La Repubblica 5.1.04 Pagina 35 - Cultura
DOVE SBAGLIA LA BIBBIA
le indagini storiche e archeologiche di Mario Liverani
Gerico non crollò al suono della tromba di Giosuè, né Salomone aveva un grande regno
Sono molti gli eventi narrati che non corrispondono al vero
E la stessa conquista di una Terra Promessa è il frutto di una visione ideologica
di MARCO POLITI
ROMA Gerico non è crollata al suono delle trombe di Giosuè, la conquista della Terra Promessa non è mai avvenuta così come narrato, Salomone non aveva un grande regno e forse il Dio del Sinai un tempo aveva anche una compagna. L'ultimo libro di Mario Liverani, docente di Storia del vicino oriente antico all'università romana della Sapienza, è fatto per provocare una scossa a quanti si sono nutriti per decenni di quel filone che nel dopoguerra fu trionfalmente inaugurato da un best-seller trascinante come La Bibbia aveva ragione di Werner Keller. Libro pieno di fascino perché fra resoconti archeologici, dati scientifici e illustrazioni faceva rivivere "nella realtà" i racconti della Bibbia. Ed era emozionante scoprire che esisteva davvero la "manna" caduta dal cielo per ristorare gli ebrei di Mosè in marcia nel deserto o che il regno di Salomone aveva lasciato le sue tracce in rovine poche ma imponenti.
Quelle pagine erano il bagliore dell'Archeologia Biblica. «Concetto inaccettabile, anche se da alcuni ancora praticato - dice oggi il professor Liverani - perché basato prevalentemente sul desiderio di trovare conferma o sconfessione di episodi, località, eventi narrati dalla Bibbia». Da qualche decennio la via imboccata da parecchi studiosi è diversa. Si tratta di affrontare la ricerca di quell'area, che gli archeologi politically correct chiamano "Levante meridionale", guardando concretamente ai processi storici e considerando i testi biblici parte della storia e non baricentro.
Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele (Laterza, pagg. 526, euro 24) di Mario Liverani rappresenta in questo senso la sintesi affascinante di lavori in corso da decenni tra gli archeologi israeliani e non. Ed è sintomatico che il libro sia diviso in due parti. "Una storia normale" recita la prima, "Una storia inventata" si intitola la seconda.
Dunque Gerico non fu conquistata da Giosuè, professor Liverani?
«L'evento narrato in quei termini non è mai avvenuto. È leggenda. Al tempo in cui sarebbe arrivato Giosuè la città era già in rovina da quattro, cinque secoli, abbandonata dall'epoca del Bronzo Antico. Lo stesso vale per l'episodio della conquista di Ai, una città che nel nome stesso significa già "rudere, rovina". L'idea in sé della presa della Terra Promessa come evento in cui un popolo conquistatore caccia ed elimina i precedenti abitanti è una descrizione ideologica, non suffragata dai fatti. Anzi si può fare un elenco di popoli-fantasma distrutti secondo la Bibbia nella guerra santa di Giosuè ma anacronistici per l´Età del Ferro, cioè l'epoca della presunta conquista. Mentre invece i popoli reali, i Filistei, i Cananei, i Fenici, gli Edomiti, i Moabiti e gli Ammoniti rimasero bene al loro posto».
Che cosa è avvenuto allora in quella terra, che diverrà in seguito crocevia delle religioni mondiali?
«Ecco, ai suoi inizi il quadro è del tutto diverso. Nel passaggio dalla fine dell'Età del Bronzo all'Età del Ferro, quindi tra il XIII e il X secolo avanti Cristo, la Palestina è uno snodo debole tra l'Egitto e la Mesopotamia, tra il Mediterraneo e la Penisola arabica. È un mosaico mobile con movimenti di genti, fluttuazioni demografiche, abbandoni di terre e rioccupazioni. Anche geograficamente è un territorio molto articolato con colline, poche valli, montagne, deserto e pre-deserto. Una regione in cui pastori seminomadi vengono a incontrarsi e scontrarsi con città e mondi agricoli».
Le città sono quelle dei Cananei?
«Sì. E le popolazioni che noi possiamo chiamare proto-israelitiche si insediano negli altipiani intorno a Shechem e Shiloh prevalentemente in zone disabitate o rimaste prive di insediamenti stabili da secoli. Non è una sostituzione ai Cananei. Più che una conquista è una colonizzazione di terre nuove. In ogni caso, assistiamo ad una accelerazione nell'arco di quattro generazioni».
L'infiltrazione avviene più o meno alla stessa epoca dell'arrivo dei Filistei?
«I Filistei sono élite militari immigrate dall'esterno. Il loro destino, per certi aspetti, è parallelo a quello degli Israeliti. Occuperanno le loro ricche e vivaci città costiere fino all'invasione da parte degli Assiri e dei Babilonesi. Nello stesso arco di tempo in cui saranno cancellati i regni di Giuda e di Samaria, in confronto più poveri».
Una volta insediatesi nella terra di Canaan e dopo il periodo dei Giudici, le dodici tribù d'Israele danno vita a un regno che con Salomone assurge a grande splendore. Così dice il racconto e lei invece nega che sia così?
«Già il numero di dodici è artificioso, i nomi ogni tanto variano e certamente la realtà tribale dev'essere stata molto fluida. Ma Salomone è il vero punto cruciale del dibattito attuale fra gli studiosi. Ci sono studiosi che negano persino il Regno Unificato. Certamente di Salomone non si trova conferma nelle epigrafi o in fonti estere. Di Davide, indirettamente sì. C'è un'iscrizione siriana rinvenuta a Tel Dan che cita la "casa di Davide". Ma di Salomone non c'è traccia e i resti di edifici che in passato l'archeologia biblica attribuiva a lui - le porte e le celebri stalle a Megido, Gezer e Hazor - vengono ora assegnate a un'epoca più tarda, quando in Samaria regnava la dinastia di Omri. Non appare plausibile che una capitale di pochi ettari e povera com'era Gerusalemme in quel tempo possa aver dominato città molto importanti al nord».
Tuttavia Salomone non è celebrato come grande costruttore?
«Questo non fa che rendere ancora più incomprensibile la sua invisibilità edilizia».
Che cosa si sa del Tempio, di cui la Bibbia ci illustra minuziosamente i dettagli?
«Non lo sapremo mai esattamente, perché i suoi resti stanno incapsulati nel basamento del Secondo Tempio, che a Gerusalemme fa da piattaforma alla Moschea della Roccia».
Doveva essere grandissimo.
«Non credo. Ritengo fosse un edificio modesto poiché nello stesso secolo i templi in Siria sono piuttosto piccoli».
Grande quanto?
«Forse come San Lorenzo in Lucina a Roma. Quanto leggiamo sul tempio di Salomone più che la descrizione di un edificio reale è il progetto di costruzione del Secondo Tempio come se lo immaginano coloro che ritornano dall'Esilio babilonese».
Al processo di formazione di un popolo, sembra di capire, professor Liverani, che si accompagna il processo di formazione di "Dio".
«Il monoteismo è un punto di arrivo. Yahweh è di probabile origine meridionale e ha una lunga storia prima di diventare Dio nazionale, Dio statale e infine Dio unico. I figli di Davide, per fare un esempio, hanno dei nomi che si richiamano ad altri dei. Solo nel IX secolo avanti Cristo appaiono tra i re di Giuda e di Samaria nomi stabilmente yahwisti come Yosafat a Giuda o Yehoram e Yehu a Samaria. È interessante che in un frammento di intonaco in una fortezza del Sinai, a Kuntillet - Ajrud, si sia trovata nell'VIII secolo a. C. un'iscrizione che recita "ti benedico per Yahweh di Teman e per la sua Asherah". Lo stesso in un'altra località dove Yahweh è associato "alla sua Asherah" per aver salvato un certo Uriyahu dai suoi nemici».
Asherah è una dea cananea. E sarebbe la compagna della divinità degli Israeliti?
«La paredra, come dicono gli studiosi. Alcuni ne deducono che in questa iscrizione la dea Asherah è la paredra di Yahweh, altri dicono che l'espressione debba intendersi come Palo Sacro. In ogni caso assistiamo a un intreccio di culti».
Mario Liverani confida che voleva intitolare il suo libro "Morte e nascita di una nazione". Per esprimere che la morte dei regni di Giuda e Samaria, dopo l'annientamento da parte di Assiri e Balilonesi, ha dato vita a una realtà molto più grande. La crisi nazionale apre la strada ad una nuova filosofia della storia e a un nuovo concetto di Dio. Nel crogiolo dell'Esilio balilonese e nel ritorno nasce veramente il grande fatto storico del Monoteismo.
«Il monoteismo non è semplicemente un'unificazione delle funzioni svolte dagli dei preesistenti. È un punto di vista radicalmente diverso. Una svolta. Al posto della religione cerimoniale subentra la religione etica. Dio è buono e giusto e il fedele in rapporto personale con Dio è impegnato ad un comportamento che sarà giudicato non per i suoi atti di culto ma per la bontà e la giustizia che avrà esercitato. In questa dimensione cresce anche la dignità individuale. Il vero Israele - conclude Liverani - nasce a Babilonia».
Ed è una storia che segnerà il mondo.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 6 gennaio 2004
Pietro Citati
sui sogni e il mondo mitico
(citato al Lunedì)
una segnalazione di Sergio Grom e di Tonino Scrimenti
La Repubblica 2.1.04 (pagg. 1 e 37)
LE IDEE
Se il mondo dei sogni diventa un deserto
I TIRANNI DEL SOGNO
Il mondo onirico, da Sigmund Freud a James Hillman
La teoria diversissima di Carl Gustav Jung
il narratore misterioso che si sveglia dentro di noi
Mentre lo studioso americano mette in guardia dagli "imperatori dell'anima"
Il padre della psicanalisi bandisce nella sua Interpretazione ogni traccia di mito
di PIETRO CITATI
L'interpretazione dei sogni è percorso da una fitta serie di citazioni e di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che rivelano come l'immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso mitico di Freud. Queste citazioni - non i discorsi e le definizioni intellettuali - hanno il compito di esprimere la sua intuizione dell'inconscio. Forse egli aveva combattuto con Dio, come Giacobbe con l'angelo: aveva tentato di scoprire i segreti degli dèi dell'Olimpo, della luce, della coscienza, e la totalità della vita. Ma aveva fallito. Non gli era restato che scendere nelle tenebre dell'Ade (*). Laggiù abitavano gli dèi della notte: Ade, Persefone, i Titani, le Furie, le Madri che Faust aveva visitato nelle profondità della terra. Questi erano gli unici dèi che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il tremendum, l'indimenticabile e l'indistruttibile, verso il quale provava un'infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata. Come l'archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando la città sepolta, fino all'ultima Troia: come il minatore, doveva scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacro dell'inconscio, intessuta con tanta sottigliezza ed eleganza, resta confinata nelle allusioni letterarie dell'Interpretazione dei sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso. Gli innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare altri testi: Jean Paul, Nerval, Jung. La ragione è duplice. Da una parte, scrivendo il suo libro, Freud censurò violentemente i propri sogni per pudore, discrezione, timore, desiderio di rispettabilità, resistenza dell'ego. Tutti i sogni sessuali, specialmente quelli dove affiorava l'attrazione edipica verso la madre, non giunsero nel libro. Era la colpa suprema, di cui non poteva scrivere in pubblico. I peccati che confessò analizzando la sua attività onirica, o che rivelò senza volerlo, sono soprattutto peccati dell'ego: odio verso il padre, rancore verso i fratelli e gli amici, invidia, ostilità verso i colleghi, desiderio di riuscire (rinnegando persino la propria razza), colpe verso i malati - peccati, forse, anche più vergognosi, ma che non sfioravano il recinto sacro della psiche.
La seconda ragione è più significativa. L'inconscio freudiano, non è quel mare tenebroso e continuo, quell'Acheronte pigro o convulso, quell'indivisibile flusso, che ci hanno raccontato Dostoevskij, Proust e Kafka. Il sogno è composto di microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che poi l'inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato ingegnoso. Così, leggendo L'interpretazione dei sogni, il brivido oscuro che ci aveva lasciato l'Ade scompare. Il dio dell'inconscio non sembra un Titano o una Furia, e nemmeno le Madri. Assomiglia piuttosto a figure che incontriamo nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio, un artigiano che compone mosaici e tarsie, un giocatore di scacchi che calcola i movimenti delle sue pedine, e persino un cinico truffatore, tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è formale e combinatoria. Mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente, geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio, occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta. Che il tremendo dio dell'Ade si comporti come un meticoloso artigiano, questa è la grande scoperta che Freud insegnò al ventesimo secolo.
Dopo aver pubblicato L'interpretazione dei sogni (1900), Freud allontanò da sé le ombre e gli dèi dell'Ade e del passato, usciti «dalla fossa oscura dei sogni», dove - confuso, sognante ed estatico - per qualche anno aveva rischiato di perdersi. Uccise la parte morbida e femminile di sé; e si irrigidì, affidandosi ai guardiani della coscienza. D'ora in poi, avrebbe contemplato l'inconscio dalla rocca della coscienza: senza mescolarsi più tra le ombre desiderose di sangue, perdendo quel contatto immediato con la tenebra. Non fu solo. Quasi vent'anni dopo, il suo amico-nemico, Carl Gustav Jung, percorse la stessa strada, mentre elaborava una teoria diversissima dalla sua. Tutti gli archetipi, le vegetazioni, i pensieri e le intuizioni casua li che si annidano nel profondo, anche Jung cercò di portarli alla luce della coscienza e del giorno.
* * *
Nel suo bel libro: Il sogno e il mondo infero (Adelphi, traduzione di Adriana Bottini, pagg. 316, euro 22), James Hillman si ribella contro coloro che chiama «gli imperatori dell'anima».
Quegli imperatori erano i suoi maestri, Freud e Jung. Settanta anni dopo che essi avevano consigliato di illuminare la psiche, Hillman si accorge che il profondo, almeno in Occidente, si è isterilito. Il mondo moderno possiede una sterminata quantità di inconscio razionalizzato, trasformato, alterato, falsificato. Ma pochissimo inconscio autentico, come al tempo dei greci e dei cristiani, quando esistevano gli dèi della luce e della notte. Qualsiasi discesa sistematica nella tenebra, qualsiasi volontà di chiarirla completamente, uccide il nutrimento oscuro della nostra anima. Così Hillman non si propone di portare il sogno nel mondo diurno, traducendolo nella lingua dell'io. Non tenta nessuna conoscenza scientifica della vita onirica.
Come gli antichi, Hillman lascia l'anima nella sua ombra. Allora il profondo veniva alla luce da solo, senza l'intervento umano, continuando a parlare la sua lingua misteriosa: ora in un mito, ora in un sogno, ora in un'intuizione, ora in una previsione, ora nella immagine centrale di un libro. Così, nei tempi moderni Proust e Kafka temettero di disseccare e cancellare con l'intelligenza la parte più preziosa dell'ombra: il suo abisso, il suo velluto, il suo «setoso geranio», la forza inquietante, la vischiosità, l'irradiazione. Nella Ricerca e nella Metamorfosi persuasero l'inconscio a riflettere su sé stesso e a parlare di sé stesso, esprimendosi e trovando una forma letteraria: sebbene continuasse a restare inconscio. L'ombra aveva irradiato la propria luce: la luce della notte. Senza possedere il genio artistico di Proust e di Kafka, Hillman segue il loro cammino, liberandosi da qualsiasi pensiero e pregiudizio che appartenga alla realtà e alla ragione. Capisce che «la coscienza diurna nasce nella notte e della notte reca i segni sopra di sé». Non cerca di conoscere i sogni: ma di vivere i sogni, abitare i sogni, diventare, lui stesso, un grande sogno.
In quel momento, capisce che i sogni appartengono al mondo infero, e inizia la sua discesa nel regno della notte e della morte. Laggiù, come Freud aveva scoperto e forse dimenticato, tutto è pieno di dèi: una folla di dèi, che ora parlano a voce alta, ora squittiscono e stridono come pipistrelli. Laggiù vivono Ade e Dioniso - lo stesso dio. Ade possiede una mente così armoniosa e una parola così persuasiva (diceva Platone), che le anime non vogliono più lasciare il suo regno: mentre l'immaginazione notturna di Dioniso trabocca di forme animali, di metamorfosi fantastiche, di danze orgiastiche e musiche, che Hillman non può a nessun costo dimenticare.
Egli sa che discendere nell'Ade è un'impresa pericolosa. Bisogna affrontare il dolore, il lutto, la lacerazione, il terrore, gli impossibili abbracci dei morti, la tragica esplorazione di tutto ciò che è nascosto: l'esperienza del vuoto e dell´invisibile. C'è continuamente il rischio di perdersi, sopraffatti dalla onniavvolgente spettralità - quella che Ulisse conobbe nell'Odissea e tenne lontana da sé. Ma Ade, come dicevano i greci, è anche Plutone: il dio della ricchezza. «Dai morti - aveva detto Ippocrate - proviene il nutrimento, e la crescita e il seme». Senza l'esperienza della morte, la nostra vita perde qualsiasi profondità: mentre, se conosciamo gli spettri e il vuoto, essa diventa ricca, piena, sovrabbondante di doni terreni e celesti.
Tra gli psicologi del ventesimo secolo, credo che Hillman sia l'unico, vero politeista - e da questo deriva la vastità di immagini e di relazioni che nutrono i suoi libri. Ogni figura divina ed umana contiene, per lui, una quantità innumerevole di figure: ognuna è sempre sul punto di andare a pezzi o di moltiplicarsi: e lui gioca con queste figure che si perdono e si ritrovano, animato da un piacere che non si esaurisce. Non è mai fermo. Ogni minuto, cambia atteggiamento e posizione. Incarna molte forme: guarda da tutte le parti, verso la notte e verso la luce, verso la realtà e verso il vuoto: muta punto di vista: e ci appare sempre dove non l'aspettiamo. Sta sui confini, dove si incontrano ciò che è famigliare e ciò che è straniero, ciò che è vivo e ciò che è morto. Il principio di non-contraddizione, che domina ancora il pensiero di Jung, gli è estraneo. Il suo maestro è Eraclito, nel quale gli opposti coincidono. Tutto ciò dà una mobilità brillante e nervosa al suo stile. E una straordinaria letizia. Quando parla dell'Ade, dove Omero trovò soltanto squallore e terrore, ci sembra stranamente allegro. Non ci comunica nessun brivido funerario, ma soltanto gioia, come avesse trovato nella morte lo scintillio e il brillio della vita.
* * *
Non tutto, nei sogni, è Ade. Non tutti i sogni sono funerarii e spettrali. Quando sogniamo, scorgiamo anche le superfici della vita diurna: quella che abbiamo appena abbandonato, da pochi minuti o da poche ore o da pochi giorni. Gli psicologi, che cercano soprattutto profondità, sono ingenerosi verso i sogni superficiali: persino uno scrittore frivolo come Hillman. In queste fantasie oniriche non ci sono simboli. Non c'è ombra né tenebra. Non ci sono fondali misteriosi. Non c'è quello che Freud chiamava lavoro onirico: cioè quel processo di «coagulazione, condensazione, intensificazione, riduzione, ripetizione», che attrae Hillman.
Verso un'ora qualsiasi della notte (di solito non verso l'alba, quando giungono, dicevano gli antichi, i sogni veri, quelli usciti dalle porte di corno), si sveglia in noi un Narratore misterioso. Racconta storie compatte, continue, abbondanti, fluide: non prova nessuna fatica, né pena né intoppi, perché viene dominato dalla gioia esorbitante dell'affabulazione. Possiede un estro fantastico, una ricchezza di invenzioni, di trovate e di particolari, che non finiscono di stupirci. Dai narratori del giorno lo distinguono due doni. In primo luogo, le sue figure rivelano un'incredibile leggerezza e trasparenza: perché i sogni e i fantasmi (diceva Omero) sono simili alle immagini riflesse allo specchio. In secondo luogo, egli non conosce la necessità. Ama il caso: e il particolare assurdo, insensato, follemente comico, che ci fa ridere fino alle lacrime. A volte, né Basile né Hoffmann possono rivaleggiare con lui.
Non sappiamo quale sia il suo nome. A prima vista, ci sembra il narratore delle Mille e una notte: poi ci accorgiamo che i racconti che l'Oriente produsse, come una flora prodigiosa, dal nono al diciannovesimo secolo, sono molto più esoterici delle nostre storie notturne. A volte, ci sembra un narratore di avventure come Stevenson, o un librettista come Da Ponte, o un autore di operette, farse napoletane e musical: o un clown - il nostro clown personale. Racconta volentieri di notte, chiuso in una mente umana come nella più sicura delle prigioni o dei salotti, perché si sente protetto dall'oscurità, soffice e morbido come il pelo di un gatto siamese. Nessuno, nemmeno un meticoloso psichiatra, può smentirlo. Quando inventa una storia particolarmente spiritosa, comprendiamo all'improvviso chi ci ha accompagnato, sia pure con intermittenze, nelle ore della notte. È Ermes, il dio che guida i morti e i sogni: il dio piccolo, losco, leggero, bugiardo, che si abbandona giocando al suo piacere di fantasticare.
(*) "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo" è il motto (tratto dall'Eneide) premesso da Freud all'Interpretazione dei sogni
La Repubblica 2.1.04 (pagg. 1 e 37)
LE IDEE
Se il mondo dei sogni diventa un deserto
I TIRANNI DEL SOGNO
Il mondo onirico, da Sigmund Freud a James Hillman
La teoria diversissima di Carl Gustav Jung
il narratore misterioso che si sveglia dentro di noi
Mentre lo studioso americano mette in guardia dagli "imperatori dell'anima"
Il padre della psicanalisi bandisce nella sua Interpretazione ogni traccia di mito
di PIETRO CITATI
L'interpretazione dei sogni è percorso da una fitta serie di citazioni e di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che rivelano come l'immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso mitico di Freud. Queste citazioni - non i discorsi e le definizioni intellettuali - hanno il compito di esprimere la sua intuizione dell'inconscio. Forse egli aveva combattuto con Dio, come Giacobbe con l'angelo: aveva tentato di scoprire i segreti degli dèi dell'Olimpo, della luce, della coscienza, e la totalità della vita. Ma aveva fallito. Non gli era restato che scendere nelle tenebre dell'Ade (*). Laggiù abitavano gli dèi della notte: Ade, Persefone, i Titani, le Furie, le Madri che Faust aveva visitato nelle profondità della terra. Questi erano gli unici dèi che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il tremendum, l'indimenticabile e l'indistruttibile, verso il quale provava un'infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata. Come l'archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando la città sepolta, fino all'ultima Troia: come il minatore, doveva scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacro dell'inconscio, intessuta con tanta sottigliezza ed eleganza, resta confinata nelle allusioni letterarie dell'Interpretazione dei sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso. Gli innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare altri testi: Jean Paul, Nerval, Jung. La ragione è duplice. Da una parte, scrivendo il suo libro, Freud censurò violentemente i propri sogni per pudore, discrezione, timore, desiderio di rispettabilità, resistenza dell'ego. Tutti i sogni sessuali, specialmente quelli dove affiorava l'attrazione edipica verso la madre, non giunsero nel libro. Era la colpa suprema, di cui non poteva scrivere in pubblico. I peccati che confessò analizzando la sua attività onirica, o che rivelò senza volerlo, sono soprattutto peccati dell'ego: odio verso il padre, rancore verso i fratelli e gli amici, invidia, ostilità verso i colleghi, desiderio di riuscire (rinnegando persino la propria razza), colpe verso i malati - peccati, forse, anche più vergognosi, ma che non sfioravano il recinto sacro della psiche.
La seconda ragione è più significativa. L'inconscio freudiano, non è quel mare tenebroso e continuo, quell'Acheronte pigro o convulso, quell'indivisibile flusso, che ci hanno raccontato Dostoevskij, Proust e Kafka. Il sogno è composto di microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che poi l'inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato ingegnoso. Così, leggendo L'interpretazione dei sogni, il brivido oscuro che ci aveva lasciato l'Ade scompare. Il dio dell'inconscio non sembra un Titano o una Furia, e nemmeno le Madri. Assomiglia piuttosto a figure che incontriamo nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio, un artigiano che compone mosaici e tarsie, un giocatore di scacchi che calcola i movimenti delle sue pedine, e persino un cinico truffatore, tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è formale e combinatoria. Mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente, geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio, occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta. Che il tremendo dio dell'Ade si comporti come un meticoloso artigiano, questa è la grande scoperta che Freud insegnò al ventesimo secolo.
Dopo aver pubblicato L'interpretazione dei sogni (1900), Freud allontanò da sé le ombre e gli dèi dell'Ade e del passato, usciti «dalla fossa oscura dei sogni», dove - confuso, sognante ed estatico - per qualche anno aveva rischiato di perdersi. Uccise la parte morbida e femminile di sé; e si irrigidì, affidandosi ai guardiani della coscienza. D'ora in poi, avrebbe contemplato l'inconscio dalla rocca della coscienza: senza mescolarsi più tra le ombre desiderose di sangue, perdendo quel contatto immediato con la tenebra. Non fu solo. Quasi vent'anni dopo, il suo amico-nemico, Carl Gustav Jung, percorse la stessa strada, mentre elaborava una teoria diversissima dalla sua. Tutti gli archetipi, le vegetazioni, i pensieri e le intuizioni casua li che si annidano nel profondo, anche Jung cercò di portarli alla luce della coscienza e del giorno.
* * *
Nel suo bel libro: Il sogno e il mondo infero (Adelphi, traduzione di Adriana Bottini, pagg. 316, euro 22), James Hillman si ribella contro coloro che chiama «gli imperatori dell'anima».
Quegli imperatori erano i suoi maestri, Freud e Jung. Settanta anni dopo che essi avevano consigliato di illuminare la psiche, Hillman si accorge che il profondo, almeno in Occidente, si è isterilito. Il mondo moderno possiede una sterminata quantità di inconscio razionalizzato, trasformato, alterato, falsificato. Ma pochissimo inconscio autentico, come al tempo dei greci e dei cristiani, quando esistevano gli dèi della luce e della notte. Qualsiasi discesa sistematica nella tenebra, qualsiasi volontà di chiarirla completamente, uccide il nutrimento oscuro della nostra anima. Così Hillman non si propone di portare il sogno nel mondo diurno, traducendolo nella lingua dell'io. Non tenta nessuna conoscenza scientifica della vita onirica.
Come gli antichi, Hillman lascia l'anima nella sua ombra. Allora il profondo veniva alla luce da solo, senza l'intervento umano, continuando a parlare la sua lingua misteriosa: ora in un mito, ora in un sogno, ora in un'intuizione, ora in una previsione, ora nella immagine centrale di un libro. Così, nei tempi moderni Proust e Kafka temettero di disseccare e cancellare con l'intelligenza la parte più preziosa dell'ombra: il suo abisso, il suo velluto, il suo «setoso geranio», la forza inquietante, la vischiosità, l'irradiazione. Nella Ricerca e nella Metamorfosi persuasero l'inconscio a riflettere su sé stesso e a parlare di sé stesso, esprimendosi e trovando una forma letteraria: sebbene continuasse a restare inconscio. L'ombra aveva irradiato la propria luce: la luce della notte. Senza possedere il genio artistico di Proust e di Kafka, Hillman segue il loro cammino, liberandosi da qualsiasi pensiero e pregiudizio che appartenga alla realtà e alla ragione. Capisce che «la coscienza diurna nasce nella notte e della notte reca i segni sopra di sé». Non cerca di conoscere i sogni: ma di vivere i sogni, abitare i sogni, diventare, lui stesso, un grande sogno.
In quel momento, capisce che i sogni appartengono al mondo infero, e inizia la sua discesa nel regno della notte e della morte. Laggiù, come Freud aveva scoperto e forse dimenticato, tutto è pieno di dèi: una folla di dèi, che ora parlano a voce alta, ora squittiscono e stridono come pipistrelli. Laggiù vivono Ade e Dioniso - lo stesso dio. Ade possiede una mente così armoniosa e una parola così persuasiva (diceva Platone), che le anime non vogliono più lasciare il suo regno: mentre l'immaginazione notturna di Dioniso trabocca di forme animali, di metamorfosi fantastiche, di danze orgiastiche e musiche, che Hillman non può a nessun costo dimenticare.
Egli sa che discendere nell'Ade è un'impresa pericolosa. Bisogna affrontare il dolore, il lutto, la lacerazione, il terrore, gli impossibili abbracci dei morti, la tragica esplorazione di tutto ciò che è nascosto: l'esperienza del vuoto e dell´invisibile. C'è continuamente il rischio di perdersi, sopraffatti dalla onniavvolgente spettralità - quella che Ulisse conobbe nell'Odissea e tenne lontana da sé. Ma Ade, come dicevano i greci, è anche Plutone: il dio della ricchezza. «Dai morti - aveva detto Ippocrate - proviene il nutrimento, e la crescita e il seme». Senza l'esperienza della morte, la nostra vita perde qualsiasi profondità: mentre, se conosciamo gli spettri e il vuoto, essa diventa ricca, piena, sovrabbondante di doni terreni e celesti.
Tra gli psicologi del ventesimo secolo, credo che Hillman sia l'unico, vero politeista - e da questo deriva la vastità di immagini e di relazioni che nutrono i suoi libri. Ogni figura divina ed umana contiene, per lui, una quantità innumerevole di figure: ognuna è sempre sul punto di andare a pezzi o di moltiplicarsi: e lui gioca con queste figure che si perdono e si ritrovano, animato da un piacere che non si esaurisce. Non è mai fermo. Ogni minuto, cambia atteggiamento e posizione. Incarna molte forme: guarda da tutte le parti, verso la notte e verso la luce, verso la realtà e verso il vuoto: muta punto di vista: e ci appare sempre dove non l'aspettiamo. Sta sui confini, dove si incontrano ciò che è famigliare e ciò che è straniero, ciò che è vivo e ciò che è morto. Il principio di non-contraddizione, che domina ancora il pensiero di Jung, gli è estraneo. Il suo maestro è Eraclito, nel quale gli opposti coincidono. Tutto ciò dà una mobilità brillante e nervosa al suo stile. E una straordinaria letizia. Quando parla dell'Ade, dove Omero trovò soltanto squallore e terrore, ci sembra stranamente allegro. Non ci comunica nessun brivido funerario, ma soltanto gioia, come avesse trovato nella morte lo scintillio e il brillio della vita.
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Non tutto, nei sogni, è Ade. Non tutti i sogni sono funerarii e spettrali. Quando sogniamo, scorgiamo anche le superfici della vita diurna: quella che abbiamo appena abbandonato, da pochi minuti o da poche ore o da pochi giorni. Gli psicologi, che cercano soprattutto profondità, sono ingenerosi verso i sogni superficiali: persino uno scrittore frivolo come Hillman. In queste fantasie oniriche non ci sono simboli. Non c'è ombra né tenebra. Non ci sono fondali misteriosi. Non c'è quello che Freud chiamava lavoro onirico: cioè quel processo di «coagulazione, condensazione, intensificazione, riduzione, ripetizione», che attrae Hillman.
Verso un'ora qualsiasi della notte (di solito non verso l'alba, quando giungono, dicevano gli antichi, i sogni veri, quelli usciti dalle porte di corno), si sveglia in noi un Narratore misterioso. Racconta storie compatte, continue, abbondanti, fluide: non prova nessuna fatica, né pena né intoppi, perché viene dominato dalla gioia esorbitante dell'affabulazione. Possiede un estro fantastico, una ricchezza di invenzioni, di trovate e di particolari, che non finiscono di stupirci. Dai narratori del giorno lo distinguono due doni. In primo luogo, le sue figure rivelano un'incredibile leggerezza e trasparenza: perché i sogni e i fantasmi (diceva Omero) sono simili alle immagini riflesse allo specchio. In secondo luogo, egli non conosce la necessità. Ama il caso: e il particolare assurdo, insensato, follemente comico, che ci fa ridere fino alle lacrime. A volte, né Basile né Hoffmann possono rivaleggiare con lui.
Non sappiamo quale sia il suo nome. A prima vista, ci sembra il narratore delle Mille e una notte: poi ci accorgiamo che i racconti che l'Oriente produsse, come una flora prodigiosa, dal nono al diciannovesimo secolo, sono molto più esoterici delle nostre storie notturne. A volte, ci sembra un narratore di avventure come Stevenson, o un librettista come Da Ponte, o un autore di operette, farse napoletane e musical: o un clown - il nostro clown personale. Racconta volentieri di notte, chiuso in una mente umana come nella più sicura delle prigioni o dei salotti, perché si sente protetto dall'oscurità, soffice e morbido come il pelo di un gatto siamese. Nessuno, nemmeno un meticoloso psichiatra, può smentirlo. Quando inventa una storia particolarmente spiritosa, comprendiamo all'improvviso chi ci ha accompagnato, sia pure con intermittenze, nelle ore della notte. È Ermes, il dio che guida i morti e i sogni: il dio piccolo, losco, leggero, bugiardo, che si abbandona giocando al suo piacere di fantasticare.
(*) "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo" è il motto (tratto dall'Eneide) premesso da Freud all'Interpretazione dei sogni
Francesco Petrarca (1304-1374)
(citato al Lunedì)
una segnalazione di Annalina Ferrante
La Repubblica 2.1.04
Il poeta dell'amore e della coscienza di sé
a settecento anni dalla nascita
Fu il primo a rivendicare l'autonomia dell'intellettuale
Occupa interamente la scena ali celebreranno l'autore del Canzoniere
Intervista a Marco Santagata: "Lui più di altri sa parlare alla sensibilità dei moderni"
PISA
di FRANCESCO ERBANI
Francesco Petrarca nacque poco prima che spuntasse il sole del 20 luglio 1304, settecento anni fa. Nacque ad Arezzo, in una casa di Vico dell'Orto, dove il padre, che tutti chiamavano Ser Petracco, e la madre, Eletta Canigiani, si erano rifugiati perché a Firenze era prevalsa la parte dei guelfi neri e il povero Petracco, di parte bianca come Dante, era stato condannato ingiustamente al taglio di una mano, alla confisca di tutti i beni e all'espulsione dalla città.
Petrarca iniziò in esilio la sua vita. Sarebbe diventato il maggior poeta dell'amore e della coscienza di sé e la sua fama avrebbe brillato in assoluto più di ogni altro suo collega, influenzando la lingua della lirica fino alle porte del Novecento e anche oltre. E fu anche colui che con più limpida consapevolezza avrebbe rivendicato l'autonomia del suo mestiere, delle proprie conoscenze letterarie e filologiche, inaugurando l'albo di una nuova categoria professionale, quella degli intellettuali.
Su Petrarca si è cimentato per decenni Marco Santagata, professore a Pisa. Ha scritto saggi per riviste scientifiche e due libri molto diffusi (Per moderne carte e I frammenti dell'anima, editi dal Mulino nel '90 e nel '92). Ha curato un Meridiano Mondadori con il Rerum vulgarium fragmenta (il Canzoniere) e un altro con il Codice degli abbozzi, che documenta le redazioni precedenti del Canzoniere, e i Trionfi (il primo torna in libreria a gennaio con una nuova premessa e un aggiornamento bibliografico). Tre anni fa, quasi per scrollarsi da un'ossessione, ha scritto un romanzo, Il copista (Sellerio), una malinconica fantasia sugli ultimi anni di vita del poeta, un gioco in cui il protagonista è Giovanni Malpaghini, l'uomo che lo assistette nel ricopiare una per una le sue poesie.
È con Santagata che tentiamo di capire se e come, settecento anni dopo, Petrarca parli alla sensibilità dei moderni. «Certo», risponde Santagata, «lui più di altri, perché occupa interamente la scena della sua poesia con la propria soggettività. Potrebbe sembrare un impoverimento e invece nei secoli l'ambiente petrarchesco si è rivelato un territorio sconfinato che ha consacrato il suo artefice quale caposcuola della poesia moderna. Lui sottrae il discorso amoroso ai condizionamenti del tempo e costruisce uno spazio dell'io con le proprie contraddizioni, le proprie ansie, e con l'accidia, che altro non è se non la depressione, e che lui tratta come una malattia, un morbo con una componente peccaminosa».
Ne riparleremo. Ma intanto una premessa: Petrarca è ancora studiato?
«Non so quanto venga letto. Ma negli ultimi anni è il nostro autore sul quale all'estero maggiormente si indaga».
Più di Dante?
«Più di Dante, sì».
E da cosa dipende questo interesse?
«Dal fatto che si tende a retrodatare l'Umanesimo, comprendendo a pieno titolo anche Petrarca, anzi facendone un capostipite».
Ed emergono novità?
«Continuamente. Petrarca è un cantiere aperto e soprattutto il Petrarca latino, che ora si tende a raccordare strettamente con quello che predilige il volgare. Scrivere lirica d'amore è ai suoi occhi un'operazione umanistica. Petrarca è convinto che presso i latini esistesse una poesia ritmica espressa in una lingua popolare, diversa da quella codificata da Cicerone. Quando raccoglie i suoi versi sparsi compie un'operazione umanistica, la stessa che lo spinge a riunire le Familiares».
Ma il Petrarca latino, lei diceva, è ancora da indagare a fondo.
«Abbiamo ancora molto lavoro da compiere soprattutto per offrire testi attendibili. È lì il cantiere più operoso».
E il Petrarca volgare?
«Noi non abbiamo un'edizione critica del Canzoniere. La fortuna di possedere il codice autografo, un codice in cui Petrarca ricopiò le proprie poesie, ha in qualche modo frenato lo scrutinio e la raccolta di tutti gli altri manoscritti per ottenere una edizione critica».
E questo è un problema? Non sarà solo un capriccio di filologi?
«Esistono edizioni molto curate e corrette. Però un'edizione critica del Canzoniere, ma anche dei Trionfi, sarebbe impresa memorabile».
Torniamo al Canzoniere. Lei è convinto che non si tratti di una raccolta, ma di un'opera compiuta. Meglio, di un romanzo. Perché?
«Il Canzoniere è il grande libro che testimonia la svolta del poeta, cioè il ritrovamento dell´integrità intellettuale, la riunificazione del suo io scisso a causa della passione amorosa: il saggio è colui che è tutto compiuto in se stesso, mentre l'innamorato è in parte alienato da sé, il suo animo è frammentato, disperso. Ha presente il sonetto d'apertura del Canzoniere?»
«Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono»?
«Ecco: quelle "rime sparse" rappresentano lo stato di dissociazione. La passione d'amore è un'esperienza irrazionale, sulla quale si abbatte negativamente un giudizio etico. La guarigione avviene riacquistando l'autocontrollo, la padronanza di sé. Il Canzoniere realizza questa tesi. O almeno dovrebbe realizzarla».
Non ci riesce?
«È una tesi difficile da tradurre in pratica. Quando riunisce tutti i testi che compongono il Canzoniere, e che risalgono anche a molti anni prima, Petrarca non sa come concludere la raccolta affinché sia ben chiaro il fine penitenziale, il riscatto dalla passione. In un primo tempo si affida solo al calendario liturgico. È un calcolo un po' complicato, posso procedere?».
Certamente.
«I sonetti sono 366, uno in più rispetto ai giorni dell'anno. L'innamoramento per Laura ha una data, 6 aprile 1327, venerdì di Passione prima della Pasqua: muore Cristo e nasce l'amore. Cominciando dunque dal 6 aprile e calcolando un sonetto al giorno, si arriva al numero 264 che cade il 25 dicembre. Qui Petrarca colloca una cesura. Terminano i versi "in vita di Laura", iniziano quelli "in morte": nasce Cristo e comincia il processo di redenzione del poeta, che avanza per le altre 102 composizioni fino alla canzone alla Vergine, la numero 366, che coincide con un altro 6 aprile».
E questo non è sufficiente a dimostrare la riacquistata saggezza?
«Evidentemente no. Con un guizzo che possiamo datare negli ultimi anni di vita, Petrarca modifica l'ordinamento dei trentuno componimenti finali. Chiude il cerchio della sua redenzione, colloca in quel punto i sonetti e le canzoni che più palesemente rendono chiaro il cammino di riscatto, arretrando quelli che lo fanno apparire più dubbio».
Quella di Petrarca è dunque una costruzione intellettuale. Il suo è un artificio letterario.
«Petrarca allestisce un grande libro. E questo gesto rompe con la tradizione dei rimatori cortesi, i poeti a lui contemporanei o immediatamente precedenti, i quali avevano posto al centro dei propri versi la figura della donna. Il loro io, rispetto alla donna, era poco più che un locutore. Inoltre quella poesia conteneva una componente sociale, incorporava il rituale di una società nobiliare».
E qual è la novità che introduce Petrarca?
«La donna delle rime cortesi non si concedeva, ma il desiderio frustrato produceva poesia. Petrarca rovescia questo meccanismo. In apparenza la donna suscita il desiderio, ma in realtà esiste solo perché è investita dall'amore-desiderio. Neanche lei si concede, ma colui che desidera va a occupare tutto lo spazio che fino ad allora era riservato alla raffigurazione della donna, ai rituali del corteggiamento».
E quindi Petrarca costruisce la propria autobiografia poetica?
«Sì, ma in modo diverso da come possiamo intenderla noi. Petrarca usa la letteratura per offrire un'immagine di sé, però mescolando dati reali e dati fantastici. Il suo modello è Sant'Agostino, così come lo raffigura nel Secretum, intento a spronarlo verso una poesia che racconti se stesso e non più gli altri».
Ed è qui, secondo lei, la modernità di Petrarca?
«Petrarca si astrae dalla storia del suo tempo. Non la ingloba, come fanno i poeti a lui contemporanei. La sua poesia non ha dimensione sociale, ma solo interiore».
Il rapporto di Petrarca con la storia, così come lei lo descrive, ha forti analogie con le sue scelte linguistiche. Gianfranco Contini sostiene che le parole petrarchesche sono «sostanze non attualizzate».
«Il vocabolario di Petrarca è molto più ricco di quello di uno stilnovista, ma è chiuso, circoscritto. La sua poesia non si consuma in pubblico e la lingua è concepita perché sia destinata a durare. È senza tempo».
Questo spiega la fortuna di Petrarca nel corso dei secoli?
«Il petrarchismo è un fenomeno poetico consistente. Investe l'Europa e non solo l'Italia. Ma nasce a una certa distanza di tempo dalla morte del poeta e paradossalmente è pre-petrarchesco, perché riproduce quella funzione sociale, legata alle corti rinascimentali, che Petrarca aveva bandito».
E oltre il petrarchismo?
«Oltre il petrarchismo resta Petrarca, con il quale si cimentano anche Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio, Umberto Saba e Andrea Zanzotto».
La fortuna di Petrarca dipende anche dal fatto che la sua personalità sia poliedrica - diplomatico e persino politico, oltre che poeta e filologo. In che modo partecipa alle drammatiche vicende dell'Europa di quegli anni?
«Petrarca svolge un ruolo politico autonomo solo quando sostiene l'esperimento di Cola di Rienzo, il quale nutre il progetto di una restaurazione della romanità. E lo fa con sincerità di intenti, al punto da mettersi in contrasto con la famiglia romana dei Colonna, che lo aveva a lungo protetto. Per il resto mette al servizio di diversi potenti il prestigio acquisito. Svolge compiti di ambasceria, ma impone sempre la propria figura di intellettuale, la propria personalità, la conoscenza dei classici. E conserva intatta la propria autonomia».
Che differenza c'è fra lui e Dante?
«Dante si muove intorno alle sopravvivenze feudali, a un mondo che scompare. Petrarca si lega invece agli ambienti curiali, si ferma ad Avignone, che in quegli anni è la capitale d'Europa, una città dove si elabora la nuova cultura centrata sul recupero dei classici. Va a studiare giurisprudenza a Bologna, ma invece di diventare notaio intraprende la carriera ecclesiastica, proprio nel momento in cui si consuma la crisi del mondo universitario. Petrarca è un libero professionista, il primo intellettuale a vivere del proprio mestiere di letterato».
La Repubblica 2.1.04
Il poeta dell'amore e della coscienza di sé
a settecento anni dalla nascita
Fu il primo a rivendicare l'autonomia dell'intellettuale
Occupa interamente la scena ali celebreranno l'autore del Canzoniere
Intervista a Marco Santagata: "Lui più di altri sa parlare alla sensibilità dei moderni"
PISA
di FRANCESCO ERBANI
Francesco Petrarca nacque poco prima che spuntasse il sole del 20 luglio 1304, settecento anni fa. Nacque ad Arezzo, in una casa di Vico dell'Orto, dove il padre, che tutti chiamavano Ser Petracco, e la madre, Eletta Canigiani, si erano rifugiati perché a Firenze era prevalsa la parte dei guelfi neri e il povero Petracco, di parte bianca come Dante, era stato condannato ingiustamente al taglio di una mano, alla confisca di tutti i beni e all'espulsione dalla città.
Petrarca iniziò in esilio la sua vita. Sarebbe diventato il maggior poeta dell'amore e della coscienza di sé e la sua fama avrebbe brillato in assoluto più di ogni altro suo collega, influenzando la lingua della lirica fino alle porte del Novecento e anche oltre. E fu anche colui che con più limpida consapevolezza avrebbe rivendicato l'autonomia del suo mestiere, delle proprie conoscenze letterarie e filologiche, inaugurando l'albo di una nuova categoria professionale, quella degli intellettuali.
Su Petrarca si è cimentato per decenni Marco Santagata, professore a Pisa. Ha scritto saggi per riviste scientifiche e due libri molto diffusi (Per moderne carte e I frammenti dell'anima, editi dal Mulino nel '90 e nel '92). Ha curato un Meridiano Mondadori con il Rerum vulgarium fragmenta (il Canzoniere) e un altro con il Codice degli abbozzi, che documenta le redazioni precedenti del Canzoniere, e i Trionfi (il primo torna in libreria a gennaio con una nuova premessa e un aggiornamento bibliografico). Tre anni fa, quasi per scrollarsi da un'ossessione, ha scritto un romanzo, Il copista (Sellerio), una malinconica fantasia sugli ultimi anni di vita del poeta, un gioco in cui il protagonista è Giovanni Malpaghini, l'uomo che lo assistette nel ricopiare una per una le sue poesie.
È con Santagata che tentiamo di capire se e come, settecento anni dopo, Petrarca parli alla sensibilità dei moderni. «Certo», risponde Santagata, «lui più di altri, perché occupa interamente la scena della sua poesia con la propria soggettività. Potrebbe sembrare un impoverimento e invece nei secoli l'ambiente petrarchesco si è rivelato un territorio sconfinato che ha consacrato il suo artefice quale caposcuola della poesia moderna. Lui sottrae il discorso amoroso ai condizionamenti del tempo e costruisce uno spazio dell'io con le proprie contraddizioni, le proprie ansie, e con l'accidia, che altro non è se non la depressione, e che lui tratta come una malattia, un morbo con una componente peccaminosa».
Ne riparleremo. Ma intanto una premessa: Petrarca è ancora studiato?
«Non so quanto venga letto. Ma negli ultimi anni è il nostro autore sul quale all'estero maggiormente si indaga».
Più di Dante?
«Più di Dante, sì».
E da cosa dipende questo interesse?
«Dal fatto che si tende a retrodatare l'Umanesimo, comprendendo a pieno titolo anche Petrarca, anzi facendone un capostipite».
Ed emergono novità?
«Continuamente. Petrarca è un cantiere aperto e soprattutto il Petrarca latino, che ora si tende a raccordare strettamente con quello che predilige il volgare. Scrivere lirica d'amore è ai suoi occhi un'operazione umanistica. Petrarca è convinto che presso i latini esistesse una poesia ritmica espressa in una lingua popolare, diversa da quella codificata da Cicerone. Quando raccoglie i suoi versi sparsi compie un'operazione umanistica, la stessa che lo spinge a riunire le Familiares».
Ma il Petrarca latino, lei diceva, è ancora da indagare a fondo.
«Abbiamo ancora molto lavoro da compiere soprattutto per offrire testi attendibili. È lì il cantiere più operoso».
E il Petrarca volgare?
«Noi non abbiamo un'edizione critica del Canzoniere. La fortuna di possedere il codice autografo, un codice in cui Petrarca ricopiò le proprie poesie, ha in qualche modo frenato lo scrutinio e la raccolta di tutti gli altri manoscritti per ottenere una edizione critica».
E questo è un problema? Non sarà solo un capriccio di filologi?
«Esistono edizioni molto curate e corrette. Però un'edizione critica del Canzoniere, ma anche dei Trionfi, sarebbe impresa memorabile».
Torniamo al Canzoniere. Lei è convinto che non si tratti di una raccolta, ma di un'opera compiuta. Meglio, di un romanzo. Perché?
«Il Canzoniere è il grande libro che testimonia la svolta del poeta, cioè il ritrovamento dell´integrità intellettuale, la riunificazione del suo io scisso a causa della passione amorosa: il saggio è colui che è tutto compiuto in se stesso, mentre l'innamorato è in parte alienato da sé, il suo animo è frammentato, disperso. Ha presente il sonetto d'apertura del Canzoniere?»
«Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono»?
«Ecco: quelle "rime sparse" rappresentano lo stato di dissociazione. La passione d'amore è un'esperienza irrazionale, sulla quale si abbatte negativamente un giudizio etico. La guarigione avviene riacquistando l'autocontrollo, la padronanza di sé. Il Canzoniere realizza questa tesi. O almeno dovrebbe realizzarla».
Non ci riesce?
«È una tesi difficile da tradurre in pratica. Quando riunisce tutti i testi che compongono il Canzoniere, e che risalgono anche a molti anni prima, Petrarca non sa come concludere la raccolta affinché sia ben chiaro il fine penitenziale, il riscatto dalla passione. In un primo tempo si affida solo al calendario liturgico. È un calcolo un po' complicato, posso procedere?».
Certamente.
«I sonetti sono 366, uno in più rispetto ai giorni dell'anno. L'innamoramento per Laura ha una data, 6 aprile 1327, venerdì di Passione prima della Pasqua: muore Cristo e nasce l'amore. Cominciando dunque dal 6 aprile e calcolando un sonetto al giorno, si arriva al numero 264 che cade il 25 dicembre. Qui Petrarca colloca una cesura. Terminano i versi "in vita di Laura", iniziano quelli "in morte": nasce Cristo e comincia il processo di redenzione del poeta, che avanza per le altre 102 composizioni fino alla canzone alla Vergine, la numero 366, che coincide con un altro 6 aprile».
E questo non è sufficiente a dimostrare la riacquistata saggezza?
«Evidentemente no. Con un guizzo che possiamo datare negli ultimi anni di vita, Petrarca modifica l'ordinamento dei trentuno componimenti finali. Chiude il cerchio della sua redenzione, colloca in quel punto i sonetti e le canzoni che più palesemente rendono chiaro il cammino di riscatto, arretrando quelli che lo fanno apparire più dubbio».
Quella di Petrarca è dunque una costruzione intellettuale. Il suo è un artificio letterario.
«Petrarca allestisce un grande libro. E questo gesto rompe con la tradizione dei rimatori cortesi, i poeti a lui contemporanei o immediatamente precedenti, i quali avevano posto al centro dei propri versi la figura della donna. Il loro io, rispetto alla donna, era poco più che un locutore. Inoltre quella poesia conteneva una componente sociale, incorporava il rituale di una società nobiliare».
E qual è la novità che introduce Petrarca?
«La donna delle rime cortesi non si concedeva, ma il desiderio frustrato produceva poesia. Petrarca rovescia questo meccanismo. In apparenza la donna suscita il desiderio, ma in realtà esiste solo perché è investita dall'amore-desiderio. Neanche lei si concede, ma colui che desidera va a occupare tutto lo spazio che fino ad allora era riservato alla raffigurazione della donna, ai rituali del corteggiamento».
E quindi Petrarca costruisce la propria autobiografia poetica?
«Sì, ma in modo diverso da come possiamo intenderla noi. Petrarca usa la letteratura per offrire un'immagine di sé, però mescolando dati reali e dati fantastici. Il suo modello è Sant'Agostino, così come lo raffigura nel Secretum, intento a spronarlo verso una poesia che racconti se stesso e non più gli altri».
Ed è qui, secondo lei, la modernità di Petrarca?
«Petrarca si astrae dalla storia del suo tempo. Non la ingloba, come fanno i poeti a lui contemporanei. La sua poesia non ha dimensione sociale, ma solo interiore».
Il rapporto di Petrarca con la storia, così come lei lo descrive, ha forti analogie con le sue scelte linguistiche. Gianfranco Contini sostiene che le parole petrarchesche sono «sostanze non attualizzate».
«Il vocabolario di Petrarca è molto più ricco di quello di uno stilnovista, ma è chiuso, circoscritto. La sua poesia non si consuma in pubblico e la lingua è concepita perché sia destinata a durare. È senza tempo».
Questo spiega la fortuna di Petrarca nel corso dei secoli?
«Il petrarchismo è un fenomeno poetico consistente. Investe l'Europa e non solo l'Italia. Ma nasce a una certa distanza di tempo dalla morte del poeta e paradossalmente è pre-petrarchesco, perché riproduce quella funzione sociale, legata alle corti rinascimentali, che Petrarca aveva bandito».
E oltre il petrarchismo?
«Oltre il petrarchismo resta Petrarca, con il quale si cimentano anche Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio, Umberto Saba e Andrea Zanzotto».
La fortuna di Petrarca dipende anche dal fatto che la sua personalità sia poliedrica - diplomatico e persino politico, oltre che poeta e filologo. In che modo partecipa alle drammatiche vicende dell'Europa di quegli anni?
«Petrarca svolge un ruolo politico autonomo solo quando sostiene l'esperimento di Cola di Rienzo, il quale nutre il progetto di una restaurazione della romanità. E lo fa con sincerità di intenti, al punto da mettersi in contrasto con la famiglia romana dei Colonna, che lo aveva a lungo protetto. Per il resto mette al servizio di diversi potenti il prestigio acquisito. Svolge compiti di ambasceria, ma impone sempre la propria figura di intellettuale, la propria personalità, la conoscenza dei classici. E conserva intatta la propria autonomia».
Che differenza c'è fra lui e Dante?
«Dante si muove intorno alle sopravvivenze feudali, a un mondo che scompare. Petrarca si lega invece agli ambienti curiali, si ferma ad Avignone, che in quegli anni è la capitale d'Europa, una città dove si elabora la nuova cultura centrata sul recupero dei classici. Va a studiare giurisprudenza a Bologna, ma invece di diventare notaio intraprende la carriera ecclesiastica, proprio nel momento in cui si consuma la crisi del mondo universitario. Petrarca è un libero professionista, il primo intellettuale a vivere del proprio mestiere di letterato».
Lev Tolstoj e la famiglia: «Scappare, bisogna scappare!»
La Stampa 6.1.04
DRAMMA E UTOPIA CONIUGALE DELL’AUTORE DI «ANNA KARENINA»
Le furie di Tolstoj nella prigione del matrimonio
Da giovane aveva idealizzato la donna, forza della natura e dell’eros
ma visse la famiglia in modo rabbioso: «Scappare, bisogna scappare»
di Giovanna Zucconi
TOLSTOJ era un tipo impaziente, a ventiquattro anni scriveva «ormai sono vecchio», chissà se avrebbe più combinato niente di buono, a trentaquattro pretese di sposarsi dopo un fidanzamento di appena una settimana, e non con la ragazza che gli era destinata ma con un'altra delle sorelle Bers, Sof'ja, che aveva sì e no diciotto anni. Nello sdrucito appartamento dentro le mura del Cremlino dove abitava la famiglia del dottor Bers, fra divani sfondati e lampadari così bassi che sfioravano la testa dell'ospite, lì, mano nella mano, durante quel fulmineo fidanzamento, il conte Lev Nikolaevic Tolstoj fece in tempo a sottoporre la sognante fanciulla moscovita a un rito crudele. E la rovinò per sempre. E, forse, rovinò per sempre anche se stesso, quella felicità familiare che aveva desiderato tanto, e alla quale aveva intitolato un libro già anni prima.
La costrinse a leggere i suoi diari, diari esaurientissimi, precisissimi, le svelò ogni piega della sua anima e del suo corpo, chissà se per consegnarsi a lei o per imprigionarla nell'assolutismo spietato della verità. Le rivelò ogni dettaglio dei suoi amori passati, la zingara Katja («la sera in cui seduta sulla mie ginocchia mi raccontò che mi amava, che concedeva favori ad altri ma non permetteva a nessuno all'infuori di me certe libertà che dovrebbero essere coperte dalla cortina della modestia»), la spigliata dama di corte, la vicina Valerija Arsen'eva, alla quale scrisse sedici lettere d'amore ma che finì per non sposare, e soprattutto la contadina Aksin'ja Bazykina, dalla quale ebbe un figlio che divenne cocchiere nella tenuta di Jasnaja Poljana: la snella Aksin'ja dalle gonne variopinte che Lev Nikolaevic continuò a incontrare durante le sue cavalcate fra i campi e i boschi, la bella Aksin'ja che le donne del villaggio indicarono con malizia alla giovane sposa appena arrivata, «quella è la ganza del padrone», mentre stava lavando il pavimento della villa coniugale. Gelosia. Implacabile. Madame Tolstoj non se ne liberò più, lui decenni dopo ancora annotava che in lei «si sono risvegliati antichi fermenti» di rabbia e di dolore, lei nei suoi diari registrava i furori, il tormento, e gli sforzi per placarlo. La lettura reciproca dei diari fu un rito coniugale che continuò, chissà se per sincerità estrema o costringendo all'insincerità anche la più privata delle scritture: quello che non voleva che la moglie leggesse, lettere o manoscritti, lui con infantile ingenuità lo nascondeva in un cassetto del divano in pelle verde imbullonata con chiodini dorati sul quale era nato, e sul quale sarebbero nati quasi tutti i loro tredici figli.
Nel giugno del 1863, nove mesi dopo le nozze, nacque il primo, Sergej, e cominciarono i litigi fra i due sposi: lui pretendeva che lei allattasse il bambino, lei si rifiutò. Durante la gravidanza, Sof'ja aveva fatto un sogno. Sognò che in un enorme giardino entrava Aksin'ja, vestita come una signora, di seta nera. «Mi prese una tale rabbia che presi il suo bambino e cominciai a farlo a pezzi. Gli strappai le gambe, la testa, tutto, ero in preda a un furore terribile. Venne Lëva (vezzeggiativo di Lev, n.d.r.), io gli dissi che mi avrebbero deportata in Siberia, ma lui raccolse le gambe, le braccia, tutte le parti e disse che non era nulla, una bambola. Guardai, e infatti invece d'un corpo erano trucioli e camoscio». Lasciamo perdere le interpretazioni, troppo facili, e lasciamo anche Sof'ja per anni ancora a disperarsi e rimproverare al marito di non amare i suoi figli, «che se fossero invece i figli di una contadina…». Quello che conta è una parola: bambola.
Molti anni prima, durante l'infanzia dello scrittore, le bambine di casa Tolstoj giocavano alle bambole con il piccolo «Lëva-piagnone», lo cullavano, lo fasciavano come un bambolotto. Molti anni dopo, sua moglie avrebbe scritto furente che lui si dedicava per intero non alla sua famiglia ma al popolo, che era capace di astratti amori collettivi ma non di presenza domestica: «…io non posso occuparlo per intero come lui occupa me. Ma se io non lo occupo, se sono una bambola, se sono unicamente la moglie, non una persona, non posso e non voglio vivere così». Sarebbe vissuta così, soffocando nel ruolo, tutta la vita, dal matrimonio nel 1862 fino alla morte in fuga di lui, nel 1910. Soffocava anche lui, nella felicità domestica alla quale si era imposto di credere. Sollevandosi dal letto, ormai morente, disse con voce forte e convinta: «Scappare, bisogna scappare!». E all'inizio della sua lunga vita, nel suo primissimo ricordo, c'era già quella stessa sensazione di imprigionamento, «sono legato, vorrei liberare le braccia e non posso». Strillava il poppante fasciato, urlava l'ottantenne moribondo. Spasmi di libertà.
Solo per qualche anno, subito dopo il matrimonio, Lev Nikolaevic si sarebbe detto felice, appagato, sereno. La conversione mistica, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, avrebbe poi ribaltato ogni utopia coniugale. Morivano uno dopo l'altro i figli, cinque su tredici, fra cui una bambina di cui il padre disse soltanto che sarebbe stata molto rimpianta in seguito: con le altre femmine, una volta adulte, fece di tutto per impedire che si sposassero. La moglie Sof'ja si rifugiava nella concretezza, pranzi e cene per quaranta persone ogni giorno, traslochi, mobili nuovi, migliorie immobiliari, e intanto combatteva perché i diritti d'autore del marito rimanessero in famiglia, e non ceduti al popolo come avrebbe voluto lui: copiava paziente i suoi manoscritti, e andò perfino dallo zar, sfidando i pettegolezzi, per implorare che non venisse censurata quella Sonata a Kreutzer in cui Lev raccontava di un marito che uccide la moglie adultera - ma poi ogni tanto fuggiva per strada in vestaglia, d'inverno. Però ritornava: a Jasnaja Poljana l'unica famiglia salda era, nonostante tutto, quella di Lev e Sof'ja, suoceri e fratelli e figli divorziavano, ostentavano adulteri, avevano figli da zigane e puttane…
Da giovane Tolstoj aveva idealizzato la donna, forza della natura e dell'eros, da vecchio inseguì (invano) un ideale di castità, quasi di ascetismo, considerava il sesso una contaminazione e i figli una prova abominevole della devianza umana dalla spiritualità. Nel primo autunno del nuovo secolo, in Crimea, confidò a Maksim Gor'kij che l'umanità è sì colpita da terremoti, epidemie, malattie, ma «in tutti i tempi la tragedia più dolorosa è stata e sarà la tragedia della camera da letto». Per Gor'kij, nessuno mai fu prigioniero della solitudine e del disprezzo più di quel vecchio scrittore, patriarca impaziente, profeta dell'amore universale.
giovannazucconi@libero.it
DRAMMA E UTOPIA CONIUGALE DELL’AUTORE DI «ANNA KARENINA»
Le furie di Tolstoj nella prigione del matrimonio
Da giovane aveva idealizzato la donna, forza della natura e dell’eros
ma visse la famiglia in modo rabbioso: «Scappare, bisogna scappare»
di Giovanna Zucconi
TOLSTOJ era un tipo impaziente, a ventiquattro anni scriveva «ormai sono vecchio», chissà se avrebbe più combinato niente di buono, a trentaquattro pretese di sposarsi dopo un fidanzamento di appena una settimana, e non con la ragazza che gli era destinata ma con un'altra delle sorelle Bers, Sof'ja, che aveva sì e no diciotto anni. Nello sdrucito appartamento dentro le mura del Cremlino dove abitava la famiglia del dottor Bers, fra divani sfondati e lampadari così bassi che sfioravano la testa dell'ospite, lì, mano nella mano, durante quel fulmineo fidanzamento, il conte Lev Nikolaevic Tolstoj fece in tempo a sottoporre la sognante fanciulla moscovita a un rito crudele. E la rovinò per sempre. E, forse, rovinò per sempre anche se stesso, quella felicità familiare che aveva desiderato tanto, e alla quale aveva intitolato un libro già anni prima.
La costrinse a leggere i suoi diari, diari esaurientissimi, precisissimi, le svelò ogni piega della sua anima e del suo corpo, chissà se per consegnarsi a lei o per imprigionarla nell'assolutismo spietato della verità. Le rivelò ogni dettaglio dei suoi amori passati, la zingara Katja («la sera in cui seduta sulla mie ginocchia mi raccontò che mi amava, che concedeva favori ad altri ma non permetteva a nessuno all'infuori di me certe libertà che dovrebbero essere coperte dalla cortina della modestia»), la spigliata dama di corte, la vicina Valerija Arsen'eva, alla quale scrisse sedici lettere d'amore ma che finì per non sposare, e soprattutto la contadina Aksin'ja Bazykina, dalla quale ebbe un figlio che divenne cocchiere nella tenuta di Jasnaja Poljana: la snella Aksin'ja dalle gonne variopinte che Lev Nikolaevic continuò a incontrare durante le sue cavalcate fra i campi e i boschi, la bella Aksin'ja che le donne del villaggio indicarono con malizia alla giovane sposa appena arrivata, «quella è la ganza del padrone», mentre stava lavando il pavimento della villa coniugale. Gelosia. Implacabile. Madame Tolstoj non se ne liberò più, lui decenni dopo ancora annotava che in lei «si sono risvegliati antichi fermenti» di rabbia e di dolore, lei nei suoi diari registrava i furori, il tormento, e gli sforzi per placarlo. La lettura reciproca dei diari fu un rito coniugale che continuò, chissà se per sincerità estrema o costringendo all'insincerità anche la più privata delle scritture: quello che non voleva che la moglie leggesse, lettere o manoscritti, lui con infantile ingenuità lo nascondeva in un cassetto del divano in pelle verde imbullonata con chiodini dorati sul quale era nato, e sul quale sarebbero nati quasi tutti i loro tredici figli.
Nel giugno del 1863, nove mesi dopo le nozze, nacque il primo, Sergej, e cominciarono i litigi fra i due sposi: lui pretendeva che lei allattasse il bambino, lei si rifiutò. Durante la gravidanza, Sof'ja aveva fatto un sogno. Sognò che in un enorme giardino entrava Aksin'ja, vestita come una signora, di seta nera. «Mi prese una tale rabbia che presi il suo bambino e cominciai a farlo a pezzi. Gli strappai le gambe, la testa, tutto, ero in preda a un furore terribile. Venne Lëva (vezzeggiativo di Lev, n.d.r.), io gli dissi che mi avrebbero deportata in Siberia, ma lui raccolse le gambe, le braccia, tutte le parti e disse che non era nulla, una bambola. Guardai, e infatti invece d'un corpo erano trucioli e camoscio». Lasciamo perdere le interpretazioni, troppo facili, e lasciamo anche Sof'ja per anni ancora a disperarsi e rimproverare al marito di non amare i suoi figli, «che se fossero invece i figli di una contadina…». Quello che conta è una parola: bambola.
Molti anni prima, durante l'infanzia dello scrittore, le bambine di casa Tolstoj giocavano alle bambole con il piccolo «Lëva-piagnone», lo cullavano, lo fasciavano come un bambolotto. Molti anni dopo, sua moglie avrebbe scritto furente che lui si dedicava per intero non alla sua famiglia ma al popolo, che era capace di astratti amori collettivi ma non di presenza domestica: «…io non posso occuparlo per intero come lui occupa me. Ma se io non lo occupo, se sono una bambola, se sono unicamente la moglie, non una persona, non posso e non voglio vivere così». Sarebbe vissuta così, soffocando nel ruolo, tutta la vita, dal matrimonio nel 1862 fino alla morte in fuga di lui, nel 1910. Soffocava anche lui, nella felicità domestica alla quale si era imposto di credere. Sollevandosi dal letto, ormai morente, disse con voce forte e convinta: «Scappare, bisogna scappare!». E all'inizio della sua lunga vita, nel suo primissimo ricordo, c'era già quella stessa sensazione di imprigionamento, «sono legato, vorrei liberare le braccia e non posso». Strillava il poppante fasciato, urlava l'ottantenne moribondo. Spasmi di libertà.
Solo per qualche anno, subito dopo il matrimonio, Lev Nikolaevic si sarebbe detto felice, appagato, sereno. La conversione mistica, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, avrebbe poi ribaltato ogni utopia coniugale. Morivano uno dopo l'altro i figli, cinque su tredici, fra cui una bambina di cui il padre disse soltanto che sarebbe stata molto rimpianta in seguito: con le altre femmine, una volta adulte, fece di tutto per impedire che si sposassero. La moglie Sof'ja si rifugiava nella concretezza, pranzi e cene per quaranta persone ogni giorno, traslochi, mobili nuovi, migliorie immobiliari, e intanto combatteva perché i diritti d'autore del marito rimanessero in famiglia, e non ceduti al popolo come avrebbe voluto lui: copiava paziente i suoi manoscritti, e andò perfino dallo zar, sfidando i pettegolezzi, per implorare che non venisse censurata quella Sonata a Kreutzer in cui Lev raccontava di un marito che uccide la moglie adultera - ma poi ogni tanto fuggiva per strada in vestaglia, d'inverno. Però ritornava: a Jasnaja Poljana l'unica famiglia salda era, nonostante tutto, quella di Lev e Sof'ja, suoceri e fratelli e figli divorziavano, ostentavano adulteri, avevano figli da zigane e puttane…
Da giovane Tolstoj aveva idealizzato la donna, forza della natura e dell'eros, da vecchio inseguì (invano) un ideale di castità, quasi di ascetismo, considerava il sesso una contaminazione e i figli una prova abominevole della devianza umana dalla spiritualità. Nel primo autunno del nuovo secolo, in Crimea, confidò a Maksim Gor'kij che l'umanità è sì colpita da terremoti, epidemie, malattie, ma «in tutti i tempi la tragedia più dolorosa è stata e sarà la tragedia della camera da letto». Per Gor'kij, nessuno mai fu prigioniero della solitudine e del disprezzo più di quel vecchio scrittore, patriarca impaziente, profeta dell'amore universale.
giovannazucconi@libero.it
«storie orrorifiche, tutte scritte da donne»
La Stampa 6.1.04
SPETTRI, OSSESSIONI, VISIONI NOTTURNE, ANIMALI FANTASTICI: UN’ANTOLOGIA DI 48 STORIE ORRORIFICHE, TUTTE SCRITTE DA DONNE
di Carlo Fruttero
UN bel catafalco intensamente nero, con classiche decorazioni d'argento ai quattro angoli. E sotto, invece di una pesante bara, un pesante volume: Il grande libro dei fantasmi a cura di Richard Dalby. Sembra la pubblicità di una ditta di pompe funebri ma io trovo l'idea dell'editore (La Tartaruga) niente affatto lugubre e anzi spiritosa. Si può regalare una confezione del genere per la Befana? Altroché, e io stesso l'ho fatto (a persone adeguate, s'intende).
Ho goduto all'età di quindici anni del raro privilegio di aver paura dei fantasmi, in un contesto
[...]
Possono ancora «far paura» le storie di fantasmi? Dipende dall'età, molto dal silenzio che hai intorno (una sirena d'ambulanza, una moto strepitante sotto le tue finestre sono controindicate) e ovviamente dalla tua disponibilità meglio dire volontà, di farti spaventare. E poi dal valore delle storie, va da sé.
Questa luttuosa antologia ne presenta ben 48, di storie, ma né la copertina né i risvolti precisano che sono tutti scritti da donne, inglesi o americane. Non capisco bene perché la cosa non venga messa in evidenza: forse - si suppone - il pubblico sa già che i libri editi da La Tartaruga sono opera soltanto di donne. Ovvero - si teme - il maschilista conscio o inconscio sarebbe messo in sospetto, irritato, respinto da questo battaglione di scrittrici, come se vi leggesse tra le righe il canto rivendicativo delle operaie fin de siècle «sebben che siamo donne». Ma non pare plausibile, basti pensare che la massima rappresentante del genere orrorifico o «gotico» fu appunto una donna, Anne Radcliffe (1764-1822) che coi suoi Misteri di Udolfo diede l'avvio alla spettrale cavalcata verso Harry Potter, creatura di donna anche lui. E va ricordato che fino a un secolo fa il fantasma era bisex, si diceva anche «la fantasima».
[...]
Non ci sono fortunatamente tesi di nessun genere in questo Grande libro dei fantasmi. Ci sono nomi illustri, Charlotte Brontë nientemeno, e Edith Wharton, Rebecca West, Willa Cather, Ruth Rendell, Elisabeth Bowen, per citarne alcuni, ma non si può dire che le autrici meno note (in Italia) siano da meno, il livello generale della raccolta è alto. C'è anzi il piacere di scoprire un bellissimo racconto scritto da una perfetta sconosciuta. Dalle brevi biografie in appendice si apprende che quasi tutte queste scrittrici sono o sono state molto prolifiche, quasi tutte nel ramo più o meno «rosa». Staccandosi per un momento dal sentimentalismo di mestiere danno qui, parrebbe, il meglio di sé; non più orientata a far rotta sul matrimonio (o divorzio) finale, la loro prosa sempre competente, ora forbita, ora vivace, ora ansiosamente sospesa, ora sfrigolante nel buio come una miccia appena visibile, ci prepara alle apparizioni di rito.
[...]
Corre per tutti i racconti il filo sottile che divide chi «vede» da chi non vede, e naturalmente gli scettici, o piuttosto i «carnali» secondo la classificazione gnostica, sono puntualmente smentiti. [...]
SPETTRI, OSSESSIONI, VISIONI NOTTURNE, ANIMALI FANTASTICI: UN’ANTOLOGIA DI 48 STORIE ORRORIFICHE, TUTTE SCRITTE DA DONNE
di Carlo Fruttero
UN bel catafalco intensamente nero, con classiche decorazioni d'argento ai quattro angoli. E sotto, invece di una pesante bara, un pesante volume: Il grande libro dei fantasmi a cura di Richard Dalby. Sembra la pubblicità di una ditta di pompe funebri ma io trovo l'idea dell'editore (La Tartaruga) niente affatto lugubre e anzi spiritosa. Si può regalare una confezione del genere per la Befana? Altroché, e io stesso l'ho fatto (a persone adeguate, s'intende).
Ho goduto all'età di quindici anni del raro privilegio di aver paura dei fantasmi, in un contesto
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Possono ancora «far paura» le storie di fantasmi? Dipende dall'età, molto dal silenzio che hai intorno (una sirena d'ambulanza, una moto strepitante sotto le tue finestre sono controindicate) e ovviamente dalla tua disponibilità meglio dire volontà, di farti spaventare. E poi dal valore delle storie, va da sé.
Questa luttuosa antologia ne presenta ben 48, di storie, ma né la copertina né i risvolti precisano che sono tutti scritti da donne, inglesi o americane. Non capisco bene perché la cosa non venga messa in evidenza: forse - si suppone - il pubblico sa già che i libri editi da La Tartaruga sono opera soltanto di donne. Ovvero - si teme - il maschilista conscio o inconscio sarebbe messo in sospetto, irritato, respinto da questo battaglione di scrittrici, come se vi leggesse tra le righe il canto rivendicativo delle operaie fin de siècle «sebben che siamo donne». Ma non pare plausibile, basti pensare che la massima rappresentante del genere orrorifico o «gotico» fu appunto una donna, Anne Radcliffe (1764-1822) che coi suoi Misteri di Udolfo diede l'avvio alla spettrale cavalcata verso Harry Potter, creatura di donna anche lui. E va ricordato che fino a un secolo fa il fantasma era bisex, si diceva anche «la fantasima».
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Non ci sono fortunatamente tesi di nessun genere in questo Grande libro dei fantasmi. Ci sono nomi illustri, Charlotte Brontë nientemeno, e Edith Wharton, Rebecca West, Willa Cather, Ruth Rendell, Elisabeth Bowen, per citarne alcuni, ma non si può dire che le autrici meno note (in Italia) siano da meno, il livello generale della raccolta è alto. C'è anzi il piacere di scoprire un bellissimo racconto scritto da una perfetta sconosciuta. Dalle brevi biografie in appendice si apprende che quasi tutte queste scrittrici sono o sono state molto prolifiche, quasi tutte nel ramo più o meno «rosa». Staccandosi per un momento dal sentimentalismo di mestiere danno qui, parrebbe, il meglio di sé; non più orientata a far rotta sul matrimonio (o divorzio) finale, la loro prosa sempre competente, ora forbita, ora vivace, ora ansiosamente sospesa, ora sfrigolante nel buio come una miccia appena visibile, ci prepara alle apparizioni di rito.
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Corre per tutti i racconti il filo sottile che divide chi «vede» da chi non vede, e naturalmente gli scettici, o piuttosto i «carnali» secondo la classificazione gnostica, sono puntualmente smentiti. [...]
Neanderthal e Sapiens
ricerca e nuove ipotesi
Le Scienze 5.1.2004
Gli ultimi Neanderthal
Una teoria controversa suggerisce una promiscuità con gli umani moderni
Proprio nel periodo in cui si sono estinti e sono spariti dalle registrazioni fossili, i Neanderthal stavano disfandosi del proprio fisico robusto e stavano evolvendo nella direzione dei moderni esseri umani.
Alcuni nuovi resti identificati a Vindija, in Croazia, datati fra 42.000 e 38.000 anni fa, presenterebbero infatti tratti più "delicati" di quelli dei Neanderthal classici. Una spiegazione controversa potrebbe essere quella secondo cui questi Neanderthal si stavano ibridando con gli Homo sapiens presenti nella regione. Gli scavi hanno anche rivelato che i Neanderthal di Vindija stavano sviluppando metodi avanzati di fabbricazione di utensili in pietra, del tutto simili alle innovazioni esibite altrove dagli Homo sapiens. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista "Journal of Human Evolution".
I ricercatori hanno composto un cranio parziale di Neanderthal a partire da frammenti ritrovati nel sito, insieme a ossa di animali, negli strati di terreno risalenti a 42.000-38.000 anni fa. L'analisi del cranio sembra confermare l'ipotesi che i Neanderthal del luogo stessero passando a un'anatomia più "gracile", con una calotta cranica più simile a quella della nostra specie.
Lo studio è stato diretto da James Ahern dell'Università del Wyoming con la collaborazione di Ivor Jankovic dell'istituto di ricerca antropologica di Zagabria. Anche se i confronti fra il DNA mitocondriale di Neanderthal (Homo neanderthalensis) e degli umani moderni (Homo sapiens) non hanno mai rivelato segni di promiscuità fra le due popolazioni, Ahern è convinto che la sostituzione dei primi da parte dei secondi non sia stata un processo semplice ma il frutto di una dinamica molto complessa.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Gli ultimi Neanderthal
Una teoria controversa suggerisce una promiscuità con gli umani moderni
Proprio nel periodo in cui si sono estinti e sono spariti dalle registrazioni fossili, i Neanderthal stavano disfandosi del proprio fisico robusto e stavano evolvendo nella direzione dei moderni esseri umani.
Alcuni nuovi resti identificati a Vindija, in Croazia, datati fra 42.000 e 38.000 anni fa, presenterebbero infatti tratti più "delicati" di quelli dei Neanderthal classici. Una spiegazione controversa potrebbe essere quella secondo cui questi Neanderthal si stavano ibridando con gli Homo sapiens presenti nella regione. Gli scavi hanno anche rivelato che i Neanderthal di Vindija stavano sviluppando metodi avanzati di fabbricazione di utensili in pietra, del tutto simili alle innovazioni esibite altrove dagli Homo sapiens. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista "Journal of Human Evolution".
I ricercatori hanno composto un cranio parziale di Neanderthal a partire da frammenti ritrovati nel sito, insieme a ossa di animali, negli strati di terreno risalenti a 42.000-38.000 anni fa. L'analisi del cranio sembra confermare l'ipotesi che i Neanderthal del luogo stessero passando a un'anatomia più "gracile", con una calotta cranica più simile a quella della nostra specie.
Lo studio è stato diretto da James Ahern dell'Università del Wyoming con la collaborazione di Ivor Jankovic dell'istituto di ricerca antropologica di Zagabria. Anche se i confronti fra il DNA mitocondriale di Neanderthal (Homo neanderthalensis) e degli umani moderni (Homo sapiens) non hanno mai rivelato segni di promiscuità fra le due popolazioni, Ahern è convinto che la sostituzione dei primi da parte dei secondi non sia stata un processo semplice ma il frutto di una dinamica molto complessa.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
rilancio dell'Illuminismo
la biblioteca di Voltaire a San Pietroburgo 2
Corriere della Sera 6.1.04
Visita guidata alla biblioteca del filosofo francese acquistata nel 1778 dall’imperatrice Caterina II e che tra poco sarà accessibile al pubblico anche su Internet
Voltaire, il catalogo di San Pietroburgo
dal nostro inviato ARMANDO TORNO
(II parte, e ultima)
S. PIETROBURGO - Prima di entrare nella sala blindata della Biblioteca nazionale della Russia dove sono conservati i libri di Voltaire, di cui abbiamo dato ieri notizia, chi scrive ne ha cercato il catalogo. Detto così, sembra cosa normale; ma questo dannato repertorio, stampato nel 1961 dall’Accademia delle scienze dell’Urss e a cui hanno lavorato tre generazioni di bibliotecari, è introvabile. Su Internet, nulla. Un giro dagli antiquari: ancora nulla. Ne tirarono poche centinaia di copie, è un tomo di quasi 1200 pagine fittissime. A Oxford lo vedemmo, ma pensare di fotocopiarlo, per poi andarsene in giro con un simile malloppo, era impresa da scoraggiare anche un temerario. Ci siamo rivolti - lo confessiamo - a un personaggio singolare, di cui non riveleremo l’identità, conosciuto anni fa a Berlino e a cui siamo ricorsi per altre «grane» russe, quali le notizie sul tesoro di Priamo, le registrazioni inedite di Furtwängler, le foto sconosciute dell’Italia ottocentesca custodite a Mosca e cose simili. Ora vive a Bucarest in una di quelle case arredate con ogni comfort e costruite da Ceausescu per gli alti funzionari del partito comunista. La vecchia volpe russa capì subito come recuperarlo e chiese un mese di tempo. Poi un suo messaggio: «C’è». Ci disse di aver trovato il tomo a Los Angeles, presso un ex accademico ora «al servizio» degli americani. Ma non ci sembrò il caso di chiedere altro, perché quello era il vero biglietto d’ingresso alla Biblioteca di Voltaire, anche se ambasciatore e console d’Italia si sono attivati a suo tempo per ottenere il permesso.
Ora, non si creda che i libri del «Patriarca» siano dei tesori miniati o delle rarità tipografiche; quello che li rende preziosi sono le note che egli vi scrisse in margine e il fatto che siano stati il suo strumento di lavoro negli ultimi vent’anni di vita a Ferney. In tal caso, anche le mancanze sono significative: in un certo momento della vita è comprensibile che taluni autori vengano considerati superflui, altri indispensabili soltanto per qualche opera, altri ancora da riscoprire. Ma soprattutto a San Pietroburgo si può continuamente entrare nel laboratorio di Voltaire e capire in che biblioteca furono scritte opere fondamentali per la cultura europea quali il Trattato della tolleranza o il Dizionario filosofico. Non va sottovalutato nemmeno il fatto che i libri siano stati disposti così come li teneva il pensatore. Anche a un primo sguardo, l’occhio addestrato capisce cos’era per lui importante e cosa secondario, quali autori dovevano essere continuamente compulsati e quali aiutavano solo l’arredo.
Entriamo, dunque, limitandoci ad alcune considerazioni. Il numero dei libri, manoscritti compresi, è di 6.814, di cui circa 2 mila annotati da Voltaire. Le chiose sono una specie di «opera inedita» ed è in corso da un quarto di secolo la loro pubblicazione (Akademie-Verlag, Berlino; 5 volumi usciti, sino alla lettera M). Quel che fa specie è il fatto che di certi libri considerati oggi fondamentali non si trovi traccia. Ad esempio, di Aristotele vi sono soltanto la Poetica e la Retorica in due non importanti traduzioni francesi, manca la Metafisica. Non c’è Giordano Bruno né Campanella né Vico né i grandi dell’Umanesimo italiano come Pico della Mirandola o Lorenzo Valla. Non si sottovaluti però il Patriarca: di Platone ci sono due edizioni complete (una in francese e la classica di Marsilio Ficino), più altri volumi sparsi; Diogene Laerzio, allora indispensabile compendio per la filosofia antica, c’è in un’edizione del 1761. Poi i cervelli del momento: Hume nelle edizioni originali, l’antidogmatico John Toland, l’anticartesiano Locke e così di seguito, da Bacone e Shaftesbury, passando per Newton e Leibniz. Sant’Agostino, oltre a una raccolta di lettere e due di sermoni, lo troviamo con le opere fondamentali: Confessioni e Città di Dio. Tommaso d’Aquino, invece, non c’è.
Va detto che Bibbie, concordanze neotestamentarie, Padri della Chiesa, manuali per inquisitori e di storia sacra non mancano (viene in mente la sua battuta leggendo i dorsi: «Avete letto i Padri della Chiesa? Sì, ma me la pagheranno»). Un enigma può essere rappresentato dai testi italiani. Ve ne sono, sia chiaro, ma si nota qualche mancanza. Per fare ancora qualche esempio, c’è Dante con la sola Comedia (commentata da Cristoforo Landino) e Il Mattino di Parini, vi sono due volumi stampati a Bologna nel 1656 con le opere di Galileo e una dozzina di Francesco Algarotti. Alcuni libri italiani del catalogo manoscritto di Ferney qui non sono presenti, come le opere di Petrarca o l’Orlando Furioso di Ariosto. Il piccolo mistero sta per essere risolto proprio in questi giorni da Larissa Albina, collaboratrice della biblioteca, che ha scoperto nel «Fondo di Poligrafia» dell’immensa raccolta (dove confluirono anche i tomi di Diderot e degli zar) una cinquantina di titoli italiani. Il conservatore Kopanev fa una supposizione: Caterina II prelevò queste opere dagli scaffali di Voltaire per far insegnare l’italiano agli eredi al trono Alessandro (il futuro vincitore di Napoleone) e Costantino, poi non li rimise al loro posto. Tra gli ultimi ritrovati, ecco una miscellanea con versi di Frugoni e Bettinelli, quindi il Ricciardetto nell’edizione di Parigi 1738.
A riprova di questa supposizione, diremo che un libro di Diderot, Lettre sur la sculpture (Amsterdam 1769), è finito nel catalogo di Voltaire. Sulla copertina si legge il nome dell’antico proprietario ma evidentemente fu spostato a suo tempo da Caterina II, che considerava la raccolta di Diderot come sua personale; quindi lo ripose in quella di Voltaire, senza accorgersi. Insomma, questi libri venivano utilizzati dagli zar più di quanto si pensi.
La biblioteca di Voltaire custodisce l’anima dell’Illuminismo, anche se egli non fu autore di un particolare sistema. Senza di lui, tuttavia, il pensiero settecentesco perderebbe moltissimo del suo valore. Si supponeva che fosse stato re mentre Luigi XV sedeva sul trono, ma al di là delle battute il Patriarca resta l’ultimo letterato europeo che ebbe l’onore di avere regolare corrispondenza con sovrani quali Federico di Prussia o Caterina II, personaggi grandi in un mondo di giganti. Le lettere a d’Alembert o a Diderot, la visita di Gibbon a Ferney, il fatto che potesse pubblicare opere anonime ben sapendo che tutti le avrebbero poi attribuite a lui sono cose che ci fanno sobbalzare. Ma per Voltaire erano ordinaria amministrazione, tanto che si stupì quando Giuseppe II d’Austria, passando nei pressi di Ferney, non gli fece visita.
Ci sono altre biblioteche nella sua vita, a cominciare da quella che conobbe a dieci anni quando entrò al Collegio Louis-le-Grand. Era una raccolta eccellente, organizzata dai gesuiti. Ma dovremmo aggiungere quelle di Londra, dove visse tre anni (dal 1726) e dove imparò a detestare Shakespeare; e quelle di Berlino (altri tre anni dal 1750), dove poteva star seduto quando il re gli parlava.
Tra i suoi classici greci e latini, tra le sue infinite note, tra i tanti dizionari, tra i documenti conservati in quella sala blindata di San Pietroburgo la sua anima continua a vivere, a far sorridere il lettore che si sofferma su un margine, che apre un libro. Il suo corpo, invece, dopo quella fuga notturna di cui ieri abbiamo accennato e dopo l’imbalsamazione frettolosa, poté tornare a Parigi con tutti gli onori ed essere tumulato nel Panthéon. Era il 12 luglio 1791, la Rivoluzione aveva già due anni e chi subì guai per i veti ecclesiastici ora se li vedeva trasformati in titolo di merito. Restavano ancora cuore e cervello, organi che vengono tolti quando si cerca di imbalsamare un cadavere. Il primo finirà alla Biblioteca nazionale di Francia, il secondo alla Comédie Française. Il grande nemico delle reliquie diventava la reliquia laica più bramata dalle istituzioni.
All’appello dovremmo aggiungere le sue idee. Ma queste non sono conservate in un luogo particolare. A Pietroburgo si vedono in quei libri che lo accompagnarono per buona parte della vita, nel mondo non hanno mai smesso di circolare. Ogni uomo moderno ne ha utilizzata almeno una, nel bene e nel male.
(2- fine. La precedente puntata è stata pubblicata ieri)
Visita guidata alla biblioteca del filosofo francese acquistata nel 1778 dall’imperatrice Caterina II e che tra poco sarà accessibile al pubblico anche su Internet
Voltaire, il catalogo di San Pietroburgo
dal nostro inviato ARMANDO TORNO
(II parte, e ultima)
S. PIETROBURGO - Prima di entrare nella sala blindata della Biblioteca nazionale della Russia dove sono conservati i libri di Voltaire, di cui abbiamo dato ieri notizia, chi scrive ne ha cercato il catalogo. Detto così, sembra cosa normale; ma questo dannato repertorio, stampato nel 1961 dall’Accademia delle scienze dell’Urss e a cui hanno lavorato tre generazioni di bibliotecari, è introvabile. Su Internet, nulla. Un giro dagli antiquari: ancora nulla. Ne tirarono poche centinaia di copie, è un tomo di quasi 1200 pagine fittissime. A Oxford lo vedemmo, ma pensare di fotocopiarlo, per poi andarsene in giro con un simile malloppo, era impresa da scoraggiare anche un temerario. Ci siamo rivolti - lo confessiamo - a un personaggio singolare, di cui non riveleremo l’identità, conosciuto anni fa a Berlino e a cui siamo ricorsi per altre «grane» russe, quali le notizie sul tesoro di Priamo, le registrazioni inedite di Furtwängler, le foto sconosciute dell’Italia ottocentesca custodite a Mosca e cose simili. Ora vive a Bucarest in una di quelle case arredate con ogni comfort e costruite da Ceausescu per gli alti funzionari del partito comunista. La vecchia volpe russa capì subito come recuperarlo e chiese un mese di tempo. Poi un suo messaggio: «C’è». Ci disse di aver trovato il tomo a Los Angeles, presso un ex accademico ora «al servizio» degli americani. Ma non ci sembrò il caso di chiedere altro, perché quello era il vero biglietto d’ingresso alla Biblioteca di Voltaire, anche se ambasciatore e console d’Italia si sono attivati a suo tempo per ottenere il permesso.
Ora, non si creda che i libri del «Patriarca» siano dei tesori miniati o delle rarità tipografiche; quello che li rende preziosi sono le note che egli vi scrisse in margine e il fatto che siano stati il suo strumento di lavoro negli ultimi vent’anni di vita a Ferney. In tal caso, anche le mancanze sono significative: in un certo momento della vita è comprensibile che taluni autori vengano considerati superflui, altri indispensabili soltanto per qualche opera, altri ancora da riscoprire. Ma soprattutto a San Pietroburgo si può continuamente entrare nel laboratorio di Voltaire e capire in che biblioteca furono scritte opere fondamentali per la cultura europea quali il Trattato della tolleranza o il Dizionario filosofico. Non va sottovalutato nemmeno il fatto che i libri siano stati disposti così come li teneva il pensatore. Anche a un primo sguardo, l’occhio addestrato capisce cos’era per lui importante e cosa secondario, quali autori dovevano essere continuamente compulsati e quali aiutavano solo l’arredo.
Entriamo, dunque, limitandoci ad alcune considerazioni. Il numero dei libri, manoscritti compresi, è di 6.814, di cui circa 2 mila annotati da Voltaire. Le chiose sono una specie di «opera inedita» ed è in corso da un quarto di secolo la loro pubblicazione (Akademie-Verlag, Berlino; 5 volumi usciti, sino alla lettera M). Quel che fa specie è il fatto che di certi libri considerati oggi fondamentali non si trovi traccia. Ad esempio, di Aristotele vi sono soltanto la Poetica e la Retorica in due non importanti traduzioni francesi, manca la Metafisica. Non c’è Giordano Bruno né Campanella né Vico né i grandi dell’Umanesimo italiano come Pico della Mirandola o Lorenzo Valla. Non si sottovaluti però il Patriarca: di Platone ci sono due edizioni complete (una in francese e la classica di Marsilio Ficino), più altri volumi sparsi; Diogene Laerzio, allora indispensabile compendio per la filosofia antica, c’è in un’edizione del 1761. Poi i cervelli del momento: Hume nelle edizioni originali, l’antidogmatico John Toland, l’anticartesiano Locke e così di seguito, da Bacone e Shaftesbury, passando per Newton e Leibniz. Sant’Agostino, oltre a una raccolta di lettere e due di sermoni, lo troviamo con le opere fondamentali: Confessioni e Città di Dio. Tommaso d’Aquino, invece, non c’è.
Va detto che Bibbie, concordanze neotestamentarie, Padri della Chiesa, manuali per inquisitori e di storia sacra non mancano (viene in mente la sua battuta leggendo i dorsi: «Avete letto i Padri della Chiesa? Sì, ma me la pagheranno»). Un enigma può essere rappresentato dai testi italiani. Ve ne sono, sia chiaro, ma si nota qualche mancanza. Per fare ancora qualche esempio, c’è Dante con la sola Comedia (commentata da Cristoforo Landino) e Il Mattino di Parini, vi sono due volumi stampati a Bologna nel 1656 con le opere di Galileo e una dozzina di Francesco Algarotti. Alcuni libri italiani del catalogo manoscritto di Ferney qui non sono presenti, come le opere di Petrarca o l’Orlando Furioso di Ariosto. Il piccolo mistero sta per essere risolto proprio in questi giorni da Larissa Albina, collaboratrice della biblioteca, che ha scoperto nel «Fondo di Poligrafia» dell’immensa raccolta (dove confluirono anche i tomi di Diderot e degli zar) una cinquantina di titoli italiani. Il conservatore Kopanev fa una supposizione: Caterina II prelevò queste opere dagli scaffali di Voltaire per far insegnare l’italiano agli eredi al trono Alessandro (il futuro vincitore di Napoleone) e Costantino, poi non li rimise al loro posto. Tra gli ultimi ritrovati, ecco una miscellanea con versi di Frugoni e Bettinelli, quindi il Ricciardetto nell’edizione di Parigi 1738.
A riprova di questa supposizione, diremo che un libro di Diderot, Lettre sur la sculpture (Amsterdam 1769), è finito nel catalogo di Voltaire. Sulla copertina si legge il nome dell’antico proprietario ma evidentemente fu spostato a suo tempo da Caterina II, che considerava la raccolta di Diderot come sua personale; quindi lo ripose in quella di Voltaire, senza accorgersi. Insomma, questi libri venivano utilizzati dagli zar più di quanto si pensi.
La biblioteca di Voltaire custodisce l’anima dell’Illuminismo, anche se egli non fu autore di un particolare sistema. Senza di lui, tuttavia, il pensiero settecentesco perderebbe moltissimo del suo valore. Si supponeva che fosse stato re mentre Luigi XV sedeva sul trono, ma al di là delle battute il Patriarca resta l’ultimo letterato europeo che ebbe l’onore di avere regolare corrispondenza con sovrani quali Federico di Prussia o Caterina II, personaggi grandi in un mondo di giganti. Le lettere a d’Alembert o a Diderot, la visita di Gibbon a Ferney, il fatto che potesse pubblicare opere anonime ben sapendo che tutti le avrebbero poi attribuite a lui sono cose che ci fanno sobbalzare. Ma per Voltaire erano ordinaria amministrazione, tanto che si stupì quando Giuseppe II d’Austria, passando nei pressi di Ferney, non gli fece visita.
Ci sono altre biblioteche nella sua vita, a cominciare da quella che conobbe a dieci anni quando entrò al Collegio Louis-le-Grand. Era una raccolta eccellente, organizzata dai gesuiti. Ma dovremmo aggiungere quelle di Londra, dove visse tre anni (dal 1726) e dove imparò a detestare Shakespeare; e quelle di Berlino (altri tre anni dal 1750), dove poteva star seduto quando il re gli parlava.
Tra i suoi classici greci e latini, tra le sue infinite note, tra i tanti dizionari, tra i documenti conservati in quella sala blindata di San Pietroburgo la sua anima continua a vivere, a far sorridere il lettore che si sofferma su un margine, che apre un libro. Il suo corpo, invece, dopo quella fuga notturna di cui ieri abbiamo accennato e dopo l’imbalsamazione frettolosa, poté tornare a Parigi con tutti gli onori ed essere tumulato nel Panthéon. Era il 12 luglio 1791, la Rivoluzione aveva già due anni e chi subì guai per i veti ecclesiastici ora se li vedeva trasformati in titolo di merito. Restavano ancora cuore e cervello, organi che vengono tolti quando si cerca di imbalsamare un cadavere. Il primo finirà alla Biblioteca nazionale di Francia, il secondo alla Comédie Française. Il grande nemico delle reliquie diventava la reliquia laica più bramata dalle istituzioni.
All’appello dovremmo aggiungere le sue idee. Ma queste non sono conservate in un luogo particolare. A Pietroburgo si vedono in quei libri che lo accompagnarono per buona parte della vita, nel mondo non hanno mai smesso di circolare. Ogni uomo moderno ne ha utilizzata almeno una, nel bene e nel male.
(2- fine. La precedente puntata è stata pubblicata ieri)
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