giovedì 7 agosto 2003

Iole Natoli stasera a Firenze con il suo film
e La condanna di Marco Bellocchio

(la notizia è riportata anche dalla cronaca di Firenze di Repubblica e dalla Nazione)
Questa sera, Giovedì 7 agosto, presso l'ARENA PICCOLA DI CAMPO DI MARTE, a Firenze (viale Pasquale Paoli, l'impianto di piscine di fronte allo Stadio Comunale (uno dei capolavori di Pierluigi Nervi), all'interno del ciclo "Il cinema è una donna bellissima" ideato e realizzato dalla cooperativa "Il Gigante" di Firenze
alle ore 21.30 verranno proiettati:

il film di Iole Natoli "A un millimetro dal cuore" 2002 (25')
(sarà presente Iole Natoli e, forse, Tony Carnevale)

e, a seguire, "La Condanna" di Marco Bellocchio 1991 (90')

Giorello: da Leibniz a Gödel

Corriere della Sera 7.8.03
Una realtà dominata dalle macchine o una virtuosa cooperazione? In un saggio di Martin Davis le possibili risposte
L’umana avventura dell’intelligenza artificiale
di Giulio Giorello

Fra il 1680 e il 1685 la direzione delle miniere dell’Harz, regione montuosa a sud est di Hannover, doveva scontrarsi col «più improbabile dei minatori», il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). La materia del contendere riguardava come far funzionare le pompe che dovevano impedire che le acque allagassero i cunicoli delle miniere: da secoli ci si era serviti di mulini ad acqua, che avevano il difetto di essere inutilizzabili d’inverno, quando i fiumi gelavano; Leibniz proponeva di ricorrere ai mulini a vento. Fatte le debite proporzioni, è ancora storia di oggi: non siamo sempre alla ricerca di una qualche fonte di energia che sia economica, «pulita» e non ci pianti in asso nel momento meno opportuno? In una Germania che lentamente usciva dai disastri della Guerra dei trent’anni, Leibniz, che aveva già alle proprie spalle importanti scoperte matematiche, sperava di poter finanziare con questa innovazione una riforma del sapere e della politica, che la facesse finita con le dispute religiose che avevano insanguinato la Cristianità e ponesse le basi di una nuova Europa. Il primo passo era quello di «assoggettare a leggi matematiche il ragionamento umano, la cosa più eccellente e utile che possediamo» - e poi gli «uomini di buona volontà», di fronte a qualsiasi spinoso problema si sarebbero esortati l’un l’altro con un «Calcoliamo!» fino a trovare la soluzione che avrebbe messo tutti d’accordo. Come racconta Martin Davis, uno dei maggiori logici americani, nel suo recente Il calcolatore universale , l’umana avventura è piena di Don Chisciotte e di mulini a vento. Nel caso di Leibniz non si tratta di follia, almeno sul lungo periodo. Nella prima metà dell’Ottocento Ada Lovelace (1815-1852), figlia di Lord Byron, sosteneva che il congegno necessario, escogitato (1834) da Charles Babbage (1791-1871), avrebbe potuto «tessere» formule matematiche proprio come «tesse fiori e foglie il telaio di Jacquard», la macchina che produceva tessuti seguendo un disegno specificato da una pila di schede perforate. La storia del calcolatore è fin dall’origine legata alla Rivoluzione industriale.
Come mostra Davis, la svolta nell’intera vicenda è stata la sostituzione del «computista» umano con una macchina. Nel Novecento i primi grandi calcolatori (gli «ippopotami», com’erano detti negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale) hanno ceduto il passo ai computer di oggi, «sempre più piccoli e sempre più potenti». Ma, aggiunge Davis, «se l’informatica avanza a velocità tale da togliere il respiro, sì da farci ammirare le imprese degli ingegneri, è fin troppo facile dimenticare quei logici le cui idee le hanno rese possibili».
Già Leibniz era interessato alla natura profonda della ragione umana, alle sue connessioni col linguaggio, agli aspetti del pensiero che potessero essere «catturati» dal calcolo. Tre secoli di logica hanno consentito che il suo «sogno» prendesse corpo. Nel secondo dopoguerra dovevano essere soprattutto un riluttante «figlio dell’Impero Britannico», Alan Turing, e un rampollo della Mitteleuropa che aveva «trovato l’America», John von Neumann, a sviluppare l’idea di «calcolatore universale», una sorta di macchina «capace di fare da sola il lavoro di tutte», vero e proprio «modello» di qualunque attività calcolistica. E forse del pensiero stesso, come vuole quella corrente di ricerca nota come Intelligenza Artificiale, che al proprio attivo annovera programmi contro cui perdono campioni di scacchi o che sono in grado di scoprire regolarità profonde in fenomeni naturali la cui complessità spaventa la mente umana.
Il libro di Davis finisce con una domanda ormai ineludibile nella nostra epoca tecnologica: le macchine possono pensare? Matematici come Roger Penrose e filosofi come John Searle tendono a escluderlo, anche se ammettono che la nostra mente altro non è che un «prodotto» del cervello, soggetto alle leggi della fisica e della chimica; quello che è stato forse il più grande logico del Novecento, Kurt Gödel (e che tanta parte ha nella storia raccontata da Davis), riteneva invece che il nostro cervello fosse un computer capace di funzionare più o meno bene, ma credeva che la mente avesse una potenza irriducibile al corpo. Davis lascia aperta la questione: c’è in lui un po’ della saggezza dello scrittore Samuel Butler che, nel lontano 1871, insisteva sulla «straordinaria evoluzione delle macchine» che sarebbero state capaci di sorprendere qualunque previsione umana. Ma Butler (il quale detestava Darwin, il teorico dell’evoluzione degli esseri viventi) temeva che il sogno di Leibniz si sarebbe tramutato nell’incubo di un mondo dominato da macchine «troppo intelligenti».
Oggi non pochi filosofi la pensano più o meno come lui e «maledicono» quello straordinario minatore dell’Harz. Mi sia lecito, allora, un ricordo personale: il «sogno di Leibniz» (tra l’altro, questa locuzione si deve a un grande logico e matematico italiano, Giuseppe Peano) era tra gli argomenti preferiti del mio caro amico Marco Mondadori (uno dei più brillanti esponenti della scuola logica italiana, scomparso nel 1999), che se la prendeva con lo «sterile» pessimismo di Butler e concepiva invece le macchine (più o meno intelligenti) non come nemiche ma come «compagne di strada» degli esseri umani (più o meno pensanti) in una sorta di «virtuosa» cooperazione.

Il libro: «Il calcolatore universale. Da Leibniz a Turing» di Martin Davis, traduzione di Gianni Rigamonti, edizioni Adelphi, pagine 321, € 24

Lucrezio Caro (98-55 a.c.)

Il Corriere della Sera, 7.8.03
Il De rerum natura nella rara versione di Alessandro Marchetti, scienziato del ’600
Elogio di Lucrezio eretico. Anzi eroico
di Luciano Canfora

Galileo fu uomo prudente, per nulla incline all’eroismo. Anche perciò Bertolt Brecht lo ammirò e gli attribuì, nel dramma dedicato alla sua vicenda, la memorabile osservazione: «Beata la terra che non ha bisogno di eroi!». Eroici non furono nemmeno i suoi scolari, a parte quelli che Brecht mette in scena, che avrebbero voluto più eroico il maestro. Scolaro di scolari di Galileo fu Alessandro Marchetti (1632-1714), matematico e successore di Borelli a Pisa. Egli lavorò per molta parte della sua vita a una traduzione in versi di Lucrezio, che non osò mai pubblicare. La pubblicò il Rolli a Londra tre anni dopo la morte di Marchetti (1717), quando ormai i fulmini della censura non potevano più colpire il moderno traduttore, ma era comunque più prudente pubblicare a Londra che in Toscana.
«Eretico», anzi, materialista e «ateo» era considerato il grande scienziato-poeta latino che aveva realizzato l’impresa impressionante di mettere in esametri i trattati di Epicuro. (Brecht aveva accarezzato l’idea di trarre un poema dal Capitale di Marx).
Eretico era il modo in cui Marchetti si era avvicinato a Lucrezio, filtrandolo, per così dire, attraverso il suo appassionamento per la scienza moderna. Memorabile l’inserzione che egli fece di un elogio di Borelli nel libro I dell’antico poema e di Gassendi nel libro V, a imitazione dei continui elogi di Epicuro che Lucrezio dissemina strategicamente nel poema.
Prova della inquietudine di Marchetti di fronte ai suoi propri esperimenti è la mancanza dei versi su Gassendi in vari esemplari: in quelli che forse rispecchiano la volontà ultima del traduttore quell’elogio non c’è più. Mario Saccenti in memorabili saggi ( Lucrezio in Toscana ) trattò questa significativa storia.
Oggi la Salerno Editrice pubblica in veste elegante (nella collana «I Diamanti», Della natura delle cose, pp. 546, 20) la traduzione lucreziana del Marchetti secondo la stesura «finale», con una adeguata introduzione di Denise Aricò.
Editore e ammiratore di questa versione toscana, che ha valore di autonoma scrittura poetica rispetto all’originale latino, fu Giosuè Carducci, il quale la pubblicò a Firenze presso Barbèra nel 1864. Una scelta non casuale da parte del laico «leone» maremmano. Il poema della natura aveva ispirato Lagrange a una traduzione che si ristampava ancora nel Novecento. E ispirerà Einstein a una memorabile pagina introduttiva della migliore traduzione moderna, quella di Hermann Diels.

Luigi Lo Cascio, il protagonista maschile di Buongiorno, notte di Marco Bellocchio

Repubblica 7.08.03
Dal Nicola del film-fenomeno diretto da Giordana al brigatista del caso Moro di Bellocchio: ritratto dell´attore del momento
La meglio gioventù appassionata come me
Incantesimo E´ la magia del cinema che mi fa apparire più alto e più bello
di MARIA PIA FUSCO

ROMA - Luigi Lo Cascio è al telefono da Sofia. Interpreta l´ispettore Arnaldi che indaga nel mistero dei delitti di un serial killer che uccide protetto da una maschera. Il film è Occhi di cristallo dal libro "L´impagliatore" di Luca Di Fulvio, regia di Eros Puglielli ("Tutta la conoscenza del mondo"), prodotto da Cattleya con RaiCinema. «Non è il tipico poliziotto che avanza con la logica, c´è una partecipazione personale forte», dice. «Le modalità dei delitti fanno affiorare sentimenti e memorie che lo riguardano. Non avevo fatto un personaggio così, mi è piaciuta la sceneggiatura ed è stato determinante l´incontro con Puglielli, ha così tanta passione dentro che è impossibile non farsi coinvolgere».
Che effetto fa ritrovarsi tra gli attori più rappresentativi della sua generazione dopo soli quattro anni di cinema?
«Non ci penso, per me è già un regalo il momento del lavoro, lo faccio sempre con grande entusiasmo, lo stesso degli inizi a teatro. Forse il mio vantaggio è quello di essere arrivato tardi al cinema, che considero comunque parte della mia attività di attore».
E tutto grazie a zio Luigi Burruano?
«È vero, io studiavo, ero seriamente intenzionato a diventare psichiatra, ma in famiglia c'era zio Luigi che faceva teatro e la sua passione mi ha contagiato, ho cominciato a recitare in vari gruppi, poi mi sono iscritto all´Accademia. Ed è stato mio zio a segnalarmi a Giordana, lo ha portato a teatro a Palermo dove recitavo Shakespeare. La fortuna è stata che, dopo I cento passi, Piccioni, con Luce dei miei occhi, mi ha aiutato a dimostrare di essere un attore in grado di fare ruoli diversi, capace di cambiare. Anche di fare il gay in Il più bel giorno della mia vita, in cui ho cercato di evitare i cliché, ho puntato sulla storia d´amore, difficile come tutte le storie d´amore».
Lei sarà a Venezia con Buongiorno, notte di Bellocchio. Che aspettative ha?
«Un premio l´ho già avuto, lavorare con Bellocchio. E con un personaggio complesso, ambiguo. Il film parte dalla realtà storica del rapimento di Moro, ma poi scivola nell´invenzione, si immagina la scissione - soprattutto nel personaggio di Maya Sansa, la protagonista - tra il carceriere e la persona che dialoga con il prigioniero. Io sono Mariano, il terrorista psicologicamente più determinato, ma anche lui si rende conto di trovarsi dentro la gabbia delle sue scelte, come se si scambiassero le posizioni tra carceriere e carcerato».

Tra poco sarà a Locarno con il film di Alessandro Piva...
«Non ho ancora visto Mio cognato, una dark comedy, un grottesco, il rapporto tra i due cognati, Sergio Rubini e io, supera l´elemento naturalistico. Siamo diversissimi, lui vitale, turbolento, imprevedibile, io semplice, piccolo borghese, bene educato. Ma quando mi trascina nella Bari notturna, in quartieri malfamati e oscuri come un inferno in cui sono un pesce fuor d´acqua, sono affascinato, provo quasi un desiderio di emulazione».
Che cosa le è rimasto dell´esperienza di La meglio gioventù?
«Il copione prima di tutto, la qualità letteraria dei dialoghi, è stato un piacere dire parole belle come quelle. L´immagine di Marco Tullio che, anche dopo quattro mesi, arrivava ogni mattina sul set entusiasta, sempre con un´idea nuova. Quanto a Nicola, non ho mai pensato al contesto politico che attraversava, ma solo all´essere umano, alla sua ricerca di libertà più per gli altri che per se stesso. Ho amato la sua curiosità, la voglia di conoscenza che ha nella vita e nel suo lavoro di psichiatra».
La sua vita è cambiata in questi ultimi anni?
«La notorietà mi è arrivata dopo i trent´anni, ero già abbastanza formato, non mi ha provocato grandi scossoni. Il cinema mi ha aiutato a innamorarmi di nuovo del mestiere dell´attore. E mi piace la vita girovaga, gli alberghi, gli aeroporti, i luoghi anonimi».
Ma ormai la riconoscono...
«Sarei ipocrita se dicessi che non mi fa piacere. Ma in genere succede che si avvicinano. Lei è quell´attore, quello che ha fatto.. Poi mi guardano... No, scusi, lei è meno carino, più piccolo, e se ne vanno. È la magia del cinema che mi fa apparire più alto e più bello».
Comunque è diventato più ricco...
«Per quello ci voleva poco. Senza fare la retorica dell´attore affamato che deve fare mille mestieri per mantenersi, è vero che per molti anni dovevo scegliere se comprare il giornale o il caffè. Nel teatro la gerarchia è molto forte, la differenza tra il primo attore è gli altri è abissale e con le centomila lire devi pagare vitto, alloggio e anche le tasse. Non sono ricco, ma con il cinema mi sembra di vivere nel lusso sfrenato».

Luca Bonaccorsi, il direttore della libreria Amore e Psiche

La Stampa VivereRoma, 07 Agosto 2003
Tirano romanzi gialli e narrativa in una stagione che vede raddoppiare le vendite: i romani sentono molto il tema dell’Islam
Apuleio resta un evergreen
Coelho e Totti, in spiaggia, si legge proprio di tutto
LICIA PASTORE

Tempo di vacanze, tempo di letture e... i romani non si discostano dalle medie nazionali che parlano di raddoppi delle vendite. Secondo alcuni primi dati orientativi quest’anno le vendite di libri vanno meglio e si è consolidata la tendenza alla lettura durante l’estate. Una lettura, fatta di best sellers ma anche di classici, di letteratura e libri che forniscono un quadro di lettori che ricercano proposte di qualità, rappresentate magari da autori minori che si dedicano a temi specifici. Cosa leggono di più i romani? Quali sono i generi che hanno tirato di più in questa calda estate? «Secondo una prima impressione indicativa di queste prime settimane - spiega Patrizia Matera responsabile libri di Feltrinelli di largo Argentina - si sta leggendo di più ed è la letteratura che fa da padrona insieme con i romanzi gialli ed alcuni libri di qualità che sono piaciuti e tornano ad essere acquistati». Nella classifica dei libri più venduti, c'è al primo posto Paolo Coelho con «11 minuti». Non c'è molto da meravigliarsi ma, sotto l'ombrellone accanto ad una bibita fresca, Totti con «Tutte le barzellette», sta andando molto bene. Buone nuove anche dal fronte narrativa specie con il premio Strega di quest'anno, «Vita» di Melania Mazzucco e Margaret Mazzantini con il suo «Non ti muovere».
D'accordo anche alla libreria Rinascita, un luogo dove la maggior parte della clientela è costituita dai cosiddetti lettori forti, che acquistano libri durante tutto il periodo dell'anno e avendo più tempo in estate cercano molto la saggistica. «Indubbiamente il romanzo e la narrativa prendono il sopravvento in estate - afferma Gina Bellot direttrice della libreria - tra i titoli che hanno un livello di leggibilità molto alto c'è anche il genere non particolarmente impegnativo». Rinascita indica anche un altro libro di successo: «Lo chiamavano impunità» di Gomez e Travaglio. E continuano sempre ad essere comprati generi come quello della scrittrice americana Alice Sebold con il suo primo romanzo «Amabili resti». Allontanandosi dai fenomeni rilevanti del mercato e cercando proposte di generi diversi, si scopre che tra la saggistica e la narrativa un tema forte è stato quello dell’Islam. «Noi promuoviamo la qualità delle proposte e in genere spingiamo autori minori». Luca Bonaccorsi direttore della libreria Amore e Psiche, nei pressi del Pantheon, conferma il riscatto della buona lettura. «Tra veli e turbanti» di Vercellin, «Dietro il velo» di Heller e Moshabi e Fatima Mernissi con «L'Harem e l'occidente» hanno incuriosito una fascia di lettori ricercatori dei misteri delle culture arabe. «Un evergreen che va sempre forte è Amore e Psiche di Apuleio - aggiunge Bonaccorsi - favola incredibile che riscuote ancora molto successo. Decisamente altro grande successo dell'estate è stata la rivista trimestrale il Sogno della Farfalla».