L'Unità 25.10.04
Omosessuali, la malattia di chi li disprezza
di Luigi Cancrini
Caro Cancrini
Ho letto con sgomento le parole dell’audizione di Rocco Bottiglione , designato commissario europeo della Commissione “ libertà, giustizia e diritti”
Dell’Europarlamento e le relative “ esternazioni” di “autorevoli” ministri del parlamento italiano. Credo che come persone prima, e come psicologi poi, dovremmo interrogarci sul senso e sulla ricaduta di tali affermazioni a livello sociale e culturale.
Io, personalmente credo che in una società “ libera” dovrebbe esistere la possibilità di scegliere psicologicamente quale “ attrazione” seguire, omosessuale o eterosessuale che sia. Fino a qualche anno fa la cultura occidentale non riconosceva l’omosessualità come un fenomeno psicosociale, ma lo considerava ( e credo che molti la considerino tutt’ora) una patologia.
Attualmente quanto e cosa sappiamo dell’omosessualità?
Alessandro Sartori
Quello che sappiamo oggi in tema di omosessualità, a mio avviso, non è per niente poco. Il punto da cui dovremmo partire, parlandone, è quello della grande quantità di studi e di riflessioni che hanno preceduto la decisione, oggi tranquillamente accettata dalla comunità scientifica internazionale, per cui l'omosessualità in quanto tale non può e non deve essere considerata l'espressione di una malattia. Nessuno psichiatra pone più oggi una diagnosi di omosessualità, infatti, e nessun manuale diagnostico contempla più la possibilità di farlo. Il che vuol dire, semplicemente, che i vecchi medici, compreso Freud, sbagliavano quando presentavano l'omosessualità come un disturbo geneticamente determinato o come il risultato di un errore dello sviluppo. In modo semplice e chiaro possiamo (e dobbiamo) dire oggi, sulla base di quello che sappiamo, che l'omosessualità in quanto tale è statisticamente minoritaria ma compatibile non solo con una normale vita di relazione ma anche con quella "capacità di godere e di fare" (Freud) e con quell'armonia complessiva delle persone che integrano i criteri alla base di una definizione scientifica della salute mentale.
Fatto questo chiarimento, il problema del modo in cui si sente un omosessuale dipende soprattutto dal modo in cui la sua diversità è stata ed è considerata dagli altri. Al tempo in cui essa si manifesta, e cioé nell'infanzia o nella adolescenza soprattutto dai suoi familiari che determinano spesso, con le loro reazioni, gran parte dei problemi con cui il ragazzo o la ragazza si confronterà nel corso degli anni. Più tardi, quando diventa più importante anche l'opinione degli altri, dall'insieme dei contesti, scolastici, lavorativi, amicali con cui il ragazzo entrerà in contatto. Dicendo subito che, nella storia naturale della loro condizione, gli omosessuali ritrovano spesso un contrasto evidente tra il modo semplice, naturale, a volte liberatorio con cui la loro diversità si manifesta a loro stessi e il modo impacciato, confuso, intriso di aggressività e di paura con cui gli altri reagiscono al loro tentativo di parlarne. Il conflitto interno vissuto a lungo dalle persone che faticosamente portano avanti la loro scelta omosessuale ha origine, abitualmente, proprio in questo contrasto fra ciò che appare naturale a chi lo vive da dentro e ciò che appare innaturale, colpevole o vergognoso a chi non capisce e non accetta. Una scelta libera, autonoma e coerente con il proprio orientamento sessuale è spesso l'obiettivo fondamentale di un lavoro terapeutico ben condotto in questo tipo di situazioni.
Un problema molto più difficile da affrontare, credo, è quello che riguarda le reazioni forti, a volte francamente patologiche, che la rivelazione dell'omosessualità (o il semplice fatto che l'omosessualità esiste) suscita in alcune persone.
Nella storia dell'uomo, la paura dell'omosessualità ha sempre generato "mostri" che la combattevano in nome di una ideologia morale o politica le cui manifestazioni estreme sono probabilmente quelle legate alla religione cattolica in tempo di controriforma e al nazismo: due forme di "pensiero" che hanno costruito sulla paura degli omosessuali delle vere e proprie persecuzioni. Quando si ragiona sulla differenza che c'è fra questo tipo di reazione basata sulla paura e quella capacità di accettare l'esistenza dell'omosessualità e del suo manifestarsi caratteristica delle persone più equilibrate e di tutte le culture laiche e progressiste, tuttavia, quello che viene da chiedersi è perché alcune persone si sentono costrette a gridare con tanta forza ancora oggi, in un tempo in cui vere e proprie perversioni non sono più possibili, la loro avversione, la loro paura, il loro disprezzo o il loro odio dichiarato nei confronti dell'omosessualità e degli omosessuali. Com'è accaduto ancora in questi giorni, non solo e non tanto nei discorsi ufficiali di Buttiglione, quanto in quelli, sboccati, volgari e indizio franco di psicopatologia, degli esponenti di An e della Lega che hanno sentito il bisogno di sostenerlo.
La spiegazione più semplice che si può dare sul piano psicopatologico di tali atteggiamenti è, a mio avviso, quella legata al fatto per cui pulsioni sessuali contraddittorie sono presenti in tutti gli esseri umani e che il livello di questa contraddizione, però, è diverso da persona a persona. Vi sono, dunque, persone le cui pulsioni omosessuali non sono abbastanza forti da determinare un deciso orientamento della sessualità ma abbastanza forti, comunque, da rendere difficile e faticoso il controllo dei comportamenti. È un riflesso difensivo basato sulla formazione reattiva descritta da Freud in questi casi quello che rende congruo o violento il loro modo di reagire. Sono persone in difficoltà nel tentativo di soffocare parti di sé che non accettano, quelle che con più forza si scagliano contro l'omosessualità degli altri. Integrando, loro sì, una situazione di rilievo psicopatologico nella misura in cui mettono in opera comportamenti direttamente collegati ai loro conflitti interni. Senza avere coscienza di quello che accade a loro, del danno che provocano agli altri e senza sentire, soprattutto, il bisogno di guardarsi dentro per capirne di più.
Perché persone che stanno così male abbiano tanto rilievo nell'opinione pubblica e sui media non è purtroppo difficile da capire. Esse danno voce alle parti più primitive di tante persone che soffrono della loro stessa patologia. In democrazia tutti hanno diritto ad esprimere le loro emozioni più o meno controllate, del resto: anche se, da persona che si occupa di salute mentale, io non posso non dispiacermi con lei, caro Sartori, del fatto che lo spazio offerto loro dal grande teatrino dei media in questa fase non li aiuti per niente a ritornare in sé.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 28 ottobre 2004
citato al Lunedì
i successi della psicoanalisi...
i successi della psicoanalisi...
una segnalazione di Andrea Mancini
da LETTERE a Repubblica del 24.10.04, di Corrado Augias
Psicoanalisi, quanto costa e quanto aiuta a vivere
di Filippo Maria Notarianni
A 20 anni, sentendomi non attrezzato ad affrontare la vita, grazie agli amici e ai parenti assai solerti nell'affermare quanto invece io fossi intelligente, carino e simpatico, mi affidai alle cure di uno psicoanalista. Che, dietro un compenso assurdo che ha certo migliorato e non poco la sua vita, mi ha ripetuto più o meno le stesse cose. Ora, a 40 anni, mi ritrovo, se possibile, con ancora più ansie e paure, e con la consapevolezza che in una società spietata come la nostra io non sia più attrezzato di allora per riuscire a cavarmela.
Oltretutto ora non ho più nemmeno la possibilità di pagare profumatamente un professionista. Che mi dica che una persona così intelligente, carina, simpatica come me...
da LETTERE a Repubblica del 24.10.04, di Corrado Augias
Psicoanalisi, quanto costa e quanto aiuta a vivere
di Filippo Maria Notarianni
A 20 anni, sentendomi non attrezzato ad affrontare la vita, grazie agli amici e ai parenti assai solerti nell'affermare quanto invece io fossi intelligente, carino e simpatico, mi affidai alle cure di uno psicoanalista. Che, dietro un compenso assurdo che ha certo migliorato e non poco la sua vita, mi ha ripetuto più o meno le stesse cose. Ora, a 40 anni, mi ritrovo, se possibile, con ancora più ansie e paure, e con la consapevolezza che in una società spietata come la nostra io non sia più attrezzato di allora per riuscire a cavarmela.
Oltretutto ora non ho più nemmeno la possibilità di pagare profumatamente un professionista. Che mi dica che una persona così intelligente, carina, simpatica come me...
Paolo Rossi
psichiatria e filosofia
ricevuto da Paolo Izzo
Domenica – Sole 24 Ore, 24 ottobre ’04
Storia delle idee
Psichiatri sull'orlo di una crisi di nervi
Il punto sulla psicopatologia a partire da casi di malati che guardano la loro vita dal di fuori
di Paolo Rossi
Se la filosofia è una ricerca sui modi in cui l'uomo conosce e dà senso alla propria esistenza, può disinteressarsi dei modi in cui gli uomini si smarriscono lungo il loro percorso di ricerca del senso e della conoscenza? E la psicopatologia può prescindere da quel corpus di analisi delle aporie indigene alla condizione umana che si è andato strutturando in secoli di riflessione? La psicopatologia ha perso il coraggio delle grandi sintesi concettuali?
L'autore di questo libro, che è acuto, denso e di stimolante lettura, riformula queste domande, scende alla loro radice, ripensa criticamente i fondamenti e i risultati dell'approccio fenomenologico in psicopatologia. Una parte notevole del fascino del libro, soprattutto per i lettori non specialisti, deriva dal largo uso delle autodescrizioni. Come descrivono il loro mondo gli uomini e le donne affetti da schizofrenia o da forme maniaco-depressive? Come avvertono una differenza tra quel loro privato mondo, che li ha condotti davanti a uno psichiatra, e il mondo del cosiddetto senso comune? Perché e come quel loro privato mondo è causa di sofferenza? Ci sono persone che vivono come spiriti disincarnati, si percepiscono come entità astratte, contemplano "dal di fuori" la loro propria esistenza. Ci sono persone che vivono come corpi deanimati, incapaci di avvertire come "propri" i loro pensieri, percezioni, emozioni.
Ciascuno di noi è in grado di uscire dalla immediatezza del vissuto, di rivolgere l'attenzione non agli oggetti, ma all'atto del vedere. Si possono trasformare i nostri atti, come scriveva Edmund Husserl, in nostri oggetti, si può spostare l'attenzione dall'oggetto percepito alla percezione stessa. In questo "innaturale" contesto, il mio sguardo diviene un evento che assume la caratteristica della "oggettualità". Posto come un oggetto da analizzare, comincia a distaccarsi da me. Questa esperienza è perturbante perché il guardare perde la sua immediatezza, appare in qualche modo estraneo e non più familiare. Il ritorno all'immediatezza o al cosiddetto "senso comune" si configura, per alcuni, come un viaggio impossibile. Il libro affronta, con non usuale coraggio, molti temi centrali: le origini e lo status attuale della psicopatologia; le psicosi come disturbi dell'intersoggettività; i significati delle cosiddette "disfunzioni sociali"; le anomalie della sintonizzazione (ovvero l'incapacità di interagire con gli altri) nella melancolia e nella schizofrenia; il problema della depersonalizzazione e quello delle allucinazioni uditive; il significato di un termine come "delirio".
Il capitolo sesto, che ha per titolo, «I sensi del senso comune» contiene, oltre che richiami ad Aristotele e ad altri classici, pagine di rilevanza filosofica. Alle radici di questo bel libro sta una convinzione forte. L'autore pensa che la psicopatologia classica stia attraversando una crisi irreversibile. Lo scenario delle osservazioni di Jaspers e di Schneider era la clinica psichiatrica. Quella psicopatologia, nata nel periodo della "grande ospedalizzazione", è prevalentemente costruita sull'esame di pazienti diventati "casi" dell'esperienza manicomiale. Dopo la scoperta degli psicofarmaci e la chiusura dei manicomi come luoghi di contenimento della follia, quest'ultima si è, per così dire, distesa sul territorio. Sono entrate in crisi molte antiche classificazioni e molte consolidate certezze. E questa crisi si innesta, a sua volta, su una situazione, per così dire, di crisi cronica o ineliminabile o fisiologica: «Ascoltare una persona schizofrenica - scrive Stanghellini - è un'esperienza sconvolgente per più di una ragione. Se lascio che le sue parole attualizzino in me le esperienze di cui parla, invece di prenderle come sintomi di una malattia, lo scoglio di certezze sul quale si arrocca la mia vita può esserne travolto e sommerso».
Giovanni Stanghellini, «Disembodied spirits and deanimated bodies: the psychopathology of common sense», Oxford University Press, 2004, pagg. 226, euro 29,95.
Domenica – Sole 24 Ore, 24 ottobre ’04
Storia delle idee
Psichiatri sull'orlo di una crisi di nervi
Il punto sulla psicopatologia a partire da casi di malati che guardano la loro vita dal di fuori
di Paolo Rossi
Se la filosofia è una ricerca sui modi in cui l'uomo conosce e dà senso alla propria esistenza, può disinteressarsi dei modi in cui gli uomini si smarriscono lungo il loro percorso di ricerca del senso e della conoscenza? E la psicopatologia può prescindere da quel corpus di analisi delle aporie indigene alla condizione umana che si è andato strutturando in secoli di riflessione? La psicopatologia ha perso il coraggio delle grandi sintesi concettuali?
L'autore di questo libro, che è acuto, denso e di stimolante lettura, riformula queste domande, scende alla loro radice, ripensa criticamente i fondamenti e i risultati dell'approccio fenomenologico in psicopatologia. Una parte notevole del fascino del libro, soprattutto per i lettori non specialisti, deriva dal largo uso delle autodescrizioni. Come descrivono il loro mondo gli uomini e le donne affetti da schizofrenia o da forme maniaco-depressive? Come avvertono una differenza tra quel loro privato mondo, che li ha condotti davanti a uno psichiatra, e il mondo del cosiddetto senso comune? Perché e come quel loro privato mondo è causa di sofferenza? Ci sono persone che vivono come spiriti disincarnati, si percepiscono come entità astratte, contemplano "dal di fuori" la loro propria esistenza. Ci sono persone che vivono come corpi deanimati, incapaci di avvertire come "propri" i loro pensieri, percezioni, emozioni.
Ciascuno di noi è in grado di uscire dalla immediatezza del vissuto, di rivolgere l'attenzione non agli oggetti, ma all'atto del vedere. Si possono trasformare i nostri atti, come scriveva Edmund Husserl, in nostri oggetti, si può spostare l'attenzione dall'oggetto percepito alla percezione stessa. In questo "innaturale" contesto, il mio sguardo diviene un evento che assume la caratteristica della "oggettualità". Posto come un oggetto da analizzare, comincia a distaccarsi da me. Questa esperienza è perturbante perché il guardare perde la sua immediatezza, appare in qualche modo estraneo e non più familiare. Il ritorno all'immediatezza o al cosiddetto "senso comune" si configura, per alcuni, come un viaggio impossibile. Il libro affronta, con non usuale coraggio, molti temi centrali: le origini e lo status attuale della psicopatologia; le psicosi come disturbi dell'intersoggettività; i significati delle cosiddette "disfunzioni sociali"; le anomalie della sintonizzazione (ovvero l'incapacità di interagire con gli altri) nella melancolia e nella schizofrenia; il problema della depersonalizzazione e quello delle allucinazioni uditive; il significato di un termine come "delirio".
Il capitolo sesto, che ha per titolo, «I sensi del senso comune» contiene, oltre che richiami ad Aristotele e ad altri classici, pagine di rilevanza filosofica. Alle radici di questo bel libro sta una convinzione forte. L'autore pensa che la psicopatologia classica stia attraversando una crisi irreversibile. Lo scenario delle osservazioni di Jaspers e di Schneider era la clinica psichiatrica. Quella psicopatologia, nata nel periodo della "grande ospedalizzazione", è prevalentemente costruita sull'esame di pazienti diventati "casi" dell'esperienza manicomiale. Dopo la scoperta degli psicofarmaci e la chiusura dei manicomi come luoghi di contenimento della follia, quest'ultima si è, per così dire, distesa sul territorio. Sono entrate in crisi molte antiche classificazioni e molte consolidate certezze. E questa crisi si innesta, a sua volta, su una situazione, per così dire, di crisi cronica o ineliminabile o fisiologica: «Ascoltare una persona schizofrenica - scrive Stanghellini - è un'esperienza sconvolgente per più di una ragione. Se lascio che le sue parole attualizzino in me le esperienze di cui parla, invece di prenderle come sintomi di una malattia, lo scoglio di certezze sul quale si arrocca la mia vita può esserne travolto e sommerso».
Giovanni Stanghellini, «Disembodied spirits and deanimated bodies: the psychopathology of common sense», Oxford University Press, 2004, pagg. 226, euro 29,95.
un convegno a Roma:
interventi
di Annelore Homberg e di Marcella Fagioli
interventi
di Annelore Homberg e di Marcella Fagioli
una segnalazione di Marco Pizzarelli
La dott.ssa Roberta Rocchi ha organizzato un convegno
al quale hanno partecipato anche
la dott.ssa Annelore Homberg e la dott.ssa Marcella Fagioli.
Il titolo del convegno era
"Gli aquiloni volano con il vento: il primo anno di vita"
e si è tenuto nei giorni 28 e 29 ottobre 2004, a Roma,
nella Sala del teatro del Borgo Monumentale di S. Spirito in Sassia
Via dei Penitenzieri.
Ecco di seguito i titoli delle relazioni
della dott.ssa Annelore Homberg e della dott.ssa Marcella Fagioli:
28 ottobre, ore 10.35
L'IDENTITÀ PERSONALE DEL PRIMO ANNO DI VITA
Dott.ssa Annelore Homberg - Roma
28 ottobre, ore 11.50
LA REALTÀ BIOLOGICA UMANA
Dott.ssa Marcella Fagioli - Roma
La dott.ssa ROBERTA ROCCHI ha presieduto questa sessione
__________________
La dott.ssa Roberta Rocchi ha organizzato un convegno
al quale hanno partecipato anche
la dott.ssa Annelore Homberg e la dott.ssa Marcella Fagioli.
Il titolo del convegno era
"Gli aquiloni volano con il vento: il primo anno di vita"
e si è tenuto nei giorni 28 e 29 ottobre 2004, a Roma,
nella Sala del teatro del Borgo Monumentale di S. Spirito in Sassia
Via dei Penitenzieri.
Ecco di seguito i titoli delle relazioni
della dott.ssa Annelore Homberg e della dott.ssa Marcella Fagioli:
28 ottobre, ore 10.35
L'IDENTITÀ PERSONALE DEL PRIMO ANNO DI VITA
Dott.ssa Annelore Homberg - Roma
28 ottobre, ore 11.50
LA REALTÀ BIOLOGICA UMANA
Dott.ssa Marcella Fagioli - Roma
La dott.ssa ROBERTA ROCCHI ha presieduto questa sessione
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18.000 anni fa
l'homo floresiensis
Repubblica 28.10.04
Sconvolgente scoperta in Indonesia: trovato lo scheletro di un ominide di 18 mila anni fa, alto un metro e dal cervello minuscolo
Che shock quel nostro antenato era piccolo come un hobbit
Una smentita dell´idea che l'umanità sia sempre progredita "verso il meglio"
I contemporanei del misterioso "homo floresiensis" erano assai più evoluti di lui
CLAUDIA DI GIORGIO
ROMA - Si chiama Homo floresiensis, ed è una nuova specie di ominide: forse la più misteriosa scoperta finora. Perché a dispetto delle dimensioni minuscole (appena un metro di altezza) e della ridottissima massa cerebrale (il cranio ha una capacità di 380 cc) non è un remoto antenato dell´umanità, ma un suo contemporaneo, vissuto circa 18.000 anni fa. Vale a dire che, mentre in Europa gli uomini di Cro-Magnon (alti oltre 1.60 cm e con un cervello di almeno 1400 cc) realizzavano capolavori artistici come le pitture rupestri di Chauvet o Lascaux, nell´isola indonesiana di Flores, dove sono stati ritrovati i resti fossili della nuova specie, viveva una popolazione di ominidi più bassi del più basso pigmeo, dotati di un cervello grande quanto un pompelmo.
La scoperta di H. floresiensis, a cui la rivista "Nature" dedica oggi la copertina, ha messo in subbuglio la comunità dei paleontologi. Fino ad ora sembrava che noi, unici sopravvissuti del genere Homo, avessimo convissuto solamente con i Neandertal, e solo fino a 30.000 anni fa. Le differenze anatomiche tra noi e i Neandertal, inoltre, sono notevoli ma non straordinarie, tanto che si discute ancora l´ipotesi che le due specie si siano incrociate. Da dove salta fuori allora questa sorta di Hobbit indonesiano, questa smentita vivente della rassicurante immagine di un´umanità che si evolve "verso il meglio", diventando via via più alta e più cervellona?
Secondo Peter Brown e i suoi colleghi dell´università di Armidale, in Australia, e dell´Indonesian Centre for Archaeology, che nel settembre del 2003 hanno ritrovato nella grotta di Liang Bua, a Flores, un cranio completo di mandibola e una serie di ossa sufficienti quasi a formare uno scheletro intero, l´ipotesi più ragionevole è che H. floresiensis sia il risultato di un lunghissimo periodo di isolamento. Benché le sue dimensioni siano simili, e persino inferiori, a quelle della famosa Lucy, l´australopitecina vissuta oltre 3 milioni e mezzo di anni fa, la sua morfologia lo colloca infatti nel gruppo di Homo erectus, la specie protagonista della prima grande emigrazione fuori dall´Africa, verso l´Asia, inclusa Giava, che non dista poi molto dall´isola di Flores. Ecco quindi che lo scenario più probabile per spiegare l´enigmatico omettino è che un gruppo di H. erectus sia finito in qualche modo (ma quale?) su Flores, e vi sia rimasto isolato per un periodo di tempo sufficiente (ma quanto?) a provocare un adattamento evolutivo così spettacolare. Le domande sono tantissime. Perché, ad esempio, la riduzione delle dimensioni del cervello è stata ancora più marcata di quella del corpo? C´entrerà qualcosa il fatto che Flores si trova a est della cosiddetta "linea di Wallace", la frontiera immaginaria che divide in due l´Indonesia, di qua tutte specie di tipo asiatico e di là tutte australiane? E qual era lo stile di vita di H. floresiensis e quali le sue capacità tecnologiche? Gli Homo sapiens sono arrivati nella regione indonesiana circa 55.000 anni fa: le due specie si sono mai incontrate?
Insomma, come commenta l´antropologo Robert Foley, H. floresiensis è una sfida: "l´ominide più estremo che sia mai stato scoperto". Una cosa però sembra certa. Il genere Homo, a dispetto delle sue peculiarità "culturali" è stato soggetto alle stesse pressioni evolutive degli altri mammiferi, a cui ha risposto adattando il proprio corpo in modo assai più variabile e flessibile del previsto.
Sconvolgente scoperta in Indonesia: trovato lo scheletro di un ominide di 18 mila anni fa, alto un metro e dal cervello minuscolo
Che shock quel nostro antenato era piccolo come un hobbit
Una smentita dell´idea che l'umanità sia sempre progredita "verso il meglio"
I contemporanei del misterioso "homo floresiensis" erano assai più evoluti di lui
CLAUDIA DI GIORGIO
ROMA - Si chiama Homo floresiensis, ed è una nuova specie di ominide: forse la più misteriosa scoperta finora. Perché a dispetto delle dimensioni minuscole (appena un metro di altezza) e della ridottissima massa cerebrale (il cranio ha una capacità di 380 cc) non è un remoto antenato dell´umanità, ma un suo contemporaneo, vissuto circa 18.000 anni fa. Vale a dire che, mentre in Europa gli uomini di Cro-Magnon (alti oltre 1.60 cm e con un cervello di almeno 1400 cc) realizzavano capolavori artistici come le pitture rupestri di Chauvet o Lascaux, nell´isola indonesiana di Flores, dove sono stati ritrovati i resti fossili della nuova specie, viveva una popolazione di ominidi più bassi del più basso pigmeo, dotati di un cervello grande quanto un pompelmo.
La scoperta di H. floresiensis, a cui la rivista "Nature" dedica oggi la copertina, ha messo in subbuglio la comunità dei paleontologi. Fino ad ora sembrava che noi, unici sopravvissuti del genere Homo, avessimo convissuto solamente con i Neandertal, e solo fino a 30.000 anni fa. Le differenze anatomiche tra noi e i Neandertal, inoltre, sono notevoli ma non straordinarie, tanto che si discute ancora l´ipotesi che le due specie si siano incrociate. Da dove salta fuori allora questa sorta di Hobbit indonesiano, questa smentita vivente della rassicurante immagine di un´umanità che si evolve "verso il meglio", diventando via via più alta e più cervellona?
Secondo Peter Brown e i suoi colleghi dell´università di Armidale, in Australia, e dell´Indonesian Centre for Archaeology, che nel settembre del 2003 hanno ritrovato nella grotta di Liang Bua, a Flores, un cranio completo di mandibola e una serie di ossa sufficienti quasi a formare uno scheletro intero, l´ipotesi più ragionevole è che H. floresiensis sia il risultato di un lunghissimo periodo di isolamento. Benché le sue dimensioni siano simili, e persino inferiori, a quelle della famosa Lucy, l´australopitecina vissuta oltre 3 milioni e mezzo di anni fa, la sua morfologia lo colloca infatti nel gruppo di Homo erectus, la specie protagonista della prima grande emigrazione fuori dall´Africa, verso l´Asia, inclusa Giava, che non dista poi molto dall´isola di Flores. Ecco quindi che lo scenario più probabile per spiegare l´enigmatico omettino è che un gruppo di H. erectus sia finito in qualche modo (ma quale?) su Flores, e vi sia rimasto isolato per un periodo di tempo sufficiente (ma quanto?) a provocare un adattamento evolutivo così spettacolare. Le domande sono tantissime. Perché, ad esempio, la riduzione delle dimensioni del cervello è stata ancora più marcata di quella del corpo? C´entrerà qualcosa il fatto che Flores si trova a est della cosiddetta "linea di Wallace", la frontiera immaginaria che divide in due l´Indonesia, di qua tutte specie di tipo asiatico e di là tutte australiane? E qual era lo stile di vita di H. floresiensis e quali le sue capacità tecnologiche? Gli Homo sapiens sono arrivati nella regione indonesiana circa 55.000 anni fa: le due specie si sono mai incontrate?
Insomma, come commenta l´antropologo Robert Foley, H. floresiensis è una sfida: "l´ominide più estremo che sia mai stato scoperto". Una cosa però sembra certa. Il genere Homo, a dispetto delle sue peculiarità "culturali" è stato soggetto alle stesse pressioni evolutive degli altri mammiferi, a cui ha risposto adattando il proprio corpo in modo assai più variabile e flessibile del previsto.
Savater: la normalità
La Stampa 28.10.04
DAGLI SCHIAVI NERI AI DISSIDENTI SOVIETICI AI MATRIMONI GAY: LA DITTATURA DELLA NORMA
La pensa diversamente? Allora è malato
di Fernando Savater
NON molto tempo fa, in pieno dibattito sulla regolamentazione del matrimonio tra omosessuali, ho letto che un vescovo giudicava l’omosessualità «un’anormalità psicologica», vale a dire una sofferenza patologica verso la quale si deve provare compassione come nei confronti di qualsiasi male, ma che non dev’essere riconosciuta come un diritto. Mi pare che a dare quest’opinione fosse il vescovo di Avila, ma non fidatevi troppo di me perché in materia di vescovi non capisco molto. Ciò che interessa è che, di fianco a questa diagnosi giornalistica, c’era la foto del religioso in questione: un uomo piuttosto giovane, con occhiali e aspetto concentrato che portava in testa una sorta di gigantesca cialda bianca di tela inamidata e vestiva un abito a metà tra una gualdrappa e un mantello da passeggio, un po’ rigido ma estremamente variopinto. Contagiato dal clima evangelico della questione, mi è venuta in mente la condanna espressa contro coloro che vedono la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel proprio. Perché, per parlare chiaro, abbigliarsi in quel modo e pretendere, per di più, di dare lezioni sulla normalità psicologica mi sembra, se non altro, un po’ stonato.
La tendenza a trasformare in «malati» quanti si comportano in modo eccentrico, ignobile o pericoloso, secondo il particolare criterio di chi decide caso per caso, è una tradizione assai frequentata e documentata sin dall’inizio della nostra epoca moderna e razionalista. Senza dubbio siamo in molti a ricordare, ancora, che i dissidenti del regime sovietico, quando questo divenne «umano» dopo la morte di Stalin, non venivano più liquidati in campi di concentramento: era invalsa l’abitudine di chiuderli in ospedali psichiatrici diagnosticando che le loro critiche nei confronti dell’utopia comunista erano sintomi di disturbo mentale e non risultato di lucidità politica. La cosiddetta intelligentja progressista europea era solita accettare queste diagnosi, proprio come oggi non mancano scrittori d’analoga indole pronti a sostenere che i prigionieri politici di Cuba sono semplicemente agenti della Cia.
Esistono precedenti molto più antichi. Ad esempio, nel numero di maggio del 1851 del New Orleans Medical and Surgical Journal, l’allora famoso dottor Samuel Cartwright pubblicò «una relazione sulle malattie e le peculiarità fisiche della razza negra», basato sulle sue attente osservazioni degli schiavi che lavoravano nelle locali piantagioni. Segnalava che una delle patologie più comuni era quella, da lui definita «drapetomania», il cui più evidente sintomo era: tentare di fuggire quando se ne presentasse l’occasione. Ad altri attribuiva un morbo ancor più dannoso: la «disaestesia etiopsis», che aveva come caratteristica quella di «rompere e distruggere tutto quello che gli passava per le mani... senza riguardo alcuno per i diritti di proprietà». Pochi anni dopo, in un manuale clinico pubblicato nell’Inghilterra vittoriana, il saggio dottor Curling segnalava una nuova piaga: la «spermatorrea». Chi ne era colpito - tutti maschi - mostrava una prodigalità suicida del proprio liquido seminale che sperperava allegramente sia da solo, sia insieme a complici di qualsiasi sesso. E a questo proposito lo specialista francese, dottor Lallemand, parlando della «spermatorrea», assicurava che si trattava d’una «malattia che degrada l’uomo, avvelena la serenità dei migliori giorni della sua vita e corrompe la società».
Prendo questi dati dall’interessante libro The Nature of Disease di Lawrie Reznek, pubblicato da Routledge & Kegan Paul nel 1987. Nel XX secolo la masturbazione ereditò, poi, i tratti malaticci dell’antica spermatorrea visto che, secondo alcuni, causava addirittura la mortale liquefazione del midollo spinale... Persino il dottor Sigmund Freud fa ancora eco a queste superstizioni con cui, durante gli anni della mia adolescenza, volevano spaventarci presentandocele come fatti scientificamente dimostrati... con un successo, diciamolo pure, men che mediocre.
Attualmente la propensione a trasformare in malattia quei comportamenti che si disapprovano sia igienicamente sia moralmente, è diventata generalizzata e, certo, non colpisce solo i vescovi. Da ogni angolo saltano fuori nuovi malanni, visti sotto forma di dipendenza, vale a dire come una mania che ci induce a continuare a fare quello che cento volte ci hanno detto di non fare... o quello che noi stessi abbiamo detto apertamente che non vogliamo continuare a fare. Ci sono «ludopati» che giocano più del necessario, sessuomani che non pensano ad altro che a fornicare, alcolisti, drogati di vario tipo, dipendenti da videogiochi o da telefono cellulare, drogati da lavoro che non si stancano mai di trafficare in ufficio e un sacco d’altri tipi di malattia creati su misura per quanti non vogliono guarirne. Prima tutto questo si definiva, al massimo, «vizio», ma adesso, anche molti tra gli stessi interessati, preferiscono dichiararsi malati e riconoscere che, a volte, abusano di quello che dovrebbero semplicemente saper usare.
E lo stato si preoccupa con molta attenzione di proteggere la cosiddetta salute pubblica, intesa, generalmente, come la decisione istituzionale d’impedire che qualcuno, casualmente o volontariamente, diminuisca la capacità produttiva propria o altrui, faccia sprecare pubblico denaro nella «riparazione» di certi danni, o accorci in qualche modo la durata del suo servizio come pedina nelle fatiche di questo mondo... Ah, padre Stato, non lasciarci cadere in tentazione! Aveva ragione il grande Karl Kraus quando, tanti anni fa, sosteneva: «Una delle malattie più diffuse è la diagnostica».
DAGLI SCHIAVI NERI AI DISSIDENTI SOVIETICI AI MATRIMONI GAY: LA DITTATURA DELLA NORMA
La pensa diversamente? Allora è malato
di Fernando Savater
NON molto tempo fa, in pieno dibattito sulla regolamentazione del matrimonio tra omosessuali, ho letto che un vescovo giudicava l’omosessualità «un’anormalità psicologica», vale a dire una sofferenza patologica verso la quale si deve provare compassione come nei confronti di qualsiasi male, ma che non dev’essere riconosciuta come un diritto. Mi pare che a dare quest’opinione fosse il vescovo di Avila, ma non fidatevi troppo di me perché in materia di vescovi non capisco molto. Ciò che interessa è che, di fianco a questa diagnosi giornalistica, c’era la foto del religioso in questione: un uomo piuttosto giovane, con occhiali e aspetto concentrato che portava in testa una sorta di gigantesca cialda bianca di tela inamidata e vestiva un abito a metà tra una gualdrappa e un mantello da passeggio, un po’ rigido ma estremamente variopinto. Contagiato dal clima evangelico della questione, mi è venuta in mente la condanna espressa contro coloro che vedono la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel proprio. Perché, per parlare chiaro, abbigliarsi in quel modo e pretendere, per di più, di dare lezioni sulla normalità psicologica mi sembra, se non altro, un po’ stonato.
La tendenza a trasformare in «malati» quanti si comportano in modo eccentrico, ignobile o pericoloso, secondo il particolare criterio di chi decide caso per caso, è una tradizione assai frequentata e documentata sin dall’inizio della nostra epoca moderna e razionalista. Senza dubbio siamo in molti a ricordare, ancora, che i dissidenti del regime sovietico, quando questo divenne «umano» dopo la morte di Stalin, non venivano più liquidati in campi di concentramento: era invalsa l’abitudine di chiuderli in ospedali psichiatrici diagnosticando che le loro critiche nei confronti dell’utopia comunista erano sintomi di disturbo mentale e non risultato di lucidità politica. La cosiddetta intelligentja progressista europea era solita accettare queste diagnosi, proprio come oggi non mancano scrittori d’analoga indole pronti a sostenere che i prigionieri politici di Cuba sono semplicemente agenti della Cia.
Esistono precedenti molto più antichi. Ad esempio, nel numero di maggio del 1851 del New Orleans Medical and Surgical Journal, l’allora famoso dottor Samuel Cartwright pubblicò «una relazione sulle malattie e le peculiarità fisiche della razza negra», basato sulle sue attente osservazioni degli schiavi che lavoravano nelle locali piantagioni. Segnalava che una delle patologie più comuni era quella, da lui definita «drapetomania», il cui più evidente sintomo era: tentare di fuggire quando se ne presentasse l’occasione. Ad altri attribuiva un morbo ancor più dannoso: la «disaestesia etiopsis», che aveva come caratteristica quella di «rompere e distruggere tutto quello che gli passava per le mani... senza riguardo alcuno per i diritti di proprietà». Pochi anni dopo, in un manuale clinico pubblicato nell’Inghilterra vittoriana, il saggio dottor Curling segnalava una nuova piaga: la «spermatorrea». Chi ne era colpito - tutti maschi - mostrava una prodigalità suicida del proprio liquido seminale che sperperava allegramente sia da solo, sia insieme a complici di qualsiasi sesso. E a questo proposito lo specialista francese, dottor Lallemand, parlando della «spermatorrea», assicurava che si trattava d’una «malattia che degrada l’uomo, avvelena la serenità dei migliori giorni della sua vita e corrompe la società».
Prendo questi dati dall’interessante libro The Nature of Disease di Lawrie Reznek, pubblicato da Routledge & Kegan Paul nel 1987. Nel XX secolo la masturbazione ereditò, poi, i tratti malaticci dell’antica spermatorrea visto che, secondo alcuni, causava addirittura la mortale liquefazione del midollo spinale... Persino il dottor Sigmund Freud fa ancora eco a queste superstizioni con cui, durante gli anni della mia adolescenza, volevano spaventarci presentandocele come fatti scientificamente dimostrati... con un successo, diciamolo pure, men che mediocre.
Attualmente la propensione a trasformare in malattia quei comportamenti che si disapprovano sia igienicamente sia moralmente, è diventata generalizzata e, certo, non colpisce solo i vescovi. Da ogni angolo saltano fuori nuovi malanni, visti sotto forma di dipendenza, vale a dire come una mania che ci induce a continuare a fare quello che cento volte ci hanno detto di non fare... o quello che noi stessi abbiamo detto apertamente che non vogliamo continuare a fare. Ci sono «ludopati» che giocano più del necessario, sessuomani che non pensano ad altro che a fornicare, alcolisti, drogati di vario tipo, dipendenti da videogiochi o da telefono cellulare, drogati da lavoro che non si stancano mai di trafficare in ufficio e un sacco d’altri tipi di malattia creati su misura per quanti non vogliono guarirne. Prima tutto questo si definiva, al massimo, «vizio», ma adesso, anche molti tra gli stessi interessati, preferiscono dichiararsi malati e riconoscere che, a volte, abusano di quello che dovrebbero semplicemente saper usare.
E lo stato si preoccupa con molta attenzione di proteggere la cosiddetta salute pubblica, intesa, generalmente, come la decisione istituzionale d’impedire che qualcuno, casualmente o volontariamente, diminuisca la capacità produttiva propria o altrui, faccia sprecare pubblico denaro nella «riparazione» di certi danni, o accorci in qualche modo la durata del suo servizio come pedina nelle fatiche di questo mondo... Ah, padre Stato, non lasciarci cadere in tentazione! Aveva ragione il grande Karl Kraus quando, tanti anni fa, sosteneva: «Una delle malattie più diffuse è la diagnostica».
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