mercoledì 7 gennaio 2004

Daniel Baremboim* su Spinoza

una segnalazione di Annalina Ferrante

citato al Martedì

La Repubblica 7.1.03
SPINOZA
Vi racconto perché è stata la mia guida
come vincere l'antisemitismo

Questo filosofo non si è fatto condizionare da nessun sistema politico e religioso. Da nessun concetto morale. E ha difeso il libero pensiero
Ho letto l'"Etica" per la prima volta a 13 anni Il semplice principio: "l'uomo pensa" per me è diventato un leitmotiv esistenziale
Il grande Voltaire gli rimproverò una volta dell'abuso di metafisica Ma non è forse il suo carattere assoluto ad essere oggi importante?
Il suo principio di non separare la ragione dall´emozione è diventato per me la forma primaria di incontro con la musica
di DANIEL BARENBOIM


L'Etica di Spinoza l'ho letta per la prima volta quando avevo 13 anni. A scuola abbiamo studiato la Bibbia - per me un'opera anch'essa assolutamente filosofica. Ma con la lettura di Spinoza mi si è aperta una nuova dimensione del pensiero. Una dimensione di cui sono fino ad oggi succube. Il semplice principio di Spinoza, «l'uomo pensa», è diventato per me un leit-motiv esistenziale. La mia copia dell'Etica nel frattempo si è logorata e squinternata. Per anni me la sono portata dietro nei miei viaggi, e nella stanza d'albergo o durante le pause dei concerti mi sono fatto prendere dall'entusiasmo per le sue teorie.
L'Etica è la miglior scuola dell'intelletto perché Spinoza insegna come nessun altro filosofo la radicale libertà dei pensieri. Solo un uomo che riflette coerentemente, è nella condizione di trovare una forma di felicità. Per me questa cognizione è una sorta di autoanalisi pre-freudiana. Spinoza mi aiuta a guardare me stesso dall'esterno. In questo modo la vita diventa sopportabile anche nei periodi di maggiore sofferenza e il mondo con gli assunti dellEtica assume proporzioni vivibili.
Il grande Voltaire ha rimproverato una volta a Spinoza «l'abuso di metafisica». Ma non è forse proprio il carattere assoluto della metafisica ad essere oggi più importante che mai? La sconfinata libertà del pensiero filosofico non è forse diventata la più grande e la più preziosa forma di libertà in un'epoca in cui spesso, a causa dei sistemi politici, delle costrizioni della società in cui viviamo, dei codici morali e della "political correctnes", esercitiamo senza volere un'autocensura ai nostri pensieri?
Spinoza non si è fatto limitare da nessun sistema politico e religioso - da nessun concetto morale. E ha sofferto per difendere l'ideale del libero pensiero. Quasi nessun filosofo fu avversato come lui. È stato definito «arciebreo che parla male», è stato cacciato dalla sinagoga e dall'insegnamento statale. Anche i suoi allievi professavano le sue idee solo di nascosto. E quando il principe elettore del Palatinato Carlo Ludovico chiese al povero e solitario filosofo di insegnare all'Università di Heidelberg, questi si rifiutò: Spinoza non poteva garantire che i suoi pensieri non intaccassero la religione ufficiale. Il pensatore preferì la vita modesta e ritirata di una carriera borghese.
Spinoza non aveva un interesse speciale per la musica. Eppure la sua logica ha influito sul mio amore per la musica. Mio padre, laureato in filosofia, fu il primo ad avvicinarmi a Spinoza. Il suo consiglio fu di affrontare filosoficamente e razionalmente anche le partiture. E così il principio di Spinoza di non separare ratio ed emozione, è diventato per me la forma primaria di incontro con la musica. Credo che ci si possa avvicinare di più a un pensiero e a un brano musicale se si vuole indagarne da una parte la struttura logica, dall'altra il contenuto emozionale.
Mi ricordo con piacere l'ultimo colloquio che ebbi con lo straordinario direttore d'orchestra Otto Klemperer. Parlammo di Spinoza ed egli affermò: «L'Etica di Spinoza è il libro più importante che sia mai stato scritto». Klemperer era ebreo. A 22 anni si convertì al cristianesimo perché credeva di poter dirigere la Passione secondo Matteo di Bach solo se era cristiano. Decenni più tardi, dopo la guerra - Klemperer era già anziano - si convertì di nuovo all'ebraismo.
Una delle ragioni di questa conversione fu l'Etica di Spinoza. Che forse è la filosofia ebrea più importante. Quesiti sull'etica e sulla morale ebrea e l'interrogativo "cosa è ebreo?" sono stati posti per molto tempo dalla prospettiva di una minoranza. Le grandi teorie e i manifesti servirono a superare l'idea dell'esistenza bimillenaria di un popolo come minoranza. In tutti questi anni gli ebrei a volte si integrarono nella vita sociale, a volte furono perseguitati in modo spietato, ad esempio dall'Inquisizione spagnola o dalla dittatura di Adolf Hitler. Ciò che è particolare nella filosofia di Spinoza è che egli, nonostante fosse stato perseguitato, vituperato e bandito, non ha mai dato al suo pensiero la premessa della minoranza. Proprio per questo la sua filosofia è così moderna oggi, in un periodo in cui il popolo ebreo ha un suo Stato e dunque non è più considerato minoranza. LEtica di Spinoza è stata ed è sempre adatta a servire da codice per creare un'unità intellettuale e morale tra gli ebrei.
Quando il popolo ebreo nel 1948 ottenne uno Stato, la minoranza divenne una nazione. Questo passaggio fu attuato in modo molto organico. Ma già 19 anni più tardi gli ebrei di Israele si trovarono di fronte ad una nuova sfida: la minoranza di un tempo aveva il controllo su un'altra minoranza, quella dei palestinesi. Questo secondo passaggio sino ad oggi non è stato ancora superato. Vorrei affermare che non è nemmeno cominciato in modo giusto. Sino ad oggi molti ebrei di Israele ancora non sono autentici patrioti a cui sta a cuore la felicità di tutti gli uomini che vivono a Israele, bensì si alimentano di un ingenuo nazionalismo.
Spinoza ha una volta sentenziato: «La finalità dello Stato è in realtà la libertà». Io mi domando a che punto sia arrivato Israele con lo Stato e con la libertà. Spinoza parla dell'uguaglianza degli uomini - la forma di dominio e di tirannia gli è estranea. La democrazia israeliana non ha ancora risolto il problema dello Stato in cui vengono oppresse minoranze e in cui la libertà di tutti vale come regola suprema. Noi viviamo sino ad oggi in una democrazia a due classi.
Sono convinto che gli ebrei di Israele, prima di poter risolvere il conflitto medio-orientale, debbano definire seriamente la propria posizione in senso morale-etico. Dato che ciò non è ancora avvenuto, vorrei citare un esempio di umorismo ebreo: l'umorismo di una minoranza è coraggioso. Un ebreo che nel ghetto di Varsavia getta tra i piedi di un ufficiale della Gestapo un pezzo di pane raffermo dicendo: «Questo è buono abbastanza per un non-ebreo», mostra coraggio civile. Se oggi un ebreo getta un pezzo di pane raffermo a Ramallah tra i piedi di un palestinese dicendo le stesse parole, non compie un'azione coraggiosa, ma primitiva e disumana.
Negli anni Cinquanta lo spirito di Spinoza era ancora vivo a Gerusalemme - la città era il centro degli intellettuali ebrei. Qui hanno insegnato Martin Buber e Max Brod. In quel periodo io vivevo a Tel Aviv. Qui eravamo più pragmatici: abbiamo costruito il Paese, avevamo speranze, entusiasmo, e creammo valori materiali. L'Università ebraica a Gerusalemme ci forniva il fondamento intellettuale. Ma nel frattempo l'ebraismo secolare è andato via da Gerusalemme e gli ebrei ortodossi hanno determinato il clima spirituale. Così Gerusalemme ha perso la tradizione intellettuale di Spinoza. Ma proprio questa tradizione è necessaria per arrivare a un progresso nel conflitto medio-orientale.
Già Spinoza soffrì di due fenomeni che ancor oggi sono latenti. Da una parte egli, ebreo, fu escluso dalla comunità ebrea. Dall'altra parte divenne vittima di antisemiti demagogici. Di recente un'inchiesta in Germania ha dato uno spaventoso risultato: gran parte dei tedeschi crede che gli ebrei rappresentino il più grande pericolo per la pace mondiale. In questo caso si è dissolta una essenziale linea di demarcazione: la critica allo Stato di Israele e l'antisemitismo - l'una è diventata la copertura dell'altro. Ci sono critiche giustificate al governo israeliano - e io stesso le ho formulate spesso e con forza. Ma questa discussione che fomenta risentimenti antisemiti è incresciosa.
L'antisemitismo non si deve trattare storicamente, politicamente e nemmeno filosoficamente. L'antisemitismo è una malattia. È significativo che le idee di Spinoza abbiano avuto delle ripercussioni proprio su ciò che oggi vale come tipica filosofia tedesca, e cioè su Feuerbach, Wagner e Nietzsche. Ad esempio, Richard Wagner come poteva diventare antisemita avendo le idee di Spinoza? Un po' di antisemitismo faceva sicuramente parte del profilo di un nazionalista tedesco del XIX secolo. Ma perché mai Wagner lo sostenne con eccezionale veemenza? Su questo punto non poteva richiamarsi al suo padre spirituale, erede di Spinoza, ossia a Feuerbach. L'antisemitismo di Wagner, come ogni forma di odio contro gli ebrei, aveva una base irrazionale. Egli era troppo simile ai suoi nemici mortali, agli ebrei, a Meyerbeer o a Heinrich Heine. E qui, nel desiderio stesso di voler appartenere alla categoria degli eletti, si trova la pericolosa separazione fra spirito logico e motivi privati. Ancora una volta: l'antisemitismo non si può trattare filosoficamente. Rimane una malattia che ancora non combattiamo in maniera sufficiente.
La lettura dell'Etica di Spinoza rende chiaro tutto ciò. Oggi è così moderna come mai prima. Prima di tutto perché può essere per il lettore privato stimolo alla catarsi - al pensiero logico e libero. In secondo luogo perché offre riflessioni decisive per la convivenza collettiva. Con l'Etica di Spinoza Israele potrebbe evolversi in uno Stato veramente democratico e ogni comunità potrebbe trovarvi le basi per definire i propri valori etici.

Traduzione di Paola Sorge

* Daniel Barenboim, nato a Buenos Aires nel 1942 è uno dei più grandi pianisti e direttori d'orchestra viventi. Direttore della Chicago Symphony Orchestra, e Direttore generale della Deutsche Staatsoper Berlin

Baudrillard sull'arte
citato al Martedì

una segnalazione di Annalina Ferrante

La Repubblica 6.1.04
Intervista a Baudrillard di cui esce "Architettura e nulla"
Se l'arte muore per eccesso

"Il taglio è rappresentato da Duchamp che ha messo in campo la promiscuità tra l'oggetto e il museo"
"Ognuno crea la propria espressione e non ha più tempo di ascoltare gli altri producendo così un cortocircuito"
intervista di PICO FLORIDI


VENEZIA. Jean Baudrillard è a Venezia mentre esce in Italia il suo colloquio con Jean Nouvel (Architettura e nulla, Electa, euro 15,00). Altra recente edizione italiana è Power Inferno (Raffaello Cortina, euro 8.50), il suo saggio su globalizzazione e terrorismo.
Lo abbiamo incontrato al convegno su "Globalizzazione, Identità culturale e arte", organizzato dalla Biennale con l'Ambasciata di Francia e il Goethe Institut.
Vorrei prendere spunto dalla sua esperienza artistica. Da qualche anno lei è diventato fotografo. Il protagonista assoluto della sua arte è il dettaglio.
«Sì il frammento, il dettaglio. L'insieme mi pare non abbia più senso, lo stesso avviene con le ideologie, o con la storia lineare che ha una finalità. Sono entità compromesse. La singolarità del mondo non è più nel senso, nei grandi significati che gli si danno, è nel dettaglio sensibile che può essere creato anche a livello di immagine. C'è una singolarità nuova, contenuta nel dettaglio, nel frammento di mondo. Nell'esistenza personale tutto è ancora possibile».
Concentrare l'attenzione sul dettaglio le dà la possibilità di forzare il reale?
«È piuttosto l'idea di uscire dal reale, dai grandi insiemi dalla razionalità. Quando ci si tuffa nel dettaglio, quando si frammentano le cose, si esce dal reale, dal principio di realtà e si trova la singolarità. È da tempo che si vedono i dettagli nelle opere d'arte classica, grazie alla riproduzione. Quella di cui parlava Benjamin non è solo la riproduzione tecnica ma è anche questo découpage, questa frammentazione che non mantiene più il senso generale, al quale non si dà più un significato generale, ma che conserva sempre la magia nel dettaglio».
Questo le permette di creare una scena diversa da quella del reale?
«Sì, una scena diversa: nella grande arte classica c'erano le scene trascendenti, la spiritualità. Noi l'abbiamo perduta, non possiamo cercare nell'aldilà, dobbiamo rivolgerci a questo mondo, allora scorriamo dal senso generale verso il dettaglio per trovare un'altra scena, una forma di poetica che consiste nell'inventare un'altra scena, uscire dal reale».
Allora quando avviene che l'oggetto reale si trasforma in immagine e quindi in opera d'arte?
«Quando si entra nel dettaglio si ha a che fare con dei soggetti e non con degli oggetti. È per questo che non fotografo gli esseri umani, i volti, ma piuttosto delle cose inanimate, degli oggetti, delle situazioni. Se si riesce a fare il vuoto intorno all'oggetto, a farlo uscire dal contesto del significato, portandolo in fondo alla sua logica, allora può apparire come oggetto. Bisogna eliminare, o tentare di eliminare il soggetto con tutto il suo carico di idee, di pregiudizi, di coscienza. È un'utopia, ma è il tentativo di far venire a galla l'oggetto puro, liberato dal soggetto».
Lei pensa che l'arte rischi l'estinzione in una società dove tutto è visibile?
«Nella visibilità totale, in quella che io chiamo realtà integrale, si è nell'assoluta trasparenza, non c'è più nulla di segreto. L'arte esiste se ci sono delle cose segrete, qualcosa che non viene detto e che non si può dire, mentre adesso non c'è nulla di cui non ci sia nulla da dire, si può dire tutto su tutto. Questo commento, queste chiacchiere indefinite, questa ripetizione delle cose, non seducono perché non c'è nulla di segreto, non c'è illusione e l'arte oggi non cerca l'illusione. Viviamo in un realismo assoluto e tecnologico, che non consente segreti».
Quindi qual è il ruolo dell'arte visiva in un mondo che si riposa sulle glorie dell'immagine?
«Non so quale possa essere questo ruolo perché il lavoro sulla performance visiva è assorbito dalla visualità della pubblicità, dei media e di tutto il resto. Tutta l'arte o la maggior parte dell'arte che si vede alla Biennale è virtualmente decorativa, potrebbe essere venduta nei grandi magazzini. Del resto è una cosa che si fa normalmente, c'è solo il decreto di chi afferma che è arte che ne distingue la specificità. Ciò che resta è il discorso sull'arte, la storia dell'arte e l'idea di arte».
Se questo è vero, chi è che incarna la forza critica, il polo di resistenza?
«L'arte è solo una variante di un sistema generale di produzione, di messa in scena, di performance. Non ci sono poli di resistenza a quel livello, spero ci siano altre cose che resistono al di fuori dell´arte, che non costituisce più una scena alternativa».
E il messaggio dell'arte concettuale?
«Il messaggio dovrebbe essere che non c'è più nulla da dire. Si visualizza l'idea dell´arte, siamo al limite estremo, dove l'arte è al minimo, non è più forma è un'idea. È una maniera di salvare un'idea dell'esistenza dell'arte fino al limite in cui non c'è più nulla da rappresentare, è un'arte dell'appena visibile».
Cos'è per lei il complotto dell'arte?
«È un complotto di cui tutti sono complici, chi genera arte e chi la fruisce, dando vita a una spirale d'intossicazione. Non voglio fare accuse di manipolazione, ma c'è una forma di ricatto. Se non vi riconoscete mentre guardate l'arte e mentre la capite, allora ne siete esclusi. È una servitù volontaria».
Lei ha affermato che abbiamo finito per avere un eccesso di arte, ma non sarà che non riusciamo a vederne i confini perché siamo in un mondo dove tutto è arte, dove tutto può essere arte?
«Se l'arte è ovunque, allora cessa di esistere. La cultura è la forma globalizzata dell'arte e di molte altre cose. La morte dell'arte è un paradosso: l'arte muore per eccesso di arte. Il taglio è rappresentato da Duchamp che ha messo in campo la democrazia assoluta, la promiscuità totale fra l'oggetto e il museo, per cui qualsiasi cosa può entrare nel museo. Non ci sono più posizioni singolari, ognuno crea le sue regole del gioco. Tutti possono produrre, non ci sono più segreti, tutti possono affermare qualcosa e hanno il diritto di farlo. Dal punto di vista dell'artista, il tema centrale diventa il fatto che sta dipingendo, non più l'oggetto reale.
Tutti diventano creatori, c'è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c'è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione e non ha più il tempo di ascoltare gli altri. È una forma eccessiva in cui l'arte scompare per eccesso, non per mancanza, creando un cortocircuito al senso stesso. La conseguenza per il consumatore è che dal momento che l'artista dipinge per il fatto che dipinge, lo spettatore va a vedere il fatto di andare a vedere, e quindi consuma la sua stessa cultura al secondo grado. Così l'uomo non si coltiva ma si accultura, e si autoconsuma».
C'è una violenza della globalizzazione che si trasmette attraverso l'arte?
«Quella che si trasmette è la violenza della globalizzazione. L'indifferenza a tutto, la visibilità totale, la trasparenza passano anche attraverso l'arte. C'è una violenza particolare dell'arte che potrebbe rivoltarsi contro la globalizzazione, ma ne sono meno sicuro. L'arte di oggi è violenta non solo per il contenuto delle immagini ma per l'irruzione che fa, nella misura in cui mette fine alla realtà».

Intervista inedita di Carlo Patrignani a Pietro Citati
ottobre 1999.

una segnalazione di Tonino Scrimenti
l'intervista che segue è stata citata dal prof. Massimo Fagioli lunedì 5 gennaio 2004


Patrignani: Ho letto tantissimi suoi articoli su Repubblica in cui si è occupato molto volentieri del problema della sofferenza, ha trattato il tema della depressione, ha trattato il tema proprio dell’esistenza dell’essere umano. Ecco, è giunto a qualche conclusione, riflessione sul perché arriviamo a soffrire e ovviamente alla depressione?
Citati: Uno può dire perché soffriamo, sono gli dei che ci fanno soffrire siamo noi che soffriamo e facciamo soffrire gli dei soffrendo, è difficile dire. Quanto alla depressione, io preferisco sostituire la parola depressione con la parola malinconia, che è una parola usata dai classici, da Aristotele, dagli antichi ed è la stessa cosa della descrizione di quella che si chiama mania depressiva con l’andamento ciclico, col furore, con l’abbattimento , col rosso e con lo scuro e per lui (Aristotele) questa malattia tremenda di cui oggi soffrono tanti, di cui hanno sofferto sempre tanti, era una benedizione, era un segno di privilegio celeste perché erano gli scrittori e gli artisti che soffrivano di malinconia. Questa è l’unica conclusione che posso dare.
Patrignani: In questi giorni in Italia si sta molto discutendo sull’eredità di Freud e, sulla validità della teoria freudiana, ci sono diversi punti di vista. Qual è il suo, rispetto al fatto se Freud abbia detto cose sensate o meno?
Citati: Freud è un uomo grandissimo, ha cambiato il nostro modo di pensare. Il modo con cui noi analizziamo un oggetto viene tutto dal tipo di analisi che lui ha proposto nei sogni, quindi, immagini lei che influenza ha avuto. Naturalmente, per quello che riguarda i sistemi di guarigione, questo è più dubbio ma dobbiamo anche ricordare che alcuni grandi miti come il complesso di Edipo ecc è lui che li ha scoperti, non dico che li ha inventati. Quindi liberarsi di Freud è un po’ troppo facile.
Patrignani: Senta, nei giorni scorsi c’è stato a Napoli un convegno su Freud. Il Corriere della Sera riporta una dichiarazione dello psichiatra Massimo Fagioli il quale dice che non è stato Freud a scoprire l’inconscio, anzi, secondo Fagioli Freud non avrebbe scoperto proprio nulla.
Citati: L’inconscio è stato scoperto da sempre, lo sapeva persino Omero. Nell’Odissea c’è Penelope che racconta un sogno ad Ulisse mascherato, lei non sa che è Ulisse e rivela il proprio inconscio, cioè qual’era il suo rapporto coi pretendenti di cui lei non sapeva assolutamente. Quindi la letteratura occidentale nasce con la scoperta dell’inconscio
Patrignani: Allora Freud..
Citati: Freud qualche cosina l’ha detta… più di quanto non abbia detto Fagioli
Patrignani: Eppure Fagioli sono 25 anni che fa l’analisi collettiva
Citati: E... va bè!… Meglio Freud di Fagioli, mi dia retta
Patrignani: Migliaia di persone sono passate per l’Analisi Collettiva, perché mai la cultura in generale è cosi restia a confrontarsi con la teoria di Massimo Fagioli?
Citati:Io non sono uno specialista di cose psichiatriche quindi non mi confronto per nulla, mi permetta ho più rispetto per Freud che per Massimo Fagioli.

un'intervista di Rina Gagliardi a Pietro Ingrao su Liberazione

Liberazione 7.1.04
Intervista al "grande vecchio" della sinistra comunista: «Il pacifismo è la strada giusta»
Ingrao: «Bertinotti rompe uno schema»
di Rina Gagliardi


A Pietro Ingrao il ragionamento con cui Fausto Bertinotti ha concluso il convegno veneziano sulle Foibe, svoltosi in dicembre, è piaciuto davvero molto. Domenica scorsa, quando Liberazione ha pubblicato l'ampio testo del segretario di Rifondazione comunista, se l'è letto con cura, ha preso appunti su un taccuino, come sua abitudine, infine si è fatto vivo con noi, manifestando la voglia di svolgere sul nostro giornale una "riflessione a voce alta". Una telefonata a Sandro Curzi, ieri mattina, ovviamente comprensiva degli auguri per il 2004, ed ecco l'intervista che abbiamo realizzato - nella giornata particolare dell'Epifania romana, molto soleggiata e assai gelida, affollata di famiglie e ragazzini non ancora paghi di questo lungo clima festivo. Come sempre, Pietro ci accoglie nella sua casa al quartiere Nomentano con il suo fare affettuoso, caloroso e inflessibilmente "lavorista": appare in ottima forma e più che mai dedito al vizio che lo ha sempre caratterizzato, quello di pensare in grande. «Questo testo di Fausto» mi dice subito «mi pare proprio di grande interesse. Soprattutto, mi appare fecondo per gli sviluppi, il tipo di lotta e il lavoro a cui chiama. Per la densità e la novità delle sue posizioni, insomma, apre molte domande, sollecita un impegno serio di riflessione ed elaborazione, anche in rapporto alla lettura dei processi reali». Molti di questi interrogativi, o forse tutti - anticipiamo uno dei temi principali che compariranno alla fine di questa conversazione - ruotano attorno al tema dell'efficacia del pacifismo e della politica. La domanda del "come" si incide sui poteri reali - e sempre più terribili - del nostro tempo. Ma, prima, ci sono molte considerazioni da fare.

Che cosa ti ha più interessato e stimolato, nel testo di Bertinotti?

In generale, mi ha colpito il ragionamento che propone sul pacifismo e sulla lotta armata. In questo testo, non c'è solo la netta condanna dello stalinismo, ma qualcosa che va oltre: la capacità di rompere uno schema - anche un immaginario - che era profondamente radicato in tutti noi, nella stessa tradizione leninista. Questo schema è quello della rivoluzione come assalto armato al Palazzo d'inverno, come il momento nel quale scatta la necessità dell'ora X, dell'attacco finale al potere. Uno schema politico che è stato celebrato tante volte nell'arte e nella poesia, fino al punto da saldarsi con la storia - la nostra storia del mondo. Penso ai film di Ejzenstein e a tanta parte della cinematografia sovietica. Ma penso anche alla letteratura marxiana precedente: la Comune di Parigi, una vicenda gloriosa che poi è diventata oggetto di immagini, di simboli, di culto. C'era in noi - voglio dire - la persuasione profonda della dura necessità della lotta armata, che era tornata con forza nella tragedia degli anni '30. E non eravamo affascinati da una frase marxiana (la violenza come "levatrice della storia") di cui eravamo intrisi anche nei momenti più intensi della lotta per il disarmo?

Vuoi dire che per i comunisti di molte generazioni, compresa certo la tua, la dimensione violenta della politica e della rivoluzione è stata un valore, sia dal punto di vista razionale che da quello emotivo?

Voglio dire che per molte e diverse ragioni - prima di tutto qui entrano le biografie, i vissuti, le storie personali, come quella di chi, come me, è interamente cresciuto nel XX secolo - per molti anni non abbiamo avuto una vera distanza critica né dalla violenza né, certo, dalla guerra. Ricordo molto bene lo sgomento che io ho provato al momento del patto di Monaco, ricordo bene l'ira, l'odio vero e proprio verso i "monacensi" e verso Chamberlein, insomma verso quell'imbelle cedimento all'aggressione hitleriana. Un sentimento che poi fu ribadito nel periodo terribile del crollo della Francia, con l'Europa intera che cadeva nelle mani del nazismo. Poi, negli anni successivi, ci furono le cataste di morti, i lager, le torture, fino al 1945. E ci fu, da parte nostra, l'epica della controffensiva e della partigianeria. Un canto come "Bella ciao" non è forse la celebrazione poetica di quest'epica?

…anche un canto come quello dei "maquis" francesi, che chiama alla lotta, esalta il "fardeau" della dinamite e anche il sacrificio supremo ("ami, si tu tombe, un ami sort de l'ombre à ta place" "amico, se tu cadi, un amico sorge dall'ombra al tuo posto") …

Appunto, ciò che io chiamo "lettura poetica" è questa esaltazione della chiamata alle armi, e anche del cadere per la libertà con le armi in pugno. Questa idea è rimasta stampata nelle mie viscere, se posso dirla così, anche negli anni successivi, quando avevamo scelto fino in fondo in Italia la strada della lotta democratica. Nel fondo di noi stessi, non avevamo rinunciato all'idea di un "momento finale" che prima o poi poteva o doveva arrivare. L'ora X, abbiamo detto. Ma anche la sensazione di vivere su un crinale di frontiera - quante volte abbiamo paventato un golpe, dormito fuori casa, temuto il complotto dei generali? Mi torna in mente un'espressione di Foster Dulles (segretario di Stato degli Usa tra il '53 e il '59, durante la presidenza Eisenhower, sostenitore della guerra fredda e di un rigido antisovietismo, Ndr) che certo oggi è dimenticata: parlava dello stato del mondo come di una "danza sull'orlo dell'abisso".

Poi ci fu la gloriosa vicenda del Vietnam, in comune a più di una generazione di comunisti e di rivoluzionari…

Anche il Vietnam, sicuramente, è parte di questa storia di liberazione consegnata alle armi. Scusa se tendo a esibire i miei ricordi. Ma mi torna nella mente l'emozione che provai nel corso di un viaggio proprio in Vietnam, nei primi anni '70: fui portato a un passo dal fronte di guerra, dormii sotto una tenda, vicino a un soldato che sembrava un bambino, e tante cose, in quella terra, evocavano la sensazione fortissima che c'era una soglia armata ineludibile, per conquistare la libertà…

E oggi?

Non so: forse dobbiamo avere il coraggio di fare un salto? Fausto, questo salto, lo fa: segna uno stacco dall'idea dello scontro armato come liberazione, prospetta linee di un nuovo e radicale pacifismo. Lo fa con una nettezza e una limpidezza - ma oserei dire anche con una semplicità - che raramente ho avvertito. E mi pare molto significativo il modo con il quale intreccia questi temi con la condanna della guerra preventiva di Bush (quella che, segnalo cocciutamente, è per me la grande novità del III millennio) insieme con una ripulsa altrettanto netta del terrorismo. Da parte mia, vorrei solo porgli alcune domande che proprio questo ragionamento mi ha sollecitato.

Falle, queste domande

C'è una questione che Fausto non esplicita. In un'epoca in cui la guerra è a tutto campo e non è più, come nel crudo secolo che ci sta alle spalle, una scelta "obbligata" ma, come appena stavamo dicendo, si fa "preventiva", come si risponde all'aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore? Qui torna una parola - il "resistere" - che mi è costata un incidente per me piuttosto sgradevole: un'intervista alla Repubblica in cui, poiché parlavo della necessità per il popolo iracheno di "resistere", ero indicato nel titolo come un amico di Saddam Hussein. Ma quali sono, se ci sono, le alternative alla "resistenza"? Come si affronta l'ingresso concreto della violenza delle armi nella nostra vita?

In questa tua più che logica domanda, mi pare sottovalutata la questione della forza tremenda, gigantesca, che hanno acquistato gli apparati della guerra - parlo di quelli nordamericani, ovviamente, che sono più potenti, distruttivi e terrorizzanti dell'insieme del resto del mondo. Mentre fino a un certo punto - nel secolo scorso - si poteva non solo "resistere" ma anche e soprattutto vincere (il Vietnam che tu stesso ricordavi è stata una lotta vincente, sia dal punto di vista politico che militare), oggi questa possibilità non è data - per lo meno, la sproporzione appare, allo stato, incolmabile. Una delle ragioni più importanti per cui torna il terrorismo, e si affacciano pratiche come quelle degli attentati suicidi, non è proprio questa impossibilità di vincere sul terreno dello scontro militare?

Io sono ben persuaso che il terrorismo non è la risposta da opporre alla guerra - e apprezzo molto, nel testo di Bertinotti, anche questa condanna, che può sembrare ovvia, ma non lo è per nulla. È vero però che noi non abbiamo ancora elaborato una strategia di risposta al terrorismo: anche al terrorismo che si pone di fronte a un avversario, come gli Stati Uniti che, certo, hanno messo in piedi uno strapotere così soffocante. La mia non è una polemica, è un assillo: quale strada possono percorrere questi milioni di persone, questi popoli, per respingere la violenza americana? C'è, o no, un obbligo di resistere, anche con le armi? C'è un diritto di difesa che non deve o non può rinunciare al loro uso? Quello che sto cercando di dire, è che non abbiamo lavorato abbastanza su questo tema - anche se e quando la nostra ricerca pacifista è cominciata da anni. Ho partecipato alla prima marcia Perugia-Assisi, quella di Capitini e Lombardo Radice: continuo a pensare oggi come allora che il pacifismo sia la stella di un nuovo mondo, e mi colpisce che il segretario di un partito, il quale affonda alcune delle sue radici nel leninismo, indichi oggi nitidamente e imperiosamente quella strada pacifica. Il fatto è che a noi, alla nostra generazione, è apparso ineluttabile quel percorso di liberazione dallo sfruttamento capitalistico, di uscita dalla soggezione, che una parte del mondo non poteva non compiere attraverso la lotta armata. Mia moglie Laura, che era una persona mite, nella mia casa aveva posto su un cassettone della nostra stanza, bene in vista su tutto, il ritratto di "Che" Guevara…

…un simbolo glorioso non solo della rivolta armata, però, ma anche di una sconfitta. Non credi che, tra le risposte ineludibili, ci debba essere la riaffermazione della politica? Della politica come "arma" che sconfigge la logica della guerra?

Ci credo o almeno ci spero. E con altri - Oscar Luigi Scalfaro, per esempio - ho chiamato in campo un testo tutto "politico" come la Costituzione Repubblicana. Ho chiesto pubblicamente se l'articolo 11 della Costituzione - che, per l'Italia, ripudia ogni guerra che non sia di difesa - sia valido ancora o invece no. Non ho avuto risposta. Mandiamo i nostri soldati a morire a Nassiriya, li esaltiamo e li celebriamo come martiri, li salutiamo commossi quando tornano nelle loro bare. E poi? Io continuo a chiedere: l'articolo 11 è valido o no, nei confronti della nuova guerra americana? Chiedo a me stesso e anche ai miei amici, ai giovani dei grandi cortei, a cui ho partecipato, e quali sono i luoghi, gli enti, le istituzioni che possono agire, in concreto, per respingere e inibire questa nuova pratica della guerra?

I tuoi dubbi e i tuoi interrogativi, mi pare, ruotano tutti attorno ad un unico tema, l'efficacia della politica. O mi sbaglio?

Non ti sbagli. Voi di Liberazione - faccio un altro esempio - avete fatto e continuate a fare, giustamente l'esaltazione dei movimenti. Ci sto, come sapete. Ma, testardamente, continuo a proporre il tema: come si incide sui poteri? Come si incide sulla politica data? Io sono "vecchio", non solo anagraficamente. Non ci credo che la politica sia morta…

…o perduta, come dice Marco Revelli

No, la politica c'è. Anche gli americani fanno politica, la loro politica: non usano solo l'esercito, le armi. E non sono nemmeno un blocco compatto; sono un paese complesso, articolato. E noi dobbiamo apprendere meglio a pesare anche su questo colosso chiaro-oscurato, su questo globo complicato in cui viviamo. Non è questo forse un punto-chiave anche per il domani della nuova Europa che è in cantiere, e di cui pensiamo e speriamo di essere un attore forte, importante? E quando, domani, andremo a votare su questa Unione, non saranno le questioni di cui abbiamo ora discusso insieme veri e propri punti-chiave su cui dobbiamo discutere e chiamare a pronunciarsi la gente di questa Penisola, di questo estremo lembo europeo che da millenni si sporge verso quella soglia dell'Asia oggi in fiamme?

egalité

La Repubblica 7.1.04
PARLA LO STORICO MICHEL VOVELLE
NEL NOME DELL'EGALITÉ LA RIVOLUZIONE SI SPACCÒ
di FABIO GAMBARO


PARIGI. «Durante la rivoluzione francese, attorno alla rivendicazione della libertà ci fu un largo consenso, mentre la questione dell'uguaglianza - che pure era proclamata in apertura della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino - fu all'origine di innumerevoli scontri. Un conto infatti era difendere l'uguaglianza dei diritti, altra cosa invece rivendicare l'uguaglianza sociale. La borghesia costituente voleva la prima, ma temeva evidentemente la seconda». Michel Vovelle è uno dei grandi specialisti della rivoluzione francese. «Gli avvenimenti che vanno dal 1789 al 1793 resero irreversibili alcuni principi, tra cui quello fondamentale dell'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alle leggi, un principio che poi ha fondato tutte le legislazioni moderne». Tale problematica era a quel tempo molto dibattuta. «Il tema dell'uguaglianza era al centro della riflessione filosofica dell'Illuminismo, come dimostra Rousseau, che nel 1755 scrisse il celebre Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini. In termini più concreti, la questione fu anche affrontata da chi denunciava la schiavitù nelle colonie. Se il tema era evocato così di frequente, è perché la società dell'Ancien Régime era fondata sulla disuguaglianza e sulla gerarchia dei tre ordini: clero, nobiltà e terzo stato. Quest'ultimo rappresentava il 98% della popolazione, ma non godeva degli stessi privilegi e degli stessi diritti sociali, giuridici e fiscali degli altri due. La rivoluzione prese una decisione spettacolare e proclamò l'uguaglianza come un diritto naturale. La Dichiarazione del 1789 sottolinea l'aspetto universale di tale diritto, il che implica una rottura radicale con il passato e rappresenta una novità anche rispetto alla costituzione americana e alle libertà del sistema inglese».
Il passaggio dalla teoria alla pratica non fu però facile. «Venne riconosciuta l'uguaglianza civile, ma non quella civica. Le donne rimasero escluse dal diritto di voto, come pure i cittadini troppo poveri per pagare l'imposta minima, vale a dire quasi la metà dei maschi adulti». Anche sul piano sociale, l'idea d'uguaglianza suscitò molte resistenze. «Nell'ideologia liberale della borghesia rivoluzionaria non c'era spazio per l'eguaglianza economico-sociale richiesta da alcuni rappresentanti dell'ala più radicale della rivoluzione, come ad esempio Jacques Roux, detto "il prete rosso". Solo la Costituzione del 1793, quella che non fu mai applicata, recepì in parte l'aspirazione all'uguaglianza sul piano sociale, perché, pur rispettando la proprietà privata, sottolineava il diritto alla sussistenza, all'assistenza e al lavoro. In ogni caso, durante la rivoluzione francese l'uguaglianza divenne un diritto da conquistare e costruire giorno per giorno. Per questo, nei secoli successivi, tutti coloro che si batteranno sul piano dei diritti sociali continueranno a rifarsi alla sua eredità.»

questioni di fertilità maschile in Gran Bretagna

Le Scienze 06.01.2004
In calo la fertilità maschile
Il numero di spermatozoi è diminuito del 29 per cento in 14 anni


Alcuni scienziati hanno trovato ulteriori prove che confermano il calo della fertilità maschile. Un numero sempre maggiore di uomini, infatti, ha problemi ad avere figli e si rivolge a cliniche specializzate.
Uno studio su 7.500 pazienti dell'Aberdeen Fertility Centre indica che il loro numero medio di spermatozoi è calato del 29 per cento in 14 anni. Anche se il calo può essere dovuto al maggior numero di uomini che si presentano alla clinica, i medici sono comunque preoccupati per la scoperta. I risultati dello studio sono stati presentati a Liverpool nel corso di un convegno della British Fertility Society.
Nel corso dello studio, uno dei più grandi di questo tipo, i ricercatori guidati da Siladitya Bhattacharya hanno analizzato quasi 16.000 campioni di seme prelevati fra il 1989 e il 2002. Nel 1989, il numero medio di spermatozoi negli uomini con una quantità "normale" di spermatozoi nel seme era di 87 milioni per millilitro. Nel 2002, questo valore era sceso a 62 milioni per millilitro.
I ricercatori condurranno ora ulteriori studi per scoprire se si è verificato un calo simile anche nella qualità degli spermatozoi, che potrebbe ridurre in modo significativo le possibilità di avere un figlio in modo naturale. Fino a quando questi studi non saranno completati, gli autori sostengono che trarre conclusioni sulla fertilità maschile è prematuro.

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