tre articoli ricevuti da Roberta Mancini
Notiziario Cellule Staminali dell'Aduc http://staminali.aduc.it
Anno III Numero 77 del 24 Dicembre 2004
Usa. Il diritto alla dignità prenatale non costituisce diritto alla vita
Cinzia Colosimo
Non è solo dai banchi del Parlamento che si fa politica. La si fa ogni giorno, dissacrando o innalzando le proprie convinzioni, lottando o tacendo, e soprattutto utilizzando i mezzi giuridici a disposizione delle democrazie per combattere determinati provvedimenti.
Negli Usa, così come in molti altri Paesi, la voce della magistratura produce sempre una particolare risonanza: per coloro che parlano in nome della legge la distinzione fra giusto e sbagliato non è solo una questione di prospettiva, ma di vera e propria res-publica. Quando un giudice parla ci si aspetta che lo faccia per ?scrostare? i colori politici da un problema e analizzarne il succo partendo dal punto di vista meno ?umano? che esista: quello legale. A volte, per fortuna, è così, e dagli Usa proprio in questi giorni è arrivata una notizia che può solo rincuorare.
Una Corte d?Appello federale si è rifiutata di riaprire una causa, archiviata dal 1999, sulla presunta incostituzionalità della ricerca con le cellule staminali embrionali.
Il caso e? stato sottoposto alla corte da un?associazione che si batte per i diritti ?alla vita?, e che intendeva riportare alla luce la questione del diritto alla vita esteso anche ai cosiddetti pre-nati. La National Association for the Advancement of Preborn Children si e? presentata in aula come rappresentate di ?Mary Doe?, il nome fittizio dato ai 400.000 embrioni congelati nelle cliniche per la sterilità. Rudolph Palmer, portavoce e fondatore dell?associazione ha esordito il suo discorso dicendo: «Mary Doe è in quest?aula e vi sta dicendo "sono viva, sono sopravvissuta. La ricerca sulle cellule staminali sta uccidendo mio fratello e mia sorella, e toccherà anche a me dopo di loro. Ho gli stessi diritti degli altri cittadini americani e questa corte ha il dovere di proteggermi"».
La Corte d?Appello del 4° distretto Usa ha risposto, per bocca dei tre giudici che la compongono: «Ci opponiamo alle considerazioni etiche sulla ricerca su embrioni, perché l?attuale legge prende in considerazione solo le linee embrionali create prima del 2001. Mary Doe quindi non rientra nel testo in vigore. C'è da dire inoltre che dal cambiamento politico messo in atto dal presidente Bush dopo l?amministrazione Clinton, il tema è ancora in discussione in Parlamento e occorre attendere esiti politici da quella sede».
La Corte ha poi ricordato che dal 1999, quando è nato il caso Palmer, la National Bioethics Advisory Committee ha redatto delle linee guida per la ricerca che prevedevano esplicitamente la ricerca su embrioni inutilizzati. E nel 2000 lo stesso National Institute of Health ha adottato quelle linee guida, pur non applicandole mai. Per Palmer il comportamento dei giudici è stato scontato quanto inadatto: si sono limitati infatti a dare una valutazione tecnico-giuridica sulla faccenda, evitando di entrare in questioni morali lasciandole alla competenza politica. Ma la corte non ha esitato a esprimere il proprio parere, infatti in più occasioni tutti e tre i membri hanno espresso la convinzione che «un grumo di cellule non può essere considerato un essere umano e godere degli stessi diritti».
Questo atteggiamento è stato lodato da molti ricercatori e scienziati. Per loro ha parlato Sean Tipton della Coalition for the Advancement of Medical Research, secondo il quale «la corte ha fatto la cosa giusta. Non esponendosi ha dato modo alla legge di esprimersi da sola, evitando così manierismi intellettuali inutili. Siamo contenti che esistano ancora persone che si fidano della ricerca e temono ostacoli moralisti», che, aggiungiamo noi, danno solo libero sfogo ad un?etica del sacrificio più che mai inattuale.
Notiziario Cellule Staminali dell'Aduc
Anno IV Numero 79 del 21 Gennaio 2005
Italia. Rita Levi Montalcini: la ricerca sugli embrioni potrà aiutare molto
«Non c'e' nessun rischio che dalla ricerca sugli embrioni possano venire un giorno dei "bebè alla carta", mentre è positiva l'apertura alla ricerca sugli embrioni condotta a scopi terapeutici, cosi' come ha fatto la Gran Bretagna». Lo ha detto il Nobel Rita Levi Montalcini, incontrando studenti e medici del Policlinico Gemelli e dell'Università Cattolica di Roma in un dibattito sulla Scienza, lo scorso 12 gennaio.
Qualsiasi paura della scienza non può che basarsi sull'ignoranza, ha detto una Montalcini decisamente in forma. «Credo che la scienza sia stata sul banco degli imputati non per sue colpe, ma per ignoranza». Così, secondo il Nobel, una condanna della ricerca sugli embrioni dettata dalla paura della clonazione a scopo riproduttivo non ha senso.
«Personalmente ritengo che la ricerca sugli embrioni potrà aiutare molto. Credo per questo che sia corretta l'apertura della Gran Bretagna alla ricerca sugli embrioni». Non c'è nessun pericolo che da questa ricerca possano derivare dei bambini su misura.
Notiziario Cellule Staminali dell'Aduc
CELLULE STAMINALI EMBRIONALI
PER CHI AVESSE QUALCHE DUBBIO SULLA LORO EFFICACIA, LA RISPOSTA ARRIVA DALLE AVANZATISSIME RICERCHE DELL'ADVANCED CELL TECHONOLOGY CHE STA RIGENERANDO LA RETINA DELL'OCCHIO
Vincenzo Donvito, presidente Aduc
Firenze, 24 settembre 2004. La cecità potrebbe essere curata con l'uso delle cellule staminali embrionali. Grazie alle avanzatissime ricerche della "Advanced Cell Technology (Act) del Massachusetts, come dice il suo direttore Robert Lanza, «è la prima volta che da cellule staminali embrionali ne derivano cellule retinali. Crediamo che queste nuove cellule possano essere utilizzate per trattare la cecita».
C?è da ricordare che le cellule staminali embrionali usate da questa azienda biotech, sono quelle che, in un mare di polemiche a livello internazionale, lo scorso aprile sono state messe gratuitamente a disposizione per la ricerca dall'Harvard University di Cambridge (Massachusetts), grazie a fondi privati.
Non si tratta di cantare vittoria, ma solo di capire razionalmente che cosa voglia dire "cellule staminali embrionali", cioè quelle cellule la cui ricerca nel nostro Paese è vietata dalla legge sulla fecondazione assistita e che, in Gran Bretagna, sono uno dei fiori all'occhiello della politica di ricerca medica del Governo Blair.
E questo è uno solo dei molti usi che la tecnologia delle cellule staminali embrionali potrà avere. Poco più di un mese fa, sempre cellule staminali embrionali hanno dato origine a cellule del cervello in grado di produrre dopamina, che è la sostanza che viene a mancare nei malati di Parkinson (studio di Lorenz Studer, pubblicato sulla rivista Pnas).
Il problema, per l'appunto, sta tutto nel mettere a disposizione leggi e soldi pubblici per poterla sviluppare, nonché stimolare i privati ad investirvi.
L'occasione in Italia, dove nel settore cellule staminali non mancano competenze e teste (per ora concentrate solo sulle staminali adulte, molto più limitate), è data dal referendum in cui in questi giorni si stanno giocando le ultime battute per abrogare la legge che impedisce la ricerca in materia.
Questa ricerca dell'Act è la speranza: razionale, concreta e con prospettive.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 27 gennaio 2005
il governo spagnolo
un buon esempio: Zapatero non si inginocchia
ANSA.it
Spagna-Vaticano: Madrid convoca il nunzio apostolico Per esprimere "meraviglia" dopo le parole papa sul "laicismo"
(ANSA) - MADRID, 26 GEN - Il governo spagnolo ha convocato il nunzio apostolico per esprimergli "meraviglia" per le parole del papa su "un presunto laicismo". Il nunzio, mons. Monteiro, è stato ricevuto dal sottosegretario Calvo Merino. Nel corso dell'incontro "il governo spagnolo ha espresso al nunzio la sua meraviglia per il riferimento ad un presunto laicismo restrittivo capace di limitare la libertà religiosa e che possa essere attribuito ad un atteggiamento deliberato del governo".
Corriere della Sera 27.1.05
Dopo le critiche vaticane al «laicismo»
Il governo di Madrid convoca il nunzio «Sorpresi dal Papa»
Mino Vignolo
MADRID - Diventa ancor più aspra, invece di placarsi, la contesa fra la Chiesa cattolica e il governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero. Gli attacchi e i contrattacchi verbali si susseguono, nonostante le profferte di «rispetto». E ieri sera la disputa è salita ufficialmente al piano diplomatico quando il ministero degli Esteri spagnolo ha convocato il nunzio apostolico a Madrid per esprimergli la propria «meraviglia» a causa dei riferimenti fatti dal Papa ad un «presunto laicismo» istigato dal governo Zapatero con le sue riforme su divorzio, matrimonio gay, insegnamento della religione nelle scuole. È un «laicismo» che, secondo i vescovi iberici e la Santa Sede, potrebbe portare a restrizioni della «libertà religiosa». Giovanni Paolo II aveva anche dichiarato che la Spagna sta promuovendo «il disprezzo o l’ignoranza verso il fatto religioso, relegando la fede nella sfera privata ed opponendosi alla sua espressione pubblica».
Queste parole erano state criticate dal governo di Madrid che aveva invitato la Chiesa alla non ingerenza nella sfera pubblica («Il governo spagnolo non è il predicatore della cristianità», ha detto il ministro della Difesa, José Bono) ma evidentemente ieri si è pensato di elevare la protesta ad un gradino più elevato. Ed è stato convocato il nunzio Manuel Monteiro de Castro nella sede del ministero degli Esteri dove ad attenderlo vi era il sottosegretario agli Esteri, Luis Calvo Merino, che, come no, ha ribadito la volontà del suo governo di «mantenere una fruttifera intesa con la Chiesa» ma fondata «sul rispetto profondo nell'ambito delle competenze che gli accordi fra Spagna e Santa Sede riconoscono ad entrambe le parti».
La convocazione del nunzio è arrivata a sorpresa, al termine di una giornata in cui sembrava avere messo la parola fine alla disputa, almeno per il momento, il premier Zapatero che sulla questione dei rapporti con la Chiesa si è espresso per la prima volta dopo il discorso del Papa. Il capo del governo, dall'Argentina dove si trova in visita, ha sottolineato che la Spagna «attraversa oggi il momento di maggiore libertà religiosa, ideologica, politica di tutta la sua storia». Riconosce al Pontefice «il diritto di esprimere la sua opinione su quel che fanno i vari governi, di qualsiasi orientamento siano, ma qualsiasi spagnolo può considerare come sia forse esagerato dire che in Spagna vi sia un problema di libertà religiosa».
Spagna-Vaticano: Madrid convoca il nunzio apostolico Per esprimere "meraviglia" dopo le parole papa sul "laicismo"
(ANSA) - MADRID, 26 GEN - Il governo spagnolo ha convocato il nunzio apostolico per esprimergli "meraviglia" per le parole del papa su "un presunto laicismo". Il nunzio, mons. Monteiro, è stato ricevuto dal sottosegretario Calvo Merino. Nel corso dell'incontro "il governo spagnolo ha espresso al nunzio la sua meraviglia per il riferimento ad un presunto laicismo restrittivo capace di limitare la libertà religiosa e che possa essere attribuito ad un atteggiamento deliberato del governo".
Corriere della Sera 27.1.05
Dopo le critiche vaticane al «laicismo»
Il governo di Madrid convoca il nunzio «Sorpresi dal Papa»
Mino Vignolo
MADRID - Diventa ancor più aspra, invece di placarsi, la contesa fra la Chiesa cattolica e il governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero. Gli attacchi e i contrattacchi verbali si susseguono, nonostante le profferte di «rispetto». E ieri sera la disputa è salita ufficialmente al piano diplomatico quando il ministero degli Esteri spagnolo ha convocato il nunzio apostolico a Madrid per esprimergli la propria «meraviglia» a causa dei riferimenti fatti dal Papa ad un «presunto laicismo» istigato dal governo Zapatero con le sue riforme su divorzio, matrimonio gay, insegnamento della religione nelle scuole. È un «laicismo» che, secondo i vescovi iberici e la Santa Sede, potrebbe portare a restrizioni della «libertà religiosa». Giovanni Paolo II aveva anche dichiarato che la Spagna sta promuovendo «il disprezzo o l’ignoranza verso il fatto religioso, relegando la fede nella sfera privata ed opponendosi alla sua espressione pubblica».
Queste parole erano state criticate dal governo di Madrid che aveva invitato la Chiesa alla non ingerenza nella sfera pubblica («Il governo spagnolo non è il predicatore della cristianità», ha detto il ministro della Difesa, José Bono) ma evidentemente ieri si è pensato di elevare la protesta ad un gradino più elevato. Ed è stato convocato il nunzio Manuel Monteiro de Castro nella sede del ministero degli Esteri dove ad attenderlo vi era il sottosegretario agli Esteri, Luis Calvo Merino, che, come no, ha ribadito la volontà del suo governo di «mantenere una fruttifera intesa con la Chiesa» ma fondata «sul rispetto profondo nell'ambito delle competenze che gli accordi fra Spagna e Santa Sede riconoscono ad entrambe le parti».
La convocazione del nunzio è arrivata a sorpresa, al termine di una giornata in cui sembrava avere messo la parola fine alla disputa, almeno per il momento, il premier Zapatero che sulla questione dei rapporti con la Chiesa si è espresso per la prima volta dopo il discorso del Papa. Il capo del governo, dall'Argentina dove si trova in visita, ha sottolineato che la Spagna «attraversa oggi il momento di maggiore libertà religiosa, ideologica, politica di tutta la sua storia». Riconosce al Pontefice «il diritto di esprimere la sua opinione su quel che fanno i vari governi, di qualsiasi orientamento siano, ma qualsiasi spagnolo può considerare come sia forse esagerato dire che in Spagna vi sia un problema di libertà religiosa».
Su Avvenimenti n°3 21-27 gennaio
Bambina provetta
Niente accordicchi parlamentari. Sulla fecondazione assistita quattro si al referendum.
di Simona Maggiorelli
Bambina provetta. Semplicemente sana. Con una nascita che la rende uguale e con le stesse possibilità di partenza, fisiche e psichiche, di tutti gli altri bambini. Non esattamente bionda con occhi azzurri o progettata pezzo a pezzo secondo i desideri astratti di papà e mamma. Semplicemente una bambina o un bambino che, nonostante i genitori siano portatori di malattie genetiche, grazie alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita con cui è stata concepita, potrà avere una vita normale. Tecniche che in Italia, dal 19 febbraio scorso, sono regimate dalla legge 40, che - unica in Europa con queste restrizioni - proibisce a una coppia sterile di ricevere gameti da donatori e alle coppie portatrici di malattie genetiche, la diagnosi pre-impianto. Ma proibisce anche la conservazione e la ricerca sugli embrioni e obbliga la madre a ricevere un numero fisso di tre embrioni, sani o malati che siano. "Apparentemente creando un piano di uguaglianza, fra embrione e madre. Di fatto, già all'articolo 1 è l'embrione a dettare le condizioni, pur essendo, non dimentichiamolo, ancora solo una potenzialità", ricorda la senatrice Ds Vittoria Franco, che proprio su questa delicata materia sta per pubblicare un libro per Donzelli.
Così come, secondo la discussa legge 40, la donna che è ricorsa alle tecniche in vitro non può rifiutare l’impianto dell’embrione, anche se malato. Semmai dopo il concepimento potrà scegliere di abortire.
"Tanto varrebbe allora, permettere la diagnosi preimpianto dell’embrione, piuttosto che arrivare a sopprimere un feto", commenta la senatrice della Lega Nord Rossana Boldi che, diversamente dai cattolici del centrodestra e della Margherita, ha scelto di votare no alla legge. "Anch’io sono cattolica - precisa -. Ma in casi di questo genere non posso obbligare un’ altra persona a non fare ciò che io non farei". E dopo che la Corte Costituzionale ha riconosciuto la validità di quattro quesiti referendari su cinque, sottolinea con vigore: "L’importante è che non si mescolino le carte, che non si raccontino storie alla gente. Sono un medico e so che non è vero che i portatori di malattie genetiche che desiderano mettere al mondo dei bambini sani vogliano fare dell’eugenetica. Semplicemente conoscono la gravità della propria patologia. Nel caso di talassemici, per esempio, sanno che i loro bambini nella migliore delle ipotesi dovranno sottoporsi a trattamenti per tutta la vita. E che, una volta diventati grandi, si troverebbero davanti al medesimo destino di dover mettere al mondo figli malati". E sul capitolo di legge che obbliga la donna a far sviluppare e farsi impiantare tre embrioni, dice: "una clausola che nega il rapporto di valutazione strettissima che ogni paziente deve avere con il proprio medico. Ogni caso è diverso dall’altro. Una ventenne alla qual vengano impiantati tre embrioni ha molte possibilità di andare incontro a un parto plurigemellare; per una quarantenne è probabile che nemmeno tre siano sufficienti. E ripartire, ogni volta, con un nuovo ciclo di stimolazione ormonale non è senza danno. Oppure mettiamo il caso di una grave
sterilità maschile, non è possibile procedere al prelievo di spermatozoi più e più volte". Insomma per la senatrice leghista, come per altri
liberal della maggioranza, non basterebbe un leggero maquillage alla legge. "Occorrono cambiamenti di sostanza - ribadisce -. E la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del quesito totalmente abrogativo, per quanto renda più difficile le cose per il cittadino, stana chi nel centrodestra ha votato questa legge ob torto collo, seguendo ordini di scuderia". Affermazioni forti che si aggiungono alle denunce del centrosinistra su un iter legislativo blindato. "Diciamo la verità - incalza la senatrice capogruppo del Carroccio in commissione Sanità del Senato - non è poi così vero che questa legge sia stata approvata da una larghissima maggioranza convinta di
quello che stava facendo. Al momento del voto a molti è stato detto: meglio una cattiva legge che nessuna legge. In aula il senatore Cursi ha espresso parere negativo sugli emendamenti. Con un pronunciamento di questo genere da parte del governo, era difficile per noi votare contro la legge". Insomma, lascia intendere la senatrice Boldi, in accordo con molti suoi autorevoli colleghi medici e scienziati: sul dibattito sulla fecondazione assistita pesano ancora troppo oscurantismo e ignoranza. Ma anche i diktat del Vaticano. "Che ci sia una campagna in atto da parte della Chiesa è indubitabile - commenta Maura Cossutta dei Comunisti Italiani -. Il fatto stesso che il Papa, accogliendo i diplomatici, abbia lanciato come primo tema la difesa dell’embrione, ne è la dimostrazione. E la sua campagna ha trovato robusti appoggi nei nostri organi istituzionali". Così l’ostentata liberalità di Berlusconi che oggi concede ai suoi libertà di coscienza e di voto, va a braccetto con le manovre di Gianni Letta, che, per lanciare un segnale al Vaticano, ha fatto in modo che il governo si presentasse alla Corte perché dichiarasse inammissibili i quesiti referendari. "La Consulta ha preso una decisione politica gravissima - denuncia il segretario dei Radicali Italiani Daniele Capezzone -, spazzando via il pericolo del quesito totalmente abrogativo, l’unico quesito che avrebbe permesso davvero di fare chiarezza. E così facendo ha aperto la strada a leggi e leggine che potrebbero svuotare dall’interno il senso del referendum, magari lasciando in piedi solo il quesito che riguarda la fecondazione eterologa, tema accettato solo dai laici". Maggioranza e prodiani, intanto, fanno da opposte sponde i medesimi scongiuri perché non si arrivi al referendum, puntando su accordi parlamentari dell'ultima ora (sono ben sette i disegni di legge in discussione, da quello diessino di Angius, a quello targato Forza Italia firmato da Tomassini e Bianconi, passando per l'ecumenico Amato), ma anche sul non raggiungimento del quorum pigiando l’acceleratore sull’astensionismo, già più volte auspicato dal Cardinal Ruini. "Storicamente la paura della scienza è sempre stata sfruttata dal potere e dalle gerarchie ecclesiastiche. Salvo poi sentirsi dire dopo 500 anni che Galileo è stato assoluto, ma il progresso scientifico non può essere fermato - commenta la senatrice Cinzia Dato, esponente dell’area laica della Margherita -. Spero che il paese non si lasci scappare l’occasione del referendum. Che lo utilizzi per un confronto pubblico aperto sui temi della scienza e della libertà di ricerca".
"Uno degli aspetti più controversi di questa legge davvero inaccettabile - attacca la Dato - è che implicitamente tenta di normare la ricerca, cioè aree molto più vaste di quelle di quelle dichiarate nelle intenzioni". In pratica la legge 40 lo fa vietando la conservazione degli embrioni e dicendo no alla ricerca su quelli conservati in celle frigorifere (In Italia sono circa 31mila). "Perché aspettare che vengano gettati in un lavandino? - domanda la senatrice della Margherita - proprio quando la scienza sta dimostrando che le cellule staminali di origine embrionale servono alla cura di molti tipi di malattie oggi incurabili. Prendiamo il caso dei trapianti, la Chiesa li ammette. Ma sappiamo anche che in India c’è chi si vende reni e cornee. Sappiamo anche che in Brasile e in altri paesi bambini vengono rapiti e uccisi perché esiste un mercato illegale di organi. Allora perché chiudere gli occhi di fronte a tutto questo in nome della sacralità dell’embrione? E proprio in un momento in cui attraverso cellule staminali embrionali si potrebbero sviluppare tecniche di autotrapianto?". "Per far ripartire la ricerca, ma anche per tutelare i diritti delle donne - dice Maura Cossutta dei Comunisti Italiani - il primo obiettivo, ora, è l’abrogazione dell’articolo 1 della legge 40, che tutela i diritti dell’embrione. Così si smantella tutto l’impianto della legge da cui promanano tutti i divieti, all’eterologa, al congelamento per la conservazione, il divieto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali". E aggiunge: "Da medico so che, per quanto sia utile la ricerca sulle staminali adulte e dal cordone in particolare, molto più si può ottenere dalle ricerche sulle staminali embrionali perché più plastiche, con grande capacità di moltiplicarsi e soprattutto, essendo ancora indifferenziate, con la possibilità di poter essere utilizzate nella cura di organi differenti". Anche per questo l’informazione è il primo obiettivo annunciato dal comitato referendario per i sì ai quattro quesiti. Remando contro la scarsa collaborazione dimostrata fin qui dalla tv, a cui ora si aggiunge la spada di Damocle degli acting out di Celentano. "Non serve stare a parlare di filosofia - rilancia Maura Cossutta, in polemica con Paolo Prodi e i suoi richiami ad Habermas -. in questa campagna serve molto di più partire dalle esperienze concrete, dar voce alle associazioni di malati. Con questa assurda legge non si può negare loro possibilità di cura". E non solo. Bisogna avere il coraggio di parlare di valori come la libertà, la responsabilità delle persone la laicità dello Stato. "Perché non è affatto vero - conclude la parlamentare del PdCI - che i laici siano ideologici e i cattolici etici". A questi stessi temi di grande respiro si richiama anche Elettra Deiana, parlamentare di Rifondazione Comunista. "Credo che la campagna referendaria debba fare perno su questi temi. E che debbano entrare già nella discussione politica delle regionali. Perché - aggiunge - la battaglia contro la legge 40 non è un fatto marginale, ma una questione di civiltà". E non può aspettare. "Le grandi manovre per accordi di piccolo cabotaggio sono già cominciate", avverte Deiana. Una preoccupazione condivisa dalla gran parte delle forze che compongono il comitato referendario. "La decisione della Corte Costituzionale - dice Deiana - toglie lo strumento più efficace per dire no questa legge". "Una legge che - ribadisce - è in alcun modo emendabile, perché il suo impianto complessivo è antidemocratico, incostituzionale, lesivo dei diritti fondamentali". Una legge che apre la strada a un pericolo ulteriore: la messa in discussione della legge 194. "Già la maggioranza ne parla esplicitamente in parlamento e sui giornali - avverte Deiana - e non attraverso figure minori, ma per bocca di Buttiglione, di un ministro che, in quanto tale, dovrebbe garantire la legalità della Repubblica attraverso il rispetto delle sue leggi".
Bambina provetta
Niente accordicchi parlamentari. Sulla fecondazione assistita quattro si al referendum.
di Simona Maggiorelli
Bambina provetta. Semplicemente sana. Con una nascita che la rende uguale e con le stesse possibilità di partenza, fisiche e psichiche, di tutti gli altri bambini. Non esattamente bionda con occhi azzurri o progettata pezzo a pezzo secondo i desideri astratti di papà e mamma. Semplicemente una bambina o un bambino che, nonostante i genitori siano portatori di malattie genetiche, grazie alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita con cui è stata concepita, potrà avere una vita normale. Tecniche che in Italia, dal 19 febbraio scorso, sono regimate dalla legge 40, che - unica in Europa con queste restrizioni - proibisce a una coppia sterile di ricevere gameti da donatori e alle coppie portatrici di malattie genetiche, la diagnosi pre-impianto. Ma proibisce anche la conservazione e la ricerca sugli embrioni e obbliga la madre a ricevere un numero fisso di tre embrioni, sani o malati che siano. "Apparentemente creando un piano di uguaglianza, fra embrione e madre. Di fatto, già all'articolo 1 è l'embrione a dettare le condizioni, pur essendo, non dimentichiamolo, ancora solo una potenzialità", ricorda la senatrice Ds Vittoria Franco, che proprio su questa delicata materia sta per pubblicare un libro per Donzelli.
Così come, secondo la discussa legge 40, la donna che è ricorsa alle tecniche in vitro non può rifiutare l’impianto dell’embrione, anche se malato. Semmai dopo il concepimento potrà scegliere di abortire.
"Tanto varrebbe allora, permettere la diagnosi preimpianto dell’embrione, piuttosto che arrivare a sopprimere un feto", commenta la senatrice della Lega Nord Rossana Boldi che, diversamente dai cattolici del centrodestra e della Margherita, ha scelto di votare no alla legge. "Anch’io sono cattolica - precisa -. Ma in casi di questo genere non posso obbligare un’ altra persona a non fare ciò che io non farei". E dopo che la Corte Costituzionale ha riconosciuto la validità di quattro quesiti referendari su cinque, sottolinea con vigore: "L’importante è che non si mescolino le carte, che non si raccontino storie alla gente. Sono un medico e so che non è vero che i portatori di malattie genetiche che desiderano mettere al mondo dei bambini sani vogliano fare dell’eugenetica. Semplicemente conoscono la gravità della propria patologia. Nel caso di talassemici, per esempio, sanno che i loro bambini nella migliore delle ipotesi dovranno sottoporsi a trattamenti per tutta la vita. E che, una volta diventati grandi, si troverebbero davanti al medesimo destino di dover mettere al mondo figli malati". E sul capitolo di legge che obbliga la donna a far sviluppare e farsi impiantare tre embrioni, dice: "una clausola che nega il rapporto di valutazione strettissima che ogni paziente deve avere con il proprio medico. Ogni caso è diverso dall’altro. Una ventenne alla qual vengano impiantati tre embrioni ha molte possibilità di andare incontro a un parto plurigemellare; per una quarantenne è probabile che nemmeno tre siano sufficienti. E ripartire, ogni volta, con un nuovo ciclo di stimolazione ormonale non è senza danno. Oppure mettiamo il caso di una grave
sterilità maschile, non è possibile procedere al prelievo di spermatozoi più e più volte". Insomma per la senatrice leghista, come per altri
liberal della maggioranza, non basterebbe un leggero maquillage alla legge. "Occorrono cambiamenti di sostanza - ribadisce -. E la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del quesito totalmente abrogativo, per quanto renda più difficile le cose per il cittadino, stana chi nel centrodestra ha votato questa legge ob torto collo, seguendo ordini di scuderia". Affermazioni forti che si aggiungono alle denunce del centrosinistra su un iter legislativo blindato. "Diciamo la verità - incalza la senatrice capogruppo del Carroccio in commissione Sanità del Senato - non è poi così vero che questa legge sia stata approvata da una larghissima maggioranza convinta di
quello che stava facendo. Al momento del voto a molti è stato detto: meglio una cattiva legge che nessuna legge. In aula il senatore Cursi ha espresso parere negativo sugli emendamenti. Con un pronunciamento di questo genere da parte del governo, era difficile per noi votare contro la legge". Insomma, lascia intendere la senatrice Boldi, in accordo con molti suoi autorevoli colleghi medici e scienziati: sul dibattito sulla fecondazione assistita pesano ancora troppo oscurantismo e ignoranza. Ma anche i diktat del Vaticano. "Che ci sia una campagna in atto da parte della Chiesa è indubitabile - commenta Maura Cossutta dei Comunisti Italiani -. Il fatto stesso che il Papa, accogliendo i diplomatici, abbia lanciato come primo tema la difesa dell’embrione, ne è la dimostrazione. E la sua campagna ha trovato robusti appoggi nei nostri organi istituzionali". Così l’ostentata liberalità di Berlusconi che oggi concede ai suoi libertà di coscienza e di voto, va a braccetto con le manovre di Gianni Letta, che, per lanciare un segnale al Vaticano, ha fatto in modo che il governo si presentasse alla Corte perché dichiarasse inammissibili i quesiti referendari. "La Consulta ha preso una decisione politica gravissima - denuncia il segretario dei Radicali Italiani Daniele Capezzone -, spazzando via il pericolo del quesito totalmente abrogativo, l’unico quesito che avrebbe permesso davvero di fare chiarezza. E così facendo ha aperto la strada a leggi e leggine che potrebbero svuotare dall’interno il senso del referendum, magari lasciando in piedi solo il quesito che riguarda la fecondazione eterologa, tema accettato solo dai laici". Maggioranza e prodiani, intanto, fanno da opposte sponde i medesimi scongiuri perché non si arrivi al referendum, puntando su accordi parlamentari dell'ultima ora (sono ben sette i disegni di legge in discussione, da quello diessino di Angius, a quello targato Forza Italia firmato da Tomassini e Bianconi, passando per l'ecumenico Amato), ma anche sul non raggiungimento del quorum pigiando l’acceleratore sull’astensionismo, già più volte auspicato dal Cardinal Ruini. "Storicamente la paura della scienza è sempre stata sfruttata dal potere e dalle gerarchie ecclesiastiche. Salvo poi sentirsi dire dopo 500 anni che Galileo è stato assoluto, ma il progresso scientifico non può essere fermato - commenta la senatrice Cinzia Dato, esponente dell’area laica della Margherita -. Spero che il paese non si lasci scappare l’occasione del referendum. Che lo utilizzi per un confronto pubblico aperto sui temi della scienza e della libertà di ricerca".
"Uno degli aspetti più controversi di questa legge davvero inaccettabile - attacca la Dato - è che implicitamente tenta di normare la ricerca, cioè aree molto più vaste di quelle di quelle dichiarate nelle intenzioni". In pratica la legge 40 lo fa vietando la conservazione degli embrioni e dicendo no alla ricerca su quelli conservati in celle frigorifere (In Italia sono circa 31mila). "Perché aspettare che vengano gettati in un lavandino? - domanda la senatrice della Margherita - proprio quando la scienza sta dimostrando che le cellule staminali di origine embrionale servono alla cura di molti tipi di malattie oggi incurabili. Prendiamo il caso dei trapianti, la Chiesa li ammette. Ma sappiamo anche che in India c’è chi si vende reni e cornee. Sappiamo anche che in Brasile e in altri paesi bambini vengono rapiti e uccisi perché esiste un mercato illegale di organi. Allora perché chiudere gli occhi di fronte a tutto questo in nome della sacralità dell’embrione? E proprio in un momento in cui attraverso cellule staminali embrionali si potrebbero sviluppare tecniche di autotrapianto?". "Per far ripartire la ricerca, ma anche per tutelare i diritti delle donne - dice Maura Cossutta dei Comunisti Italiani - il primo obiettivo, ora, è l’abrogazione dell’articolo 1 della legge 40, che tutela i diritti dell’embrione. Così si smantella tutto l’impianto della legge da cui promanano tutti i divieti, all’eterologa, al congelamento per la conservazione, il divieto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali". E aggiunge: "Da medico so che, per quanto sia utile la ricerca sulle staminali adulte e dal cordone in particolare, molto più si può ottenere dalle ricerche sulle staminali embrionali perché più plastiche, con grande capacità di moltiplicarsi e soprattutto, essendo ancora indifferenziate, con la possibilità di poter essere utilizzate nella cura di organi differenti". Anche per questo l’informazione è il primo obiettivo annunciato dal comitato referendario per i sì ai quattro quesiti. Remando contro la scarsa collaborazione dimostrata fin qui dalla tv, a cui ora si aggiunge la spada di Damocle degli acting out di Celentano. "Non serve stare a parlare di filosofia - rilancia Maura Cossutta, in polemica con Paolo Prodi e i suoi richiami ad Habermas -. in questa campagna serve molto di più partire dalle esperienze concrete, dar voce alle associazioni di malati. Con questa assurda legge non si può negare loro possibilità di cura". E non solo. Bisogna avere il coraggio di parlare di valori come la libertà, la responsabilità delle persone la laicità dello Stato. "Perché non è affatto vero - conclude la parlamentare del PdCI - che i laici siano ideologici e i cattolici etici". A questi stessi temi di grande respiro si richiama anche Elettra Deiana, parlamentare di Rifondazione Comunista. "Credo che la campagna referendaria debba fare perno su questi temi. E che debbano entrare già nella discussione politica delle regionali. Perché - aggiunge - la battaglia contro la legge 40 non è un fatto marginale, ma una questione di civiltà". E non può aspettare. "Le grandi manovre per accordi di piccolo cabotaggio sono già cominciate", avverte Deiana. Una preoccupazione condivisa dalla gran parte delle forze che compongono il comitato referendario. "La decisione della Corte Costituzionale - dice Deiana - toglie lo strumento più efficace per dire no questa legge". "Una legge che - ribadisce - è in alcun modo emendabile, perché il suo impianto complessivo è antidemocratico, incostituzionale, lesivo dei diritti fondamentali". Una legge che apre la strada a un pericolo ulteriore: la messa in discussione della legge 194. "Già la maggioranza ne parla esplicitamente in parlamento e sui giornali - avverte Deiana - e non attraverso figure minori, ma per bocca di Buttiglione, di un ministro che, in quanto tale, dovrebbe garantire la legalità della Repubblica attraverso il rispetto delle sue leggi".
Liberazione 27.1.05
La misoginia anche a sinistra
di Lea Melandri
Il dominio maschile, pur avendo alle spalle una storia millenaria, resta ancora oggi un' "evidenza invisibile". Il fatto che il rapporto uomo-donna sia stato posto in secoli vicini a noi come "questione femminile", e quindi come emancipazione o difesa del "sesso debole" e "svantaggiato", non sembra aver scalfito più di tanto la "neutralità" dietro cui continua a celarsi il sesso che ha avuto in mano le sorti della specie umana, sotto qualunque cielo. L'idea che le donne appartengano a uno di quei gruppi sociali che, come direbbe Berlusconi, "sono rimasti indietro", e vanno perciò aiutati, sollecitati, responsabilizzati, è purtroppo più trasversale di quanto si creda ai partiti e ai movimenti politici. Lo dimostra platealmente il fatto che non c'è sinistra, moderata o radicale, che quando nomina le donne (ed è già eccezionale che vengano nominate), non le collochi nel triste corteo dei diseredati e dei bisognosi, vittime o parenti poveri verso cui indirizzare la solidarietà, o tra quei nuovi "soggetti" che potrebbero, come fecondo integratore di energie, ridare fiato a una politica diventata sempre più sterile. Se negli anni '70 erano seconde solo agli studenti e ai disoccupati, oggi la sequenza si è riempita di innumerevoli "miserie umane", per cui è del tutto casuale se compaiono dopo i migranti, gli anziani, i portatori di handicap. C'è anche chi, nominando la variegata composizione delle "violenze", che uomini esercitano su altri uomini, ignora del tutto le statistiche che riportano i dati crescenti della violenza sulle donne.
Da questo punto di vista, non hanno fatto eccezione le due assemblee, promosse a Roma il 15 e il 16 gennaio 2005, dalla "sinistra radicale", dove gli unici riferimenti nel merito di queste tematiche sono stati quelli di Lidia Menapace, costretta penosamente a ricordare che "non c'è solo la contraddizione capitale lavoro, ma anche uomo-donna", e di Rossana Rossanda che ha rimarcato l'indisponibilità delle femministe a entrare attivamente in una politica da loro considerata "maschile".
Dell'"autoesclusione" delle donne dalla scena politica si è parlato anche alla trasmissione "L'infedele" (La7 sabato 22.1.05), ma in quel caso era il politologo Panebianco a sostenere candidamente che le donne sono già contente e realizzate nelle professioni, quasi che la loro "estraneità" alla politica fosse un dato naturale. E' un miracolo che in questi tempi di spericolato biologismo, insieme al "gene" della gelosia e della timidezza, non sia stato ancora trovato quello che definisce le attitudini femminili. Nelle metafore politiche correnti va di moda, da un po' di tempo, dire che "bisogna fare un passo indietro", oppure, al contrario "uno avanti". Stando a questa accreditata deambulazione, propongo allora di farne uno "a lato", e di provare a uscire dall'insopportabile e inutile rimando tra esclusione e autoestraniamento.
L'intuizione per cui il movimento delle donne degli anni '70 si può a ragione considerare uno di quei rivolgimenti profondi della coscienza storica che accadono raramente - come le "scoperte" di Marx sul rapporto capitale e lavoro, di Freud sul rapporto inconscio e coscienza- è stata quella di spostare l'analisi del sessismo dal versante sociale al terreno tradizionalmente più lontano dalla politica: storia personale, corpo, sessualità. E' scavando in quelle "acque insondate", che hanno continuato a scorrere minacciose sotto la pòlis, che si è fatto evidente come l'estensione del dominio maschile vada ben oltre la divisione sessuale del lavoro e il confinamento della donna nella sfera domestica. Maschile è la visione del mondo - incorporata sia nel "vissuto" del singolo che nei saperi, linguaggi e istituzioni della vita pubblica - che ha definito che cosa è "maschile" e "femminile", dettato gerarchie di potere e configurazioni simboliche. La stessa sorte - insignificanza storica ed esaltazione immaginativa - è toccata a tutto ciò che col femminile è stato identificato: sessualità, sentimenti, cura della vita, infanzia, dolore, morte, cioè esperienze essenziali degli esseri umani che hanno subìto una "messa al bando", di cui i linguaggi e le istituzioni sociali non potevano non portare il segno. In primis, la politica che, posta al vertice del controllo e del dettato normativo sulla vita, ha creduto di potersi spogliare del mondo caotico e imprevedibile dell'esperienza soggettiva, mettendo confini tra pubblico e privato, tra il cittadino e l'individuo, quelle barriere che oggi stanno cadendo sotto i colpi del mercato e dell'industria dello spettacolo, ma anche di un processo di allargamento democratico, di individualizzazione e di ripensamento del rapporto vita e politica.
Come disse Rossana Rossanda già più di venti anni fa ("Le altre", Feltrinelli, 1989) la cultura delle donne non è "una miniera da cui attingere per arricchire una civiltà che finora l'aveva ignorata", ma "una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa, la mette in causa. Non si tratta di allargare le maglie della città".
Questo percorso all'indietro, questa rivisitazione di una storia segnata dal dominio, ma anche dai sogni, dai desideri e dalle paure dell'uomo, dagli adattamenti e dalle resistenze delle donne, è un compito che non può non impegnare entrambi i sessi. Come nell'amore, l'incontro in una prospettiva nuova di impegno politico, ha bisogno che ci si muova incontro, da una parte e dall'altra. E qualcuno, rompendo un separatismo che sta diventando grottesco, ha cominciato a farlo. In un articolo, pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Pedagogika" (n.6, dicembre 2004), Gli uomini, il desiderio e la crisi della politica, scrive Marco Deriu: "Nell'arena politica si affacciano soggetti ‘neutri' e razionali che si attribuiscono il compito di dirigere o trasformare il mondo. Queste persone immaginano probabilmente di trovarsi di fronte a un mondo esterno, una brutta scenografia che esiste "là fuori" e su cui credono di poter intervenire, cambiandola e modificandola in base ai propri giudizi e calcoli. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sprazzo di consapevolezza riflessiva che riconosca il legame tra sé e il mondo (n. s.), tra la propria esistenza e l'esistenza di altri esseri… In altre parole quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri. Da questo punto di vista, oltre al dualismo tra privato e pubblico e all'opposizione tra sé e mondo, la politica maschile si fonda su un'opposizione tra politica e passioni esistenziali".
La misoginia anche a sinistra
di Lea Melandri
Il dominio maschile, pur avendo alle spalle una storia millenaria, resta ancora oggi un' "evidenza invisibile". Il fatto che il rapporto uomo-donna sia stato posto in secoli vicini a noi come "questione femminile", e quindi come emancipazione o difesa del "sesso debole" e "svantaggiato", non sembra aver scalfito più di tanto la "neutralità" dietro cui continua a celarsi il sesso che ha avuto in mano le sorti della specie umana, sotto qualunque cielo. L'idea che le donne appartengano a uno di quei gruppi sociali che, come direbbe Berlusconi, "sono rimasti indietro", e vanno perciò aiutati, sollecitati, responsabilizzati, è purtroppo più trasversale di quanto si creda ai partiti e ai movimenti politici. Lo dimostra platealmente il fatto che non c'è sinistra, moderata o radicale, che quando nomina le donne (ed è già eccezionale che vengano nominate), non le collochi nel triste corteo dei diseredati e dei bisognosi, vittime o parenti poveri verso cui indirizzare la solidarietà, o tra quei nuovi "soggetti" che potrebbero, come fecondo integratore di energie, ridare fiato a una politica diventata sempre più sterile. Se negli anni '70 erano seconde solo agli studenti e ai disoccupati, oggi la sequenza si è riempita di innumerevoli "miserie umane", per cui è del tutto casuale se compaiono dopo i migranti, gli anziani, i portatori di handicap. C'è anche chi, nominando la variegata composizione delle "violenze", che uomini esercitano su altri uomini, ignora del tutto le statistiche che riportano i dati crescenti della violenza sulle donne.
Da questo punto di vista, non hanno fatto eccezione le due assemblee, promosse a Roma il 15 e il 16 gennaio 2005, dalla "sinistra radicale", dove gli unici riferimenti nel merito di queste tematiche sono stati quelli di Lidia Menapace, costretta penosamente a ricordare che "non c'è solo la contraddizione capitale lavoro, ma anche uomo-donna", e di Rossana Rossanda che ha rimarcato l'indisponibilità delle femministe a entrare attivamente in una politica da loro considerata "maschile".
Dell'"autoesclusione" delle donne dalla scena politica si è parlato anche alla trasmissione "L'infedele" (La7 sabato 22.1.05), ma in quel caso era il politologo Panebianco a sostenere candidamente che le donne sono già contente e realizzate nelle professioni, quasi che la loro "estraneità" alla politica fosse un dato naturale. E' un miracolo che in questi tempi di spericolato biologismo, insieme al "gene" della gelosia e della timidezza, non sia stato ancora trovato quello che definisce le attitudini femminili. Nelle metafore politiche correnti va di moda, da un po' di tempo, dire che "bisogna fare un passo indietro", oppure, al contrario "uno avanti". Stando a questa accreditata deambulazione, propongo allora di farne uno "a lato", e di provare a uscire dall'insopportabile e inutile rimando tra esclusione e autoestraniamento.
L'intuizione per cui il movimento delle donne degli anni '70 si può a ragione considerare uno di quei rivolgimenti profondi della coscienza storica che accadono raramente - come le "scoperte" di Marx sul rapporto capitale e lavoro, di Freud sul rapporto inconscio e coscienza- è stata quella di spostare l'analisi del sessismo dal versante sociale al terreno tradizionalmente più lontano dalla politica: storia personale, corpo, sessualità. E' scavando in quelle "acque insondate", che hanno continuato a scorrere minacciose sotto la pòlis, che si è fatto evidente come l'estensione del dominio maschile vada ben oltre la divisione sessuale del lavoro e il confinamento della donna nella sfera domestica. Maschile è la visione del mondo - incorporata sia nel "vissuto" del singolo che nei saperi, linguaggi e istituzioni della vita pubblica - che ha definito che cosa è "maschile" e "femminile", dettato gerarchie di potere e configurazioni simboliche. La stessa sorte - insignificanza storica ed esaltazione immaginativa - è toccata a tutto ciò che col femminile è stato identificato: sessualità, sentimenti, cura della vita, infanzia, dolore, morte, cioè esperienze essenziali degli esseri umani che hanno subìto una "messa al bando", di cui i linguaggi e le istituzioni sociali non potevano non portare il segno. In primis, la politica che, posta al vertice del controllo e del dettato normativo sulla vita, ha creduto di potersi spogliare del mondo caotico e imprevedibile dell'esperienza soggettiva, mettendo confini tra pubblico e privato, tra il cittadino e l'individuo, quelle barriere che oggi stanno cadendo sotto i colpi del mercato e dell'industria dello spettacolo, ma anche di un processo di allargamento democratico, di individualizzazione e di ripensamento del rapporto vita e politica.
Come disse Rossana Rossanda già più di venti anni fa ("Le altre", Feltrinelli, 1989) la cultura delle donne non è "una miniera da cui attingere per arricchire una civiltà che finora l'aveva ignorata", ma "una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa, la mette in causa. Non si tratta di allargare le maglie della città".
Questo percorso all'indietro, questa rivisitazione di una storia segnata dal dominio, ma anche dai sogni, dai desideri e dalle paure dell'uomo, dagli adattamenti e dalle resistenze delle donne, è un compito che non può non impegnare entrambi i sessi. Come nell'amore, l'incontro in una prospettiva nuova di impegno politico, ha bisogno che ci si muova incontro, da una parte e dall'altra. E qualcuno, rompendo un separatismo che sta diventando grottesco, ha cominciato a farlo. In un articolo, pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Pedagogika" (n.6, dicembre 2004), Gli uomini, il desiderio e la crisi della politica, scrive Marco Deriu: "Nell'arena politica si affacciano soggetti ‘neutri' e razionali che si attribuiscono il compito di dirigere o trasformare il mondo. Queste persone immaginano probabilmente di trovarsi di fronte a un mondo esterno, una brutta scenografia che esiste "là fuori" e su cui credono di poter intervenire, cambiandola e modificandola in base ai propri giudizi e calcoli. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sprazzo di consapevolezza riflessiva che riconosca il legame tra sé e il mondo (n. s.), tra la propria esistenza e l'esistenza di altri esseri… In altre parole quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri. Da questo punto di vista, oltre al dualismo tra privato e pubblico e all'opposizione tra sé e mondo, la politica maschile si fonda su un'opposizione tra politica e passioni esistenziali".
Yahoo! Notizie
AIDS, negli Usa dilagano le teorie del complotto
giovedì 27 gennaio 2005, Il Pensiero Scientifico Editore
di David Frati
Un notevole numero di afroamericani crede in varie teorie del complotto riferite all’AIDS. Questo sentire diffuso preoccupa le autorità sanitarie, perché potrebbe portare ad una diminuzione dell’uso del preservativo. Il dato è emerso da uno studio pubblicato sul Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes.
Intervistando 500 afroamericani dai 15 ai 44 anni, i ricercatori hanno scoperto che più della metà di loro crede che le informazioni sulla vera natura del virus HIV siano tenute segrete, e che esista già una cura per l’AIDS, volutamente inaccessibile per i poveri. Quasi la metà del campione ritiene che il virus sia stato costruito dall’uomo in laboratorio e un 15 per cento che sia una forma di genocidio pianificato dei neri. Non sono mancate teorie estreme, come le convinzioni che ‘i dottori mettono l’HIV nei preservativi’ o che i farmaci anti-AIDS siano in realtà veleni. Tutte queste convinzioni sono solitamente associate nei maschi al mancato uso del preservativo.
“Queste idee sono molto diffuse e dimostrano una radicale sfiducia verso il sistema sanitario tra gli afroamericani”, spiega Laura M. Bogart, psicologa dell’istituto di ricerca RAND. “Affinché gli sforzi per la prevenzione dell’AIDS abbiano successo, queste credenze devono essere discusse apertamente, perché le persone che non hanno fiducia nel sistema sanitario ne hanno ancora meno nei messaggi di Salute pubblica”.
Il pessimo rapporto tra Sanità Usa e comunità afroamericana ha radici profonde ed è stato alimentato, oltre che da tensioni politiche, sociali e razziali, da episodi infami come lo studio Tuskegee. Nel 1932 il Public Health Service e il Tuskegee Institute arruolarono 400 afroamericani poveri e malati di sifilide. Non fu loro mai rivelato di che malattia soffrissero né fu mai somministrata loro alcuna cura (nel 1932 non erano disponibili terapie efficaci, ma a partire dal 1947, con la scoperta della penicillina, sì). I ricercatori del Tuskegee volevano scoprire come il morbo si diffondesse e come uccidesse i malati. L’orrore proseguì fino al 1972, quando un giornalista scoprì la faccenda e scoppiò un grande scandalo. A quel punto, moltissimi pazienti erano già morti, e molti loro familiari erano stati ormai contagiati. Nel 1973, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) citò in giudizio gli organizzatori dello studio Tuskegee ottenendo un rimborso di 9 milioni di dollari per i sopravvissuti e cure mediche gratuite per i loro familiari. Solo nel 1997, grazie al presidente Bill Clinton, il governo degli Stati Uniti prese una posizione ufficiale, definendo lo studio ‘una vergogna’ e chiedendo scusa alle vittime.
AIDS, negli Usa dilagano le teorie del complotto
giovedì 27 gennaio 2005, Il Pensiero Scientifico Editore
di David Frati
Un notevole numero di afroamericani crede in varie teorie del complotto riferite all’AIDS. Questo sentire diffuso preoccupa le autorità sanitarie, perché potrebbe portare ad una diminuzione dell’uso del preservativo. Il dato è emerso da uno studio pubblicato sul Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes.
Intervistando 500 afroamericani dai 15 ai 44 anni, i ricercatori hanno scoperto che più della metà di loro crede che le informazioni sulla vera natura del virus HIV siano tenute segrete, e che esista già una cura per l’AIDS, volutamente inaccessibile per i poveri. Quasi la metà del campione ritiene che il virus sia stato costruito dall’uomo in laboratorio e un 15 per cento che sia una forma di genocidio pianificato dei neri. Non sono mancate teorie estreme, come le convinzioni che ‘i dottori mettono l’HIV nei preservativi’ o che i farmaci anti-AIDS siano in realtà veleni. Tutte queste convinzioni sono solitamente associate nei maschi al mancato uso del preservativo.
“Queste idee sono molto diffuse e dimostrano una radicale sfiducia verso il sistema sanitario tra gli afroamericani”, spiega Laura M. Bogart, psicologa dell’istituto di ricerca RAND. “Affinché gli sforzi per la prevenzione dell’AIDS abbiano successo, queste credenze devono essere discusse apertamente, perché le persone che non hanno fiducia nel sistema sanitario ne hanno ancora meno nei messaggi di Salute pubblica”.
Il pessimo rapporto tra Sanità Usa e comunità afroamericana ha radici profonde ed è stato alimentato, oltre che da tensioni politiche, sociali e razziali, da episodi infami come lo studio Tuskegee. Nel 1932 il Public Health Service e il Tuskegee Institute arruolarono 400 afroamericani poveri e malati di sifilide. Non fu loro mai rivelato di che malattia soffrissero né fu mai somministrata loro alcuna cura (nel 1932 non erano disponibili terapie efficaci, ma a partire dal 1947, con la scoperta della penicillina, sì). I ricercatori del Tuskegee volevano scoprire come il morbo si diffondesse e come uccidesse i malati. L’orrore proseguì fino al 1972, quando un giornalista scoprì la faccenda e scoppiò un grande scandalo. A quel punto, moltissimi pazienti erano già morti, e molti loro familiari erano stati ormai contagiati. Nel 1973, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) citò in giudizio gli organizzatori dello studio Tuskegee ottenendo un rimborso di 9 milioni di dollari per i sopravvissuti e cure mediche gratuite per i loro familiari. Solo nel 1997, grazie al presidente Bill Clinton, il governo degli Stati Uniti prese una posizione ufficiale, definendo lo studio ‘una vergogna’ e chiedendo scusa alle vittime.
Fonte: Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes, 2005.
lescienze.it 26.01.2005
La proteina della schizofrenia
La forma breve di DISC1 è maggiormente presente nei nuclei dei neuroni
Una forma abbreviata di una proteina chiamata DISC1 (Disrupted-In-Schizophrenia-1) risulta distribuita in maniera unica e caratteristica nelle cellule cerebrali dei pazienti che soffrono di gravi disturbi psichiatrici. Lo sostiene una ricerca pubblicata sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences".
Studi precedenti avevano associato il gene DISC1 alla schizofrenia, ma la proteina prodotta dal gene non era stata ancora studiata negli esseri umani. Esaminando la corteccia orbitofrontale, una regione del cervello coinvolta nelle emozioni e nel meccanismo di ricompensa, Akira Sawa della Johns Hopkins University di Baltimora e colleghi hanno analizzato la proteina DISC1 durante l'autopsia di individui normali e di pazienti che soffrivano di schizofrenia, disturbo bipolare, e depressione. Alcuni di essi soffrivano anche di abuso di droghe e di alcool.
Gli autori hanno identificato una forma breve della proteina DISC1 nei cervelli di tutti i gruppi. Tuttavia, pur non rivelando variazioni nei livelli totali di DISC1 fra un gruppo e l'altro, i ricercatori hanno scoperto distribuzioni alterate della proteina DISC1 breve nelle singole cellule cerebrali. Nei neuroni dei pazienti di depressione e schizofrenia, ma non in quelli con il disturbo bipolare, una percentuale più alta delle proteine si trova nei nuclei. Questo arricchimento nucleare aumenta proporzionalmente alla gravità dell'abuso di alcool o di droga del paziente. Anche se la funzione della forma breve di DISC1 è sconosciuta, i ricercatori sospettano che possa provocare un'errata espressione genica, forse danneggiando i circuiti cerebrali e creando suscettibilità ai disturbi mentali e all'abuso di sostanze pericolose.
MEDICINA: IDEATA MACCHINA 'MISURA-LIBIDO'
(ANSA) - ROMA, 26 GEN - Si basa sullo studio delle onde cerebrali quella che, al 7/o congresso della European Society for Sexual Medicine, e' stata presentata come la prima macchina per la misura della libido.
Sviluppata in Israele da Yoram Vardi del Rambam Hospitalad Haifa, l'idea, gia' testata su 30 individui, potrebbe essere usata per misurare effetti collaterali dei farmaci come gli antidepressivi sulla libido e anche stabilire su base certa e oggettiva la presenza di problemi conseguenti a incidenti.
Secondo l'esperto, che ha preso spunto da una tecnica gia' molto usata in neurologia per misurare la soglia di attenzione degli individui, questo potrebbe diventare il primo metodo quantitativo di misurare la libido.
La macchina e' semplice, si basa su un elettroencefalogramma che misura le onde 'p300' e le variazioni in ampiezza di queste onde in seguito a stimoli. Le onde p300 sono quelle che il nostro cervello produce 300 millisecondi dopo un evento e la loro ampiezza varia se intervengono altri stimoli che ci distraggono dall'evento iniziale. Secondo quanto osservato nei test su 14 uomini e 16 donne sessualmente sani, Vardi ha notato che gli stimoli che sono maggiore fonte di distrazione sono proprio quelli sessuali.
I volontari, indotti a produrre p300 attraverso stimoli di varia natura, mentre erano monitorati con l'elettroencefalogramma sono stati messi di fronte a uno schermo che proiettava vari tipi di film tra cui alcuni a contenuto erotico.
I diversi film, ha riferito Vardi, determinavano modifiche delle onde p300. Ma piu' di tutti erano i film erotici a determinare le variazioni piu' consistenti delle p300.
Inoltre gli stessi individui, sottoposti a questionari di autovalutazione della propria libido dopo la visione, hanno sempre dato risposte in perfetto accordo con le informazioni offerte dallo strumento. Ovvero piu' i soggetti si dichiaravano 'eccitati' dallo spettacolo, piu' le loro onde p300 ne erano state modificate.
Il prossimo passo, ha concluso Vardi, sara' di testare la macchina su individui con disturbi sessuali.
corriereadriatico.it
26 gennaio 2005
Il primario di Psichiatria “Molti arrivano in reparto dopo avere assunto stupefacenti. Le droghe hanno effetti devastanti”
Sempre più ragazzi soffrono di disturbi psichici come schizofrenia, depressione e nevrosi
Nei giovani cresce il “male dell’anima”
Schizofrenia, depressione, nevrosi. Malattie che colpiscono nell'ombra, spesso dentro le mura di casa. Qualcosa succede dentro l'animo e nella mente di chi soffre di disturbi psichici, qualcosa di inspiegabile per i familiari che lo circondano, qualcosa di terribile per chi lo vive. Aumentano i casi di disagiati psichici a Senigallia, ma non ce ne accorgiamo, perché sono dolori che non si mostrano. Soprattutto cresce il numero dei giovani con disturbi della personalità, patologie più sfumate e difficili da trattare rispetto alle più tradizionali, eppur drammatiche, schizofrenia o depressione. Il dirigente medico di Psichiatria, dott. Andrea Arduini, ci spiega come sta operando il Dipartimento di salute mentale di fronte a queste emergenze: "Seguiamo regolarmente 854 pazienti. Se fortunatamente diminuiscono i ricoveri e le degenze, il numero dei pazienti regolarmente seguiti è aumentato”.
“Così come sono cresciute le visite ambulatoriali, soprattutto per patologie meno note come i disturbi della personalità. Questi disturbi consistono in ritardi del processo di maturazione della personalità, in difficoltà nell'adattamento sociale che possono sfociare anche in comportanti asociali. Sono patologie più complesse e sfumate, per questo abbiamo attivato un ambulatorio dedicato, specifico per il trattamento di questi casi. Spesso i ragazzi colpiti da disturbi della personalità assumono anche sostanze e droghe, da loro ritenute innocue, che non fanno che alimentare i loro comportamenti devianti”.
“La cultura della droga ritenuta inoffensiva - sostiene il dottor Paolo Pedrolli, braccio destro del primario Arduini - sta andando a inficiare sulla pericolosità dei disturbi mentali. L'abuso di cannabis e cocaina è esponenziale”. E in questi casi la linea di confine tra Psichiatria e Sert è difficile da tracciare in modo netto, così come c'è difficoltà a capire se un senzatetto ha più bisogno della cura di uno psichiatra o di un assistente sociale, se un violento possiede un disturbo psichico o se andrebbe piuttosto richiamato dalle forze dell'ordine, se un marito abbondato dalla propria moglie sia caduto nel baratro della depressione o se stia solo vivendo un momento duro della propria vita, superabile in breve tempo e senza terapie mediche.
Sono confini labili, delicatissimi, fili di funamboli sui quali camminano persone la cui personalità è difficile da capire. Tutte persone che una volta venivano coattamente spedite negli ospedali psichiatrici, senza tanti approfondimenti. Così l'idea è stata quella di stilare dei protocolli.
“Oltre a collaborare con l'associazione PrimaVera - afferma il dottor Arduini - abbiamo realizzato protocolli comuni di intervento con Caritas, enti locali e assessorato ai servizi alla persona, con forze dell'ordine, con medici di base, che spesso possono intervenire su quelle che comunemente definiamo "psicosi minori" o segnalare con più rapidità gli eventuali disagi di natura psichica fin dal loro esordio. Attacchi di panico, insicurezze, paure: anche il medico di famiglia sa come trattare queste lievi patologie. E sempre nel campo della collaborazione abbiamo organizzato un corso di formazione per le famiglie dei pazienti secondo la tecnica psicoeducazionale”.
Di fronte al male dell'anima che aumenta il dottor Arduini conclude: "Sappiamo con certezza che un'assistenza psichiatrica più efficace ed efficiente non sarà comunque possibile senza una maturazione generale verso modelli più evoluti di collaborazione tra tutti i referenti del disagio mentale".
Yahoo!Salute
Depressione giovanile: migliorare l'approccio
martedì 25 gennaio 2005, Il Pensiero Scientifico Editore
La depressione giovanile è un fenomeno in crescita che necessita di un approccio efficace nelle strutture di base; questo approccio può essere migliorato da un adeguato programma di supporto. Un progetto sperimentato con successo alla David Geffen School of Medicine della University of Californiadi Los Angeles è descritto sulle pagine del Journal of American Medical Association.
Le formi più gravi di depressione giovanile interessano, secondo le stime, dal 15 al 20 per cento dei soggetti colpiti; la depressione giovanile, se non trattata, può portare al suicidio (ed è in questo senso la principale causa di morte fra i giovani fra i 15 e i 24 anni) o può sfociare in altre forme di disagio giovanile. Grande importanza riveste la capacità, per le strutture e i medici di base che per primi avvicinano il ragazzo, saper riconoscere e affrontare questo disagio. Gli approcci che si sono dimostrati più risolutivi sono la terapia cognitivo-comportamentale e alcune forme di terapia farmacologica. Le strutture di base hanno il potenziale per migliorare il loro approccio in modo da ottimizzare l’efficacia degli interventi; l’obiettivo dev’essere quello di orientare il giovane ai servizi specifici che possano essergli di sostegno e guidarlo verso una scelta personalizzata della terapia.
Questo studio ha verificato l’efficacia di un intervento della durata di sei mesi, volto ad offrire sostegno e formazione ai medici di base, tramite il supporto di care manager che fornissero consulenza al medico, organizzando per gli operatori training sulla terapia cognitivo-comportamentale, e corsi che insegnassero a gestire al meglio la scelta fra le varie terapie. I medici inclusi nel gruppo sperimentale hanno anche ricevuto formazione per la valutazione della depressione giovanile, la sua gestione e le terapie farmacologiche e psicosociali. I ragazzi seguiti nello studio sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi: il primo, di 207 pazienti, ha ricevuto l’assistenza usuale mentre l’altro (211 pazienti) è stato seguito dai sanitari oggetto del training sperimentale. I sintomi depressivi e la qualità della vita sono stati misurati con test specifici, e il paziente ha anche espresso la soddisfazione per le cure ricevute, rispondendo a un questionario basato su una scala a cinque punti.
Dopo sei mesi è stata effettuata una verifica per vedere se l’intervento aveva prodotto risultati positivi. I pazienti del gruppo sperimentale hanno riportato, rispetto a quelli del gruppo di controllo, un numero significativamente inferiore di sintomi depressivi, una maggiore qualità della vita rispetto alla loro salute mentale e più soddisfazione per le cure psicologiche ricevute. I giovani del gruppo sperimentale inoltre si sono rivolti più facilmente alle cure dei centri per la salute mentale e ai servizi di psicoterapia e di consulenza.
Gli autori osservano che l’intervento di sostegno e formazione effettuato per sei mesi presso le strutture sanitarie di base ha reso possibile una risposta più valida al problema della depressione giovanile, orientando le scelte di sanitari e pazienti verso gli approcci alla depressione di comprovata efficacia, e attivando meglio le risorse disponibili per la cura di questo disturbo.
La proteina della schizofrenia
La forma breve di DISC1 è maggiormente presente nei nuclei dei neuroni
Una forma abbreviata di una proteina chiamata DISC1 (Disrupted-In-Schizophrenia-1) risulta distribuita in maniera unica e caratteristica nelle cellule cerebrali dei pazienti che soffrono di gravi disturbi psichiatrici. Lo sostiene una ricerca pubblicata sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences".
Studi precedenti avevano associato il gene DISC1 alla schizofrenia, ma la proteina prodotta dal gene non era stata ancora studiata negli esseri umani. Esaminando la corteccia orbitofrontale, una regione del cervello coinvolta nelle emozioni e nel meccanismo di ricompensa, Akira Sawa della Johns Hopkins University di Baltimora e colleghi hanno analizzato la proteina DISC1 durante l'autopsia di individui normali e di pazienti che soffrivano di schizofrenia, disturbo bipolare, e depressione. Alcuni di essi soffrivano anche di abuso di droghe e di alcool.
Gli autori hanno identificato una forma breve della proteina DISC1 nei cervelli di tutti i gruppi. Tuttavia, pur non rivelando variazioni nei livelli totali di DISC1 fra un gruppo e l'altro, i ricercatori hanno scoperto distribuzioni alterate della proteina DISC1 breve nelle singole cellule cerebrali. Nei neuroni dei pazienti di depressione e schizofrenia, ma non in quelli con il disturbo bipolare, una percentuale più alta delle proteine si trova nei nuclei. Questo arricchimento nucleare aumenta proporzionalmente alla gravità dell'abuso di alcool o di droga del paziente. Anche se la funzione della forma breve di DISC1 è sconosciuta, i ricercatori sospettano che possa provocare un'errata espressione genica, forse danneggiando i circuiti cerebrali e creando suscettibilità ai disturbi mentali e all'abuso di sostanze pericolose.
Naoya Sawamura, Takako Sawamura-Yamamoto, Yuji Ozeki, Christopher A. Ross, Akira Sawa, "A form of DISC1 enriched in nucleus: Altered subcellular distribution in orbitofrontal cortex in psychosis and substance/alcohol abuse". Proceedings of the National Academy of Sciences (2005). Yahoo!NotizieMercoledì 26 Gennaio 2005, 18:29
MEDICINA: IDEATA MACCHINA 'MISURA-LIBIDO'
(ANSA) - ROMA, 26 GEN - Si basa sullo studio delle onde cerebrali quella che, al 7/o congresso della European Society for Sexual Medicine, e' stata presentata come la prima macchina per la misura della libido.
Sviluppata in Israele da Yoram Vardi del Rambam Hospitalad Haifa, l'idea, gia' testata su 30 individui, potrebbe essere usata per misurare effetti collaterali dei farmaci come gli antidepressivi sulla libido e anche stabilire su base certa e oggettiva la presenza di problemi conseguenti a incidenti.
Secondo l'esperto, che ha preso spunto da una tecnica gia' molto usata in neurologia per misurare la soglia di attenzione degli individui, questo potrebbe diventare il primo metodo quantitativo di misurare la libido.
La macchina e' semplice, si basa su un elettroencefalogramma che misura le onde 'p300' e le variazioni in ampiezza di queste onde in seguito a stimoli. Le onde p300 sono quelle che il nostro cervello produce 300 millisecondi dopo un evento e la loro ampiezza varia se intervengono altri stimoli che ci distraggono dall'evento iniziale. Secondo quanto osservato nei test su 14 uomini e 16 donne sessualmente sani, Vardi ha notato che gli stimoli che sono maggiore fonte di distrazione sono proprio quelli sessuali.
I volontari, indotti a produrre p300 attraverso stimoli di varia natura, mentre erano monitorati con l'elettroencefalogramma sono stati messi di fronte a uno schermo che proiettava vari tipi di film tra cui alcuni a contenuto erotico.
I diversi film, ha riferito Vardi, determinavano modifiche delle onde p300. Ma piu' di tutti erano i film erotici a determinare le variazioni piu' consistenti delle p300.
Inoltre gli stessi individui, sottoposti a questionari di autovalutazione della propria libido dopo la visione, hanno sempre dato risposte in perfetto accordo con le informazioni offerte dallo strumento. Ovvero piu' i soggetti si dichiaravano 'eccitati' dallo spettacolo, piu' le loro onde p300 ne erano state modificate.
Il prossimo passo, ha concluso Vardi, sara' di testare la macchina su individui con disturbi sessuali.
corriereadriatico.it
26 gennaio 2005
Il primario di Psichiatria “Molti arrivano in reparto dopo avere assunto stupefacenti. Le droghe hanno effetti devastanti”
Sempre più ragazzi soffrono di disturbi psichici come schizofrenia, depressione e nevrosi
Nei giovani cresce il “male dell’anima”
Schizofrenia, depressione, nevrosi. Malattie che colpiscono nell'ombra, spesso dentro le mura di casa. Qualcosa succede dentro l'animo e nella mente di chi soffre di disturbi psichici, qualcosa di inspiegabile per i familiari che lo circondano, qualcosa di terribile per chi lo vive. Aumentano i casi di disagiati psichici a Senigallia, ma non ce ne accorgiamo, perché sono dolori che non si mostrano. Soprattutto cresce il numero dei giovani con disturbi della personalità, patologie più sfumate e difficili da trattare rispetto alle più tradizionali, eppur drammatiche, schizofrenia o depressione. Il dirigente medico di Psichiatria, dott. Andrea Arduini, ci spiega come sta operando il Dipartimento di salute mentale di fronte a queste emergenze: "Seguiamo regolarmente 854 pazienti. Se fortunatamente diminuiscono i ricoveri e le degenze, il numero dei pazienti regolarmente seguiti è aumentato”.
“Così come sono cresciute le visite ambulatoriali, soprattutto per patologie meno note come i disturbi della personalità. Questi disturbi consistono in ritardi del processo di maturazione della personalità, in difficoltà nell'adattamento sociale che possono sfociare anche in comportanti asociali. Sono patologie più complesse e sfumate, per questo abbiamo attivato un ambulatorio dedicato, specifico per il trattamento di questi casi. Spesso i ragazzi colpiti da disturbi della personalità assumono anche sostanze e droghe, da loro ritenute innocue, che non fanno che alimentare i loro comportamenti devianti”.
“La cultura della droga ritenuta inoffensiva - sostiene il dottor Paolo Pedrolli, braccio destro del primario Arduini - sta andando a inficiare sulla pericolosità dei disturbi mentali. L'abuso di cannabis e cocaina è esponenziale”. E in questi casi la linea di confine tra Psichiatria e Sert è difficile da tracciare in modo netto, così come c'è difficoltà a capire se un senzatetto ha più bisogno della cura di uno psichiatra o di un assistente sociale, se un violento possiede un disturbo psichico o se andrebbe piuttosto richiamato dalle forze dell'ordine, se un marito abbondato dalla propria moglie sia caduto nel baratro della depressione o se stia solo vivendo un momento duro della propria vita, superabile in breve tempo e senza terapie mediche.
Sono confini labili, delicatissimi, fili di funamboli sui quali camminano persone la cui personalità è difficile da capire. Tutte persone che una volta venivano coattamente spedite negli ospedali psichiatrici, senza tanti approfondimenti. Così l'idea è stata quella di stilare dei protocolli.
“Oltre a collaborare con l'associazione PrimaVera - afferma il dottor Arduini - abbiamo realizzato protocolli comuni di intervento con Caritas, enti locali e assessorato ai servizi alla persona, con forze dell'ordine, con medici di base, che spesso possono intervenire su quelle che comunemente definiamo "psicosi minori" o segnalare con più rapidità gli eventuali disagi di natura psichica fin dal loro esordio. Attacchi di panico, insicurezze, paure: anche il medico di famiglia sa come trattare queste lievi patologie. E sempre nel campo della collaborazione abbiamo organizzato un corso di formazione per le famiglie dei pazienti secondo la tecnica psicoeducazionale”.
Di fronte al male dell'anima che aumenta il dottor Arduini conclude: "Sappiamo con certezza che un'assistenza psichiatrica più efficace ed efficiente non sarà comunque possibile senza una maturazione generale verso modelli più evoluti di collaborazione tra tutti i referenti del disagio mentale".
Yahoo!Salute
Depressione giovanile: migliorare l'approccio
martedì 25 gennaio 2005, Il Pensiero Scientifico Editore
La depressione giovanile è un fenomeno in crescita che necessita di un approccio efficace nelle strutture di base; questo approccio può essere migliorato da un adeguato programma di supporto. Un progetto sperimentato con successo alla David Geffen School of Medicine della University of Californiadi Los Angeles è descritto sulle pagine del Journal of American Medical Association.
Le formi più gravi di depressione giovanile interessano, secondo le stime, dal 15 al 20 per cento dei soggetti colpiti; la depressione giovanile, se non trattata, può portare al suicidio (ed è in questo senso la principale causa di morte fra i giovani fra i 15 e i 24 anni) o può sfociare in altre forme di disagio giovanile. Grande importanza riveste la capacità, per le strutture e i medici di base che per primi avvicinano il ragazzo, saper riconoscere e affrontare questo disagio. Gli approcci che si sono dimostrati più risolutivi sono la terapia cognitivo-comportamentale e alcune forme di terapia farmacologica. Le strutture di base hanno il potenziale per migliorare il loro approccio in modo da ottimizzare l’efficacia degli interventi; l’obiettivo dev’essere quello di orientare il giovane ai servizi specifici che possano essergli di sostegno e guidarlo verso una scelta personalizzata della terapia.
Questo studio ha verificato l’efficacia di un intervento della durata di sei mesi, volto ad offrire sostegno e formazione ai medici di base, tramite il supporto di care manager che fornissero consulenza al medico, organizzando per gli operatori training sulla terapia cognitivo-comportamentale, e corsi che insegnassero a gestire al meglio la scelta fra le varie terapie. I medici inclusi nel gruppo sperimentale hanno anche ricevuto formazione per la valutazione della depressione giovanile, la sua gestione e le terapie farmacologiche e psicosociali. I ragazzi seguiti nello studio sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi: il primo, di 207 pazienti, ha ricevuto l’assistenza usuale mentre l’altro (211 pazienti) è stato seguito dai sanitari oggetto del training sperimentale. I sintomi depressivi e la qualità della vita sono stati misurati con test specifici, e il paziente ha anche espresso la soddisfazione per le cure ricevute, rispondendo a un questionario basato su una scala a cinque punti.
Dopo sei mesi è stata effettuata una verifica per vedere se l’intervento aveva prodotto risultati positivi. I pazienti del gruppo sperimentale hanno riportato, rispetto a quelli del gruppo di controllo, un numero significativamente inferiore di sintomi depressivi, una maggiore qualità della vita rispetto alla loro salute mentale e più soddisfazione per le cure psicologiche ricevute. I giovani del gruppo sperimentale inoltre si sono rivolti più facilmente alle cure dei centri per la salute mentale e ai servizi di psicoterapia e di consulenza.
Gli autori osservano che l’intervento di sostegno e formazione effettuato per sei mesi presso le strutture sanitarie di base ha reso possibile una risposta più valida al problema della depressione giovanile, orientando le scelte di sanitari e pazienti verso gli approcci alla depressione di comprovata efficacia, e attivando meglio le risorse disponibili per la cura di questo disturbo.
Fonte. Rosenbaum Asarnow J, Jaycox LH, Duan N et al. Effectiveness of a quality improvement intervention for adolescent depression in primary care clinics. JAMA 2005;293(3):311-19.
Libero 26 gennaio 2005
NON È VERO CHE IL TUMORE COLPISCE DI PIÙ I DEPRESSI
Copenaghen - È scientificamente provato che non esiste relazione tra lo sviluppo dei tumori ela personalità. Lo dicono alcuni studiosi dell'Istituto di epidemiologia dei tumori di Copenaghen, dopo aver condotto le ricerche, per 15 anni, su 30 mila gemelli. Lo studio, pubblicato sulla rivista specializzata Usa "Cancer", parte dal presupposto che si è sempre pensato che in qualche modo potesse esserci un legame tra psiche e patologie neoplastiche. In partitolare numerosi scienziati hanno suggerito che le persone che si ammalano di tumore possiedono una personalità cosiddetta di Tipo C (Cancer Prone Personality). Si tratta di persone che tendono a negare, a rimuovere e a minimizzare i propri conflitti, le esperienze spiacevoli, gli avvenimenti dolorosi. Inoltre, presentano un'incapacità di esprimere apertamente i propri sentimenti, e mancano di spirito di lotta. Gli esperti danesi hanno infine concluso che l'origine dei tumori è sempre plurifattoriale e che quindi con i soli fattori emozionali e caratteriali non è possibile spiegare in nessun caso la complessa eziopatogenesi delle neoplasie.
NON È VERO CHE IL TUMORE COLPISCE DI PIÙ I DEPRESSI
Copenaghen - È scientificamente provato che non esiste relazione tra lo sviluppo dei tumori ela personalità. Lo dicono alcuni studiosi dell'Istituto di epidemiologia dei tumori di Copenaghen, dopo aver condotto le ricerche, per 15 anni, su 30 mila gemelli. Lo studio, pubblicato sulla rivista specializzata Usa "Cancer", parte dal presupposto che si è sempre pensato che in qualche modo potesse esserci un legame tra psiche e patologie neoplastiche. In partitolare numerosi scienziati hanno suggerito che le persone che si ammalano di tumore possiedono una personalità cosiddetta di Tipo C (Cancer Prone Personality). Si tratta di persone che tendono a negare, a rimuovere e a minimizzare i propri conflitti, le esperienze spiacevoli, gli avvenimenti dolorosi. Inoltre, presentano un'incapacità di esprimere apertamente i propri sentimenti, e mancano di spirito di lotta. Gli esperti danesi hanno infine concluso che l'origine dei tumori è sempre plurifattoriale e che quindi con i soli fattori emozionali e caratteriali non è possibile spiegare in nessun caso la complessa eziopatogenesi delle neoplasie.
omicidi
Liberazione 22.1.05
Sussurri, grida, giarrettiere
... e colpi di pistola
Maria R. Calderoni
"Ammazzo tutti". Un libro sugli assassinii di massa in Italia. Modello Usa, dove un'arma è sempre a portata di mano
Il serial killer molto spesso «si serve di armi da taglio, perché vuole il contatto fisico con la sua vittima, vuole "sentire" la morte, il mass murderer si serve quasi sempre di pistole e fucili mitragliatori, armi asettiche che gli garantiscono un ampio potere distruttivo». E questo perché, «nella mente del mass murderer la società vive in uno stato patologico, aberrante, e per questo va punita e soppressa».
Lettura con brivido. In questo libro non voluminoso di 188 pagine (Ammazzo tutti. I mass murders italiani, Stampa Alternativa, euro 10), il criminologo Francesco Bruno, in collaborazione con Marco Menicangeli, fa scorrere sotto i nostri occhi la moviola dei fatti di sangue che ci hanno lasciato ogni volta storditi, senza fiato, ogni volta fissi sulla domanda che non ha risposta: «Come è possibile?» (domanda inutile e anche stupida, visto che la cosa è così possibile da essere, appunto, avvenuta).
La "cosa", l'orrore, la mostruosità. Da Doretta Graneris a Erika e Omar, il libro ci obbliga a un ripasso eclatante, a rivedere immagini, scene e particolari che avevamo dimenticato, il film delle pulp fiction nazionali. E a riaggiornare i concetti.
Mass murder, secondo la definizione del Crime Classification Manual, è l'evento nel quale un individuo uccide minimo quattro persone in un solo luogo e nello stesso tempo. Ma non occorre che siano proprio "almeno quattro". Il Fbi, ad esempio, fa rientrare la categoria nell'Authority Killing, l'omicidio compiuto «a scopo di rivendicazione contro la società». Il mass murderer è infatti convinto di aver subito dei torti da parte dell'autorità e per questo è deciso a vendicarsi. «Imbracciando il fucile o la pistola l'omicida diventa così una sorta di missionario: la sua dovrà essere un'azione esemplare, un evento che deve stamparsi col fuoco».
È stata approntata una statistica. Nella loro Encyclopedia of Mass Murder, Brian Lane e Wilfred Greg analizzano tutti i casi fino al 1994 e le cifre raccolte dai due studiosi inglesi dicono con sufficiente chiarezza che l'omicidio di massa «è una patologia del primo mondo. Stati Uniti e Europa totalizzano oltre l'85 per cento dei casi analizzati».
Primo mondo, con gli Usa che primeggiano: per esempio, nel triennio 1990-93, sui 199 casi di mass murder, ben 108 sono avvenuti in terra statunitense (23 in Inghilterra,13 in Australia, 12 in Canada e 5 in Nuova Zelanda). Tra le altre, sono raccontate due stragi che fecero scalpore: quella di Charles Manson (nella villa al numero 10050 di Cielo Drive a Bel-Air, Los Angeles, il 9 agosto 1969 sono uccise 6 persone, tra le quali l'attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski); e quella di Eric Harris e Dylan Klebond (i due ragazzi che, il 20 aprile 1999, penetrati nella "Colombine High School", hanno fatto fuoco con due fucili mitragliatori, massacrando nella biblioteca dieci studenti e suicidandosi subito dopo: il sanguinario episodio dal quale Michael Moore ha tratto il suo film, Bowling for Colombine). «Qualcosa non va in questo paese se un bambino può prendere un fucile tanto facilmente e sparare una pallottola in mezzo al volto di un altro bambino come è successo a mio figlio», sono state le parole del padre di uno studente morto nel massacro.
Naturale domandarselo: perché questa patologia ha intaccato in modo così feroce il tessuto sociale americano? "Spara, cowboy, spara", si intitola il capitolo che Bruno e Menicangeli dedicano alle possibili risposte. «Difficile pensare a un solo movente: più logico pensare che esistano varie concause». Nella rosa delle quali, appare difficile non stabilire «una correlazione tra il numero di armi che circolano negli Stati Uniti e il fenomeno dei mass murders».
Dati alla mano, una famiglia americana su due possiede un'arma, e oltre due milioni e mezzo l'hanno utilizzata per difendersi. Ogni anno sono da 20 a 25mila i morti ammazzati. «L'amore che i cittadini americani hanno per le armi è scritto nel Dna di questa nazione: è sancito dal secondo emendamento di Jefferson e fa riferimento al vecchio mito della frontiera».
Jefferson a parte, ad alimentare la micidiale passione ci pensa la Nra (National Rifle Association), la onnipotente lobby delle armi «finanziata dalla Colt, dalla Smith&Wesson, dalla Beretta»: sono almeno 200 milioni le armi che circolano negli Usa. Facile che qualcuna finisca nella mano sbagliata, che uno di questi fucili a pompa venga imbracciato dall'individuo con personalità disturbata. Meglio non dimenticare American Beauty, un film molto "americano", e non dimenticare Charles Graner, il marine dal sorriso sadico, torturatore ad Abu Ghraib; e magari non dimenticare nemmeno le statistiche: dato che, secondo l'Istituto nazionale di salute mentale Usa, tra il 15 e il 20 per cento della popolazione adulta americana presenta turbe psichiche da gravi (ossessione) a gravissime (schizofrenia).
Sempre in materia di concause, è anche facile, inoltre, che il gran numero di "pistole fumanti" in libera uscita porti «inevitabilmente a delle storture nel concetto di legittima difesa».
Più che di mass murder, in Italia si deve parlare, invece, soprattutto di family murder. Famiglia assassina. L'omicidio all'interno delle pareti domestiche. Parenti, genitori e figli, mogli e mariti che uccidono. Il libro abbonda della casistica che, di volta in volta, ci ha sgomentato.
Quanti? Per esempio, nel 2002 si sono registrati in Italia 634 omicidi all'interno dei così chiamati "rapporti di prossimità": famiglia, parenti, amici, vicinato, ambito lavorativo. Ebbene, il ruolo preminente «lo ha avuto la famiglia, che con le sue 223 vittime (35,2% del totale) si conferma come il primo tra gli ambiti in cui matura l'omicidio».
Nelle statistiche criminali si evidenzia un "problema famiglia", soprattutto al Nord, dove si colloca il 50,9% di tutte le morti riconducibili a motivi familiari.
Sussurri e grida e colpi di pistola. Dalla attenta analisi del furore domestico viene fuori anche l'allucinato identikit dell'omicida di casa. Grosso modo, a dare la morte sono esclusivamente gli uomini (91,3%), mentre le età sono le più varie. Colpisce però l'alta percentuale degli uomini al di sopra dei 60 tra coloro che uccidono: «Questi dati ci dicono che la famiglia è diventata il luogo dello scontro, più si sta insieme e più si uccide».
Conflitti di coppia, moventi passionali, drammi del divorzio e della separazione, liti per ragioni economiche sempre più spesso finiscono in tragedia.
Casa color rosso sangue, casa ad alto rischio. Secondo le statistiche citate nel libro «vittime della famiglia assassina sono soprattutto casalinghe (27%) e pensionati (23%), cioè quelle categorie che passano più tempo in casa».
Ultimo tocco di noir familistico. «All'interno dell'abitazione, il luogo con il più alto numero di omicidi (26,9%), è la camera da letto».
Sussurri, grida, giarrettiere
... e colpi di pistola
Maria R. Calderoni
"Ammazzo tutti". Un libro sugli assassinii di massa in Italia. Modello Usa, dove un'arma è sempre a portata di mano
Il serial killer molto spesso «si serve di armi da taglio, perché vuole il contatto fisico con la sua vittima, vuole "sentire" la morte, il mass murderer si serve quasi sempre di pistole e fucili mitragliatori, armi asettiche che gli garantiscono un ampio potere distruttivo». E questo perché, «nella mente del mass murderer la società vive in uno stato patologico, aberrante, e per questo va punita e soppressa».
Lettura con brivido. In questo libro non voluminoso di 188 pagine (Ammazzo tutti. I mass murders italiani, Stampa Alternativa, euro 10), il criminologo Francesco Bruno, in collaborazione con Marco Menicangeli, fa scorrere sotto i nostri occhi la moviola dei fatti di sangue che ci hanno lasciato ogni volta storditi, senza fiato, ogni volta fissi sulla domanda che non ha risposta: «Come è possibile?» (domanda inutile e anche stupida, visto che la cosa è così possibile da essere, appunto, avvenuta).
La "cosa", l'orrore, la mostruosità. Da Doretta Graneris a Erika e Omar, il libro ci obbliga a un ripasso eclatante, a rivedere immagini, scene e particolari che avevamo dimenticato, il film delle pulp fiction nazionali. E a riaggiornare i concetti.
Mass murder, secondo la definizione del Crime Classification Manual, è l'evento nel quale un individuo uccide minimo quattro persone in un solo luogo e nello stesso tempo. Ma non occorre che siano proprio "almeno quattro". Il Fbi, ad esempio, fa rientrare la categoria nell'Authority Killing, l'omicidio compiuto «a scopo di rivendicazione contro la società». Il mass murderer è infatti convinto di aver subito dei torti da parte dell'autorità e per questo è deciso a vendicarsi. «Imbracciando il fucile o la pistola l'omicida diventa così una sorta di missionario: la sua dovrà essere un'azione esemplare, un evento che deve stamparsi col fuoco».
È stata approntata una statistica. Nella loro Encyclopedia of Mass Murder, Brian Lane e Wilfred Greg analizzano tutti i casi fino al 1994 e le cifre raccolte dai due studiosi inglesi dicono con sufficiente chiarezza che l'omicidio di massa «è una patologia del primo mondo. Stati Uniti e Europa totalizzano oltre l'85 per cento dei casi analizzati».
Primo mondo, con gli Usa che primeggiano: per esempio, nel triennio 1990-93, sui 199 casi di mass murder, ben 108 sono avvenuti in terra statunitense (23 in Inghilterra,13 in Australia, 12 in Canada e 5 in Nuova Zelanda). Tra le altre, sono raccontate due stragi che fecero scalpore: quella di Charles Manson (nella villa al numero 10050 di Cielo Drive a Bel-Air, Los Angeles, il 9 agosto 1969 sono uccise 6 persone, tra le quali l'attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski); e quella di Eric Harris e Dylan Klebond (i due ragazzi che, il 20 aprile 1999, penetrati nella "Colombine High School", hanno fatto fuoco con due fucili mitragliatori, massacrando nella biblioteca dieci studenti e suicidandosi subito dopo: il sanguinario episodio dal quale Michael Moore ha tratto il suo film, Bowling for Colombine). «Qualcosa non va in questo paese se un bambino può prendere un fucile tanto facilmente e sparare una pallottola in mezzo al volto di un altro bambino come è successo a mio figlio», sono state le parole del padre di uno studente morto nel massacro.
Naturale domandarselo: perché questa patologia ha intaccato in modo così feroce il tessuto sociale americano? "Spara, cowboy, spara", si intitola il capitolo che Bruno e Menicangeli dedicano alle possibili risposte. «Difficile pensare a un solo movente: più logico pensare che esistano varie concause». Nella rosa delle quali, appare difficile non stabilire «una correlazione tra il numero di armi che circolano negli Stati Uniti e il fenomeno dei mass murders».
Dati alla mano, una famiglia americana su due possiede un'arma, e oltre due milioni e mezzo l'hanno utilizzata per difendersi. Ogni anno sono da 20 a 25mila i morti ammazzati. «L'amore che i cittadini americani hanno per le armi è scritto nel Dna di questa nazione: è sancito dal secondo emendamento di Jefferson e fa riferimento al vecchio mito della frontiera».
Jefferson a parte, ad alimentare la micidiale passione ci pensa la Nra (National Rifle Association), la onnipotente lobby delle armi «finanziata dalla Colt, dalla Smith&Wesson, dalla Beretta»: sono almeno 200 milioni le armi che circolano negli Usa. Facile che qualcuna finisca nella mano sbagliata, che uno di questi fucili a pompa venga imbracciato dall'individuo con personalità disturbata. Meglio non dimenticare American Beauty, un film molto "americano", e non dimenticare Charles Graner, il marine dal sorriso sadico, torturatore ad Abu Ghraib; e magari non dimenticare nemmeno le statistiche: dato che, secondo l'Istituto nazionale di salute mentale Usa, tra il 15 e il 20 per cento della popolazione adulta americana presenta turbe psichiche da gravi (ossessione) a gravissime (schizofrenia).
Sempre in materia di concause, è anche facile, inoltre, che il gran numero di "pistole fumanti" in libera uscita porti «inevitabilmente a delle storture nel concetto di legittima difesa».
Più che di mass murder, in Italia si deve parlare, invece, soprattutto di family murder. Famiglia assassina. L'omicidio all'interno delle pareti domestiche. Parenti, genitori e figli, mogli e mariti che uccidono. Il libro abbonda della casistica che, di volta in volta, ci ha sgomentato.
Quanti? Per esempio, nel 2002 si sono registrati in Italia 634 omicidi all'interno dei così chiamati "rapporti di prossimità": famiglia, parenti, amici, vicinato, ambito lavorativo. Ebbene, il ruolo preminente «lo ha avuto la famiglia, che con le sue 223 vittime (35,2% del totale) si conferma come il primo tra gli ambiti in cui matura l'omicidio».
Nelle statistiche criminali si evidenzia un "problema famiglia", soprattutto al Nord, dove si colloca il 50,9% di tutte le morti riconducibili a motivi familiari.
Sussurri e grida e colpi di pistola. Dalla attenta analisi del furore domestico viene fuori anche l'allucinato identikit dell'omicida di casa. Grosso modo, a dare la morte sono esclusivamente gli uomini (91,3%), mentre le età sono le più varie. Colpisce però l'alta percentuale degli uomini al di sopra dei 60 tra coloro che uccidono: «Questi dati ci dicono che la famiglia è diventata il luogo dello scontro, più si sta insieme e più si uccide».
Conflitti di coppia, moventi passionali, drammi del divorzio e della separazione, liti per ragioni economiche sempre più spesso finiscono in tragedia.
Casa color rosso sangue, casa ad alto rischio. Secondo le statistiche citate nel libro «vittime della famiglia assassina sono soprattutto casalinghe (27%) e pensionati (23%), cioè quelle categorie che passano più tempo in casa».
Ultimo tocco di noir familistico. «All'interno dell'abitazione, il luogo con il più alto numero di omicidi (26,9%), è la camera da letto».
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