Il Messaggero, Sabato 23 Agosto 2003
La conversione di San Paolo? Una crisi d’epilessia. ...
di e. mas.
LA CONVERSIONE di San Paolo? Una crisi d’epilessia. L’integralismo religioso? Il risultato di una disfunzione di regione cerebrali profonde. E Dio, allora? Tutta una questione di neuroni... Il divino come una secrezione del cervello: stati di grazia e slanci mistici, estasi e apparizioni della Vergine abbandonano il campo della metafisica per entrare in quello si una scienza relativamente nuova: la neuro-teologia, quell’insieme di teorie che da una trentina d’anni tenta di spiegare i fenomeni religiosi attraverso precise variazioni chimiche della materia grigia.
E’ in un libro appena pubblicato in Francia, La biologie de Dieu (Agnès Viénot éditions), che un giornalista di “Science et Avenir”, Patrick Jean-Baptiste, neuro-fisiologo di formazione, cerca di rilanciare il dibattito sui discepoli della neuro-teologia: psicologi, psichiatri, antropologi o neuro-biologi, quel manipolo di neuro-apostoli, come sono stati ufficialmente battezzati, convinti che un angolino, nell’insieme delle nostre cellule nervose, sia stato programmato geneticamente per il bisogno di Dio.
I primi a sganciare la neuro-teologia da un ambito prettamente accademico sono stati due ricercatori dell’Università della Pennsylvania, Andrew New Newberg e Eugene D’Aquili, tre anni fa, in un volume, poi edito in Italia da Mondadori con l’eloquente titolo Dio nel cervello . Patrick Jean-Baptiste ripercorre le esperienze di Newberg e D’Aquili, ma non solo: con piglio critico illustra teorie più estremiste, come quella che cerca si attribuire a fenomeni epilettici la conversione di San Paolo sulla via di Damasco, le voci di Giovanna D’Arco o l’estasi di Santa Teresa. E ancora, analizza quella corrente di pensiero che spiega gli eccessi e i misfatti del fanatismo religioso con un’infiammazione delle amigdale encefaliche, irritate da un’iniziazione religiosa precoce e ossessiva. Sul destino delle ricerche dei biologi di Dio, il giornalista di “Science et Avenir ” non trancia giudizi: «Il futuro sarà il solo Giudice e deciderà del genio o dell’orrore di queste intuizioni...».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 23 agosto 2003
intanto, irriducibile, il manifesto...
il manifesto, 23.8.03
La svolta di Lacan sull'inconscio
Nell'XI «Seminario» una tappa fondamentale: in accordo con la teoria freudiana, l'inconscio mantiene il suo carattere di discontinuità del discorso cosciente, così come la rivelano i sogni, gli atti mancati, i lapsus. Ma dal suo maestro Lacan si discosta negando che l'inconscio sia tutto determinato dal nostro passato, perché esso può compiersi, ed esige eticamente di farlo, nell'avvenire
di Massimo Recalcati
L'undicesimo Seminario di Lacan segna una tappa unica e nevralgica nel tragitto delle famose lezioni, e fin dal titolo I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, lascia intendere il suo carattere di introduzione ad alcuni concetti chiave: inconscio, ripetizione, transfert, pulsione. Tuttavia, non è un dizionario quello sviluppato qui da Lacan: a una idea del genere avrebbero pensato, in seguito, due suoi ex-allievi, Laplanche e Pontalis (travasandovi, tra l'altro, in modo piuttosto discutibile, una serie cospicua di motivi tratti da Lacan stesso). Il giusto prestigio che questo Seminario - ora pubblicato da Einaudi in una nuova edizione a cura di Di Ciaccia - ha acquisito negli anni non deriva da una intenzione divulgativa; perché esso si presenta, al contrario, cesellato come un diamante teorico raffinatissimo. La sua importanza consiste, per cominciare, nel fatto che per la prima volta Lacan abbandona con decisione gli abiti del magistrale commentatore del testo freudiano per formulare, con Freud ma anche oltre Freud, la propria concezione dell'inconscio: ovvero, quel che nomina «algebra lacaniana». La differenziazione tra l'inconscio di Lacan e l'inconscio di Freud occupa, in modo emblematico, le sedute di apertura del Seminario. Ma in cosa consiste la distanza che Lacan prende da Freud, al quale tuttavia si richiamerà espicitamente sino alla fine dei suoi giorni? Con Freud egli vuole affermare che l'inconscio della psicoanalisi non ha la natura che gli attribuivano i romantici: non è l'inconscio delle tenebre o degli archetipi, né la «primordiale volontà oscura»; piuttosto è «intoppo, mancamento, fessura», è ciò che si manifesta negli zoppicamenti del discorso cosciente. Fin qui Lacan congiunge il suo concetto di inconscio con quello di Freud: sogni, atti mancati, lapsus, sbadataggini, dimenticanze sono esperienze che introducono quella «discontinuità» - parola pivot di tutto questo Seminario - nel discorso cosciente. Tuttavia, diversamente da quanto si deriva dalla teoria freudiana, il soggetto dell'inconscio non è già tutto scritto, non è già tutto determinato dal peso del già stato, per esempio, da quanto è avvenuto nell'infanzia. Inconscio e memoria storica vengono nettamente disgiunti, da Lacan, da inconscio e ripetizione: non siamo nell'ordine del già stato che si riattualizza, ma in quello del «non realizzato». Detto altrimenti, l'inconscio lacaniano non è al passato (più o meno remoto) ma è qualcosa che puòcompiersi, ed esige eticamente di farlo, nell'avvenire.
La posta in gioco di questo Seminario, la sua valenza morale, riguarda il problema di come costruire una teoria libidica del soggetto senza scadere in un determinismo che annulli le possibilità della sua propria realizzazione. Nel testo-manifesto del `53, invece, titolato Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, la tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio sembrava derivare direttamente dalla grande trilogia freudiana (L'interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito) che lo descrive come una macchina ermeneutica capace di produrre senso e di ricondurre ad esso anche quelle formazioni secondarie, come un lapsus o un atto mancato, che sembrerebbero sfuggirvi. In quel contesto le figure retoriche della metafora e della metonimia venivano da Lacan, col soccorso di Jackobson, direttamente ricavate dai principi freudiani dello spostamento e della condensazione, che orientavano il lavoro onirico come una cifratura enigmatica in attesa di venire decodificata dall'interpretazione dell'analista. Ebbene, la svolta segnata dal Seminario XI - come fa notare nel suo commento Jacques-Alain Miller - consiste nel sostituire alla centralità della coppia «ermeneutica» metafora-metonimia quella, inedita, della coppia alienazione-separazione.
L'alienazione lacaniana indica che il tessuto del nostro essere più proprio viene dall'Altro storico, sociale, familiare in cui si trova iscritto: il tessuto nel quale ci formiamo è fabbricato dall'Altro eppure è anche il «nostro». E' questo «eppure» a venire messo in tensione nella dialettica alienazione-separazione. Il problema cruciale, che attraversa per intero non solo l'insegnamento di Lacan ma tutta la dottrina psicoanalitica, riguarda il come si intreccino la libertà della separazione col vincolo dell'alienazione. Lacan si lascia guidare dal celebre quadro di Hans Holbein titolato Gli Ambasciatori, riportandolo in apertura del suo Seminario. Vi si vedono due signori distinti, impagliati nelle loro divise sociali, avvolti dallo «spirito di serietà» che esige il loro ruolo, circondati da oggetti che richiamano le virtù e il prestigio del loro sapere: «simboli della vanitas» li definisce Lacan. In questa rappresentazione, però, qualcosa attira il nostro sguardo - qualcosa fa «macchia» direbbe Lacan - su un oggetto misterioso dai contorni indefiniti, situato proprio al centro del quadro. Questo oggetto «strano, sospeso, obliquo» è il frutto di una anamorfosi: ovvero, come la definisce Jurgis Baltrusaitis nel suo celebre Anamorfosi o Thaumaturgus opticus, un sotterfugio ottico che provoca una disgregazione delle forme perché esse possano ricomporsi in modo imprevedibile solo in un secondo tempo.
Così, l'oggetto «strano, sospeso, obliquo» che Holbein piazza al centro dell'opera si rivela a chi getta, prima di andarsene, un ultimo sguardo sul quadro, un teschio che rimanda alla presenza perturbante della morte, tendenzialmente esorcizzata dalla compostezza formale delle figure dei due ambasciatori. Questa apparizione dell'oggetto-teschio, dell'insensato, produce una separazione da tutta quella rete di significanti che ci fanno esistere nella nostra condizione di esseri strutturalmente alienati. In fondo Lacan segue, qui, la lezione di Heidegger, mentre ci ricorda che solo nell'assunzione del nostro essere votati alla morte, ovvero del nostro limite più radicale, risiede la possibilità di vivere con radicalità il nostro desiderio.
Ma c'è un'altra ragione di unicità nel Seminario XI e riguarda la circostanza «politica» in cui Lacan prende le distanze dalla teorizzazione frudiana dell'inconscio. Inizialmente, il tempo di questo Seminario viene scandito dalla «scomunica», ovvero dalla definitiva rottura di Lacan con l'Associazione psicoanalitica internazionale (IPA) e, in conclusione, è segnato dalla fondazione della scuola lacaniana. Non si tratta, dunque, come ricorda puntualmente Jacques-Alain Miller nella introduzione riportata a chiusura del volume, solo di un Seminario teorico, ma di un pensiero che nasce da una vivace e dolorosa battaglia istituzionale, destinata a segnare profondamente la storia della psicoanalisi, e non solo in Francia.
Lacan sceglie l'ebreo Spinoza, oggetto nel 1656 di scomunica da parte della comunità ebraica di cui faceva parte, come paradigma della sua posizione: non da lui si originò la rottura, infatti, ma dalla comunità analitica internazionale, ispirata dai consigli di Marie Bonaparte. Non è certo un caso se, al momento di creare una nuova istituzione analitica, cosa che avvenne il 21 giugno 1964, per dimostrare di non essere affatto un dissidente Lacan scelse di battezzarla Ecole freudienne de Paris.
La svolta di Lacan sull'inconscio
Nell'XI «Seminario» una tappa fondamentale: in accordo con la teoria freudiana, l'inconscio mantiene il suo carattere di discontinuità del discorso cosciente, così come la rivelano i sogni, gli atti mancati, i lapsus. Ma dal suo maestro Lacan si discosta negando che l'inconscio sia tutto determinato dal nostro passato, perché esso può compiersi, ed esige eticamente di farlo, nell'avvenire
di Massimo Recalcati
L'undicesimo Seminario di Lacan segna una tappa unica e nevralgica nel tragitto delle famose lezioni, e fin dal titolo I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, lascia intendere il suo carattere di introduzione ad alcuni concetti chiave: inconscio, ripetizione, transfert, pulsione. Tuttavia, non è un dizionario quello sviluppato qui da Lacan: a una idea del genere avrebbero pensato, in seguito, due suoi ex-allievi, Laplanche e Pontalis (travasandovi, tra l'altro, in modo piuttosto discutibile, una serie cospicua di motivi tratti da Lacan stesso). Il giusto prestigio che questo Seminario - ora pubblicato da Einaudi in una nuova edizione a cura di Di Ciaccia - ha acquisito negli anni non deriva da una intenzione divulgativa; perché esso si presenta, al contrario, cesellato come un diamante teorico raffinatissimo. La sua importanza consiste, per cominciare, nel fatto che per la prima volta Lacan abbandona con decisione gli abiti del magistrale commentatore del testo freudiano per formulare, con Freud ma anche oltre Freud, la propria concezione dell'inconscio: ovvero, quel che nomina «algebra lacaniana». La differenziazione tra l'inconscio di Lacan e l'inconscio di Freud occupa, in modo emblematico, le sedute di apertura del Seminario. Ma in cosa consiste la distanza che Lacan prende da Freud, al quale tuttavia si richiamerà espicitamente sino alla fine dei suoi giorni? Con Freud egli vuole affermare che l'inconscio della psicoanalisi non ha la natura che gli attribuivano i romantici: non è l'inconscio delle tenebre o degli archetipi, né la «primordiale volontà oscura»; piuttosto è «intoppo, mancamento, fessura», è ciò che si manifesta negli zoppicamenti del discorso cosciente. Fin qui Lacan congiunge il suo concetto di inconscio con quello di Freud: sogni, atti mancati, lapsus, sbadataggini, dimenticanze sono esperienze che introducono quella «discontinuità» - parola pivot di tutto questo Seminario - nel discorso cosciente. Tuttavia, diversamente da quanto si deriva dalla teoria freudiana, il soggetto dell'inconscio non è già tutto scritto, non è già tutto determinato dal peso del già stato, per esempio, da quanto è avvenuto nell'infanzia. Inconscio e memoria storica vengono nettamente disgiunti, da Lacan, da inconscio e ripetizione: non siamo nell'ordine del già stato che si riattualizza, ma in quello del «non realizzato». Detto altrimenti, l'inconscio lacaniano non è al passato (più o meno remoto) ma è qualcosa che puòcompiersi, ed esige eticamente di farlo, nell'avvenire.
La posta in gioco di questo Seminario, la sua valenza morale, riguarda il problema di come costruire una teoria libidica del soggetto senza scadere in un determinismo che annulli le possibilità della sua propria realizzazione. Nel testo-manifesto del `53, invece, titolato Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, la tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio sembrava derivare direttamente dalla grande trilogia freudiana (L'interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito) che lo descrive come una macchina ermeneutica capace di produrre senso e di ricondurre ad esso anche quelle formazioni secondarie, come un lapsus o un atto mancato, che sembrerebbero sfuggirvi. In quel contesto le figure retoriche della metafora e della metonimia venivano da Lacan, col soccorso di Jackobson, direttamente ricavate dai principi freudiani dello spostamento e della condensazione, che orientavano il lavoro onirico come una cifratura enigmatica in attesa di venire decodificata dall'interpretazione dell'analista. Ebbene, la svolta segnata dal Seminario XI - come fa notare nel suo commento Jacques-Alain Miller - consiste nel sostituire alla centralità della coppia «ermeneutica» metafora-metonimia quella, inedita, della coppia alienazione-separazione.
L'alienazione lacaniana indica che il tessuto del nostro essere più proprio viene dall'Altro storico, sociale, familiare in cui si trova iscritto: il tessuto nel quale ci formiamo è fabbricato dall'Altro eppure è anche il «nostro». E' questo «eppure» a venire messo in tensione nella dialettica alienazione-separazione. Il problema cruciale, che attraversa per intero non solo l'insegnamento di Lacan ma tutta la dottrina psicoanalitica, riguarda il come si intreccino la libertà della separazione col vincolo dell'alienazione. Lacan si lascia guidare dal celebre quadro di Hans Holbein titolato Gli Ambasciatori, riportandolo in apertura del suo Seminario. Vi si vedono due signori distinti, impagliati nelle loro divise sociali, avvolti dallo «spirito di serietà» che esige il loro ruolo, circondati da oggetti che richiamano le virtù e il prestigio del loro sapere: «simboli della vanitas» li definisce Lacan. In questa rappresentazione, però, qualcosa attira il nostro sguardo - qualcosa fa «macchia» direbbe Lacan - su un oggetto misterioso dai contorni indefiniti, situato proprio al centro del quadro. Questo oggetto «strano, sospeso, obliquo» è il frutto di una anamorfosi: ovvero, come la definisce Jurgis Baltrusaitis nel suo celebre Anamorfosi o Thaumaturgus opticus, un sotterfugio ottico che provoca una disgregazione delle forme perché esse possano ricomporsi in modo imprevedibile solo in un secondo tempo.
Così, l'oggetto «strano, sospeso, obliquo» che Holbein piazza al centro dell'opera si rivela a chi getta, prima di andarsene, un ultimo sguardo sul quadro, un teschio che rimanda alla presenza perturbante della morte, tendenzialmente esorcizzata dalla compostezza formale delle figure dei due ambasciatori. Questa apparizione dell'oggetto-teschio, dell'insensato, produce una separazione da tutta quella rete di significanti che ci fanno esistere nella nostra condizione di esseri strutturalmente alienati. In fondo Lacan segue, qui, la lezione di Heidegger, mentre ci ricorda che solo nell'assunzione del nostro essere votati alla morte, ovvero del nostro limite più radicale, risiede la possibilità di vivere con radicalità il nostro desiderio.
Ma c'è un'altra ragione di unicità nel Seminario XI e riguarda la circostanza «politica» in cui Lacan prende le distanze dalla teorizzazione frudiana dell'inconscio. Inizialmente, il tempo di questo Seminario viene scandito dalla «scomunica», ovvero dalla definitiva rottura di Lacan con l'Associazione psicoanalitica internazionale (IPA) e, in conclusione, è segnato dalla fondazione della scuola lacaniana. Non si tratta, dunque, come ricorda puntualmente Jacques-Alain Miller nella introduzione riportata a chiusura del volume, solo di un Seminario teorico, ma di un pensiero che nasce da una vivace e dolorosa battaglia istituzionale, destinata a segnare profondamente la storia della psicoanalisi, e non solo in Francia.
Lacan sceglie l'ebreo Spinoza, oggetto nel 1656 di scomunica da parte della comunità ebraica di cui faceva parte, come paradigma della sua posizione: non da lui si originò la rottura, infatti, ma dalla comunità analitica internazionale, ispirata dai consigli di Marie Bonaparte. Non è certo un caso se, al momento di creare una nuova istituzione analitica, cosa che avvenne il 21 giugno 1964, per dimostrare di non essere affatto un dissidente Lacan scelse di battezzarla Ecole freudienne de Paris.
Marco Bellocchio: una intervista
Libertà 23.8.03
Parla il regista piacentino, il 4 settembre in lizza al Lido con “Buongiorno notte”, protagonisti Maya Sansa e Lo Cascio
Bellocchio: il mio Moro conteso dai festival
«Dopo il concorso a Venezia, lo porterò a Toronto e a New York»
di Oliviero Marchesi
Sulle reti Rai sta già andando in onda il trailer con immagini dei film italiani che saranno presentati alla prossima Mostra del cinema di Venezia, antipasto di una stagione che segna un clamoroso “ritorno in armi” della vecchia guardia nazionale del cinema d'autore (Bertolucci con The dreamers, Olmi con Cantando dietro i paraventi, ma anche Scola, lo stesso Antonioni, Amelio, il redivivo Emmer, i Taviani e pure Benvenuti, assimilabile ai “grandi vecchi” per cultura e rigore stilistico, se non per l'anagrafe).
Nel panorama di questa “riscossa dei Maestri”, ruolo di primissimo piano è giocato da Buongiorno, notte, il nuovo, attesissimo film sul sequestro e la morte di Aldo Moro firmato dal regista piacentino Marco Bellocchio, reduce dallo straordinario successo di critica e di pubblico di L'ora di religione (che fece incetta di premi David).
Di Buongiorno, notte (cui il suo autore, divorato dal demone del perfezionismo, sta apportando gli ultimi, febbrili ritocchi in vista del debutto alla Mostra di Venezia: la proiezione al Lido avverrà il 4 settembre), qualcosa già si sa. Si sa dell'angolazione narrativa da cui è osservata la storia della più drammatica vicenda di sovversione armata nel nostro Paese (in apertura del film si vede una ragazza che passeggia nervosamente avanti e indietro in una stanza mentre la tv dà notizia della strage di via Fani e del rapimento del presidente della Dc: questa giovane, protagonista del racconto filmico, è una vivandiera delle Brigate Rosse interpretata da Maya Sansa, l'attrice che fu lanciata dallo stesso Bellocchio con La balia).
Si sa qualcosa del resto del cast principale: Moro è il meraviglioso attore teatrale Roberto Herlitzka, il bravissimo Luigi Lo Cascio - attore adorato da Marco Tullio Giordana: è protagonista di I cento passi e La meglio gioventù - è un brigatista (c'è anche il bobbiese Gianni Schicchi, attore-feticcio di Bellocchio).
Si sa, soprattutto, del taglio introverso e personalissimo che Bellocchio ha voluto conferire a questo suo confronto con la materia bollente - e non certo inedita per il nostro cinema - dell'affaire Moro: non un film di cronaca corretta con qualche licenza d'immaginazione (come fu nell'88 Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, con un grande Volonté), né un film-inchiesta teso a rivendicare polemicamente una verità “alternativa” a quella ufficiale (com'è stato quest'anno col discusso Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli); quanto, piuttosto, una riflessione sui meccanismi psicologici del potere e della ribellione, della rivolta e del dominio, dei rapporti fra aguzzini e vittime e fra prigionieri e carcerieri).
Si sanno queste cose, dicevamo, ma non si sa nient'altro. Ogni altro dettaglio relativo al film è “protetto” con impenetrabile riserbo dallo stesso Bellocchio: «Mi scuso, ma mi sono vincolato al silenzio con tutti gli organi di stampa» dice il regista, che sarà come sempre primo docente del laboratorio Farecinema (e direttore artistico di Incontri con gli autori, l'annessa rassegna di film al cinema Le Grazie con la partecipazione di attori, registi e altri ospiti illustri) la cui edizione 2003 si svolgerà nell'amatissima Bobbio da martedì 9 a sabato 20 settembre. Promossi da Regione e Provincia e organizzati dal Comune (col centro Itard come ente gestore e con la collaborazione di Fondazione di Piacenza e Vigevano, Filmalbatros, Lanterna Magica di Bobbio), corso e rassegna sono dal 1997 una “tradizione” cui il cineasta piacentino è molto affezionato. Se il calendario degli Incontri (che in passato hanno avuto tra i loro ospiti Marco Müller, Tanovic, Calopresti, Castellitto, la Ceccarelli, la Golino, Crialese, Maselli, Rulli, Winspeare, i Manetti Bros.) è ancora in via di definizione, il laboratorio Farecinema avrà la stessa struttura delle precedenti edizioni.
«Tutto - spiega Bellocchio - sarà come sempre incentrato sulla realizzazione di un cortometraggio, che vedrà gli allievi del corso, come classici “ragazzi di bottega”, coinvolti in ogni momento della lavorazione: l'elaborazione del soggetto, la sceneggiatura, le riprese, la recitazione, il montaggio, la gestione del set. Alcuni dei docenti, come Daniela Ceselli e Francesca Calvelli, saranno “veterani”. Altri, come gli attori ospiti, devono ancora essere scelti».
Ha già un soggetto pronto per il “corto”?
«Non uno, ma due: ho pensato a due possibili soggetti, ancora a uno stadio embrionale, tra cui dovrò scegliere nei prossimi giorni. La prima idea che ho avuto è stata quella di un remake in chiave “trebbiense” di Le déjeuner sur l'herbe: quel meraviglioso film di Renoir, tratto da un racconto di Maupassant e intitolato come il dipinto più celebre di Manet, che incentra la propria trama su una gita in campagna. Ma poi mi hanno detto che la siccità di questa terribile estate ha ridotto a mal partito il Trebbia, lasciandolo all'asciutto. E siccome questo particolare quadrava poco coi paesaggi che avevo in mente, ho cominciato a pensare a un altro possibile soggetto».
Quale?
«Si tratterebbe di sceneggiare per immagini una poesia italiana famosa, di quelle che una volta - non so se nei programmi scolastici odierni si usi ancora - venivano studiate nella scuola dell'obbligo. Potrebbe essere, per intenderci, La cavallina storna, o qualche altra lirica del mio amatissimo Pascoli, ma potrebbe benissimo essere di un altro autore: l'essenziale è chi si tratti di una poesia familiare a tutti per ragioni di memorie scolastiche. E il film dovrebbe durare esattamente quanto dura la dizione dei versi. Devo comunque dire che questa sarà un'edizione di Farecinema un po' particolare: dovrò stare via per due giorni durante i lavori e devo studiare un calendario di lavoro che funzioni anche durante la mia assenza».
Perché si dovrà allontanare?
«Buongiorno notte sarà proiettato al Festival di Toronto: sono stato invitato e sarebbe scortesia rifiutare. Dopo Venezia e Toronto, il film sarà anche al Festival di New York».
Non vuol proprio dirci qualcosa di inedito sul nuovo film, tolte le partecipazioni ai festival?
«Non posso proprio, sia gentile, non insista».
Ci dica almeno una cosa che non riguarda direttamente i contenuti della pellicola.
«Buongiorno, notte è il primo film italiano alla cui produzione abbia partecipato Sky Italia, il nuovo colosso della tv a pagamento controllato da Rupert Murdoch».
Secondo lei questo fuga, in parte, i timori che Sky non intenda dedicarsi alla promozione del nostro cinema nazionale con l'impegno del suo “predecessore” Telepiù?
«E' vero: Sky Italia ha collaborato con Filmalbatros e Rai Cinema alla produzione di Buongiorno, notte preacquistando i diritti di trasmissione. Si è trattato di un investimento in qualche modo “ereditato”, visto che Sky Italia è nata dalla fusione fra Stream e Telepiù e che quest'ultima si era impegnata al preacquisto dei diritti del mio film. Sui progetti che la nuova tv nutre nei confronti del cinema italiano, però, non ho ovviamente titolo per parlare: vedremo cosa riserverà il futuro».
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
© 2002 LIBERTA' On Line - Tutti i diritti sono riservati.
Parla il regista piacentino, il 4 settembre in lizza al Lido con “Buongiorno notte”, protagonisti Maya Sansa e Lo Cascio
Bellocchio: il mio Moro conteso dai festival
«Dopo il concorso a Venezia, lo porterò a Toronto e a New York»
di Oliviero Marchesi
Sulle reti Rai sta già andando in onda il trailer con immagini dei film italiani che saranno presentati alla prossima Mostra del cinema di Venezia, antipasto di una stagione che segna un clamoroso “ritorno in armi” della vecchia guardia nazionale del cinema d'autore (Bertolucci con The dreamers, Olmi con Cantando dietro i paraventi, ma anche Scola, lo stesso Antonioni, Amelio, il redivivo Emmer, i Taviani e pure Benvenuti, assimilabile ai “grandi vecchi” per cultura e rigore stilistico, se non per l'anagrafe).
Nel panorama di questa “riscossa dei Maestri”, ruolo di primissimo piano è giocato da Buongiorno, notte, il nuovo, attesissimo film sul sequestro e la morte di Aldo Moro firmato dal regista piacentino Marco Bellocchio, reduce dallo straordinario successo di critica e di pubblico di L'ora di religione (che fece incetta di premi David).
Di Buongiorno, notte (cui il suo autore, divorato dal demone del perfezionismo, sta apportando gli ultimi, febbrili ritocchi in vista del debutto alla Mostra di Venezia: la proiezione al Lido avverrà il 4 settembre), qualcosa già si sa. Si sa dell'angolazione narrativa da cui è osservata la storia della più drammatica vicenda di sovversione armata nel nostro Paese (in apertura del film si vede una ragazza che passeggia nervosamente avanti e indietro in una stanza mentre la tv dà notizia della strage di via Fani e del rapimento del presidente della Dc: questa giovane, protagonista del racconto filmico, è una vivandiera delle Brigate Rosse interpretata da Maya Sansa, l'attrice che fu lanciata dallo stesso Bellocchio con La balia).
Si sa qualcosa del resto del cast principale: Moro è il meraviglioso attore teatrale Roberto Herlitzka, il bravissimo Luigi Lo Cascio - attore adorato da Marco Tullio Giordana: è protagonista di I cento passi e La meglio gioventù - è un brigatista (c'è anche il bobbiese Gianni Schicchi, attore-feticcio di Bellocchio).
Si sa, soprattutto, del taglio introverso e personalissimo che Bellocchio ha voluto conferire a questo suo confronto con la materia bollente - e non certo inedita per il nostro cinema - dell'affaire Moro: non un film di cronaca corretta con qualche licenza d'immaginazione (come fu nell'88 Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, con un grande Volonté), né un film-inchiesta teso a rivendicare polemicamente una verità “alternativa” a quella ufficiale (com'è stato quest'anno col discusso Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli); quanto, piuttosto, una riflessione sui meccanismi psicologici del potere e della ribellione, della rivolta e del dominio, dei rapporti fra aguzzini e vittime e fra prigionieri e carcerieri).
Si sanno queste cose, dicevamo, ma non si sa nient'altro. Ogni altro dettaglio relativo al film è “protetto” con impenetrabile riserbo dallo stesso Bellocchio: «Mi scuso, ma mi sono vincolato al silenzio con tutti gli organi di stampa» dice il regista, che sarà come sempre primo docente del laboratorio Farecinema (e direttore artistico di Incontri con gli autori, l'annessa rassegna di film al cinema Le Grazie con la partecipazione di attori, registi e altri ospiti illustri) la cui edizione 2003 si svolgerà nell'amatissima Bobbio da martedì 9 a sabato 20 settembre. Promossi da Regione e Provincia e organizzati dal Comune (col centro Itard come ente gestore e con la collaborazione di Fondazione di Piacenza e Vigevano, Filmalbatros, Lanterna Magica di Bobbio), corso e rassegna sono dal 1997 una “tradizione” cui il cineasta piacentino è molto affezionato. Se il calendario degli Incontri (che in passato hanno avuto tra i loro ospiti Marco Müller, Tanovic, Calopresti, Castellitto, la Ceccarelli, la Golino, Crialese, Maselli, Rulli, Winspeare, i Manetti Bros.) è ancora in via di definizione, il laboratorio Farecinema avrà la stessa struttura delle precedenti edizioni.
«Tutto - spiega Bellocchio - sarà come sempre incentrato sulla realizzazione di un cortometraggio, che vedrà gli allievi del corso, come classici “ragazzi di bottega”, coinvolti in ogni momento della lavorazione: l'elaborazione del soggetto, la sceneggiatura, le riprese, la recitazione, il montaggio, la gestione del set. Alcuni dei docenti, come Daniela Ceselli e Francesca Calvelli, saranno “veterani”. Altri, come gli attori ospiti, devono ancora essere scelti».
Ha già un soggetto pronto per il “corto”?
«Non uno, ma due: ho pensato a due possibili soggetti, ancora a uno stadio embrionale, tra cui dovrò scegliere nei prossimi giorni. La prima idea che ho avuto è stata quella di un remake in chiave “trebbiense” di Le déjeuner sur l'herbe: quel meraviglioso film di Renoir, tratto da un racconto di Maupassant e intitolato come il dipinto più celebre di Manet, che incentra la propria trama su una gita in campagna. Ma poi mi hanno detto che la siccità di questa terribile estate ha ridotto a mal partito il Trebbia, lasciandolo all'asciutto. E siccome questo particolare quadrava poco coi paesaggi che avevo in mente, ho cominciato a pensare a un altro possibile soggetto».
Quale?
«Si tratterebbe di sceneggiare per immagini una poesia italiana famosa, di quelle che una volta - non so se nei programmi scolastici odierni si usi ancora - venivano studiate nella scuola dell'obbligo. Potrebbe essere, per intenderci, La cavallina storna, o qualche altra lirica del mio amatissimo Pascoli, ma potrebbe benissimo essere di un altro autore: l'essenziale è chi si tratti di una poesia familiare a tutti per ragioni di memorie scolastiche. E il film dovrebbe durare esattamente quanto dura la dizione dei versi. Devo comunque dire che questa sarà un'edizione di Farecinema un po' particolare: dovrò stare via per due giorni durante i lavori e devo studiare un calendario di lavoro che funzioni anche durante la mia assenza».
Perché si dovrà allontanare?
«Buongiorno notte sarà proiettato al Festival di Toronto: sono stato invitato e sarebbe scortesia rifiutare. Dopo Venezia e Toronto, il film sarà anche al Festival di New York».
Non vuol proprio dirci qualcosa di inedito sul nuovo film, tolte le partecipazioni ai festival?
«Non posso proprio, sia gentile, non insista».
Ci dica almeno una cosa che non riguarda direttamente i contenuti della pellicola.
«Buongiorno, notte è il primo film italiano alla cui produzione abbia partecipato Sky Italia, il nuovo colosso della tv a pagamento controllato da Rupert Murdoch».
Secondo lei questo fuga, in parte, i timori che Sky non intenda dedicarsi alla promozione del nostro cinema nazionale con l'impegno del suo “predecessore” Telepiù?
«E' vero: Sky Italia ha collaborato con Filmalbatros e Rai Cinema alla produzione di Buongiorno, notte preacquistando i diritti di trasmissione. Si è trattato di un investimento in qualche modo “ereditato”, visto che Sky Italia è nata dalla fusione fra Stream e Telepiù e che quest'ultima si era impegnata al preacquisto dei diritti del mio film. Sui progetti che la nuova tv nutre nei confronti del cinema italiano, però, non ho ovviamente titolo per parlare: vedremo cosa riserverà il futuro».
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Repubblica in agosto ha pubblicato tre "paginoni" sulla psichiatria: una inchiesta in tre puntate ed altri articoli e dati, eccoli:
INCHIESTA DELLA REPUBBLICA
(12, 14 e 18 agosto 2003)
La Repubblica martedì 12 agosto 2003 pag.11
Milano, parlano i colleghi di Lorenzo Bergamini: "La legge Basaglia può essere migliorata"
Nelle trincee della psichiatria "Qui è difficile curarli tutti"
Cosa è successo dopo la chiusura dei manicomi. I malati sono tanti le strutture che si devono occupare di loro sono in affanno. Da tempo
Gli operatori, seppure con diversità di vedute sull´organizzazione dell´assistenza, su un punto concordano: bisogna cambiare
"I Centri psico-sociali sono in condizioni disperate e in balia della criminalità"
"I problemi con i pazienti nascono quando li perdiamo di vista, come Geoffroy"
di Roberto Bianchin
MILANO - Il vecchio, le spalle curve, alza la testa verso la porta dell´ambulatorio e avvicina gli occhi per riuscire a leggere il cartello che c´è appeso: «Lorenzo, sarai sempre nel cuore di tutti noi», c´è scritto. Vicino ci sono delle foto, sul tavolo dei fiori. «Era gentile, il dottore, poverino. Tanto gentile...», mormora e scuote la testa. Accanto c´è un uomo magrissimo, sui cinquanta, in canottiera e pantaloni corti, più in là una donna, vestita modestamente, anche lei avanti con gli anni. Sono i pazienti di Lorenzo Bignamini, lo psichiatra accoltellato a morte per strada. Nel suo studio di Via Barabino che ha riaperto ieri mattina, il «Centro psico sociale» dell´ospedale San Paolo, a due passi da dove l´hanno ucciso, ne arrivano una dozzina, in maggioranza anziani, nonostante il caldo che supera i quaranta gradi. Perché gli affanni della mente non vanno in ferie.
«Seguiamo molto da vicino i nostri pazienti, la continuità del rapporto è fondamentale - dice il vicedirettore sanitario del San Paolo Mauro Moreno - i problemi nascono quando li perdi di vista, quando sfuggono a ogni controllo, com´è stato per Arturo Geoffroy, un caso assolutamente eccezionale, che a un certo punto si era allontanato, aveva cambiato città e fatto perdere ogni traccia. L´abbiamo cercato, ma invano». Non hanno paura i 17 medici che si alternano nel centro. «Non ci sentiamo in pericolo - dice Moreno - del resto chi sceglie di lavorare nell´ambito del disagio psichico sa che si corrono dei rischi. Non possiamo certo pensare di militarizzare queste strutture, che anzi devono essere le più aperte possibile». «Non è certo segregando i malati di mente che possiamo curarli» concorda Carmine Pismatoro, il medico che dirige il centro.
Hanno il pudore di non dirlo, loro. Ma sono medici-coraggio quelli che lavorano in posti così, diventati trincee, avamposti del disagio, rifugi di derelitti, ricettacoli di anime perse, disperate, malate, spesso senza speranza. Medici che si affannano in stanzette spoglie, sperdute nelle periferie delle metropoli, senza mezzi, senza protezione, alla mercé dei tossici, dei matti, degli alcolisti, dei ladri, dei piccoli farabutti di quartiere. Di quelli che entrano col coltello e te lo puntano alla gola. «I Cps, i centri psico-sociali, sono in condizioni disperate - dice Franco La Spina, psichiatra «indipendente» - posti abbandonati a sé stessi, senza difese, dove manca tutto, in balìa della criminalità e di ogni sorta di patologia sociale, dove diventa molto difficile riuscire a mettere in pratica una terapia seria».
Ne ha quattro di questi centri, il San Paolo: oltre che in Via Barabino, in Via Piave, Via Conca del Naviglio e Via S.Vigilio. Ci lavorano medici, infermieri, educatori e assistenti sociali. Sessanta fra medici e psicologi per prendersi cura di 4.000 pazienti. Che nei casi più gravi vengono ricoverati nei due reparti del dipartimento psichiatrico dell´ospedale, i cosiddetti «repartini», dove finiscono anche, ma solo per quindici giorni, i malati sottoposti al «Tso», il trattamento sanitario obbligatorio, quel «ricovero coatto» che Geoffroy subì due volte. Un lavoro enorme, contro i mali della mente e contro la deriva sociale che sempre più spesso fa da compagna alla follia. «Io credo molto nell´attività territoriale di queste strutture, anche perché i pazienti possono rimanere vicini alle famiglie - dice Aurelio Palestra della direzione sanitaria del San Paolo - ma il problema sorge quando devo portarli da qualche parte, i pazienti, e dove li porto, al bar dell´angolo? Io non sono certo un fautore della legge Basaglia, perché quando fu scritta non teneva conto della realtà del Paese, ma mi chiedo: l´hanno applicata tutti?».
«La legge Basaglia non c´entra, e io non la metto in discussione - spiega Antonio Guerrini, direttore del dipartimento di psichiatria dell´ospedale Niguarda - in questo caso tristissimo che è accaduto, il problema che è emerso è che non c´è abbastanza tutela per gli psichiatri. E pensare che basterebbe poco. Per esempio, visto che c´è la legge sulla privacy, basterebbe tenere riservato il nome del medico che dispone i ricoveri coatti, che purtroppo firmiamo ogni giorno, e a decine. In questo modo si eviterebbe di indicare il nome del "persecutore" a chi, come nel caso di Geoffroy, si vuole vendicare».
Toccherebbe alla magistratura, secondo Claudio Mencacci, direttore della psichiatria del Fatebenefratelli, intervenire nei casi di pericolosità sociale «invece di limitarsi ad archiviare le denunce e le minacce». Ma toccherebbe anche al legislatore mettere mano a un aggiornamento della legge Basaglia per colmare quel vuoto pericoloso che c´è tra la fase acuta della malattia e la prosecuzione delle cure, attraverso un «contratto terapeutico vincolante» che permetterebbe ai medici un controllo costante sui pazienti. Può andar bene, secondo lo psichiatra La Spina, anche la creazione di «strutture aggiuntive di media degenza», sia negli ospedali che fuori, purché «non vadano contro lo spirito della legge», e «non nascondano la voglia di riaprire i vecchi manicomi. Perché questo sarebbe pericolosissimo». Tutti comunque concordano che «qualcosa bisogna fare». Perché la situazione è «insostenibile», e i mali della mente crescono. Le statistiche cliniche dicono che 11 persone su 100 hanno avuto bisogno di un «aiutino» almeno una volta nella vita, 6 su 100 di «qualcosa di più», e 2 su 100 della misura più estrema e più odiosa, ma a volte necessaria: il ricovero.
(1 - continua)
LA LEGGE
La legge n. 180 detta “legge Basaglia” è stata approvata il 13 maggio del 1978 e successivamente inglobata nella legge n. 833/78 di Riforma Sanitaria Nazionale. Deve il suo nome allo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), esponente italiano del movimento dell’antipsichiatria
COSA PREVEDE
La legge “Basaglia” ha abolito i manicomi. Gli ospedali psichiatrici sono sostituiti dai servizi di Igiene mentale e l’internamento con il “trattamento sanitario obbligatorio” di breve durata. Alle regioni vengono invece trasferite tutte le funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica
L’APPLICAZIONE
La legge “Basaglia” ha affidato l’assistenza dei malati di mente alle strutture territoriali che però non hanno mai funzionato pienamente. Alla sua approvazione solo nel 55% delle province esisteva un ospedale psichiatrico. Nel 1994 il Progetto Obiettivo ha riformato le strutture di assistenza psichiatrica
LE POLEMICHE
Secondo il ministro della Salute Girolamo Sirchia la legge “Basaglia” va ritoccata, “ma non nei principi”, per creare dei centri di assistenza. Quella legge è stata una “iattura” ha replicato Roberto Calderoli della Lega. Per Livia Turco invece “parlare di riapertura dei manicomi” è un ritorno al passato
I NUMERI
Secondo le statistiche mediche 11 persone su 100 hanno avuto bisogno di qualche aiuto psichiatrico almeno una volta nella vita. Ma il 2 per cento della popolazione ha dovuto ricorrere al ricovero in un centro specializzato
I RICOVERI
La legge prevede che il «Trattamento sanitario obbligatorio» non possa durare più di 15 giorni. Così il malato mentale rischia di venire abbandonato a se stesso dopo le dimissioni e non seguire le terapie
I RISCHI
I Centri psicosociali diffusi nel territorio soffrono di carenza di mezzi e di personale e di nessuna protezione per medici e infermieri sempre più esposti ad ogni tipo di patologia sociale e ai rischi della criminalità
nella stessa pagina:
L´INTERVISTA
Beppe Dell´Acqua, psichiatra a Trieste, ha collaborato con Basaglia alla stesura della "180"
“Ma non prendetevela con la legge, hanno prevalso interessi e stupidità”
Ci sono 600 mila schizofrenici in Italia Quanti di loro hanno ucciso nel giorno del delitto Bergamini?
di Franco Vernice
MILANO - Che ora, dopo il delitto di Milano, qualcuno voglia rinfocolare il dibattito infinito su una possibile revisione della 180, lui che di Franco Basaglia è l´erede professionale e ideale, proprio non lo manda giù. Il professor Beppe Dell´Acqua, psichiatra, è il direttore del Dipartimento di salute mentale di quella Trieste che di Basaglia fu il laboratorio. Salernitano, 56 anni, ha lavorato con il padre della legge che ha spalancato le porte dei manicomi fin dal 1971.
Professore, si torna a parlare di rivedere la legge e la sua attuazione. Un ritornello che si ripete quasi a scadenze fisse...
«Sono tutti ragionamenti possibili e plausibili, a parte che li facciamo da venticinque anni. Sarebbe anche il caso di cominciare a guardare diversamente le cose. E´ strano però che ci ricordiamo di parlare della legge 180 soltanto quando un povero collega muore per mano di una persona che ha un disturbo schizofrenico. E tutte queste cose accadono anche dove non c´è la legge 180. Negli Stati Uniti dove ci sono fior di manicomi, in Inghilterra, in Germania, esistono serial killer e ogni giorno ci sono persone che ammazzano, usando le armi. E queste persone sicuramente non sono persone che stanno bene».
Ma il caso di Milano ha fatto particolarmente scalpore.
«Certo, e vi vedo un elemento di anomalia. Il fatto che una persona con disturbi schizofrenici come questo collega, povero anche lui, che ha ucciso è strano perché chi è affetto da quel tipo di malattia è fra quanti meno rischiano di passare all´atto. Una ricerca inglese ha dimostrato che i malati di schizofrenia sono responsabili di reati contro la persona in una percentuale assolutamente bassissima».
Cioè sono meno propensi alla violenza?
«Pensi che oggi in Italia ci sono 600mila malati di schizofrenia. Nella giornata dell´omicidio quanti altri hanno commesso reati violenti?».
Si sente dire spesso che la 180 è buona nei principi, ma mai applicata fino in fondo.
«Ma di questo non bisogna interrogare Basaglia. Bisognerebbe interrogare tutte le stupidità amministrative fatte, tutti gli interessi privati che sono stati coltivati, tutte quelle politiche che sono state politiche malsane. Si dovrebbe chiedere alle università come oggi preparano gli psichiatri. In base a quale orizzonte di lavoro, a quali progetti».
Professore, come vede la situazione generale italiana sotto il profilo della cura delle malattie mentali?
«Guarire è possibile. Ovviamente utilizzando tutti gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione, i farmaci le psicoterapie, i percorsi riabilitativi, le cooperative sociali, le strutture residenziali, i gruppi di autoaiuto, i volontari. Tutto questo c´è in Italia a partire dalla legge 180. Abbiamo standard quantitativi che sono tutto sommato abbastanza accettabili. Anche se molto di più si deve fare e investire. Il bello è che ci seguono da tutto il mondo perché quella psichiatria che alcuni ricordano con malinconia è una psichiatria che sta fallendo dappertutto».
Dunque nessun ritorno alle cliniche...
«Il sistema degli ospedali non solo non produce guarigione, ma cronicità. Ed è anche un sistema costosissimo. Questi signori che oggi parlano di cliniche e ospedali, dove andrebbero a prendere i soldi? Chi paga? Perché io pago, come diceva Totò».
La Repubblica giovedì 14 agosto 2003, pag. 22
Viaggio nelle strutture psichiatriche dopo il delitto Bignamini e le polemiche sulla legge Basaglia
La sfida di Aversa, dove i "matti" imparano il lavoro e la libertà
Il progetto della Asl Caserta2 e di Franco Rotelli, successore di Basaglia, per aiutare i malati di mente a recuperare la normalità
Gruppi di tre-quattro pazienti vivono in appartamenti belli, ben arredati, al centro dei paesi per evitare che si perpetui l´apartheid
Giovanna e Teresa aspettano gli ospiti sul pianerottolo e fanno strada fino al tavolo della cucina e ai piatti caldi: "Accomodatevi e favorite"
In cinque hanno cominciato a realizzare mosaici sotto la guida di un artigiano. Ora, a Mondragone, producono bei tavoli maiolicati
dal nostro inviato, Eleonora Bertolotto
AVERSA - Giovanna aspetta gli ospiti sul pianerottolo di casa e fa strada compitamente fino al tavolo della cucina. Nel forno, in caldo, ci sono i piatti con pasta e fagioli che ha appena preparato Sisinella, Teresa, la sua compagna di stanza. Accomodatevi, fa una. Favorite, fa l´altra. Proprio come due amiche che ricevono per pranzo. Dei suoi 56 anni, Giovanna ne ha passati trenta in manicomio e gli ultimi sei in una Sir, struttura intermedia residenziale. Da dieci mesi vive con due altre ex ricoverate in un appartamento appena ristrutturato a Villa di Briano, provincia di Caserta. Impara la libertà, poco a poco. Il suo cruccio? «Di giorno c´è un´infermiera, di notte no», e l´unico legame con la struttura resta il filo del telefono, da cui può chiamare se il buio si fa troppo profondo per essere sopportato.
Franco Rotelli è il manager dell´Asl Caserta2 con sede ad Aversa, che sta realizzando lo smantellamento delle Sir per consentire ai malati di recuperare la dimensione della normalità perduta, vivendo a gruppi di tre-quattro in appartamenti belli, ben arredati, scelti con cura nel centro dei paesi. E´ nato con Basaglia, Rotelli: dieci anni di lavoro fianco a fianco, poi altrettanti al suo posto nella direzione dei Servizi psichiatrici. Due anni fa ha accettato la scommessa di Aversa. «Esperienza affascinante», dice. Perché l´agro aversano è un luogo emblematico. Terra grassa e durezza contadina, dove lo Stato ha lasciato molti vuoti, che la camorra occupa con la tracotanza di una organizzazione medioevale, dotata di computer. E la zona costiera è zona franca di un´Africa che bussa all´Europa, ma anche luogo di deportazione del dopo-terremoto, terreno ideale di coltura del disagio psichico.
Benché lo smantellamento del manicomio (fino a 3000 ricoverati) fosse concluso dal '97, ad Aversa Rotelli trovò le cose fatte a metà, se è vero che fra i suoi primi interventi ci fu l´eliminazione delle porte blindate, dieci, nel reparto psichiatrico dell´ospedale, segno tangibile di una paura della malattia mai esorcizzata. Una paura che ritorna, ciclicamente, purtroppo. Sollecitata a volte da storie disgraziate, come la morte dello psichiatra Lorenzo Bignamini, che minacciano di rimettere in discussione un percorso faticoso, già pieno di trappole. Non a caso, in questi giorni, Rotelli con i suoi propone di istituire un Forum (il documento è su Internet www.forumsalutementale.it) perché la riforma psichiatrica, dice, non può prescindere dalla qualità dei servizi che oggi «appaiono spesso segnati da un´imbarazzante dissociazione tra pratiche ed enunciazioni teoriche». Sicché per esempio i Centri di diagnosi e cura a volte sono piccoli lager che riproducono in scala l´orrore del grande lager manicomiale.
L´esperienza di Aversa vuol essere la dimostrazione che il gap si può superare, anche in un contesto difficile. Giovanna Del Giudice, altra basagliana doc, è stata chiamata un anno e mezzo fa a dirigere il Dipartimento di salute mentale. Dice: «Quando vedevano il nostro lavoro, alzavano le spalle: «Si capisce, siete a Trieste». E invece si può anche al Sud. Basta avere chiari gli obiettivi e indirizzare le risorse. La Regione Campania ha decretato che il 5 per cento del fondo sanitario nazionale va alla psichiatria. Si tratta di sapere come utilizzare i fondi: per servizi pubblici di qualità o per le cliniche private?». Servizio pubblico di qualità per lei significa puntare sul perfezionamento del lavoro territoriale: con l´assistenza domiciliare, la presa in carico puntuale dei malati per evitare che si sottraggano e spariscano, ma anche la rivisitazione delle strutture. Dice: «Mi piace aver tolto di mezzo i metodi di contenzione che ancora abbondavano, e di aver liberato dal Diagnosi e cura un ragazzo che ci era entrato vent´anni prima, con la riforma. Infine di aver aperto un paio di Centri di salute mentale dignitosi, sottratti alla miseria in cui versano in genere queste strutture».
A San Cipriano il Centro di salute mentale (l´Asl ne ha sei) si trova al primo piano di un edificio nuovo, che al piano terra ospita invece servizi per la donna e pediatrici, così da dimostrare nei fatti - come spiega Andrea Dell´Acqua, psichiatra - che l´apartheid del malato psichico è solo un fatto di cultura. Ad Aversa il Centro si trova a Palazzo Orabona, nel cuore della vecchia città. Un edificio bello, con un gran portale aperto sulla e alla comunità circostante. Cucina, salone, mensa, giardino, laboratori, ma anche un ambulatorio, quattro letti (due per donne e due per uomini, secondo un modello che si ripete in ogni unità operativa), insomma il vecchio centro crisi che qui si chiama "posto di accoglienza". Palazzo Orabona è un luogo di aggregazione, in cui si svolgono attività che, come spiega lo psichiatra Marco Tosello, non occupano solo il tempo, ma sono finalizzate, perché dare un senso a ciò che si fa è parte del percorso di recupero. Non a caso, l´Asl ha testé istituito con fondi regionali 24 borse di formazione lavoro. Anche questo si può, se si vuole. Lo dimostrano quei cinque malati che hanno cominciato a realizzare mosaici, sotto la guida di un artigiano. Ora fanno gli artigiani anche loro, a Mondragone, e producono bei tavoli maiolicati. Per uscire dal disagio, l´autostima è tra le porte principali.
(2.continua)
I SERVIZI
Sono 3500 i pazienti presi in carico dai servizi del dipartimento di salute mentale nella grossa ASL Caserta 2 che va da Aversa, alle porte di Napoli, fino a Sessa Aurunca, al confine con il basso Lazio
I CENTRI
Sei i Centri di salute mentale attorno a cui si articola l’attività delle cinque unità operative in cui è suddiviso il territorio. Due di questi rispondono già a criteri innovativi, gli altri sonovia di totale rinnovo
LE SIR
Le Sir, strutture intermedie residenziali, sono in via di smantellamento. Due sono state chiuse. Ne restano quattro, che verranno eliminate per far posto a formule di convivenza più vicine alla normalità
GLI APPARTAMENTI
Sono 15 gli appartamenti affittati nel centro dei vari paesi dell’agro aversano per ospitare, a gruppi di tre - quattro, gli ospiti delle Sir smantellate. Un percorso di progressiva autonomia
nella stessa pagina:
L´INTERVISTA
Giovanni Battista Cassano, psichiatra dell´Università di Pisa e oppositore della legge 180
"L´idea di riaprire i manicomi? Un piano inutile e costosissimo"
di Carlo Brambilla
MILANO - «Tornare indietro, riaprire i manicomi, progettare la creazione di nuove strutture contenitive e di custodia per i pazienti psichiatrici, sarebbe una vera follia. Un progetto irrealizzabile, costosissimo e probabilmente inutile». Giovanni Battista Cassano, psichiatra dell´Università di Pisa, celebre esponente della psichiatria medica, organicista convinto, interviene con passione scientifica nel dibattito su una possibile revisione della legge 180, riaperto dal drammatico delitto di Milano.
Professor Cassano, lei fu tra i grandi oppositori della legge 180 voluta da Franco Basaglia.
«Mi trovai a dissentire con una legge approvata drasticamente, che prevedeva la chiusura improvvisa dei manicomi. E, cosa che non era contenuta nel pensiero di Basaglia, con la negazione totale della psichiatria e della psicopatologia, delle sue basi biologiche e della terapia delle malattie mentali, che si sono recuperate solo negli anni Novanta» .
Oggi, però, anche lei è contrario all´ipotesi di riaprire i manicomi.
«Certo. È inutile parlare di "riforma" senza avere le idee chiare. Col rischio di creare qualcosa di peggio di quello che abbiamo già» .
Pensa alla proposta di legge di Maria Burani Procaccini di Forza Italia?
«La Burani non ripropone la riapertura dei manicomi. Il manicomio raccoglieva handicap di ogni tipo, anziani, alcolisti, poveri soli, abbandonati. Mentre qui si pensa a strutture elettivamente psichiatriche, private o convenzionate, nelle quali i pazienti possano essere trattenuti per lungo tempo con trattamento obbligatorio. Ma si tratta di una proposta irrealizzabile. Che richiederebbe un impegno economico notevolissimo. Con un grande numero di infermieri per paziente, grande controllo, grandissima responsabilità per chi tiene i malati e quindi forte limitazione della libertà» .
Lei invece a cosa pensa per migliorare la cura dei malati mentali? «Penso a piccole nuove strutture, con non più di sei o dieci posti letto, all´interno delle quali sviluppare la competenza per la cura di patologie particolari, piccoli centri di eccellenza, sperimentali, che acquisiscano esperienze che siano poi trasferibili nella pratica» .
Come cambia la malattia mentale?
«L´età media dei miei ricoverati è sotto i 40 anni. Una volta era 60 anni. Oggi ricoveriamo moltissimi pazienti tra i 16 e i 30 anni. Patologie complicate dall´uso della cocaina e dell´ecstasy» .
Il caso di Arturo Geoffroy si sarebbe verificato anche senza la 180?
«Probabilmente sì. Il suo non è un caso di schizofrenia, ma di delirio cronico lucido. Una patologia che è sempre esistita e che fa disastri anche dove esistono gli ospedali psichiatrici».
La Repubblica lunedì 18 agosto 2003, pag 23
Una ricerca promossa dall’Istituto superiore di sanità fotografa la rete dei presidi psichiatriciIn Italia le 'strutture residenziali' sono 1370 con 27mila posti: più degli standard di legge Ma pochi pazienti guariscono: poca riabilitazione, troppi psicofarmaci
Mille manicomi piccoli piccoli
Così il "matto" resta malato a vita
di Roberto Bianchin
MILANO - Dal posto dove sta, dove «mi trattano bene», dice, Gianfranco il matto non se ne vuole andare via. Perché non ha una casa, un lavoro, e la sua famiglia non lo vuole più. Sono tanti, migliaia quelli come lui. Quelli che abitano nelle "strutture residenziali psichiatriche non ospedaliere", chiamate "SR", nate in seguito alla chiusura dei vecchi manicomi decisa dalla legge Basaglia. Erano destinate ad accogliere i pazienti con gravi disturbi mentali, curarli e poi farli tornare nella società. Invece stanno diventando delle vere e proprie «case per la vita», quasi dei piccoli, nuovi manicomi, dai quali non esce più quasi nessuno. Nel momento in cui si discute, dopo il caso Geoffroy, se riaprire i manicomi o creare nuove strutture per i malati di mente, una ricerca promossa dall' Istituto superiore di sanità, chiamata "Progres" (Progetto Residenze), condotta dai medici Giovanni De Girolamo, Pierluigi Morosini e Angelo Picardi, e pubblicata sul «British Journal of Psichiatry», apre nuovi e inquietanti scenari sulla cura della pazzia. Anzitutto per i numeri. Perché è sorprendente scoprire che in Italia ci sono ben 1.370 "strutture residenziali", aperte soprattutto negli ultimi anni, dal '97 in poi (in testa la Lombardia con 180 "SR" per duemila posti, ultima la Val D' Aosta con una sola e 8 posti), per un totale di 17mila "posti residenziali psichiatrici" che fra cliniche e case di cura diventano 26.666, un terzo dei 78mila letti dei vecchi ospedali psichiatrici nel '78. Una cifra addirittura superiore agli standard fissati dal "Progetto Obiettivo": due posti ogni 10mila abitanti. Queste strutture, che in grande maggioranza (73%) sono aperte 24 ore su 24, ospitano 15.943 pazienti. Per lo più sono uomini di una certa età, fra i 50 e i 64 anni, che al massimo hanno fatto la terza media, che non si sono mai sposati, che hanno una pensione di invalidità, che in parte arrivano dai vecchi ospedali psichiatrici e che soffrono, in maggioranza (67%), di disturbi di tipo schizofrenico. Dall' analisi degli studiosi, che hanno esaminato nel dettaglio un campione del 20% di queste strutture, 267 residenze e 3.005 pazienti in venti regioni, emergono un dato rassicurante e due preoccupanti. Quello rassicurante è che, al di là delle polemiche, «il processo di superamento anche fisico delle vecchie istituzioni asilari è da considerarsi realizzato». Quelli preoccupanti sono invece l' insufficienza dei programmi riabilitativi che vi vengono attuati, anche a causa di un personale «sprovvisto di una formazione specifica per il trattamento di pazienti psichiatrici gravi» (18mila operatori, solo il 5% di psicologi e l' 8% di psichiatri e neanche un infermiere nel 20% delle strutture), e il bassissimo turn-over degli ospiti, che sempre di più diventano degli ospiti fissi. Malati a vita, come nei vecchi manicomi. Basta pensare che, in un anno, un terzo di queste strutture (il 31%, 343 residenze) non ha dimesso neanche un paziente. E un altro terzo ne ha dimessi solo uno o al massimo due. Le ragioni, per gli studiosi, sono di due tipi: la prima è legata alla loro storia di pazienti malati da tempo, con gravi problemi di funzionamento psicosociale, limitata collaborazione e basso livello di sostegno sociale, a cominciare dall' assenza o dalla indisponibilità delle famiglie. La seconda è dovuta alla limitata disponibilità di trattamenti psicosociali specifici e di progetti riabilitativi personalizzati. Di qui il rischio che alcune di queste strutture diventino dei «contenitori istituzionali», sia pure di ridotte dimensioni, con il ritorno a «pratiche assistenziali» senza sbocchi. Non aiutano, secondo i ricercatori, neanche i trattamenti forniti. Ancora troppi farmaci. Il 96% dei pazienti è in trattamento psicofarmacologico, con una media di 2,9 psicofarmaci per paziente. Inoltre il 91% degli ospiti è curato con farmaci antipsicotici, il 14% con antidepressivi, il 25% con stabilizzanti dell' umore. Pericolosa, secondo gli studiosi, la somministrazione quasi generalizzata (69% dei pazienti) di benzodiazepine. Sono molecole che hanno un elevato rischio di dipendenza nell' uso a lungo termine e che nel caso di pazienti con disturbi psicotici possono provocare delle reazioni pericolose. Di qui l' esigenza di una «attenta rivalutazione» anche dei metodi di cura. (3.fine)
Posti residenziali per regione:
Piemonte 1.595
Valle d’Aosta 8
Lombardia 2.076
Bolzano 198
Trento 158
Veneto 1.244
Friuli V.G. 377
Liguria 780
Emilia Romagna 1.248
Toscana 761
Umbria 382
Marche 322
Lazio 1.261
Abruzzo 883
Molise 203
Campania 897
Puglia 1.215
Basilicata 286
Calabria 704
Sicilia 2.125
Sardegna 415
l’identikit degli ospiti:
maschi 87%
femmine 6%
fino a 30 anni 8,8%
30/39 anni 19,4%
40/49 anni 21,8%
50/64 anni 34%
oltre 65 anni 15,9%
mai coniugato 82,1%
coniugato 3,5%
convivente con un partner 0,8%
divorziato/separato 10,6%
vedovo 2,9%
analfabeta 12,0%
elementare 34,0%
media inferiore 34,1%
media superiore 14,0%
università 1,3%
altro 4,7%
disturbi schizofrenici 67,4%
ritardo mentale 9,8%
disturbi mentali organici 3,1%
disturbo bipolare 4,2%
depressione bipolare 2,7%
disturbi di personalità 9,0%
altri disturbi 3,7%
nella stessa pagina:
Società italiana di psichiatria
Vanno evitate speculazioni
La polemica
ROMA - «L' omicidio del dottor Bignamini da parte del suo paziente Geoffroy, è una vicenda tragica che poco ha a che fare con i limiti organizzativi delle strutture psichiatriche, che pur ci sono». La Società italiana di psichiatria respinge le accuse mosse da quanti «non vogliono comprendere - si legge nel comunicato - la complessità della professione dello psichiatra e dell' intera vicenda». Nel trattare il caso Geoffroy, la Sip auspica il ricorso a «un elevato senso etico affinchè vengano evitate forme speculative strumentali». E conclude: «Scaricare le colpe su qualcuno è uno sport praticato in Italia».
(12, 14 e 18 agosto 2003)
La Repubblica martedì 12 agosto 2003 pag.11
Milano, parlano i colleghi di Lorenzo Bergamini: "La legge Basaglia può essere migliorata"
Nelle trincee della psichiatria "Qui è difficile curarli tutti"
Cosa è successo dopo la chiusura dei manicomi. I malati sono tanti le strutture che si devono occupare di loro sono in affanno. Da tempo
Gli operatori, seppure con diversità di vedute sull´organizzazione dell´assistenza, su un punto concordano: bisogna cambiare
"I Centri psico-sociali sono in condizioni disperate e in balia della criminalità"
"I problemi con i pazienti nascono quando li perdiamo di vista, come Geoffroy"
di Roberto Bianchin
MILANO - Il vecchio, le spalle curve, alza la testa verso la porta dell´ambulatorio e avvicina gli occhi per riuscire a leggere il cartello che c´è appeso: «Lorenzo, sarai sempre nel cuore di tutti noi», c´è scritto. Vicino ci sono delle foto, sul tavolo dei fiori. «Era gentile, il dottore, poverino. Tanto gentile...», mormora e scuote la testa. Accanto c´è un uomo magrissimo, sui cinquanta, in canottiera e pantaloni corti, più in là una donna, vestita modestamente, anche lei avanti con gli anni. Sono i pazienti di Lorenzo Bignamini, lo psichiatra accoltellato a morte per strada. Nel suo studio di Via Barabino che ha riaperto ieri mattina, il «Centro psico sociale» dell´ospedale San Paolo, a due passi da dove l´hanno ucciso, ne arrivano una dozzina, in maggioranza anziani, nonostante il caldo che supera i quaranta gradi. Perché gli affanni della mente non vanno in ferie.
«Seguiamo molto da vicino i nostri pazienti, la continuità del rapporto è fondamentale - dice il vicedirettore sanitario del San Paolo Mauro Moreno - i problemi nascono quando li perdi di vista, quando sfuggono a ogni controllo, com´è stato per Arturo Geoffroy, un caso assolutamente eccezionale, che a un certo punto si era allontanato, aveva cambiato città e fatto perdere ogni traccia. L´abbiamo cercato, ma invano». Non hanno paura i 17 medici che si alternano nel centro. «Non ci sentiamo in pericolo - dice Moreno - del resto chi sceglie di lavorare nell´ambito del disagio psichico sa che si corrono dei rischi. Non possiamo certo pensare di militarizzare queste strutture, che anzi devono essere le più aperte possibile». «Non è certo segregando i malati di mente che possiamo curarli» concorda Carmine Pismatoro, il medico che dirige il centro.
Hanno il pudore di non dirlo, loro. Ma sono medici-coraggio quelli che lavorano in posti così, diventati trincee, avamposti del disagio, rifugi di derelitti, ricettacoli di anime perse, disperate, malate, spesso senza speranza. Medici che si affannano in stanzette spoglie, sperdute nelle periferie delle metropoli, senza mezzi, senza protezione, alla mercé dei tossici, dei matti, degli alcolisti, dei ladri, dei piccoli farabutti di quartiere. Di quelli che entrano col coltello e te lo puntano alla gola. «I Cps, i centri psico-sociali, sono in condizioni disperate - dice Franco La Spina, psichiatra «indipendente» - posti abbandonati a sé stessi, senza difese, dove manca tutto, in balìa della criminalità e di ogni sorta di patologia sociale, dove diventa molto difficile riuscire a mettere in pratica una terapia seria».
Ne ha quattro di questi centri, il San Paolo: oltre che in Via Barabino, in Via Piave, Via Conca del Naviglio e Via S.Vigilio. Ci lavorano medici, infermieri, educatori e assistenti sociali. Sessanta fra medici e psicologi per prendersi cura di 4.000 pazienti. Che nei casi più gravi vengono ricoverati nei due reparti del dipartimento psichiatrico dell´ospedale, i cosiddetti «repartini», dove finiscono anche, ma solo per quindici giorni, i malati sottoposti al «Tso», il trattamento sanitario obbligatorio, quel «ricovero coatto» che Geoffroy subì due volte. Un lavoro enorme, contro i mali della mente e contro la deriva sociale che sempre più spesso fa da compagna alla follia. «Io credo molto nell´attività territoriale di queste strutture, anche perché i pazienti possono rimanere vicini alle famiglie - dice Aurelio Palestra della direzione sanitaria del San Paolo - ma il problema sorge quando devo portarli da qualche parte, i pazienti, e dove li porto, al bar dell´angolo? Io non sono certo un fautore della legge Basaglia, perché quando fu scritta non teneva conto della realtà del Paese, ma mi chiedo: l´hanno applicata tutti?».
«La legge Basaglia non c´entra, e io non la metto in discussione - spiega Antonio Guerrini, direttore del dipartimento di psichiatria dell´ospedale Niguarda - in questo caso tristissimo che è accaduto, il problema che è emerso è che non c´è abbastanza tutela per gli psichiatri. E pensare che basterebbe poco. Per esempio, visto che c´è la legge sulla privacy, basterebbe tenere riservato il nome del medico che dispone i ricoveri coatti, che purtroppo firmiamo ogni giorno, e a decine. In questo modo si eviterebbe di indicare il nome del "persecutore" a chi, come nel caso di Geoffroy, si vuole vendicare».
Toccherebbe alla magistratura, secondo Claudio Mencacci, direttore della psichiatria del Fatebenefratelli, intervenire nei casi di pericolosità sociale «invece di limitarsi ad archiviare le denunce e le minacce». Ma toccherebbe anche al legislatore mettere mano a un aggiornamento della legge Basaglia per colmare quel vuoto pericoloso che c´è tra la fase acuta della malattia e la prosecuzione delle cure, attraverso un «contratto terapeutico vincolante» che permetterebbe ai medici un controllo costante sui pazienti. Può andar bene, secondo lo psichiatra La Spina, anche la creazione di «strutture aggiuntive di media degenza», sia negli ospedali che fuori, purché «non vadano contro lo spirito della legge», e «non nascondano la voglia di riaprire i vecchi manicomi. Perché questo sarebbe pericolosissimo». Tutti comunque concordano che «qualcosa bisogna fare». Perché la situazione è «insostenibile», e i mali della mente crescono. Le statistiche cliniche dicono che 11 persone su 100 hanno avuto bisogno di un «aiutino» almeno una volta nella vita, 6 su 100 di «qualcosa di più», e 2 su 100 della misura più estrema e più odiosa, ma a volte necessaria: il ricovero.
(1 - continua)
LA LEGGE
La legge n. 180 detta “legge Basaglia” è stata approvata il 13 maggio del 1978 e successivamente inglobata nella legge n. 833/78 di Riforma Sanitaria Nazionale. Deve il suo nome allo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), esponente italiano del movimento dell’antipsichiatria
COSA PREVEDE
La legge “Basaglia” ha abolito i manicomi. Gli ospedali psichiatrici sono sostituiti dai servizi di Igiene mentale e l’internamento con il “trattamento sanitario obbligatorio” di breve durata. Alle regioni vengono invece trasferite tutte le funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica
L’APPLICAZIONE
La legge “Basaglia” ha affidato l’assistenza dei malati di mente alle strutture territoriali che però non hanno mai funzionato pienamente. Alla sua approvazione solo nel 55% delle province esisteva un ospedale psichiatrico. Nel 1994 il Progetto Obiettivo ha riformato le strutture di assistenza psichiatrica
LE POLEMICHE
Secondo il ministro della Salute Girolamo Sirchia la legge “Basaglia” va ritoccata, “ma non nei principi”, per creare dei centri di assistenza. Quella legge è stata una “iattura” ha replicato Roberto Calderoli della Lega. Per Livia Turco invece “parlare di riapertura dei manicomi” è un ritorno al passato
I NUMERI
Secondo le statistiche mediche 11 persone su 100 hanno avuto bisogno di qualche aiuto psichiatrico almeno una volta nella vita. Ma il 2 per cento della popolazione ha dovuto ricorrere al ricovero in un centro specializzato
I RICOVERI
La legge prevede che il «Trattamento sanitario obbligatorio» non possa durare più di 15 giorni. Così il malato mentale rischia di venire abbandonato a se stesso dopo le dimissioni e non seguire le terapie
I RISCHI
I Centri psicosociali diffusi nel territorio soffrono di carenza di mezzi e di personale e di nessuna protezione per medici e infermieri sempre più esposti ad ogni tipo di patologia sociale e ai rischi della criminalità
nella stessa pagina:
L´INTERVISTA
Beppe Dell´Acqua, psichiatra a Trieste, ha collaborato con Basaglia alla stesura della "180"
“Ma non prendetevela con la legge, hanno prevalso interessi e stupidità”
Ci sono 600 mila schizofrenici in Italia Quanti di loro hanno ucciso nel giorno del delitto Bergamini?
di Franco Vernice
MILANO - Che ora, dopo il delitto di Milano, qualcuno voglia rinfocolare il dibattito infinito su una possibile revisione della 180, lui che di Franco Basaglia è l´erede professionale e ideale, proprio non lo manda giù. Il professor Beppe Dell´Acqua, psichiatra, è il direttore del Dipartimento di salute mentale di quella Trieste che di Basaglia fu il laboratorio. Salernitano, 56 anni, ha lavorato con il padre della legge che ha spalancato le porte dei manicomi fin dal 1971.
Professore, si torna a parlare di rivedere la legge e la sua attuazione. Un ritornello che si ripete quasi a scadenze fisse...
«Sono tutti ragionamenti possibili e plausibili, a parte che li facciamo da venticinque anni. Sarebbe anche il caso di cominciare a guardare diversamente le cose. E´ strano però che ci ricordiamo di parlare della legge 180 soltanto quando un povero collega muore per mano di una persona che ha un disturbo schizofrenico. E tutte queste cose accadono anche dove non c´è la legge 180. Negli Stati Uniti dove ci sono fior di manicomi, in Inghilterra, in Germania, esistono serial killer e ogni giorno ci sono persone che ammazzano, usando le armi. E queste persone sicuramente non sono persone che stanno bene».
Ma il caso di Milano ha fatto particolarmente scalpore.
«Certo, e vi vedo un elemento di anomalia. Il fatto che una persona con disturbi schizofrenici come questo collega, povero anche lui, che ha ucciso è strano perché chi è affetto da quel tipo di malattia è fra quanti meno rischiano di passare all´atto. Una ricerca inglese ha dimostrato che i malati di schizofrenia sono responsabili di reati contro la persona in una percentuale assolutamente bassissima».
Cioè sono meno propensi alla violenza?
«Pensi che oggi in Italia ci sono 600mila malati di schizofrenia. Nella giornata dell´omicidio quanti altri hanno commesso reati violenti?».
Si sente dire spesso che la 180 è buona nei principi, ma mai applicata fino in fondo.
«Ma di questo non bisogna interrogare Basaglia. Bisognerebbe interrogare tutte le stupidità amministrative fatte, tutti gli interessi privati che sono stati coltivati, tutte quelle politiche che sono state politiche malsane. Si dovrebbe chiedere alle università come oggi preparano gli psichiatri. In base a quale orizzonte di lavoro, a quali progetti».
Professore, come vede la situazione generale italiana sotto il profilo della cura delle malattie mentali?
«Guarire è possibile. Ovviamente utilizzando tutti gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione, i farmaci le psicoterapie, i percorsi riabilitativi, le cooperative sociali, le strutture residenziali, i gruppi di autoaiuto, i volontari. Tutto questo c´è in Italia a partire dalla legge 180. Abbiamo standard quantitativi che sono tutto sommato abbastanza accettabili. Anche se molto di più si deve fare e investire. Il bello è che ci seguono da tutto il mondo perché quella psichiatria che alcuni ricordano con malinconia è una psichiatria che sta fallendo dappertutto».
Dunque nessun ritorno alle cliniche...
«Il sistema degli ospedali non solo non produce guarigione, ma cronicità. Ed è anche un sistema costosissimo. Questi signori che oggi parlano di cliniche e ospedali, dove andrebbero a prendere i soldi? Chi paga? Perché io pago, come diceva Totò».
La Repubblica giovedì 14 agosto 2003, pag. 22
Viaggio nelle strutture psichiatriche dopo il delitto Bignamini e le polemiche sulla legge Basaglia
La sfida di Aversa, dove i "matti" imparano il lavoro e la libertà
Il progetto della Asl Caserta2 e di Franco Rotelli, successore di Basaglia, per aiutare i malati di mente a recuperare la normalità
Gruppi di tre-quattro pazienti vivono in appartamenti belli, ben arredati, al centro dei paesi per evitare che si perpetui l´apartheid
Giovanna e Teresa aspettano gli ospiti sul pianerottolo e fanno strada fino al tavolo della cucina e ai piatti caldi: "Accomodatevi e favorite"
In cinque hanno cominciato a realizzare mosaici sotto la guida di un artigiano. Ora, a Mondragone, producono bei tavoli maiolicati
dal nostro inviato, Eleonora Bertolotto
AVERSA - Giovanna aspetta gli ospiti sul pianerottolo di casa e fa strada compitamente fino al tavolo della cucina. Nel forno, in caldo, ci sono i piatti con pasta e fagioli che ha appena preparato Sisinella, Teresa, la sua compagna di stanza. Accomodatevi, fa una. Favorite, fa l´altra. Proprio come due amiche che ricevono per pranzo. Dei suoi 56 anni, Giovanna ne ha passati trenta in manicomio e gli ultimi sei in una Sir, struttura intermedia residenziale. Da dieci mesi vive con due altre ex ricoverate in un appartamento appena ristrutturato a Villa di Briano, provincia di Caserta. Impara la libertà, poco a poco. Il suo cruccio? «Di giorno c´è un´infermiera, di notte no», e l´unico legame con la struttura resta il filo del telefono, da cui può chiamare se il buio si fa troppo profondo per essere sopportato.
Franco Rotelli è il manager dell´Asl Caserta2 con sede ad Aversa, che sta realizzando lo smantellamento delle Sir per consentire ai malati di recuperare la dimensione della normalità perduta, vivendo a gruppi di tre-quattro in appartamenti belli, ben arredati, scelti con cura nel centro dei paesi. E´ nato con Basaglia, Rotelli: dieci anni di lavoro fianco a fianco, poi altrettanti al suo posto nella direzione dei Servizi psichiatrici. Due anni fa ha accettato la scommessa di Aversa. «Esperienza affascinante», dice. Perché l´agro aversano è un luogo emblematico. Terra grassa e durezza contadina, dove lo Stato ha lasciato molti vuoti, che la camorra occupa con la tracotanza di una organizzazione medioevale, dotata di computer. E la zona costiera è zona franca di un´Africa che bussa all´Europa, ma anche luogo di deportazione del dopo-terremoto, terreno ideale di coltura del disagio psichico.
Benché lo smantellamento del manicomio (fino a 3000 ricoverati) fosse concluso dal '97, ad Aversa Rotelli trovò le cose fatte a metà, se è vero che fra i suoi primi interventi ci fu l´eliminazione delle porte blindate, dieci, nel reparto psichiatrico dell´ospedale, segno tangibile di una paura della malattia mai esorcizzata. Una paura che ritorna, ciclicamente, purtroppo. Sollecitata a volte da storie disgraziate, come la morte dello psichiatra Lorenzo Bignamini, che minacciano di rimettere in discussione un percorso faticoso, già pieno di trappole. Non a caso, in questi giorni, Rotelli con i suoi propone di istituire un Forum (il documento è su Internet www.forumsalutementale.it) perché la riforma psichiatrica, dice, non può prescindere dalla qualità dei servizi che oggi «appaiono spesso segnati da un´imbarazzante dissociazione tra pratiche ed enunciazioni teoriche». Sicché per esempio i Centri di diagnosi e cura a volte sono piccoli lager che riproducono in scala l´orrore del grande lager manicomiale.
L´esperienza di Aversa vuol essere la dimostrazione che il gap si può superare, anche in un contesto difficile. Giovanna Del Giudice, altra basagliana doc, è stata chiamata un anno e mezzo fa a dirigere il Dipartimento di salute mentale. Dice: «Quando vedevano il nostro lavoro, alzavano le spalle: «Si capisce, siete a Trieste». E invece si può anche al Sud. Basta avere chiari gli obiettivi e indirizzare le risorse. La Regione Campania ha decretato che il 5 per cento del fondo sanitario nazionale va alla psichiatria. Si tratta di sapere come utilizzare i fondi: per servizi pubblici di qualità o per le cliniche private?». Servizio pubblico di qualità per lei significa puntare sul perfezionamento del lavoro territoriale: con l´assistenza domiciliare, la presa in carico puntuale dei malati per evitare che si sottraggano e spariscano, ma anche la rivisitazione delle strutture. Dice: «Mi piace aver tolto di mezzo i metodi di contenzione che ancora abbondavano, e di aver liberato dal Diagnosi e cura un ragazzo che ci era entrato vent´anni prima, con la riforma. Infine di aver aperto un paio di Centri di salute mentale dignitosi, sottratti alla miseria in cui versano in genere queste strutture».
A San Cipriano il Centro di salute mentale (l´Asl ne ha sei) si trova al primo piano di un edificio nuovo, che al piano terra ospita invece servizi per la donna e pediatrici, così da dimostrare nei fatti - come spiega Andrea Dell´Acqua, psichiatra - che l´apartheid del malato psichico è solo un fatto di cultura. Ad Aversa il Centro si trova a Palazzo Orabona, nel cuore della vecchia città. Un edificio bello, con un gran portale aperto sulla e alla comunità circostante. Cucina, salone, mensa, giardino, laboratori, ma anche un ambulatorio, quattro letti (due per donne e due per uomini, secondo un modello che si ripete in ogni unità operativa), insomma il vecchio centro crisi che qui si chiama "posto di accoglienza". Palazzo Orabona è un luogo di aggregazione, in cui si svolgono attività che, come spiega lo psichiatra Marco Tosello, non occupano solo il tempo, ma sono finalizzate, perché dare un senso a ciò che si fa è parte del percorso di recupero. Non a caso, l´Asl ha testé istituito con fondi regionali 24 borse di formazione lavoro. Anche questo si può, se si vuole. Lo dimostrano quei cinque malati che hanno cominciato a realizzare mosaici, sotto la guida di un artigiano. Ora fanno gli artigiani anche loro, a Mondragone, e producono bei tavoli maiolicati. Per uscire dal disagio, l´autostima è tra le porte principali.
(2.continua)
I SERVIZI
Sono 3500 i pazienti presi in carico dai servizi del dipartimento di salute mentale nella grossa ASL Caserta 2 che va da Aversa, alle porte di Napoli, fino a Sessa Aurunca, al confine con il basso Lazio
I CENTRI
Sei i Centri di salute mentale attorno a cui si articola l’attività delle cinque unità operative in cui è suddiviso il territorio. Due di questi rispondono già a criteri innovativi, gli altri sonovia di totale rinnovo
LE SIR
Le Sir, strutture intermedie residenziali, sono in via di smantellamento. Due sono state chiuse. Ne restano quattro, che verranno eliminate per far posto a formule di convivenza più vicine alla normalità
GLI APPARTAMENTI
Sono 15 gli appartamenti affittati nel centro dei vari paesi dell’agro aversano per ospitare, a gruppi di tre - quattro, gli ospiti delle Sir smantellate. Un percorso di progressiva autonomia
nella stessa pagina:
L´INTERVISTA
Giovanni Battista Cassano, psichiatra dell´Università di Pisa e oppositore della legge 180
"L´idea di riaprire i manicomi? Un piano inutile e costosissimo"
di Carlo Brambilla
MILANO - «Tornare indietro, riaprire i manicomi, progettare la creazione di nuove strutture contenitive e di custodia per i pazienti psichiatrici, sarebbe una vera follia. Un progetto irrealizzabile, costosissimo e probabilmente inutile». Giovanni Battista Cassano, psichiatra dell´Università di Pisa, celebre esponente della psichiatria medica, organicista convinto, interviene con passione scientifica nel dibattito su una possibile revisione della legge 180, riaperto dal drammatico delitto di Milano.
Professor Cassano, lei fu tra i grandi oppositori della legge 180 voluta da Franco Basaglia.
«Mi trovai a dissentire con una legge approvata drasticamente, che prevedeva la chiusura improvvisa dei manicomi. E, cosa che non era contenuta nel pensiero di Basaglia, con la negazione totale della psichiatria e della psicopatologia, delle sue basi biologiche e della terapia delle malattie mentali, che si sono recuperate solo negli anni Novanta» .
Oggi, però, anche lei è contrario all´ipotesi di riaprire i manicomi.
«Certo. È inutile parlare di "riforma" senza avere le idee chiare. Col rischio di creare qualcosa di peggio di quello che abbiamo già» .
Pensa alla proposta di legge di Maria Burani Procaccini di Forza Italia?
«La Burani non ripropone la riapertura dei manicomi. Il manicomio raccoglieva handicap di ogni tipo, anziani, alcolisti, poveri soli, abbandonati. Mentre qui si pensa a strutture elettivamente psichiatriche, private o convenzionate, nelle quali i pazienti possano essere trattenuti per lungo tempo con trattamento obbligatorio. Ma si tratta di una proposta irrealizzabile. Che richiederebbe un impegno economico notevolissimo. Con un grande numero di infermieri per paziente, grande controllo, grandissima responsabilità per chi tiene i malati e quindi forte limitazione della libertà» .
Lei invece a cosa pensa per migliorare la cura dei malati mentali? «Penso a piccole nuove strutture, con non più di sei o dieci posti letto, all´interno delle quali sviluppare la competenza per la cura di patologie particolari, piccoli centri di eccellenza, sperimentali, che acquisiscano esperienze che siano poi trasferibili nella pratica» .
Come cambia la malattia mentale?
«L´età media dei miei ricoverati è sotto i 40 anni. Una volta era 60 anni. Oggi ricoveriamo moltissimi pazienti tra i 16 e i 30 anni. Patologie complicate dall´uso della cocaina e dell´ecstasy» .
Il caso di Arturo Geoffroy si sarebbe verificato anche senza la 180?
«Probabilmente sì. Il suo non è un caso di schizofrenia, ma di delirio cronico lucido. Una patologia che è sempre esistita e che fa disastri anche dove esistono gli ospedali psichiatrici».
La Repubblica lunedì 18 agosto 2003, pag 23
Una ricerca promossa dall’Istituto superiore di sanità fotografa la rete dei presidi psichiatriciIn Italia le 'strutture residenziali' sono 1370 con 27mila posti: più degli standard di legge Ma pochi pazienti guariscono: poca riabilitazione, troppi psicofarmaci
Mille manicomi piccoli piccoli
Così il "matto" resta malato a vita
di Roberto Bianchin
MILANO - Dal posto dove sta, dove «mi trattano bene», dice, Gianfranco il matto non se ne vuole andare via. Perché non ha una casa, un lavoro, e la sua famiglia non lo vuole più. Sono tanti, migliaia quelli come lui. Quelli che abitano nelle "strutture residenziali psichiatriche non ospedaliere", chiamate "SR", nate in seguito alla chiusura dei vecchi manicomi decisa dalla legge Basaglia. Erano destinate ad accogliere i pazienti con gravi disturbi mentali, curarli e poi farli tornare nella società. Invece stanno diventando delle vere e proprie «case per la vita», quasi dei piccoli, nuovi manicomi, dai quali non esce più quasi nessuno. Nel momento in cui si discute, dopo il caso Geoffroy, se riaprire i manicomi o creare nuove strutture per i malati di mente, una ricerca promossa dall' Istituto superiore di sanità, chiamata "Progres" (Progetto Residenze), condotta dai medici Giovanni De Girolamo, Pierluigi Morosini e Angelo Picardi, e pubblicata sul «British Journal of Psichiatry», apre nuovi e inquietanti scenari sulla cura della pazzia. Anzitutto per i numeri. Perché è sorprendente scoprire che in Italia ci sono ben 1.370 "strutture residenziali", aperte soprattutto negli ultimi anni, dal '97 in poi (in testa la Lombardia con 180 "SR" per duemila posti, ultima la Val D' Aosta con una sola e 8 posti), per un totale di 17mila "posti residenziali psichiatrici" che fra cliniche e case di cura diventano 26.666, un terzo dei 78mila letti dei vecchi ospedali psichiatrici nel '78. Una cifra addirittura superiore agli standard fissati dal "Progetto Obiettivo": due posti ogni 10mila abitanti. Queste strutture, che in grande maggioranza (73%) sono aperte 24 ore su 24, ospitano 15.943 pazienti. Per lo più sono uomini di una certa età, fra i 50 e i 64 anni, che al massimo hanno fatto la terza media, che non si sono mai sposati, che hanno una pensione di invalidità, che in parte arrivano dai vecchi ospedali psichiatrici e che soffrono, in maggioranza (67%), di disturbi di tipo schizofrenico. Dall' analisi degli studiosi, che hanno esaminato nel dettaglio un campione del 20% di queste strutture, 267 residenze e 3.005 pazienti in venti regioni, emergono un dato rassicurante e due preoccupanti. Quello rassicurante è che, al di là delle polemiche, «il processo di superamento anche fisico delle vecchie istituzioni asilari è da considerarsi realizzato». Quelli preoccupanti sono invece l' insufficienza dei programmi riabilitativi che vi vengono attuati, anche a causa di un personale «sprovvisto di una formazione specifica per il trattamento di pazienti psichiatrici gravi» (18mila operatori, solo il 5% di psicologi e l' 8% di psichiatri e neanche un infermiere nel 20% delle strutture), e il bassissimo turn-over degli ospiti, che sempre di più diventano degli ospiti fissi. Malati a vita, come nei vecchi manicomi. Basta pensare che, in un anno, un terzo di queste strutture (il 31%, 343 residenze) non ha dimesso neanche un paziente. E un altro terzo ne ha dimessi solo uno o al massimo due. Le ragioni, per gli studiosi, sono di due tipi: la prima è legata alla loro storia di pazienti malati da tempo, con gravi problemi di funzionamento psicosociale, limitata collaborazione e basso livello di sostegno sociale, a cominciare dall' assenza o dalla indisponibilità delle famiglie. La seconda è dovuta alla limitata disponibilità di trattamenti psicosociali specifici e di progetti riabilitativi personalizzati. Di qui il rischio che alcune di queste strutture diventino dei «contenitori istituzionali», sia pure di ridotte dimensioni, con il ritorno a «pratiche assistenziali» senza sbocchi. Non aiutano, secondo i ricercatori, neanche i trattamenti forniti. Ancora troppi farmaci. Il 96% dei pazienti è in trattamento psicofarmacologico, con una media di 2,9 psicofarmaci per paziente. Inoltre il 91% degli ospiti è curato con farmaci antipsicotici, il 14% con antidepressivi, il 25% con stabilizzanti dell' umore. Pericolosa, secondo gli studiosi, la somministrazione quasi generalizzata (69% dei pazienti) di benzodiazepine. Sono molecole che hanno un elevato rischio di dipendenza nell' uso a lungo termine e che nel caso di pazienti con disturbi psicotici possono provocare delle reazioni pericolose. Di qui l' esigenza di una «attenta rivalutazione» anche dei metodi di cura. (3.fine)
Posti residenziali per regione:
Piemonte 1.595
Valle d’Aosta 8
Lombardia 2.076
Bolzano 198
Trento 158
Veneto 1.244
Friuli V.G. 377
Liguria 780
Emilia Romagna 1.248
Toscana 761
Umbria 382
Marche 322
Lazio 1.261
Abruzzo 883
Molise 203
Campania 897
Puglia 1.215
Basilicata 286
Calabria 704
Sicilia 2.125
Sardegna 415
l’identikit degli ospiti:
maschi 87%
femmine 6%
fino a 30 anni 8,8%
30/39 anni 19,4%
40/49 anni 21,8%
50/64 anni 34%
oltre 65 anni 15,9%
mai coniugato 82,1%
coniugato 3,5%
convivente con un partner 0,8%
divorziato/separato 10,6%
vedovo 2,9%
analfabeta 12,0%
elementare 34,0%
media inferiore 34,1%
media superiore 14,0%
università 1,3%
altro 4,7%
disturbi schizofrenici 67,4%
ritardo mentale 9,8%
disturbi mentali organici 3,1%
disturbo bipolare 4,2%
depressione bipolare 2,7%
disturbi di personalità 9,0%
altri disturbi 3,7%
nella stessa pagina:
Società italiana di psichiatria
Vanno evitate speculazioni
La polemica
ROMA - «L' omicidio del dottor Bignamini da parte del suo paziente Geoffroy, è una vicenda tragica che poco ha a che fare con i limiti organizzativi delle strutture psichiatriche, che pur ci sono». La Società italiana di psichiatria respinge le accuse mosse da quanti «non vogliono comprendere - si legge nel comunicato - la complessità della professione dello psichiatra e dell' intera vicenda». Nel trattare il caso Geoffroy, la Sip auspica il ricorso a «un elevato senso etico affinchè vengano evitate forme speculative strumentali». E conclude: «Scaricare le colpe su qualcuno è uno sport praticato in Italia».
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