per mia moglie in cui esigevo, se fossi caduto nelle mani dei "brigatisti", di respingere ogni "scambio" che mi riguardasse, anche se io dal carcere brigatista l' avessi invocato, cedendo alla paura della morte. Ricordo quella mattina del marzo '78, quando stava per aprirsi il dibattito difficile sul nuovo governo Andreotti. E invece, alle 9,20 (mi sembra), nel mio ufficio mi giunse come un fulmine la telefonata di Cossiga che mi annunciava il rapimento di Moro e gli assassinii di via Fani. Da quel momento ebbi solo un assillo: che ci fosse presto, al più presto, un governo riconosciuto alla testa del Paese. E perciò, in aula, feci tutto ciò che era nelle mie possibilità per condurre a rapida conclusione quella seduta della Camera che doveva varare il nuovo governo. Ugo La Malfa, per questo, mi rimbrottò». Questa era la sua riflessione, ma come giudica la riflessione collettiva che la sinistra fece di quegli avvenimenti? «Penso che sui "brigatisti" degli anni Settanta ci sia stata a sinistra una riflessione vasta e assai articolata: sulla scia dell' obiettivo "rivoluzionario", e anche sul "leninismo", sull'idea che esso ha del potere e sugli errori fatali che segnarono il suo cammino. E non a caso il tempo dei brigatisti rossi è anche l'epoca in cui comincia a precipitare il collasso dell'Urss, finisce nel fango l'aggressione sovietica all'Afghanistan e riparte l'offensiva vittoriosa del capitalismo occidentale sotto la guida di Reagan e della Thatcher». Il leninismo, per quanto possa sembrare paradossale, è ancora vivo nei documenti delle Br di oggi. Le chiedo: la logica delle guerra può ancora attecchire, far proseliti? Esiste questo pericolo? «Non è certo il "movimento dei movimenti" - per ricorrere qui all' interessante intervista rilasciata a voi domenica da Fausto Bertinotti - a dover rispondere a questa domanda. Non c' è dubbio che il problema delle armi e dell' uccidere in politica torna oggi in una dimensione grave e grande. Ma è un problema che non interpella il "movimento", ma il capo della più grande potenza del mondo, che assume come pubblico obiettivo - e lo proclama e santifica dinanzi al mondo - la strategia della "guerra preventiva". È su questa "santificazione" delle armi come "prevenzione" salvifica e cuore della politica che bisogna riflettere, perché questa strategia riporta sulla cima degli altari la "guerra": questa parola sempre terribile, ma che oggi rimanda e ha a sua disposizione mezzi inauditi, messi alla prova finora solo in parte piccolissima. Questo mi allarma più della Lioce, e riguarda processi e delitti assai più grandi. E forse fornisce a quel pugno di neo-brigatisti pretesti stupidi per le loro povere farneticazioni. Posso anche sbagliarmi, ma queste farneticazioni non inquineranno o infetteranno un movimento che mi sembra abbia compiuto, in anni difficili, il faticoso cammino di un pacifismo, oggi consapevole che l'identificazione della politica con la guerra - nell'era ormai dell' atomica - è stato il disastro del mio secolo».
Pietro Ingrao, 88 anni, leader storico della sinistra, è stato presidente della Camera all'epoca del sequestro Moro.

il documentario su "Buongiorno, notte" a Firenze

La Repubblica, edizione di Firenze, MERCOLEDÌ, 05 NOVEMBRE 2003 Pagina XIII
STATION TO STATION
Acid jazz con Taylor Bellocchio secondo Incerti


una intervista al regista, Stefano Incerti, leggibile anche in un post precedente e segnalata da Annalina Ferrante e Carmine Russo è disponibile in originale QUI


la superstar dell´organo Hammond è di nuovo tra noi: James Taylor è ospite stasera di «Station to Station» alla Leopolda (ore 22, ingresso libero) con il suo Quartet che in realtà annovera ben più di quattro musicisti, ma è una vera e propria big band all´insegna del funk e dell´acid jazz. La formazione ha 18 album alle spalle e alcuni classici rivisitati di colonne sonore anni Sessanta e Settanta come Mission Impossible e Starsky & Hutch. A seguire, Ninfa dj che, dopo una militanza in cultband come Gli Avvoltoi e Gli sciacalli si è data alla consolle confezionando compilation vintage di gran successo come Mo´plen, Ninfadelica e La Douce Party che hanno gettato le basi dello spaghetti lounge. Alle 20, proiezione di "Stessa rabbia stessa primavera" di Stefano Incerti: più che un backstage dell'ultimo film di Bellocchio "Buongiorno notte", dedicato al sequestro Moro, è un ritratto del regista tra vita, cinema e politica.

da La Stampa di lunedì 3.11.03

(segnalato da Annalina Ferrante)

LA STAMPA, 3 NOVEMBRE 2003
PAROLAIO
di Pierluigi Battista


BUONANOTTE, GIORNO. Mai darsi la colpa. Mai ammettere i propri errori, debolezze, insufficienze, inadeguatezze. Mai riconoscere di aver fabbricato un prodotto mediocre e di essersi meritato un eventuale insuccesso. E invece immaginare complotti, cospirazioni, conventicole da parte degli altri, tutti malvagi. Il regista Renzo Martinelli, per esempio. Artefice di film di ottima fattura, come Vajont per esempio, Martinelli ha da poco fatto uscire un film sul caso Moro, Piazza delle cinque lune, imbottito di banalità dietrologiche. Un insuccesso. Sempre sul caso Moro è invece uscito il film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte, problematico, stimolante, intelligente, curioso, che invece ha fatto molto scalpore. Come mai questa differenza di trattamento? Martinelli, riferisce l’Unità, ha in mente una risposta: il film di Bellocchio «è stato straordinariamente sostenuto dai media». E dunque ecco la domanda maliziosa e insinuante del regista: «Perché quel silenzio e poi tanto sostegno?». Già, perché? La domanda di Martinelli induce a pensare che la colpa sia dei media che hanno sostenuto il film rivale e penalizzato il proprio. Un grande complotto, appunto, per azzittire una voce come al solito scomoda, come sempre fuori dal coro, come è ovvio controcorrente. E se invece il film di Bellocchio fosse, semplicemente, più bello e fatto meglio?

IERI E OGGI. Effettivamente Giampaolo Pansa, che ha ricevuto una gragnuola di colpi bassi semplicemente per aver scritto, infrangendo un tabù, un libro urticante come Il sangue dei vinti, dovrebbe spiegare perché in un passato nemmeno tanto lontano lui non era stato tanto solidale con chi, avendo scoperchiato un capitolo imbarazzante del dopo 25 aprile, subì un trattamento non proprio gradevole. Ha scritto infatti sul Foglio Otello Montanari, il partigiano di Reggio Emilia che nel ‘90 esortò i testimoni ancora vivi del «triangolo della morte» a raccontare tutta la verità («chi sa, parli»), che in quell’occasione Pansa iniziò un articolo sull’Espresso: «Ma sì, diciamolo: questo Otello Montanari, il comunista che ha scatenato il terremoto di Reggio Emilia è un’ottima persona, però si è comportato da fesso d’oro». E poi: «Senza rendersi conto che maneggiava dinamite, ha fatto scoppiare dentro il suo partito una bomba micidiale e adesso il traballante edificio del Pci rischia di sprofondare tra nuove macerie. Dio scampi e liberi il Pci da dirigenti così ingenui visto che la Cosa di Occhetto, se nascerà, dovrà camminare lungo un percorso di guerra frequentato da lupi». Davvero c’era bisogno di tanto sarcasmo? E non bisognerebbe chiedere scusa a un partigiano che, in fondo, stava semplicemente raccontando la verità senza badare al cui prodest?
ROSA IN PUGNO. Dai radicali, trasgressivi ma serissimi, era difficile aspettarselo. E invece, mentre il partito celebra il suo congresso, sul Foglio si dà conto di punzecchiature goliardiche e battutacce da osteria. Si scrive infatti che «Daniele Capezzone rilancerà i rapporti con i neocon americani (che i più critici nel partito, sbuffando, chiamano neocoions)». «Neocoions»? Radicalmente e sbuffando: non avrebbero potuto trovare un’altra definizione?
DIRITTI D’AUTORE. Guerra di attribuzione a sinistra. Sulla scia delle polemiche che hanno accompagnato l’uscita del nuovo libro di Ferdinando Adornato, si è voluto riesumare una battuta nata all’indomani della uscita di un altro libro di Adornato Oltre la sinistra. Infatti, la leggenda vuole, e la accredita anche Gianfranco Morra su Libero, che «quando Adornato gli mandò il libro, Massimo D’Alema gli scrisse: “Caro Ferdinando, oltre la sinistra non c’è che la destra”». Ora, si dà il caso che sull’ultimo numero di Sette, Rina Gagliardi di Liberazione è intervenuta sull’ultima fatica di Adornato ricordando di avere scritto tanti anni fa che «oltre la sinistra non c’è che la destra». Scripta manent e infatti la Gagliardi scrisse proprio così. Ma allora, D’Alema rubò la battuta alla Gagliardi? O la Gagliardi regalò generosamente la battuta da lei coniata a D’Alema? Urge commissione parlamentare d’inchiesta, possibilmente bipartisan, oltre la sinistra e pure la destra.
CENSURA. In un articolo uscito su Repubblica e dedicato alla terribile carestia «artificiale» con cui Stalin volle punire e sterminare i contadini di Ucraina, Paolo Rumiz ricorda che su questo terribile tema ci sia stata una potente autocensura che ha impedito di studiare quell’episodio in cui morirono milioni di persone, tra cui un’infinità di bambini. E Rumiz ricorda: qualche anno fa «il capolavoro di Robert Conquest - Harvest of Sorrow (Raccolto di dolore) - già tradotto in italiano, non fu mai pubblicato “per cause non del tutto chiare” e solo oggi viene recuperato da Liberal Libri». Ora, è già uno scandalo che un capolavoro di Conquest sia stato censurato e nascosto. Ma quali sarebbero queste «cause non del tutto chiare»? Cosa è accaduto esattamente?
LUI. Nessuna traccia di egotismo, egocentrismo, egolatria, narcisismo, autoesaltazione, negli esempi addotti da Massimo Fini in un editoriale su Linea a proposito dell’odio diffuso nella lotta politica italiana. Scrive Fini: «in passato ci sono state polemiche personali violentissime (mi ricordo tra le altre quelle fra Papini ed Emilio Cecchi o fra Flaiano e Brera o fra Giorgio Bocca e me». Me.

sulla Cina
citato un antico film di Marco Bellocchio

Repubblica 5.11.03
Come è possibile che un paese comunista dia vita a una forma di capitalismo sfrenato?
Mao è sempre sugli altari, ma a trionfare sono le risorte idee di Confucio

UN PAESE VITALE E CONTRADDITTORIO MINACCIA L´OCCIDENTE?
dal nostro inviato Bernardo Valli


PECHINO. LA CINA suscita da secoli, a fasi alterne, una straordinaria varietà di sentimenti: rispetto, timore, affetto, rifiuto, ammirazione, sospetto. Accende facilmente le passioni occidentali. Le preziose esperienze individuali, come gli inevitabili giudizi generici, sfiorano appena, il più delle volte, una realtà ampia e composita.
Anche ai nostri giorni, come nel millennio scorso, assistiamo all'entusiasmo di chi scopre la Cina, ne esalta gli straordinari progressi e vi vede un immenso, appetitoso mercato; e al contempo assistiamo alla paura di chi la vorrebbe invece isolare, perché sleale concorrente dei nostri prodotti e imminente potenza mondiale di cui diffidare. È rituale lo spettacolo dell'imprenditore occidentale che, sulle sponde del fiume Huangpu, davanti ai grattacieli di Pudong, a Shanghai, o all'ombra del ritratto di Mao Zedong, a Pechino, si abbandona a un incondizionato elogio del miracolo cinese. Ed è altrettanto rituale la denuncia assoluta, senza appello, delle violazioni dei diritti dell'uomo e delle disuguaglianze economiche, in particolare tra città e campagne. Disparità attribuite al connubio tra il carattere totalitario del comunismo ufficiale e il liberismo del rampante capitalismo reale. L'equazione è insolita: è il primo, il comunismo politico, a promuovere il nuovo corso economico, a favorire l'esatto opposto della sua ideologia originaria.
Per illustrare l´atteggiamento occidentale verso la Cina, un rispettabile sinologo, Jonathan D. Spence, cita come esemplare il colloquio tra Kublai Khan e Marco Polo immaginato da Italo Calvino in "Le Città Invisibili". Dopo avere ascoltato le straordinarie descrizioni del viaggiatore veneziano, il capo mongolo diventato imperatore cinese gli chiede se una volta ritornato in patria ripeterà alla sua gente i racconti di quel che ha visto. Marco Polo non risponde direttamente alla domanda. Dice che serve a poco parlare, perché tanto chi ascolta recepisce soltanto le parole che si aspetta. Chi comanda è l'orecchio, non la voce. Questo vale spesso anche per la Cina d´oggi. Ognuno vi legge quel che vuole.
La Cina può apparire, in verità, enigmatica, e, al tempo stesso, molto più a portata di mano, più decifrabile, di quando Marco Bellocchio la definiva tale nel titolo di un suo film, rimasto emblematico dell´epoca maoista: La Cina è vicina. Oggi è senz'altro più vicina di quanto sia mai stata, ma non per questo ci risparmia le sorprese. Ci lascia perplessi o affascinati. Spesso in bilico tra questi due stati d'animo. La metamorfosi del regime è senza precedenti. È una trasformazione da collocare anzitutto nel tempo per capirne l´eccezionalità. Essa si svolge con successo, ed è tutt'altro che finita. Il galoppo trionfale continua, travolgendo i pronostici negativi di legioni di esperti, più di dieci anni dopo il crollo del comunismo nell'Unione Sovietica e nell'Europa orientale. Prosegue senza frenare lo slancio un quarto di secolo dopo lo storico terzo plenum dell´undicesimo Comitato Centrale, che dette il via al nuovo corso. Il plenum che, alla fine del 1978, sotto l'impulso di Deng Xiaoping, riconobbe di fatto il fallimento del sistema economico maoista (il Grande Timoniere era morto da appena due anni) e la necessità di lasciare un certo margine di iniziativa al libero mercato, attraverso riforme economiche rivelatesi di un'audacia mai vista in un paese che si dichiara ancora con solennità marxista-leninista.
La Cina resta infatti una Repubblica popolare in cui le redini del potere sono nelle mani di un partito comunista che si identifica ufficialmente in una ideologia e funziona attraverso strutture in larga parte ereditate da Lenin e da Stalin. Il Paese si modernizza a una velocità che mozza il fiato, sviluppa sempre di più l'economia di mercato, importa capitali e metodi di gestione occidentali, cambia i paesaggi urbani ispirandosi ai modelli americani, e a questi stessi modelli adegua non trascurabili aspetti della vita quotidiana, ma conserva un sistema politico che figura già nella storia come un fallimento. Si definiscono ancora comunisti paesi come la Corea del Nord, il Vietnam e Cuba. Ma, pur essendo assai diversi tra di loro, non mi sembra che essi abbiano, in quanto tali, un futuro radioso. La situazione del Vietnam non è certo paragonabile a quella disperata, angosciosa, della Corea del Nord. Nulla è tuttavia comparabile alla crescita economica cinese, cominciata negli anni Ottanta; e al conseguente miglioramento del livello di vita della popolazione, nonostante lo scarto sempre più ampio tra città e campagna. Uno scarto, in favore delle città, che sottolinea il rovesciamento provocato dal nuovo corso rispetto al maoismo originale, che enfatizzava il ruolo della campagna.
Oggi è come se ci fossero due Cine: quella urbana in piena espansione e quella contadina alle sue porte, nell'attesa di usufruire un giorno dei vantaggi che le sono negati. Molte restrizioni che impedivano la mobilità sono state formalmente abolite. Adesso milioni di persone si spostano da una provincia all´altra. Ma gli ostacoli indiretti che impediscono o frenano l'inurbamento della popolazione rurale (in cui si valuta a trecento milioni il numero dei disoccupati) sono tuttora numerosi: ad esempio la mancanza di abitazioni, l´esclusione da ogni forma di assistenza, l'alto costo per ottenere i permessi di lavoro e di residenza ("huku"), l´impossibilità di ottenere crediti.... In un regime nato da una rivoluzione che aveva come obiettivo l'uguaglianza, le disuguaglianze sono profonde. Vi sono uomini e donne ammessi con pieni diritti nella città; ve ne sono altri che vi vivono in modo precario, senza diritti, a titolo provvisorio; ed altri ancora, la stragrande maggioranza, che sono tenuti ai margini. Esclusi. La riserva di mano d'opera è immensa. Quel che un giorno potrebbe essere il detonatore di una rivolta sociale, tra città e campagne, oggi rappresenta un incalcolabile vantaggio per i meccanismi produttivi. Non c'è mercato del lavoro più flessibile di quello cinese. Ma va anche ricordato che nell'ultimo quarto di secolo, da quando il comunismo cinese, pur restando "leninista", ha imboccato la strada di un suo specifico capitalismo, circa quattrocento milioni di cinesi sono stati strappati alla povertà o alla miseria. Poco meno di uno su tre.
Il ritratto di Mao Zedong domina sempre la piazza della Pace Celeste, la Tienanmen, dove sorge anche il mausoleo in cui si trova il suo corpo imbalsamato, ma il pensiero emergente, anzi che riemerge, è un altro. È quello che si ispira a Confucio: il filosofo della tradizione, della saggezza e dell´obbedienza, che Mao, cercando di dominare la storia, strappò dalla profondità dei secoli per avere un rivale degno della propria grandezza. Un rivale-simbolo dell´antica Cina da abbattere. Mao è sempre sugli altari ma a trionfare è l'essenza delle risorte idee di Confucio. Del quale non ci sono immagini sulle mura della Città proibita.
I riti e il linguaggio del partito comunista restano, immutabili, come se fossero un ancoraggio. Fanno pensare a quello che era un tempo il latino nella Chiesa cattolica. Non si tratta soltanto di una fedeltà alle origini. Se quei riti cessassero forse crollerebbe il partito stesso. La loro sopravvivenza non impedisce di praticare una politica, soprattutto economica, che va nella direzione opposta. Più che una contraddizione può apparire una prova di saggezza. L'Unione Sovietica è naufragata perché tentò una riforma politica che spezzò la sua spina dorsale, il partito. Fu un suicidio. La Cina riforma invece l'economia ma non tocca il partito. Il cui potere tuttavia cambia sotto la pressione dell´economia. La sua influenza sulla società non è infatti più quella di un tempo. Non interviene più, non è più onnipresente, nella vita quotidiana degli individui. I quali non sono più ossessionati dai suoi controlli. Possono ignorarlo, e concentrarsi sui propri affari, e trovare dei mezzi di sussistenza fuori dai circuiti ufficiali. Questo non significa che possono ignorare del tutto lo Stato-Partito, poiché la burocrazia resta onnipresente e senza una protezione o una mancia è difficile ottenere i permessi indispensabili. Ma in generale si può sfuggire alla vita politica. Benché il sistema giudiziario si sia sviluppato e modernizzato, non esiste nessuna istituzione giuridica che possa avere un ruolo di freno, o di contrappeso, al potere dello Stato-Partito.
Aldilà dei condizionamenti della nostra logica, possiamo scoprire anche noi un chiaro filo conduttore, una coerenza, in quelli che a noi sembrano enigmi e paradossi. Non è forse il partito una dinastia che sceglie e cambia strategia, nell´interesse dell´impero? E lo fa senza rinnegare le proprie origini: che sono quelle di una rivoluzione anzitutto nazionale. I riti? Quelli imperiali, nella Città proibita non cambiavano mai, o molto di rado.