La Stampa 28 Novembre 2004
Sesso, bugie e MEDIOEVO
di Renato Rizzo
TORINO. LO «jus primae noctis» su cui si sono costruite pruriginose commedie e tragedie di gotica atmosfera? Mai esistito: solo un esempio di quell’irregolarità del pittoresco che coinvolge e affascina chi cerca nel Medioevo vacue
Beautiful da secoli bui. I templari? Sotto l’armatura, quasi niente: il mito che ha ammantato questi cavalieri dalla gloriosa figura è poco più d’una allegoria del vuoto. Non stavano a guardia del Tempio, avevano poco a che spartire con l’epica e con l’etica della ricerca del Graal: usando una certa forzatura prosaica li si potrebbe definire un gruppo di volontari pronti ad assistere i pellegrini lungo le strade che conducevano in Terra Santa. I grandi monasteri? Più ancora che silenti luoghi del sacro, eccoli proporsi - grazie alla loro sterminata produzione d’immagini destinate all’indottrinamento di fedeli in gran parte analfabeti - come pervasivi detentori d’una sorta di «monopolio televisivo» con annesso e immancabile conflitto d’interessi: al punto da spingere l’imperatore bizantino a una smania iconoclasta politicamente calcolata. Tre esempi di Medioevo come mondo nebbioso e fluttuante sull’orizzonte del nostro sapere: spesso riplasmato in modo contraddittorio dal tempo che trasforma la storia in radice di favola.
Sono tanti e labirintici i Medioevi che coesistono nei 10 secoli dell’Età del Mezzo: c’è quello dei mercanti e quello degli artisti, quello della Chiesa e quello dei prìncipi, quello delle invenzioni e quello delle rivisitazioni più o meno apocrife. Oggi, a collezionare e a raccontare questi panorami diversi, quattro volumi della collana Grandi Opere dell’Einaudi, nati da un progetto dello storico dell’Arte Enrico Castelnuovo e del medievista Giuseppe Sergi: s’intitolano
Arti e Storia nel Medioevo e si propongono «di mettere in scena un dialogo tra storici dell’arte, attenti alla portata culturale dei documenti figurativi, e storici delle realtà sociali e politiche medievali, che sanno cogliere i molteplici punti di contatto con la nascita e lo sviluppo delle civiltà artistiche».
Un coro di cento specialisti tra i più prestigiosi d’Europa per raccontare insieme un viaggio tra arte e storia durato mille anni: era mai accaduto?
Sergi: «Credo proprio di no. Sino a ora non esisteva un’opera nella quale gli storici fossero riusciti a mettere da parte i loro due principali vizi: superare la tradizione secolare che, a ragione, li presenta come i più presuntuosi tra gli scienziati sociali e che, di conseguenza, li consegna al secondo vizio: ignorare l’importanza della storia dell’Arte».
Castelnuovo: «In questo lavoro non c’è né contrapposizione né egemonia tra le due discipline: il rapporto è visto e vissuto nella sua complessità».
Vediamoli, allora questi «Medioevi» che riaffiorano scorrendo i vari volumi: via via si dipana il racconto dei «tempi», degli «spazi» e delle «istituzioni» con i «paesaggi scritti» e quelli «rappresentati», i «luoghi del potere», i modelli. Quindi si descrivono i protagonisti: gli artisti, gli artigiani, i committenti e i nessi tra immagini, letteratura e predicazione. Per approdare a «ciò che resta dell’età di mezzo» nei secoli successivi, agli usi politici che se ne sono fatti, ai revival, alle reinvenzioni.
C.: «Il primo sforzo è stato quello d’entrare nel vivo della produzione artistica con i problemi e le meraviglie delle singole tecniche prendendo in esame, soprattutto, la “ricezione” dei contemporanei che, sovente, stravolge la gerarchia delle arti alla quale siamo abituati: stoffe, decorazione di vetri, oreficeria, illustrazione di codici erano considerati, spesso, più importanti degli affreschi e dei quadri».
S.: «Prendiamo il caso di pitture murali con o senza iscrizioni di precetti: erano vere opere d’arte funzionali, a volte promemoria per chi non sapeva leggere. Quasi nobilissimi riquadri di cantastorie. Il problema è che noi, oggi, osserviamo il Medioevo in base a quella deformazione prospettica che vizia sempre ogni rapporto con il passato. Così d’un periodo storico durato ben 10 secoli ci resta impressa soprattutto l’immagine dei suoi ultimi duecento anni. Un altro esempio? Il castello. Siamo abituati ad immaginare come prototipo quello residenziale - le costruzioni che vediamo in Val d’Aosta, per intenderci - ignorando che nei secoli centrali era totalmente diverso».
Medioevo è spesso sinonimo di cattedrali: le chiese che Goethe definiva «opere di architetti che hanno fatto salire le montagne sino al cielo».
C.: «Questo argomento ci induce a gettare uno sguardo di più ampio respiro su ciò che di quell’Età rimane nei periodi storici successivi. Se parliamo d’arte in senso stretto vediamo che il Medioevo offre una “lettura a partire dai vuoti”: da quell’1% di opere sopravvissute alle varie campagne iconoclaste. Ma l’arte ci guida a considerare anche gli usi politici di quel passato, i molti revival gotici e neogotici. Ho scritto che se un fantasma ha percorso l’Europa nel XIX secolo non fu solo quello del comunismo, ma anche quello della cattedrale. Distrutta, abbandonata, pianta, restaurata, esaltata, essa rappresentò il sogno di un’opera d’arte totale in cui, di volta in volta, s’incarnava lo spirito d’uno Stato, l’anima e la dottrina del cristianesimo, la rinascita delle città».
Simbolismi, interpretazioni che s’addentrano nelle ideologie. Victor Hugo vede Notre Dame come «l’opera colossale d’un uomo e d’un popolo, di operai disciplinati dal genio dell’artista», Chateaubriand paragona la cattedrale a una delle foreste in cui il genere umano ha ricavato il suo primo tempio, la Germania del 1800 la riconosce come simbolo della nazione tedesca. Ma consentite la provocazione: il Medioevo è di destra, di centro o di sinistra?
S.: «Per capire bisogna prendere le mosse dai pregiudizi negativi dell’Illuminismo che ha valutato quest’Età come quella del disordine, della decadenza, della superstizione. Poi si arriva ai pregiudizi positivi del Romanticismo che l’ha interpretata come infanzia delle nazioni, con radici identitarie non più soffocate dall’impero romano. Su quest’onda approdiamo al Novecento. Già nell’Italia fascista, che pure guardava ai miti dell’antica Roma, s’affaccia un Medioevo di destra: è nostalgia d’una società intrisa di religiosità, con una forte organizzazione gerarchica, di valori della forza militare e dell’obbedienza considerati come caratteristiche della nobiltà».
Nella «battaglia» delle ideologie avanzano, però, anche letture d’altro segno.
S.: «Certo: di centro e di sinistra. A ispirarle ci sono i principi di solidarietà che, secondo un’immagine edulcorata, muovono le comunità rurali, ma anche i feudatari visti come grandi possessori terrieri con poteri di vita e di morte sui contadini, i roghi delle streghe, l’inquisizione, le chiese e i palazzi edificati sul sudore e sul sangue dei poveri. E, poi, il capitalismo, giudicato positivamente da Adam Smith e negativamente da Karl Marx, aveva bisogno per contrasto di un “prima” che fosse autoritario, chiuso, statico».
Sulle tracce di questi mille anni non si sono messi solo gli storici sociali e dell’arte: c’è stata e c’è una moda sguinzagliata alle calcagna d’un Medioevo riprodotto. Nel vostro lavoro si discute di quest’epoca lontana, spesso «ambiguamente verosimile», immaginata attraverso nuove arti: le illustrazioni, il fumetto. E soprattutto il cinema in un fiorire di «Gothic revival» con opere mediocri, ma anche con quelle intellettualmente impegnate di Bergman, Buñuel, Pasolini.
C.: «Ci sono casi in cui l’Età di Mezzo diventa spazio privilegiato per raccogliere miti e favole e, sovente, si fonda su un repertorio cristallizzato che sfrutta e rievoca stereotipi nati, magari, da leggende. Pensiamo, ad esempio, a quella del Santo Graal, di cui ciclicamente compaiono “rivelazioni” e rivisitazioni: risale all’Ottocento».
S.: «E i Templari? Oggi i siti Internet che trattano questi argomenti sono, con ogni probabilità, tra i più frequentati. Eppure tutto ciò di cui si parla e si discute altro non è che storia mal digerita da sedicenti intellettuali in cerca di legittimazione».