La Stampa 17.9.04
Un gruppo di bimbi sordi inventa un nuovo linguaggio
Ricerca degli psicologi della Columbia University
Alunni non udenti di una scuola di Managua (Nicaragua) comunicano con un linguaggio gestuale completamente inventato da loro e sviluppato con sorprendente rapidità negli ultimi 25 anni: è la sorprendente vicenda raccontata questa settimana sulla rivista «Science», che ha come protagonista una comunità scolastica nata negli Anni 70. Il team di Ann Senghas, del Department of Psychology Barnard College della Columbia University, ha scoperto che il modo di comunicare ha caratteristiche comuni a tutte le lingue del mondo: questa sarebbe la prova vivente del fatto che l’uomo nasce con capacità tali da determinare la forma che il linguaggio può assumere. Le caratteristiche di base della lingua emergerebbero in modo innato: non c'è bisogno che i genitori si preoccupino insegnare ai propri figli a parlare, la sola cosa di cui hanno bisogno è la naturale interazione sociale.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 17 settembre 2004
IV Festivalfilosofia
...dal 2000
Corriere della Sera 17.9.04
I filosofi tornano a invadere le strade di Modena, Carpi e ...
I filosofi tornano a invadere le strade di Modena, Carpi e Sassuolo. Si apre oggi il IV Festival della filosofia, dedicato quest’anno al tema «il mondo». In tre giorni - la manifestazione si concluderà domenica 19 - sono previsti oltre 150 incontri, 40 lezioni magistrali e dibattiti, 16 mostre. Agli appuntamenti in piazza o alle «conversazioni da panchina» con gente comune e appassionati, alcuni studiosi di fama mondiale: dall’antropologo Marc Augé all’africanista Jean-Loup Arselle, dal regista Peter Greenaway a Jonathan Friedman. Numerosi anche gli interventi dei pensatori italiani come Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Remo Bodei e Gianni Vattimo. La manifestazione, che nel 2003 ha fatto registrare 75mila presenze, è diventata «un momento d’identità per le nostre città, grazie alla sua impronta molto originale, un momento vissuto collettivamente» - ha sottolineato Giorgio Pighi, sindaco di Modena.
La Stampa 17.9.04
INCONTRI, IDEE, SPETTACOLI: SI APRE IL FESTIVAL DI FILOSOFIA
Da che mondo non è più mondo
In Occidente ha vinto l’arroganza del realismo
ma possiamo ritrovare la libertà di sogni e utopie
Ermanno Bencivenga
CHE cosa si dice quando si dice «mondo»? Quando, per esempio, uomini e donne «di mondo» spiegano come va il mondo e come si sta al mondo; quando chi non è al passo con la loro concezione «realistica» dei fatti è accusato di colpevole ignoranza e di infantile idealismo; quando per confutare «favole» e «sogni» si evoca l'immagine rigorosa e impietosa della «scienza»?
Sullo sfondo di queste arroganti dichiarazioni ci sono quattro presupposti filosofici (di stampo realista) che hanno dominato il campo per l'intero corso della civiltà occidentale, violando e tacitando ogni voce alternativa. Primo, tutto ciò che esiste ha una struttura e proprietà definite, è quel che è e non un'altra cosa, e rispecchiarne fedelmente proprietà e struttura è il compito della conoscenza. Secondo, il mondo è unico, è un universo. Quando parliamo di altri mondi possibili, parliamo di ipotesi, finzioni o idee nella mente di Dio; poi sarà meglio tornare con i piedi per terra e fare i conti con la sola vera realtà. Terzo, il mondo è regolato da leggi deterministiche, che sanciscono l'inflessibile procedere degli eventi e consentono a chi ne è al corrente di prevedere con assoluta certezza il futuro. Quarto, il mondo ha una natura materiale e chi non le mostra sufficiente rispetto si farà male, perché la materia è dura e impenetrabile e se ci sbatti contro ti provoca lividi e ferite.
I presupposti del realismo hanno avuto profonde conseguenze politiche: di quella politica dell'esperienza e della comunicazione di cui gli stanchi riti della politica istituzionale non sono che risapute, volgari drammatizzazioni. Una volta installatisi nell'immaginario popolare, essi hanno chiuso il discorso sul mondo, riducendolo a un ambiente inerte ed estraneo, sordo ai nostri richiami, inaccessibile al dialogo, sensibile solo all'esercizio brutale del potere. In tale ambiente, la nostra stessa umanità è stata costretta a una condizione sempre più precaria e arrischiata: anche noi siamo parte del mondo, quindi in un mondo di oggetti privi di vita anche noi facciamo fatica a non diventare entità inanimate, a difendere la credibilità di un nostro presunto stato eccezionale. Non solo rocce e fiumi sono manipolabili a piacere, ma lo sono in misura crescente anche le cellule vegetali e animali, i nostri organi di percezione, le nostre preferenze e le nostre emozioni, i nostri vizi e le nostre virtù. Presto non sapremo più distinguerci da un robot ben congegnato.
La versione più recente del realismo ha avuto origine non più di quattro secoli fa. Negli anni '80 del Cinquecento Giordano Bruno stava ancora elaborando l'ultima grande cosmologia animista, in cui culminava un periodo (quello rinascimentale) che aveva visto un ribollire di proposte audaci e fantasiose, attacchi furibondi a ogni autorità, il crollo delle vecchie categorie e il lampeggiare vigoroso di infinite, sorprendenti possibilità. Il Seicento si apre, significativamente, con il rogo di Bruno, e di lì a poco comincia a costituirsi, intorno alla "nuova scienza", una nuova struttura di potere. Bacone consiglia di torturare la natura per estrarne i segreti; Galileo la "legge" come un modello geometrico; Cartesio, Spinoza e Leibniz l'assimilano sempre più a un orologio, ai giochi d'acqua di una fontana, a una marionetta. E da scienziati e filosofi questa visione meccanicistica filtra nei discorsi e nelle aspettative dei profani, convalidando la spocchia con cui vengono irrise le «ideologie», messi in fuga gli «utopisti».
Si tratta, però, di una visione che fa acqua da tutte le parti, e a suggerirlo non sono mistici di retroguardia o santoni new age; i segnali vengono dal cuore stesso di quella scienza che del realismo rappresenta la giustificazione (o l'alibi) più frequente. Vengono dalla meccanica quantistica, che da un secolo ormai è la teoria fisica fondamentale. Ogni corpo, afferma la dottrina dei quanti, è in ogni momento non in un singolo stato ma in una sovrapposizione di stati distinti, ciascuno dotato di un suo valore (o coefficiente). Un elettrone, per esempio, non ha velocità x e posizione y; ha invece (diciamo) 3/8 di velocità x1, 1/8 di velocità x2, ... e 1/3 di posizione y1, 1/3 di posizione y2, ... Quindi, primo, tutti i corpi esistenti al mondo, e il mondo nel suo complesso, non sono strutture definite: sono quel che sono e anche un’altra cosa - indefinite altre cose, tutte contemporaneamente. Secondo, il mondo non è unico: il possibile ne fa parte, è presente e attivo, anzi ha un preciso coefficiente di presenza e di attività. Il mondo è fatto non di oggetti inerti ma di mondi, di opzioni diverse che non cessano mai di esercitare il loro positivo influsso.
E non è finita. Quando un corpo viene osservato, recita sempre la meccanica quantistica, esso immediatamente "collassa" da una sovrapposizione di stati a uno stato definito, in modo non deterministico ma casuale. Quando viene osservato da chi? Da una mente umana? Da un topo (l'esempio è di Einstein)? Da un altro corpo qualsiasi? La teoria non risponde; non esiste per ora nessuna soluzione per questo "paradosso della misura". Il quale però, mentre nega il determinismo, invita anche a pensare (e alcuni fisici ci hanno effettivamente pensato - fra loro David Bohm) a un mondo in cui circola costantemente informazione, in cui le particelle e i loro composti comunicano costantemente, in cui l'anima non è isolata nella riserva indiana di un qualche regno dei cieli. Un mondo che, infine, ha ben poco di materiale, perché le componenti ultime della materia sono «oggetti» privi di massa, distinti l'uno dall'altro solo in base alla loro organizzazione formale. Diceva Werner Heisenberg che «gli atomi non sono cose». Non lo sono, cioè, nel modo in cui il realismo intende le cose. Sono vivi, attivi, non cessano mai di riqualificarsi e ridefinirsi.
L'esito del realismo è quello di limitare la nostra libertà. Se quando «veniamo al mondo» i giochi sono già tutti fatti e dobbiamo solo prenderne atto, se dappertutto troviamo i paletti di una realtà fissa e precostituita, allora conviene piegarsi a tale realtà e magari cercare di trarne un piccolo profitto personale. Ma questa è solo propaganda: il mondo viene al mondo in ogni istante, nasce in ogni istante da scelte e interazioni libere che a un occhio determinista non possono che apparire casuali. Ciò vale per le particelle elementari e, dovremmo rendercene conto, anche per la nostra esistenza individuale e sociale. E dovremmo renderci conto che a farci male non è un'ottusa materia ma la nostra incapacità di comunicare fra noi, e con tutto il resto dell'essere.
I filosofi tornano a invadere le strade di Modena, Carpi e ...
I filosofi tornano a invadere le strade di Modena, Carpi e Sassuolo. Si apre oggi il IV Festival della filosofia, dedicato quest’anno al tema «il mondo». In tre giorni - la manifestazione si concluderà domenica 19 - sono previsti oltre 150 incontri, 40 lezioni magistrali e dibattiti, 16 mostre. Agli appuntamenti in piazza o alle «conversazioni da panchina» con gente comune e appassionati, alcuni studiosi di fama mondiale: dall’antropologo Marc Augé all’africanista Jean-Loup Arselle, dal regista Peter Greenaway a Jonathan Friedman. Numerosi anche gli interventi dei pensatori italiani come Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Remo Bodei e Gianni Vattimo. La manifestazione, che nel 2003 ha fatto registrare 75mila presenze, è diventata «un momento d’identità per le nostre città, grazie alla sua impronta molto originale, un momento vissuto collettivamente» - ha sottolineato Giorgio Pighi, sindaco di Modena.
La Stampa 17.9.04
INCONTRI, IDEE, SPETTACOLI: SI APRE IL FESTIVAL DI FILOSOFIA
Da che mondo non è più mondo
In Occidente ha vinto l’arroganza del realismo
ma possiamo ritrovare la libertà di sogni e utopie
Ermanno Bencivenga
CHE cosa si dice quando si dice «mondo»? Quando, per esempio, uomini e donne «di mondo» spiegano come va il mondo e come si sta al mondo; quando chi non è al passo con la loro concezione «realistica» dei fatti è accusato di colpevole ignoranza e di infantile idealismo; quando per confutare «favole» e «sogni» si evoca l'immagine rigorosa e impietosa della «scienza»?
Sullo sfondo di queste arroganti dichiarazioni ci sono quattro presupposti filosofici (di stampo realista) che hanno dominato il campo per l'intero corso della civiltà occidentale, violando e tacitando ogni voce alternativa. Primo, tutto ciò che esiste ha una struttura e proprietà definite, è quel che è e non un'altra cosa, e rispecchiarne fedelmente proprietà e struttura è il compito della conoscenza. Secondo, il mondo è unico, è un universo. Quando parliamo di altri mondi possibili, parliamo di ipotesi, finzioni o idee nella mente di Dio; poi sarà meglio tornare con i piedi per terra e fare i conti con la sola vera realtà. Terzo, il mondo è regolato da leggi deterministiche, che sanciscono l'inflessibile procedere degli eventi e consentono a chi ne è al corrente di prevedere con assoluta certezza il futuro. Quarto, il mondo ha una natura materiale e chi non le mostra sufficiente rispetto si farà male, perché la materia è dura e impenetrabile e se ci sbatti contro ti provoca lividi e ferite.
I presupposti del realismo hanno avuto profonde conseguenze politiche: di quella politica dell'esperienza e della comunicazione di cui gli stanchi riti della politica istituzionale non sono che risapute, volgari drammatizzazioni. Una volta installatisi nell'immaginario popolare, essi hanno chiuso il discorso sul mondo, riducendolo a un ambiente inerte ed estraneo, sordo ai nostri richiami, inaccessibile al dialogo, sensibile solo all'esercizio brutale del potere. In tale ambiente, la nostra stessa umanità è stata costretta a una condizione sempre più precaria e arrischiata: anche noi siamo parte del mondo, quindi in un mondo di oggetti privi di vita anche noi facciamo fatica a non diventare entità inanimate, a difendere la credibilità di un nostro presunto stato eccezionale. Non solo rocce e fiumi sono manipolabili a piacere, ma lo sono in misura crescente anche le cellule vegetali e animali, i nostri organi di percezione, le nostre preferenze e le nostre emozioni, i nostri vizi e le nostre virtù. Presto non sapremo più distinguerci da un robot ben congegnato.
La versione più recente del realismo ha avuto origine non più di quattro secoli fa. Negli anni '80 del Cinquecento Giordano Bruno stava ancora elaborando l'ultima grande cosmologia animista, in cui culminava un periodo (quello rinascimentale) che aveva visto un ribollire di proposte audaci e fantasiose, attacchi furibondi a ogni autorità, il crollo delle vecchie categorie e il lampeggiare vigoroso di infinite, sorprendenti possibilità. Il Seicento si apre, significativamente, con il rogo di Bruno, e di lì a poco comincia a costituirsi, intorno alla "nuova scienza", una nuova struttura di potere. Bacone consiglia di torturare la natura per estrarne i segreti; Galileo la "legge" come un modello geometrico; Cartesio, Spinoza e Leibniz l'assimilano sempre più a un orologio, ai giochi d'acqua di una fontana, a una marionetta. E da scienziati e filosofi questa visione meccanicistica filtra nei discorsi e nelle aspettative dei profani, convalidando la spocchia con cui vengono irrise le «ideologie», messi in fuga gli «utopisti».
Si tratta, però, di una visione che fa acqua da tutte le parti, e a suggerirlo non sono mistici di retroguardia o santoni new age; i segnali vengono dal cuore stesso di quella scienza che del realismo rappresenta la giustificazione (o l'alibi) più frequente. Vengono dalla meccanica quantistica, che da un secolo ormai è la teoria fisica fondamentale. Ogni corpo, afferma la dottrina dei quanti, è in ogni momento non in un singolo stato ma in una sovrapposizione di stati distinti, ciascuno dotato di un suo valore (o coefficiente). Un elettrone, per esempio, non ha velocità x e posizione y; ha invece (diciamo) 3/8 di velocità x1, 1/8 di velocità x2, ... e 1/3 di posizione y1, 1/3 di posizione y2, ... Quindi, primo, tutti i corpi esistenti al mondo, e il mondo nel suo complesso, non sono strutture definite: sono quel che sono e anche un’altra cosa - indefinite altre cose, tutte contemporaneamente. Secondo, il mondo non è unico: il possibile ne fa parte, è presente e attivo, anzi ha un preciso coefficiente di presenza e di attività. Il mondo è fatto non di oggetti inerti ma di mondi, di opzioni diverse che non cessano mai di esercitare il loro positivo influsso.
E non è finita. Quando un corpo viene osservato, recita sempre la meccanica quantistica, esso immediatamente "collassa" da una sovrapposizione di stati a uno stato definito, in modo non deterministico ma casuale. Quando viene osservato da chi? Da una mente umana? Da un topo (l'esempio è di Einstein)? Da un altro corpo qualsiasi? La teoria non risponde; non esiste per ora nessuna soluzione per questo "paradosso della misura". Il quale però, mentre nega il determinismo, invita anche a pensare (e alcuni fisici ci hanno effettivamente pensato - fra loro David Bohm) a un mondo in cui circola costantemente informazione, in cui le particelle e i loro composti comunicano costantemente, in cui l'anima non è isolata nella riserva indiana di un qualche regno dei cieli. Un mondo che, infine, ha ben poco di materiale, perché le componenti ultime della materia sono «oggetti» privi di massa, distinti l'uno dall'altro solo in base alla loro organizzazione formale. Diceva Werner Heisenberg che «gli atomi non sono cose». Non lo sono, cioè, nel modo in cui il realismo intende le cose. Sono vivi, attivi, non cessano mai di riqualificarsi e ridefinirsi.
L'esito del realismo è quello di limitare la nostra libertà. Se quando «veniamo al mondo» i giochi sono già tutti fatti e dobbiamo solo prenderne atto, se dappertutto troviamo i paletti di una realtà fissa e precostituita, allora conviene piegarsi a tale realtà e magari cercare di trarne un piccolo profitto personale. Ma questa è solo propaganda: il mondo viene al mondo in ogni istante, nasce in ogni istante da scelte e interazioni libere che a un occhio determinista non possono che apparire casuali. Ciò vale per le particelle elementari e, dovremmo rendercene conto, anche per la nostra esistenza individuale e sociale. E dovremmo renderci conto che a farci male non è un'ottusa materia ma la nostra incapacità di comunicare fra noi, e con tutto il resto dell'essere.
un racconto di Paolo Izzo
Variazioni sul tema
di Paolo Izzo
Nonostante gli ostacoli che presunti moralizzatori e conservatori di ogni tipo mettono sulla sua strada, la medicina avanza perentoria. E malattie che fino a qualche tempo fa erano giudicate incurabili, trovano una soluzione definitiva, come nel caso del bambino talassemico
Certezze
di Paolo Izzo
Nonostante gli ostacoli che presunti moralizzatori e conservatori di ogni tipo mettono sulla sua strada, la medicina avanza perentoria. E malattie che fino a qualche tempo fa erano giudicate incurabili, trovano una soluzione definitiva, come nel caso del bambino talassemico
Certezze
Il laboratorio pullulava di infermieri; un andirivieni caotico e mirato allo stesso tempo. Le diverse lingue si mischiavano, talvolta senza comprendersi. Ma gli sguardi dicevano le stesse cose e viaggiavano alla velocità della luce.
Quando arrivò il medico le voci si attenuarono fino ad ammutolire e persino i rumori sembrarono ovattarsi. Dalle mani dell'uomo, rivolte all'insù, gocciolava acqua pulita; la sua fronte era piana, come se i pensieri riconoscessero la strada senza bisogno di solcare la pelle. Qualcuno pensò che il ragazzo addormentato sul tavolo operatorio aveva la stessa espressione dell'uomo che stava per operarlo; come se una speranza-certezza li accomunasse.
Interrogato dagli occhi calmi del chirurgo, l'anestesista fece un deciso cenno di assenso; tutte le luci furono spente eccetto il riflettore puntato sul torso scoperto del giovane; il ronzio delle telecamere che collegavano il mondo con la sala operatoria fu interrotto da un'unica parola: bisturi. E una linea rossa precisissima unì l'ombelico al centro del petto. Il primo intervento di quel genere nella storia della medicina era appena cominciato.
Quattro ore dopo, una folla di giornalisti ammirati accolse il dottore, che si fermò in mezzo a loro emettendo un breve sospiro. Era come se nessuno sapesse cosa chiedergli, come se ne avessero soggezione; poi uno di loro trovò il coraggio e domandò la prima cosa che gli venne in mente: Professore, perché ha cominciato dall'ombelico?. Perché è il nucleo della nascita, fu la risposta che nessuno lì per lì comprese.
Soltanto il ragazzo, che piano piano riemergeva dal sonno, avrebbe capito il senso di quelle parole. Quando fu uscito completamente dall'anestesia, nonostante cominciasse ad avvertire il bruciore dell'incisione, fece un largo sorriso ai parenti che gli stringevano le mani e che lo scrutavano dai lati del letto: sapeva di essere guarito per sempre da una malattia che tutti, fino a quel giorno, avevano ritenuto cronica, incurabile. Dentro di sé, calda come magma di vulcano, custodiva l'evidenza della guarigione ed egli sentiva di aver ritrovato quella nascita che un giorno, chissà come, aveva perduto.
Quando arrivò il medico le voci si attenuarono fino ad ammutolire e persino i rumori sembrarono ovattarsi. Dalle mani dell'uomo, rivolte all'insù, gocciolava acqua pulita; la sua fronte era piana, come se i pensieri riconoscessero la strada senza bisogno di solcare la pelle. Qualcuno pensò che il ragazzo addormentato sul tavolo operatorio aveva la stessa espressione dell'uomo che stava per operarlo; come se una speranza-certezza li accomunasse.
Interrogato dagli occhi calmi del chirurgo, l'anestesista fece un deciso cenno di assenso; tutte le luci furono spente eccetto il riflettore puntato sul torso scoperto del giovane; il ronzio delle telecamere che collegavano il mondo con la sala operatoria fu interrotto da un'unica parola: bisturi. E una linea rossa precisissima unì l'ombelico al centro del petto. Il primo intervento di quel genere nella storia della medicina era appena cominciato.
Quattro ore dopo, una folla di giornalisti ammirati accolse il dottore, che si fermò in mezzo a loro emettendo un breve sospiro. Era come se nessuno sapesse cosa chiedergli, come se ne avessero soggezione; poi uno di loro trovò il coraggio e domandò la prima cosa che gli venne in mente: Professore, perché ha cominciato dall'ombelico?. Perché è il nucleo della nascita, fu la risposta che nessuno lì per lì comprese.
Soltanto il ragazzo, che piano piano riemergeva dal sonno, avrebbe capito il senso di quelle parole. Quando fu uscito completamente dall'anestesia, nonostante cominciasse ad avvertire il bruciore dell'incisione, fece un largo sorriso ai parenti che gli stringevano le mani e che lo scrutavano dai lati del letto: sapeva di essere guarito per sempre da una malattia che tutti, fino a quel giorno, avevano ritenuto cronica, incurabile. Dentro di sé, calda come magma di vulcano, custodiva l'evidenza della guarigione ed egli sentiva di aver ritrovato quella nascita che un giorno, chissà come, aveva perduto.
"Epidemiologia e Psichiatria Sociale"...
come nasce la psicosi
Yahoo!Salute 16.9.04
Come nasce la psicosi
Il Pensiero Scientifico Editore
Quali fattori favoriscono il passaggio dallo stato di "aumentato rischio" allo stadio di psicosi conclamata? Quanto influisce il malessere fisico in chi soffre di disturbi mentali? Quali elementi condizionano gli esiti sociali delle psicosi? Questi gli interessanti interrogativi trattati dai tre editoriali pubblicati nell'ultimo numero di "Epidemiologia e Psichiatria Sociale".
La psicosi, una condizione psicologica caratterizzata dalla perdita di contatto con la realtà, è un disturbo globale della personalità, con gravi alterazioni nelle idee, nell'affettività e nella volontà.
I lavori presentati nell'autorevole rivista diretta da Michele Tansella, non solo costituiscono un eccellente aggiornamento delle evidenze disponibili sui fattori di rischio per le psicosi, ma anche un'interessante interpretazione del ruolo che questi possono svolgere nella pratica clinica quotidiana.
In The transition to psychosis: risk factors and brain changes, Stephen Wood e coautori discutono le evidenze a disposizione riguardanti i fattori neurologici che favoriscono il passaggio dallo stato di "aumentato rischio" allo stadio di psicosi conclamata. In particolare sottolineano la presenza sia di deficit cognitivi delle funzioni prefrontali, sia di anomalie della struttura cerebrale a livello di corteccia orbitofrontale e paraippocampale nelle persone destinate a sviluppare la psicosi conclamata.
Chiara Samele, in Factor leading to poor physical health in people with psychosis, si occupa invece della salute fisica nei pazienti con psicosi. L'autrice discute non solo la portata del fenomeno, ma anche la sua identificazione, gestione e prevenzione, fornendo specifiche raccomandazioni su come migliorarla. L'argomento trattato riveste una particolare rilevanza in ambito di assistenza psichiatrica: la scarsa salute fisica e la condizione di malessere, infatti, sono spesso associati ai disturbi mentali maggiori.
Nell'editoriale di Vittorio Di Michele e Francesca Bolino, Le variabili predittive dell'esito nelle psicosi, sono presentate, infine, le evidenze disponibili sui diversi fattori che hanno conseguenze sull'outcome sociale delle psicosi e sul loro potenziale ruolo in un approccio terapeutico integrato. Particolarmente interessante l'inclusione della "teoria della mente" e in generale della cognizione sociale, tra i fattori rilevanti nel determinare gli outcome sociali e la discussione sul ruolo che rivestono nei programmi di riabilitazione.
Bibliografia. Tansella M, Dazzan P. Factors affecting onset and course of psychoses. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 135-6. Wood SJ, Yücel M, Yung A, et al. The transition to psychosis: risk factors and brain changes. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 137-40. Samele C. Factors to poor physical health in people with psychosis. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 141-5. Di Michele V, Bolino F. Le variabili predittive dell?esito nelle psicosi. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 146-151.
Come nasce la psicosi
Il Pensiero Scientifico Editore
Quali fattori favoriscono il passaggio dallo stato di "aumentato rischio" allo stadio di psicosi conclamata? Quanto influisce il malessere fisico in chi soffre di disturbi mentali? Quali elementi condizionano gli esiti sociali delle psicosi? Questi gli interessanti interrogativi trattati dai tre editoriali pubblicati nell'ultimo numero di "Epidemiologia e Psichiatria Sociale".
La psicosi, una condizione psicologica caratterizzata dalla perdita di contatto con la realtà, è un disturbo globale della personalità, con gravi alterazioni nelle idee, nell'affettività e nella volontà.
I lavori presentati nell'autorevole rivista diretta da Michele Tansella, non solo costituiscono un eccellente aggiornamento delle evidenze disponibili sui fattori di rischio per le psicosi, ma anche un'interessante interpretazione del ruolo che questi possono svolgere nella pratica clinica quotidiana.
In The transition to psychosis: risk factors and brain changes, Stephen Wood e coautori discutono le evidenze a disposizione riguardanti i fattori neurologici che favoriscono il passaggio dallo stato di "aumentato rischio" allo stadio di psicosi conclamata. In particolare sottolineano la presenza sia di deficit cognitivi delle funzioni prefrontali, sia di anomalie della struttura cerebrale a livello di corteccia orbitofrontale e paraippocampale nelle persone destinate a sviluppare la psicosi conclamata.
Chiara Samele, in Factor leading to poor physical health in people with psychosis, si occupa invece della salute fisica nei pazienti con psicosi. L'autrice discute non solo la portata del fenomeno, ma anche la sua identificazione, gestione e prevenzione, fornendo specifiche raccomandazioni su come migliorarla. L'argomento trattato riveste una particolare rilevanza in ambito di assistenza psichiatrica: la scarsa salute fisica e la condizione di malessere, infatti, sono spesso associati ai disturbi mentali maggiori.
Nell'editoriale di Vittorio Di Michele e Francesca Bolino, Le variabili predittive dell'esito nelle psicosi, sono presentate, infine, le evidenze disponibili sui diversi fattori che hanno conseguenze sull'outcome sociale delle psicosi e sul loro potenziale ruolo in un approccio terapeutico integrato. Particolarmente interessante l'inclusione della "teoria della mente" e in generale della cognizione sociale, tra i fattori rilevanti nel determinare gli outcome sociali e la discussione sul ruolo che rivestono nei programmi di riabilitazione.
Bibliografia. Tansella M, Dazzan P. Factors affecting onset and course of psychoses. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 135-6. Wood SJ, Yücel M, Yung A, et al. The transition to psychosis: risk factors and brain changes. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 137-40. Samele C. Factors to poor physical health in people with psychosis. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 141-5. Di Michele V, Bolino F. Le variabili predittive dell?esito nelle psicosi. Epidemiol Psichiatr Soc 2004; 13(3): 146-151.
Festivalfilosofia e Festivaletteratura
intervista al prof. Giorello
L'Eco di Bergamo 16.9.04
I miti, a volte ritornano. Con la loro verità
Giorello: sono egualmente fondamentali per comprendere il senso dell'esistenza umana È il momento della filosofia: a Modena i grandi pensatori. E il pubblico fa la fila
Giulio Brotti
Da qualche tempo, la filosofia sembra esercitare un crescente appeal nei confronti del pubblico: mentre si avvicina la IV edizione del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, in programma da domani a domenica, si scopre che a un altro appuntamento, il Festivaletteratura che si è svolto la scorsa settimana a Mantova, gli incontri con filosofi e pensatori in senso lato sono stati tra i più gettonati – con lunghe code, al termine, per la richiesta di autografi e dediche. Ha avuto un grande successo, ad esempio, Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza alla Statale di Milano, che a Mantova ha presentato il suo ultimo libro Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito (Raffaello Cortina Editore, pp. 250, 19,80 euro): «Un volume nato – ci spiega – da tre lezioni che avevo tenuto, nel dicembre del 1998, nella sede veneziana dell'Istituto italiano per gli studi filosofici. Ero stato chiamato nelle vesti di outsider, in quanto filosofo della scienza, per parlare di una cosa che secondo l'opinione comune farebbe a pugni con lo spirito scientifico: il mito, appunto».
La sua idea è, invece, che i grandi miti non si riducano a «favole»?
«Nel corso del tempo, la filosofia ha cercato di liquidare il mito, non solo dichiarandolo insensato, ma anche in modo più sottile: affermando che conterrebbe delle verità “razionali”, ma in una veste ancora inadeguata, una veste che la filosofia avrebbe avuto il compito di perfezionare. Io, invece, sono convinto che il significato di ciò che i greci chiamavano mythos non si riduca a questo, che esso esprima una verità diversa, non filosofica, ma ugualmente fondamentale, sull'esistenza umana».
Nel suo libro, lei sottolinea il debito che molti scrittori moderni, da Shelley a Joyce, hanno contratto nei confronti di alcune grandi figure mitiche.
«Però, non nel senso che queste figure sarebbero a nostra disposizione, come un repertorio cui potremmo liberamente attingere. Mi pare piuttosto che siamo noi ad appartenere a Prometeo, a Ulisse, a Gilgameš, che ritornano nel corso dei secoli, senza però mai ripetersi, e anzi gettando una luce sempre nuova sul significato della condizione umana. Esistono delle profonde analogie fra questi tre personaggi: Prometeo, il gigante che ruba il fuoco a Efesto per donarlo agli uomini (e che Zeus condanna a un supplizio orribile, facendolo legare al Caucaso e inviando un'aquila a divorargli il fegato), è in effetti un dio, particolarmente sapiente, visto che il suo nome significa “capace di pensare le cose prima che accadano”. Ulisse è curioso, indagatore e, stando a un verso del V libro dell'Odissea, avrebbe potuto accedere al dono divino dell'immortalità, se avesse deciso di restare accanto alla ninfa Calipso. Quanto a Gilgameš, ricordo che mia madre, quand'ero bambino, mi narrava le gesta di questo eroe mesopotamico: un personaggio di cui ci viene detto “che vide e conobbe ogni cosa”; per due terzi dio e per un terzo mortale, invincibile in battaglia, ma destinato alla fine a morire, come tutti noi».
Riguardo a Prometeo: nella tragedia greca alla fine viene perdonato da Zeus. Il Prometeo della letteratura moderna, invece, è una specie di di pensatore giacobino, e a riconciliarsi con la divinità non ci pensa proprio...
«Il cambiamento risale al 1820, l'anno in cui il poeta inglese Percy Bysshe Shelley pubblicò il suo Prometheus Unbound , che traduciamo con “Prometeo liberato”, o “scatenato”. Shelley immagina che questo gigante benefattore dell'umanità alla fine abbia la meglio su Giove, simboleggiando la capacità del genere umano di affrancarsi dalla superstizione e dalle tirannidi presenti quaggiù, sulla terra. Con lo “scatenamento” di Prometeo l'uomo – scrive Shelley – “resta libero, senza scettro, non circoscritto - solo umano:\ uguale, senza classi, senza tribù e nazioni,\ esente da timore, culto, grado”».
Non è che la moglie di Shelley, Mary, l'autrice di Frankenstein, fosse un po' meno ottimista del marito sulle sorti future dell'umanità e della scienza?
«Credo che tra Mary Wollstonecraft Godwin, sposata Shelley, e suo marito, esistesse un gioco ironico di rimandi e allusioni, anche sul piano letterario. Frankenstein è un romanzo di una modernità straordinaria, in cui, sulle prime, i panni di Prometeo sembrano indossati da Victor Frankenstein, lo scienziato che sogna di infrangere la barriera della morte, di poter riportare alla vita un cadavere. Ma proseguendo la lettura, scopriamo che il vero titano è proprio lui, the monster , la sua “creatura”, destinata a entrare in conflitto con i pregiudizi del mondo circostante, fino a volersi vendicare di colui che l'ha chiamata alla vita, senza preoccuparsi delle conseguenze».
Con l'ultima parte del suo libro, dedicata a Gilgameš, risaliamo all'epopea forse più antica nella storia dell'umanità.
«Gilgameš è il protagonista di molte saghe dell'antica Mesopotamia: egli fa esperienza della morte quando il suo amico Enkidu muore di consunzione tra le braccia. “Per sei giorni e sette notti ho pianto su di lui – egli afferma –, né ho permesso che fosse seppellito,\ fino a che un verme non è uscito dalle sue narici.\ Io ho avuto paura della morte,\ ho cominciato a tremare e ho vagato nella steppa”. In seguito, Gilgameš apprende che una particolare pianta acquatica potrebbe davvero conferirgli l'immortalità. Egli si immerge sul fondo di un fiume, la recupera, ma poi si ricorda di essere un re: da sovrano onesto, decide di portare questo farmaco prodigioso nella sua città, Uruk, perché gli anziani possano cibarsene e ringiovanire. Intanto, per un attimo, lascia incustodita la pianta: un serpente l'addenta e fugge, lasciando l'eroe solo con la sua disperazione».
Dunque, la conclusione di questo mito è che gli esseri umani debbano accettare l'ineluttabile?
«Però, quando Gilgameš fa ritorno a Uruk, ormai rassegnato al suo destino, i sudditi gli rendono grandissimi onori. Non si direbbe che questo sia il ritorno di un uomo sconfitto su tutta la linea, anzi».
Un'ultima domanda. A prescindere dal loro fascino, non dovremmo provare anche un po' di diffidenza per i miti, dopo l'uso che se ne è fatto da un secolo a questo parte?
«Qualcuno, nel corso del Novecento, ha voluto celebrare il mito della razza, e sappiamo bene che cosa ne è seguito. Io però credo che si tratti, in questo caso e in altri analoghi, di una mitologia spuria, un semplice apparato d'immagini messo al servizio di un'ideologia totalitaria. Così, sottoscrivo l'opinione di Edgar Morin, quando afferma che “un buon mito è il rimedio migliore contro le cattive mitologie”. Un buon mito, che il mio amato Shelley descriveva come “un'ombra proveniente dal futuro”: e cioè, un sogno non regressivo, che non ci porti a rinunciare al presente in nome del passato».
Il nuovo libro su Prometeo
«Coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi [...] su ogni dettaglio, [...] senza uscire dal loro linguaggio di immagini”. La lezione di Calvino esorta a concedere al mito il tempo delle sue figure. So bene che la parola mitica suona diversa dal verbo filosofico. Perciò quest'ultimo ha sempre cercato di liquidarla, consegnandola all'insignificanza oppure garantendone il significato. Nell'uno come nell'altro caso, ha tentato di ridurla a formulazione esemplare, a tipo ideale. Eppure, quella parola non ha mai cessato di trasformare i luoghi che attraversa, di plasmare le maschere che incontra, di dettare i metodi della propria espressione.
Prometeo libera la roccia cui è incatenato, Ulisse viaggia attraverso i suoi nomi, Gilgameš si realizza nello spettacolo delle sue mura. Si tratti di un dio, di un uomo o di un essere in parte dio e in parte uomo, le figure del mito calcano la scena del mondo, diverse e pur sempre identiche nel loro “discorso”. Non si risolvono in un repertorio cui possiamo liberamente attingere. Piuttosto, dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi. La scrittura del mito appare allora esercizio di trasfigurazione, anche di quella materia che a prima vista “mitica” non sembra.
Così, si dichiara prometeica la filosofia della natura da Isaac Newton a Erasmus Darwin – nel doppio scatenamento del Titano offerto da Percy Bysshe e da Mary Wollstonecraft Shelley; si popola di “bloody men” (ma anche “women”) la Dublino di James Joyce, tra chiacchiere, inganni ed eroici furori, mentre un'improbabile Fenice spicca il volo su vetri infranti e muratura crollante; e il monito di Utanapištim, ossia di colui che unico ha avuto in dono l'immortalità, rivela a un Ezra Pound vittima di molte prigioni la forza emancipatrice dei “Cantos”.
I coniugi Shelley (talvolta così congiunti da essere interscambiabili), Joyce e Pound non rappresentano in questo volume gli esiti ultimi di antiche narrazioni; bensì costituiscono, sia pure in forme diverse, l'occasione di un “discorso” di e su Prometeo, Ulisse e Gilgameš. L'autore del “Prometheus Unbound” e l'autrice di “Frankenstein” sapevano bene come il dio complice e vittima di Zeus provenisse da un passato di cui in parte si era perduta memoria e come la loro riscrittura non fosse che l'anello di una catena che già in Eschilo, se non addirittura in Esiodo, aveva smarrito alcuni dei suoi motivi originari – salvo averne acquistati di nuovi nel tracciare il confine non sempre netto tra mortali e immortali, tra giusto e ingiusto, tra natura e artificio.
(tratto da Giulio Giorello, «Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito», per gentile concessione di Raffaello Cortina Editore. Il saggio sarà in libreria dal 20 settembre)
Numeri da Superbowl, ma è Aristotele
G. B.
Prima di tutto, le cifre: 31mila presenze alla prima edizione, quella del 2001, lievitate a quota 51mila e 75mila nelle due successive. Numeri da Superbowl, direbbero negli Stati Uniti. Quanta gente verrà a Modena, allora, tra domani e domenica prossimi, per partecipare alla quarta edizione del Festivalfilosofia, intitolata «Sul mondo»?
Un po' più giovane di un altro festival benemerito – quello della letteratura di Mantova –, la rassegna modenese promette di stupire ancora, richiamando anche quest'anno nelle aule e nelle piazze del capoluogo, di Carpi e di Sassuolo, un pubblico entusiasta, vivace, colto (non necessariamente nell'accezione libresca del termine). Perché, evidentemente, non è essenziale aver mandato a memoria la Metafisica di Aristotele, o conoscere l'opera omnia di Schopenhauer, per potersi appassionare ai dibattiti e alle «lezioni magistrali» proposte dal Festivalfilosofia (realizzato dalla Fondazione Collegio San Carlo, dai tre comuni interessati, dalla Provincia, e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena): lo testimonia il ricordo delle folle eterogenee che partecipavano agli incontri delle scorse edizioni, talvolta sotto un sole a picco, con una buona percentuale di liceali convenuti per scelta propria, una tantum, e non perché coartati dai loro professori.
Il programma dell'edizione 2004, consultabile nel sito internet www.festivalfilosofia.it, comprende più di cento appuntamenti, quasi tutti gratuiti: si potranno ascoltare, tra gli altri, Massimo Cacciari (in una lezione dal titolo «Sistema mondo»), Enrico Berti («L'immagine aristotelica del mondo e la sua fortuna nella storia»), l'antropologo Marc Augé («Il mondo di domani tra solitudine e solidarietà»), lo studioso della globalizzazione Jonathan Friedman («I veri paradossi della globalizzazione»), mentre un regista particolarmente amato (e anche detestato, per la verità) a livello internazionale, il pirotecnico Peter Greenaway, parlerà domenica pomeriggio sul tema «Rappresentare lo spazio. Cinema e architettura».
Come contorno, tutta una serie di incontri letterari, cinematografici, musicali (con un omaggio a Jimi Hendrix nel 34° della morte).
I miti, a volte ritornano. Con la loro verità
Giorello: sono egualmente fondamentali per comprendere il senso dell'esistenza umana È il momento della filosofia: a Modena i grandi pensatori. E il pubblico fa la fila
Giulio Brotti
Da qualche tempo, la filosofia sembra esercitare un crescente appeal nei confronti del pubblico: mentre si avvicina la IV edizione del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, in programma da domani a domenica, si scopre che a un altro appuntamento, il Festivaletteratura che si è svolto la scorsa settimana a Mantova, gli incontri con filosofi e pensatori in senso lato sono stati tra i più gettonati – con lunghe code, al termine, per la richiesta di autografi e dediche. Ha avuto un grande successo, ad esempio, Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza alla Statale di Milano, che a Mantova ha presentato il suo ultimo libro Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito (Raffaello Cortina Editore, pp. 250, 19,80 euro): «Un volume nato – ci spiega – da tre lezioni che avevo tenuto, nel dicembre del 1998, nella sede veneziana dell'Istituto italiano per gli studi filosofici. Ero stato chiamato nelle vesti di outsider, in quanto filosofo della scienza, per parlare di una cosa che secondo l'opinione comune farebbe a pugni con lo spirito scientifico: il mito, appunto».
La sua idea è, invece, che i grandi miti non si riducano a «favole»?
«Nel corso del tempo, la filosofia ha cercato di liquidare il mito, non solo dichiarandolo insensato, ma anche in modo più sottile: affermando che conterrebbe delle verità “razionali”, ma in una veste ancora inadeguata, una veste che la filosofia avrebbe avuto il compito di perfezionare. Io, invece, sono convinto che il significato di ciò che i greci chiamavano mythos non si riduca a questo, che esso esprima una verità diversa, non filosofica, ma ugualmente fondamentale, sull'esistenza umana».
Nel suo libro, lei sottolinea il debito che molti scrittori moderni, da Shelley a Joyce, hanno contratto nei confronti di alcune grandi figure mitiche.
«Però, non nel senso che queste figure sarebbero a nostra disposizione, come un repertorio cui potremmo liberamente attingere. Mi pare piuttosto che siamo noi ad appartenere a Prometeo, a Ulisse, a Gilgameš, che ritornano nel corso dei secoli, senza però mai ripetersi, e anzi gettando una luce sempre nuova sul significato della condizione umana. Esistono delle profonde analogie fra questi tre personaggi: Prometeo, il gigante che ruba il fuoco a Efesto per donarlo agli uomini (e che Zeus condanna a un supplizio orribile, facendolo legare al Caucaso e inviando un'aquila a divorargli il fegato), è in effetti un dio, particolarmente sapiente, visto che il suo nome significa “capace di pensare le cose prima che accadano”. Ulisse è curioso, indagatore e, stando a un verso del V libro dell'Odissea, avrebbe potuto accedere al dono divino dell'immortalità, se avesse deciso di restare accanto alla ninfa Calipso. Quanto a Gilgameš, ricordo che mia madre, quand'ero bambino, mi narrava le gesta di questo eroe mesopotamico: un personaggio di cui ci viene detto “che vide e conobbe ogni cosa”; per due terzi dio e per un terzo mortale, invincibile in battaglia, ma destinato alla fine a morire, come tutti noi».
Riguardo a Prometeo: nella tragedia greca alla fine viene perdonato da Zeus. Il Prometeo della letteratura moderna, invece, è una specie di di pensatore giacobino, e a riconciliarsi con la divinità non ci pensa proprio...
«Il cambiamento risale al 1820, l'anno in cui il poeta inglese Percy Bysshe Shelley pubblicò il suo Prometheus Unbound , che traduciamo con “Prometeo liberato”, o “scatenato”. Shelley immagina che questo gigante benefattore dell'umanità alla fine abbia la meglio su Giove, simboleggiando la capacità del genere umano di affrancarsi dalla superstizione e dalle tirannidi presenti quaggiù, sulla terra. Con lo “scatenamento” di Prometeo l'uomo – scrive Shelley – “resta libero, senza scettro, non circoscritto - solo umano:\ uguale, senza classi, senza tribù e nazioni,\ esente da timore, culto, grado”».
Non è che la moglie di Shelley, Mary, l'autrice di Frankenstein, fosse un po' meno ottimista del marito sulle sorti future dell'umanità e della scienza?
«Credo che tra Mary Wollstonecraft Godwin, sposata Shelley, e suo marito, esistesse un gioco ironico di rimandi e allusioni, anche sul piano letterario. Frankenstein è un romanzo di una modernità straordinaria, in cui, sulle prime, i panni di Prometeo sembrano indossati da Victor Frankenstein, lo scienziato che sogna di infrangere la barriera della morte, di poter riportare alla vita un cadavere. Ma proseguendo la lettura, scopriamo che il vero titano è proprio lui, the monster , la sua “creatura”, destinata a entrare in conflitto con i pregiudizi del mondo circostante, fino a volersi vendicare di colui che l'ha chiamata alla vita, senza preoccuparsi delle conseguenze».
Con l'ultima parte del suo libro, dedicata a Gilgameš, risaliamo all'epopea forse più antica nella storia dell'umanità.
«Gilgameš è il protagonista di molte saghe dell'antica Mesopotamia: egli fa esperienza della morte quando il suo amico Enkidu muore di consunzione tra le braccia. “Per sei giorni e sette notti ho pianto su di lui – egli afferma –, né ho permesso che fosse seppellito,\ fino a che un verme non è uscito dalle sue narici.\ Io ho avuto paura della morte,\ ho cominciato a tremare e ho vagato nella steppa”. In seguito, Gilgameš apprende che una particolare pianta acquatica potrebbe davvero conferirgli l'immortalità. Egli si immerge sul fondo di un fiume, la recupera, ma poi si ricorda di essere un re: da sovrano onesto, decide di portare questo farmaco prodigioso nella sua città, Uruk, perché gli anziani possano cibarsene e ringiovanire. Intanto, per un attimo, lascia incustodita la pianta: un serpente l'addenta e fugge, lasciando l'eroe solo con la sua disperazione».
Dunque, la conclusione di questo mito è che gli esseri umani debbano accettare l'ineluttabile?
«Però, quando Gilgameš fa ritorno a Uruk, ormai rassegnato al suo destino, i sudditi gli rendono grandissimi onori. Non si direbbe che questo sia il ritorno di un uomo sconfitto su tutta la linea, anzi».
Un'ultima domanda. A prescindere dal loro fascino, non dovremmo provare anche un po' di diffidenza per i miti, dopo l'uso che se ne è fatto da un secolo a questo parte?
«Qualcuno, nel corso del Novecento, ha voluto celebrare il mito della razza, e sappiamo bene che cosa ne è seguito. Io però credo che si tratti, in questo caso e in altri analoghi, di una mitologia spuria, un semplice apparato d'immagini messo al servizio di un'ideologia totalitaria. Così, sottoscrivo l'opinione di Edgar Morin, quando afferma che “un buon mito è il rimedio migliore contro le cattive mitologie”. Un buon mito, che il mio amato Shelley descriveva come “un'ombra proveniente dal futuro”: e cioè, un sogno non regressivo, che non ci porti a rinunciare al presente in nome del passato».
Il nuovo libro su Prometeo
«Coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi [...] su ogni dettaglio, [...] senza uscire dal loro linguaggio di immagini”. La lezione di Calvino esorta a concedere al mito il tempo delle sue figure. So bene che la parola mitica suona diversa dal verbo filosofico. Perciò quest'ultimo ha sempre cercato di liquidarla, consegnandola all'insignificanza oppure garantendone il significato. Nell'uno come nell'altro caso, ha tentato di ridurla a formulazione esemplare, a tipo ideale. Eppure, quella parola non ha mai cessato di trasformare i luoghi che attraversa, di plasmare le maschere che incontra, di dettare i metodi della propria espressione.
Prometeo libera la roccia cui è incatenato, Ulisse viaggia attraverso i suoi nomi, Gilgameš si realizza nello spettacolo delle sue mura. Si tratti di un dio, di un uomo o di un essere in parte dio e in parte uomo, le figure del mito calcano la scena del mondo, diverse e pur sempre identiche nel loro “discorso”. Non si risolvono in un repertorio cui possiamo liberamente attingere. Piuttosto, dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi. La scrittura del mito appare allora esercizio di trasfigurazione, anche di quella materia che a prima vista “mitica” non sembra.
Così, si dichiara prometeica la filosofia della natura da Isaac Newton a Erasmus Darwin – nel doppio scatenamento del Titano offerto da Percy Bysshe e da Mary Wollstonecraft Shelley; si popola di “bloody men” (ma anche “women”) la Dublino di James Joyce, tra chiacchiere, inganni ed eroici furori, mentre un'improbabile Fenice spicca il volo su vetri infranti e muratura crollante; e il monito di Utanapištim, ossia di colui che unico ha avuto in dono l'immortalità, rivela a un Ezra Pound vittima di molte prigioni la forza emancipatrice dei “Cantos”.
I coniugi Shelley (talvolta così congiunti da essere interscambiabili), Joyce e Pound non rappresentano in questo volume gli esiti ultimi di antiche narrazioni; bensì costituiscono, sia pure in forme diverse, l'occasione di un “discorso” di e su Prometeo, Ulisse e Gilgameš. L'autore del “Prometheus Unbound” e l'autrice di “Frankenstein” sapevano bene come il dio complice e vittima di Zeus provenisse da un passato di cui in parte si era perduta memoria e come la loro riscrittura non fosse che l'anello di una catena che già in Eschilo, se non addirittura in Esiodo, aveva smarrito alcuni dei suoi motivi originari – salvo averne acquistati di nuovi nel tracciare il confine non sempre netto tra mortali e immortali, tra giusto e ingiusto, tra natura e artificio.
(tratto da Giulio Giorello, «Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito», per gentile concessione di Raffaello Cortina Editore. Il saggio sarà in libreria dal 20 settembre)
Numeri da Superbowl, ma è Aristotele
G. B.
Prima di tutto, le cifre: 31mila presenze alla prima edizione, quella del 2001, lievitate a quota 51mila e 75mila nelle due successive. Numeri da Superbowl, direbbero negli Stati Uniti. Quanta gente verrà a Modena, allora, tra domani e domenica prossimi, per partecipare alla quarta edizione del Festivalfilosofia, intitolata «Sul mondo»?
Un po' più giovane di un altro festival benemerito – quello della letteratura di Mantova –, la rassegna modenese promette di stupire ancora, richiamando anche quest'anno nelle aule e nelle piazze del capoluogo, di Carpi e di Sassuolo, un pubblico entusiasta, vivace, colto (non necessariamente nell'accezione libresca del termine). Perché, evidentemente, non è essenziale aver mandato a memoria la Metafisica di Aristotele, o conoscere l'opera omnia di Schopenhauer, per potersi appassionare ai dibattiti e alle «lezioni magistrali» proposte dal Festivalfilosofia (realizzato dalla Fondazione Collegio San Carlo, dai tre comuni interessati, dalla Provincia, e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena): lo testimonia il ricordo delle folle eterogenee che partecipavano agli incontri delle scorse edizioni, talvolta sotto un sole a picco, con una buona percentuale di liceali convenuti per scelta propria, una tantum, e non perché coartati dai loro professori.
Il programma dell'edizione 2004, consultabile nel sito internet www.festivalfilosofia.it, comprende più di cento appuntamenti, quasi tutti gratuiti: si potranno ascoltare, tra gli altri, Massimo Cacciari (in una lezione dal titolo «Sistema mondo»), Enrico Berti («L'immagine aristotelica del mondo e la sua fortuna nella storia»), l'antropologo Marc Augé («Il mondo di domani tra solitudine e solidarietà»), lo studioso della globalizzazione Jonathan Friedman («I veri paradossi della globalizzazione»), mentre un regista particolarmente amato (e anche detestato, per la verità) a livello internazionale, il pirotecnico Peter Greenaway, parlerà domenica pomeriggio sul tema «Rappresentare lo spazio. Cinema e architettura».
Come contorno, tutta una serie di incontri letterari, cinematografici, musicali (con un omaggio a Jimi Hendrix nel 34° della morte).
mondi tolemaici:
sull'Io e la sua incertezza
Una metafora tra Cartesio e Kafka
Il Giornale di Brescia 16.9.04
L’«IO» DIMEZZATO NELLA CASA DELLA FILOSOFIA
Ilario Bertoletti
Le metafore, in quanto figure retoriche, hanno il potere di veicolare pensieri, idee. In forma indiretta, trasportano orizzonti di senso da un continente del sapere ad un altro. Proprio grazie a questa creatività linguistica le metafore abbondano nei libri di narrativa. Ma esse assumono una particolare rilevanza quando compaiono in un genere letterario quale la filosofia, che si vorrebbe costruita da soli concetti. L’intera storia della filosofia è dominata da metafore - basti il rimando alla metafora della caverna in Platone, alla kantiana «rivoluzione copernicana», all’hegeliano cammino dello Spirito, alla marxiana talpa che scava nella storia, o all’immagine della scala del sapere da abbandonare in Wittgenstein. Quasi che nelle metafore presenti nei testi filosofici si celasse un nodo speculativo che non può essere pienamente espresso dai soli concetti. Soffermiamoci su una metafora che compare nell’opera che inaugura l’età moderna, il Discorso sul metodo di Cartesio. Nella terza parte, dopo aver posto in discussione l’intera tradizione scolastica, Cartesio afferma: «Non è sufficiente prima di cominciare a ricostruire la casa in cui si abita, limitarsi ad abbatterla e a provvedersi di materiali e di architetti, e averne inoltre tracciato con cura il progetto, ma è pure necessario essersene procurata un’altra, in cui si possa alloggiare comodamente per il periodo dei lavori». Una metafora architettonica che permette a Cartesio di avanzare le sue idee di una morale provvisoria, in grado di orientarlo nel tentativo di ricostruzione su nuove basi dell’intero edificio della metafisica. In queste pagine risuonano certamente echi della tradizione stoica, ma importante è il valore rivelativo della metafora: per addentrarsi nelle regioni del dubbio metodico e iperbolico, che giunge a pensare l’ipotesi di un genio maligno in luogo di Dio, è necessario assicurarsi un luogo sicuro per non smarrirsi - un metodo premiato dalla scoperta del carattere indubitabile dell’esistenza del soggetto («io penso, dunque sono») in quanto fondamento ultimo del sapere. Non a caso Hegel amava ricordare che con Cartesio la filosofia ripete il grido di Colombo appena giunto in America: «Terra Terra». Nonostante l’importanza, questa metafora è stata abbandonata nel corso della filosofia: se ne può ritrovare una labile traccia in un epistemologo contemporaneo, Otto Neurath, il quale paragonava il nostro sapere ad una barca in mezzo al mare, i cui pezzi vanno cambiati durante la stessa navigazione - come a rappresentare il carattere ipotetico-congetturale della scienza novecentesca. Ma quel che è sorprendente è il ritorno della metafora cartesiana in Kafka. Infatti, in uno dei suoi frammenti possiamo leggere: «Come uno che ha una casa non sicura e vuol costruirsene accanto una sicura, se possibile con il materiale della vecchia. Però è un brutto affare se, mentre sta costruendo, la sua forza viene meno e ora invece di una casa non sicura ma completa ne ha una semidistrutta e una fatta a metà, quindi nulla. Quel che segue è follia, una specie di danza cosacca fra le due case, durante la quale il cosacco con i tacchi dei suoi stivali raschia e svelle la terra finché sotto di lui si forma la sua fossa». Non è la trascrizione, rovesciata di senso, del passo cartesiano? Quel che là era il progetto di fondazione, qui è il segno di una impotenza. Ogni progetto resta a metà, incompiuto. Al posto della scoperta di una certezza indubitabile, la costruzione inconsapevole della propria fossa. Il riapparire in Kafka di questa metafora, lungi dall’essere un alcunché di casuale, ha una ragione storico-teoretica. Kafka non rappresenta, infatti, chi più d’ogni altro pensatore segna la fine del sogno cartesiano della soggettività come fondamento trasparente a se stesso? Il soggetto in Kafka è dimidiato, scisso in sé, lacerato da aporie. Le peripezie di Josef K. e K. (nel Processo e nel Castello) ne sono la spia. Ma il luogo dove più Kafka si fa interprete di questa stessa metafora è in un breve racconto intitolato Egli. Qui il soggetto non può più definirsi, come in Cartesio, un «io», ma può nominarsi solo alla terza persona: «egli». Estraneo a se stesso, «Egli vive nella diaspora» irretito in contraddizioni, al punto che «il proprio osso frontale gli taglia la strada; egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare». Non è questo il destino del soggetto nel Novecento e che Kafka ha più di ogni altro narrativamente registrato con asciutto disin-canto? Il ritorno in Kafka della metafora cartesiana è forse il segno che in lui trova il compimento la storia moderna della soggettività. Un umano per il quale non risuonano più le parole: «Terra Terra», ma quelle che l’agrimensore K. ode nel suo vano approssimarsi al Castello: «Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla». Al più restano le macerie - frammenti di un paesaggio e di un mondo nei quali si rifrangono i frammenti di ciò che resta dell’identità dell’individuo. Parlano d’altro le più radicali e profonde esperienze dell’arte e della filosofia contemporanea? Come se dovessimo ormai parlare, in senso teoreticamente normativo, di un prima e dopo Kafka, così come nei manuali si parla di un prima e dopo Cartesio.
Il Giornale di Brescia 16.9.04
L’«IO» DIMEZZATO NELLA CASA DELLA FILOSOFIA
Ilario Bertoletti
Le metafore, in quanto figure retoriche, hanno il potere di veicolare pensieri, idee. In forma indiretta, trasportano orizzonti di senso da un continente del sapere ad un altro. Proprio grazie a questa creatività linguistica le metafore abbondano nei libri di narrativa. Ma esse assumono una particolare rilevanza quando compaiono in un genere letterario quale la filosofia, che si vorrebbe costruita da soli concetti. L’intera storia della filosofia è dominata da metafore - basti il rimando alla metafora della caverna in Platone, alla kantiana «rivoluzione copernicana», all’hegeliano cammino dello Spirito, alla marxiana talpa che scava nella storia, o all’immagine della scala del sapere da abbandonare in Wittgenstein. Quasi che nelle metafore presenti nei testi filosofici si celasse un nodo speculativo che non può essere pienamente espresso dai soli concetti. Soffermiamoci su una metafora che compare nell’opera che inaugura l’età moderna, il Discorso sul metodo di Cartesio. Nella terza parte, dopo aver posto in discussione l’intera tradizione scolastica, Cartesio afferma: «Non è sufficiente prima di cominciare a ricostruire la casa in cui si abita, limitarsi ad abbatterla e a provvedersi di materiali e di architetti, e averne inoltre tracciato con cura il progetto, ma è pure necessario essersene procurata un’altra, in cui si possa alloggiare comodamente per il periodo dei lavori». Una metafora architettonica che permette a Cartesio di avanzare le sue idee di una morale provvisoria, in grado di orientarlo nel tentativo di ricostruzione su nuove basi dell’intero edificio della metafisica. In queste pagine risuonano certamente echi della tradizione stoica, ma importante è il valore rivelativo della metafora: per addentrarsi nelle regioni del dubbio metodico e iperbolico, che giunge a pensare l’ipotesi di un genio maligno in luogo di Dio, è necessario assicurarsi un luogo sicuro per non smarrirsi - un metodo premiato dalla scoperta del carattere indubitabile dell’esistenza del soggetto («io penso, dunque sono») in quanto fondamento ultimo del sapere. Non a caso Hegel amava ricordare che con Cartesio la filosofia ripete il grido di Colombo appena giunto in America: «Terra Terra». Nonostante l’importanza, questa metafora è stata abbandonata nel corso della filosofia: se ne può ritrovare una labile traccia in un epistemologo contemporaneo, Otto Neurath, il quale paragonava il nostro sapere ad una barca in mezzo al mare, i cui pezzi vanno cambiati durante la stessa navigazione - come a rappresentare il carattere ipotetico-congetturale della scienza novecentesca. Ma quel che è sorprendente è il ritorno della metafora cartesiana in Kafka. Infatti, in uno dei suoi frammenti possiamo leggere: «Come uno che ha una casa non sicura e vuol costruirsene accanto una sicura, se possibile con il materiale della vecchia. Però è un brutto affare se, mentre sta costruendo, la sua forza viene meno e ora invece di una casa non sicura ma completa ne ha una semidistrutta e una fatta a metà, quindi nulla. Quel che segue è follia, una specie di danza cosacca fra le due case, durante la quale il cosacco con i tacchi dei suoi stivali raschia e svelle la terra finché sotto di lui si forma la sua fossa». Non è la trascrizione, rovesciata di senso, del passo cartesiano? Quel che là era il progetto di fondazione, qui è il segno di una impotenza. Ogni progetto resta a metà, incompiuto. Al posto della scoperta di una certezza indubitabile, la costruzione inconsapevole della propria fossa. Il riapparire in Kafka di questa metafora, lungi dall’essere un alcunché di casuale, ha una ragione storico-teoretica. Kafka non rappresenta, infatti, chi più d’ogni altro pensatore segna la fine del sogno cartesiano della soggettività come fondamento trasparente a se stesso? Il soggetto in Kafka è dimidiato, scisso in sé, lacerato da aporie. Le peripezie di Josef K. e K. (nel Processo e nel Castello) ne sono la spia. Ma il luogo dove più Kafka si fa interprete di questa stessa metafora è in un breve racconto intitolato Egli. Qui il soggetto non può più definirsi, come in Cartesio, un «io», ma può nominarsi solo alla terza persona: «egli». Estraneo a se stesso, «Egli vive nella diaspora» irretito in contraddizioni, al punto che «il proprio osso frontale gli taglia la strada; egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare». Non è questo il destino del soggetto nel Novecento e che Kafka ha più di ogni altro narrativamente registrato con asciutto disin-canto? Il ritorno in Kafka della metafora cartesiana è forse il segno che in lui trova il compimento la storia moderna della soggettività. Un umano per il quale non risuonano più le parole: «Terra Terra», ma quelle che l’agrimensore K. ode nel suo vano approssimarsi al Castello: «Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla». Al più restano le macerie - frammenti di un paesaggio e di un mondo nei quali si rifrangono i frammenti di ciò che resta dell’identità dell’individuo. Parlano d’altro le più radicali e profonde esperienze dell’arte e della filosofia contemporanea? Come se dovessimo ormai parlare, in senso teoreticamente normativo, di un prima e dopo Kafka, così come nei manuali si parla di un prima e dopo Cartesio.
a Firenze:
a proposito di creatività
Il Mattino 16.9.04
A FIRENZE LA MOSTRA SUI NOBEL
Le beautiful minds,
quando la creatività arriva al successo
Giovanni Nardi
Se si potesse assegnare il premio Nobel a umanisti e scienziati del passato anche remoto, e comunque deceduti prima della nascita del riconoscimento (il 1901), chi scegliereste? Per la fisica, Galileo oppure Keplero? Per la medicina, Ippocrate o Pasteur? Per la chimica, Lavoisier o Mendeleev? Per la letteratura, Omero, Dante o Shakespeare? Per l'economia, Gutenberg o Marx? L'alternativa non è ad excludendum perché si possono scegliere anche personaggi diversi: il sondaggio è proposto dall'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, in occasione della mostra «Beautiful Minds. Premi Nobel. Un secolo di creatività», a Palazzo Strozzi, Firenze, da oggi al 2 gennaio 2005.
La mostra fiorentina è la prima in Europa e sarà l'unica in Italia. Sta girando tutto il mondo e da noi si è arricchita di due sezioni. Una riguardante i 19 premi Nobel italiani (il 2,5 per cento del totale, che è di 758) con due particolari ambienti creativi: l'Istituto di fisica di via Panisperna, a Roma, dove operò tra gli altri Enrico Fermi, e la scuola di Giuseppe Levi a Torino, dove si formarono i futuri Nobel Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini; l'altra sull'ultima parte della vita di Alfred Nobel a Sanremo, dove morì il 10 dicembre 1896. Tra i Nobel italiani ricordiamo Guglielmo Marconi (1909), Enrico Fermi (1938); per la medicina Renato Dulbecco (1975), Rita Levi Montalcini (1986); per la letteratura Giosué Carducci (1906), Grazia Deledda (1927), Luigi Pirandello (1934), Eugenio Montale (1975) e Dario Fo (1997); per l'economia Franco Modigliani (1985).
La mostra, inaugurata ieri dal ministro Giuliano Urbani con l'intervento del presidente della Fondazione Nobel Bengt Samuelsson (Nobel per la medicina 1982), del direttore del museo Nobel Svante Lindqvist, e di Umberto Eco che ha tenuto la prolusione sulla «combinatoria della creatività», si basa soprattutto su un'idea: la creatività. Ma quali sono gli elementi più importanti del processo creativo: la competenza e l'intelligenza degli individui o l'ambiente in cui il loro lavoro si svolge? L'esposizione del centenario è stata definita dal curatore Olov Amelin come un parco di divertimento intellettuale articolato in diversi padiglioni, nei quali il visitatore può sostare secondo il proprio gusto. Il colore dominante è il nero, come l'inchiostro, simbolo della parola scritta: la nota frettolosa dello scienziato nel protocollo di laboratorio, la correzione o l'aggiunta marginale nell'autografo di uno scrittore, o le parole coraggiose di impegno per la libertà e la giustizia di un attivista della pace. Una trentina di brevi film sono dedicati ad esempio a Marie Curie, Nelson Mandela, Wilhelm Conrad Röntgen, Amartya Sen, Isaac Bashevis Singer. Ci sono poi dieci filmati più lunghi, in cui sono presentati l'Istituto di immunologia di Basilea, la Copenhagen di Niels Bohr, la vita accademica e studentesca nei college di Cambridge, la scuola vicino a Calcutta fondata da Rabindranath Tagore. Tra gli oggetti più curiosi, un paio di scarpe di Selma Lagerlöf e il cappello di Wole Soyinka.
A FIRENZE LA MOSTRA SUI NOBEL
Le beautiful minds,
quando la creatività arriva al successo
Giovanni Nardi
Se si potesse assegnare il premio Nobel a umanisti e scienziati del passato anche remoto, e comunque deceduti prima della nascita del riconoscimento (il 1901), chi scegliereste? Per la fisica, Galileo oppure Keplero? Per la medicina, Ippocrate o Pasteur? Per la chimica, Lavoisier o Mendeleev? Per la letteratura, Omero, Dante o Shakespeare? Per l'economia, Gutenberg o Marx? L'alternativa non è ad excludendum perché si possono scegliere anche personaggi diversi: il sondaggio è proposto dall'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, in occasione della mostra «Beautiful Minds. Premi Nobel. Un secolo di creatività», a Palazzo Strozzi, Firenze, da oggi al 2 gennaio 2005.
La mostra fiorentina è la prima in Europa e sarà l'unica in Italia. Sta girando tutto il mondo e da noi si è arricchita di due sezioni. Una riguardante i 19 premi Nobel italiani (il 2,5 per cento del totale, che è di 758) con due particolari ambienti creativi: l'Istituto di fisica di via Panisperna, a Roma, dove operò tra gli altri Enrico Fermi, e la scuola di Giuseppe Levi a Torino, dove si formarono i futuri Nobel Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini; l'altra sull'ultima parte della vita di Alfred Nobel a Sanremo, dove morì il 10 dicembre 1896. Tra i Nobel italiani ricordiamo Guglielmo Marconi (1909), Enrico Fermi (1938); per la medicina Renato Dulbecco (1975), Rita Levi Montalcini (1986); per la letteratura Giosué Carducci (1906), Grazia Deledda (1927), Luigi Pirandello (1934), Eugenio Montale (1975) e Dario Fo (1997); per l'economia Franco Modigliani (1985).
La mostra, inaugurata ieri dal ministro Giuliano Urbani con l'intervento del presidente della Fondazione Nobel Bengt Samuelsson (Nobel per la medicina 1982), del direttore del museo Nobel Svante Lindqvist, e di Umberto Eco che ha tenuto la prolusione sulla «combinatoria della creatività», si basa soprattutto su un'idea: la creatività. Ma quali sono gli elementi più importanti del processo creativo: la competenza e l'intelligenza degli individui o l'ambiente in cui il loro lavoro si svolge? L'esposizione del centenario è stata definita dal curatore Olov Amelin come un parco di divertimento intellettuale articolato in diversi padiglioni, nei quali il visitatore può sostare secondo il proprio gusto. Il colore dominante è il nero, come l'inchiostro, simbolo della parola scritta: la nota frettolosa dello scienziato nel protocollo di laboratorio, la correzione o l'aggiunta marginale nell'autografo di uno scrittore, o le parole coraggiose di impegno per la libertà e la giustizia di un attivista della pace. Una trentina di brevi film sono dedicati ad esempio a Marie Curie, Nelson Mandela, Wilhelm Conrad Röntgen, Amartya Sen, Isaac Bashevis Singer. Ci sono poi dieci filmati più lunghi, in cui sono presentati l'Istituto di immunologia di Basilea, la Copenhagen di Niels Bohr, la vita accademica e studentesca nei college di Cambridge, la scuola vicino a Calcutta fondata da Rabindranath Tagore. Tra gli oggetti più curiosi, un paio di scarpe di Selma Lagerlöf e il cappello di Wole Soyinka.
Cina
Repubblica 17.9.04
I "giovani" contro Jiang Zemin l'ultima sfida della nuova Cina
Battaglia al Plenum del Pc, in piazza i poveri delle province
L'ex presidente ed ex leader del partito mantiene ancora il controllo dell´esercito
La figlia di Deng Xiaoping: "Questa gerontocrazia è un simbolo feudale"
Finché il "grande vecchio" mantiene la sua influenza, il premier Hu Jintao ha un potere dimezzato e le sue riforme politiche ristagnano
A differenza dell'89 non è più l'élite urbana a manifestare, ma la gente delle periferie, flagellata dalla disoccupazione e dalla corruzione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
PECHINO - «Da anni viaggiamo liberamente in Occidente. Navighiamo su Internet come voi. Un terzo dei miei studenti hanno una tale preparazione da conquistarsi delle scholarship americane, borse di studio per un master o un dottorato negli Stati Uniti. Eppure se vogliamo sapere che cosa stanno discutendo in queste ore i nostri governanti dobbiamo andare a cercare voci e indiscrezioni sui siti online dei mass media stranieri. È umiliante». Si capisce lo sfogo del professor Liu Xi, economista dell´università di Shanghai. La Cina ha ormai 150 milioni di consumatori dal reddito medio-alto. Ha il record mondiale del numero di telefonini. Manda 21 milioni di turisti all´estero ogni anno. Le sue città sono selve di grattacieli e di shopping mall che potrebbero essere a Londra e Los Angeles, Sidney e Vancouver. Per il primo Gran Prix di Formula Uno a Shanghai vanno a ruba biglietti sul mercato nero a 500 euro. Eppure da ieri Pechino mette in scena il rito arcaico di una politica che sembra lontana da una società moderna e cosmopolita. I luoghi-simbolo del potere come Piazza Tiananmen sono blindati dalla polizia. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nelle ultime settimane per impedire che turbassero questa liturgia che si chiama Quarto Plenum del XVI Comitato centrale del Partito comunista: il vertice a porte chiuse che da ieri a domenica riunisce 198 alti gerarchi dentro l´hotel Jinxi nella zona occidentale della capitale.
Dietro i cordoni di polizia e le tende spesse dell´albergo, questo Plenum è uno scontro di potere di fronte al quale neppure la generazione-Internet può restare indifferente. Nonostante la mancanza di trasparenza del partito, qualche voce meno conformista ha rivelato quel che sta accadendo. Sono state le due figlie di Deng Xiaoping, il leader comunista morto nel 1997 che avviò la rivoluzione capitalistica cinese, ad aver rotto il silenzio. Con due interviste insolitamente esplicite, le signore Rong e Lin hanno invitato il grande vecchio Jiang Zemin a farsi da parte, seguendo la lezione di Deng che denunciò il sistema del potere a vita come una delle piaghe del paese. «Questa gerontocrazia è un simbolo feudale», dice la Deng Rong. Il problema dunque è lui: Jiang Zemin, già pupillo prediletto di Deng che appoggiò la sterzata autoritaria contro le manifestazioni studentesche di Piazza Tiananmen nel 1989.
Settantottenne, leader del partito fino al novembre 2002 e presidente della repubblica fino al marzo 2003, Jiang ha ceduto queste due cariche a Hu Jintao, 61 anni, ex ingegnere idroelettrico che rappresenta la nuova generazione di tecnocrati meno implicati nel massacro dell´89. Ma Jiang si è tenuto un terzo ruolo: la presidenza della commissione militare che gli dà il controllo sull´esercito, una voce decisiva in politica estera, un ruolo "da falco" su dossier scottanti come Hong Kong e Taiwan. Mentre resiste contro chi lo sospinge verso l´uscita, Jiang manovra per tramandare l´influenza sui militari al suo favorito Zeng Qinghong. Finché Jiang e i suoi controllano l´esercito, Hu ha un potere dimezzato e le sue riforme politiche ristagnano.
Di quali riforme ci sia bisogno, lo sanno quei 30.000 cinesi che nelle ultime due settimane sono accorsi a Pechino per usare il Plenum come il palcoscenico delle loro lamentele. Sono stati arrestati, malmenati dalla polizia coi manganelli elettrici, radunati in uno stadio e rispediti col foglio di via nelle loro provincie. È una triste scena che si ripete ad ogni vertice di partito. Nonostante l´obiettivo proclamato da anni di costruire uno Stato di diritto, con regole certe e una giustizia equa, i tribunali sono incapaci di difendere i cittadini dai soprusi dei capipartito locali o dalle ruberie dei nuovi capitalisti (due figure che a volte coincidono). Lavoratori immigrati derubati del salario, contadini espropriati della terra senza compensazione, inquilini defraudati: una volta esauriti i ricorsi, l´ultima speranza è venire a Pechino a invocare giustizia come ai tempi dell´Imperatore. «Mi hanno demolito la casa, volevo parlare ai leader», ha detto il 48enne Zhang Zhenxin, uno dei pochi ad essere arrivato fino alle vicinanze dell´hotel Jingxi prima di essere catturato e portato in commissariato. A differenza che nell´89 per ora non è l´élite urbana che protesta, non è scontenta la generazione-Internet, tra gli arrestati non ci sono gli studenti di Liu Xi con le scholarship per andare in America: a loro il partito ha riservato i maggiori benefici della crescita, e fin qui il contratto sociale li soddisfa. Il nuovo malcontento viene dalla periferia, dalla "seconda Cina" dove la disoccupazione spinge decine di milioni a emigrare ogni anno verso le ricche metropoli costiere; la Cina delle "ayi" (donne delle pulizie) contadine che vendono i propri servizi alle donne del ceto medio urbano: schiave a tempo pieno per cinquanta euro al mese. E il primo motivo delle lamentele è proprio il partito: si stima che la corruzione pesi per il 20% del Pil cinese all´anno.
I vertici sono costretti a riconoscere la gravità del problema corruzione. Ha detto ieri con pudore l´agenzia stampa ufficiale Xinhua: «Per la prima volta un Plenum del Comitato centrale mette in cima alla sua agenda la capacità di governo del partito». Ye Duchu, autorevole teorico della Scuola centrale di partito che forma la nomenklatura, osa essere più chiaro: «Il primo punto è l´auto-purificazione del partito. Il secondo è la costruzione del sistema giudiziario. Il terzo è mettere in pratica politiche di governo nell´interesse dei cittadini». Ma le grandi campagne lanciate periodicamente contro la corruzione sono condannate a dare risultati deludenti finché resiste il dogma del partito unico: senza ricambio, senza alternanza, senza elezioni democratiche, l´impunità dei capi conosce rare eccezioni. Finora il presidente Hu Jintao non dà segno di voler discutere quel dogma. Anzi. Proprio alla vigilia del Plenum, in un discorso televisivo che è stato interpretato anche come un segnale di debolezza nei confronti di Jiang Zemin, Hu ha escluso ogni evoluzione futura verso il pluralismo: «La storia indica che copiare indiscriminatamente i sistemi politici occidentali è un vicolo cieco per la Cina».
Sembrano lontani i giorni del 1989 in cui - sotto la pressione del movimento studentesco e degli eventi dell´Europa dell´Est - Zhao Ziyang diceva che «la democrazia è una tendenza universale» e lo stesso Deng ammetteva che «un giorno anche la Cina avrà delle elezioni a suffragio universale». Deng poi fece la scelta opposta, puntò su un modello autoritario per la transizione accelerata all´economia di mercato. Il dibattito sulla democrazia non è più così appariscente ma questo non vuol dire che sia morto. La recente vicenda di Hong Kong, dove la Cina ha "giocato" alle elezioni semi-democratiche, sia pure in un laboratorio su scala ridotta, può suscitare riflessioni nuove.
Intanto i pensatori liberal si accontenterebbero di tappe graduali. Le dimissioni di Jiang sono una di queste. «Deng Xiaoping - dice il noto intellettuale di Shanghai Zhu Xue Qin - nominò ben due generazioni di successori. Fu lui a designare sia Jiang Zemin, sia Hu Jintao. In questo modo Jiang fu deprivato di un diritto autocratico tipico di ogni leader comunista, quello di scegliere lui il proprio successore. Deng cercò di indicare la strada di successioni ordinate, nel rispetto di alcune regole del gioco, per evitare che ogni ricambio generazione fosse accompagnato da paralisi, poi da faide laceranti con effetti drammatici. Questo è il momento della prova».
I "giovani" contro Jiang Zemin l'ultima sfida della nuova Cina
Battaglia al Plenum del Pc, in piazza i poveri delle province
L'ex presidente ed ex leader del partito mantiene ancora il controllo dell´esercito
La figlia di Deng Xiaoping: "Questa gerontocrazia è un simbolo feudale"
Finché il "grande vecchio" mantiene la sua influenza, il premier Hu Jintao ha un potere dimezzato e le sue riforme politiche ristagnano
A differenza dell'89 non è più l'élite urbana a manifestare, ma la gente delle periferie, flagellata dalla disoccupazione e dalla corruzione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
PECHINO - «Da anni viaggiamo liberamente in Occidente. Navighiamo su Internet come voi. Un terzo dei miei studenti hanno una tale preparazione da conquistarsi delle scholarship americane, borse di studio per un master o un dottorato negli Stati Uniti. Eppure se vogliamo sapere che cosa stanno discutendo in queste ore i nostri governanti dobbiamo andare a cercare voci e indiscrezioni sui siti online dei mass media stranieri. È umiliante». Si capisce lo sfogo del professor Liu Xi, economista dell´università di Shanghai. La Cina ha ormai 150 milioni di consumatori dal reddito medio-alto. Ha il record mondiale del numero di telefonini. Manda 21 milioni di turisti all´estero ogni anno. Le sue città sono selve di grattacieli e di shopping mall che potrebbero essere a Londra e Los Angeles, Sidney e Vancouver. Per il primo Gran Prix di Formula Uno a Shanghai vanno a ruba biglietti sul mercato nero a 500 euro. Eppure da ieri Pechino mette in scena il rito arcaico di una politica che sembra lontana da una società moderna e cosmopolita. I luoghi-simbolo del potere come Piazza Tiananmen sono blindati dalla polizia. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nelle ultime settimane per impedire che turbassero questa liturgia che si chiama Quarto Plenum del XVI Comitato centrale del Partito comunista: il vertice a porte chiuse che da ieri a domenica riunisce 198 alti gerarchi dentro l´hotel Jinxi nella zona occidentale della capitale.
Dietro i cordoni di polizia e le tende spesse dell´albergo, questo Plenum è uno scontro di potere di fronte al quale neppure la generazione-Internet può restare indifferente. Nonostante la mancanza di trasparenza del partito, qualche voce meno conformista ha rivelato quel che sta accadendo. Sono state le due figlie di Deng Xiaoping, il leader comunista morto nel 1997 che avviò la rivoluzione capitalistica cinese, ad aver rotto il silenzio. Con due interviste insolitamente esplicite, le signore Rong e Lin hanno invitato il grande vecchio Jiang Zemin a farsi da parte, seguendo la lezione di Deng che denunciò il sistema del potere a vita come una delle piaghe del paese. «Questa gerontocrazia è un simbolo feudale», dice la Deng Rong. Il problema dunque è lui: Jiang Zemin, già pupillo prediletto di Deng che appoggiò la sterzata autoritaria contro le manifestazioni studentesche di Piazza Tiananmen nel 1989.
Settantottenne, leader del partito fino al novembre 2002 e presidente della repubblica fino al marzo 2003, Jiang ha ceduto queste due cariche a Hu Jintao, 61 anni, ex ingegnere idroelettrico che rappresenta la nuova generazione di tecnocrati meno implicati nel massacro dell´89. Ma Jiang si è tenuto un terzo ruolo: la presidenza della commissione militare che gli dà il controllo sull´esercito, una voce decisiva in politica estera, un ruolo "da falco" su dossier scottanti come Hong Kong e Taiwan. Mentre resiste contro chi lo sospinge verso l´uscita, Jiang manovra per tramandare l´influenza sui militari al suo favorito Zeng Qinghong. Finché Jiang e i suoi controllano l´esercito, Hu ha un potere dimezzato e le sue riforme politiche ristagnano.
Di quali riforme ci sia bisogno, lo sanno quei 30.000 cinesi che nelle ultime due settimane sono accorsi a Pechino per usare il Plenum come il palcoscenico delle loro lamentele. Sono stati arrestati, malmenati dalla polizia coi manganelli elettrici, radunati in uno stadio e rispediti col foglio di via nelle loro provincie. È una triste scena che si ripete ad ogni vertice di partito. Nonostante l´obiettivo proclamato da anni di costruire uno Stato di diritto, con regole certe e una giustizia equa, i tribunali sono incapaci di difendere i cittadini dai soprusi dei capipartito locali o dalle ruberie dei nuovi capitalisti (due figure che a volte coincidono). Lavoratori immigrati derubati del salario, contadini espropriati della terra senza compensazione, inquilini defraudati: una volta esauriti i ricorsi, l´ultima speranza è venire a Pechino a invocare giustizia come ai tempi dell´Imperatore. «Mi hanno demolito la casa, volevo parlare ai leader», ha detto il 48enne Zhang Zhenxin, uno dei pochi ad essere arrivato fino alle vicinanze dell´hotel Jingxi prima di essere catturato e portato in commissariato. A differenza che nell´89 per ora non è l´élite urbana che protesta, non è scontenta la generazione-Internet, tra gli arrestati non ci sono gli studenti di Liu Xi con le scholarship per andare in America: a loro il partito ha riservato i maggiori benefici della crescita, e fin qui il contratto sociale li soddisfa. Il nuovo malcontento viene dalla periferia, dalla "seconda Cina" dove la disoccupazione spinge decine di milioni a emigrare ogni anno verso le ricche metropoli costiere; la Cina delle "ayi" (donne delle pulizie) contadine che vendono i propri servizi alle donne del ceto medio urbano: schiave a tempo pieno per cinquanta euro al mese. E il primo motivo delle lamentele è proprio il partito: si stima che la corruzione pesi per il 20% del Pil cinese all´anno.
I vertici sono costretti a riconoscere la gravità del problema corruzione. Ha detto ieri con pudore l´agenzia stampa ufficiale Xinhua: «Per la prima volta un Plenum del Comitato centrale mette in cima alla sua agenda la capacità di governo del partito». Ye Duchu, autorevole teorico della Scuola centrale di partito che forma la nomenklatura, osa essere più chiaro: «Il primo punto è l´auto-purificazione del partito. Il secondo è la costruzione del sistema giudiziario. Il terzo è mettere in pratica politiche di governo nell´interesse dei cittadini». Ma le grandi campagne lanciate periodicamente contro la corruzione sono condannate a dare risultati deludenti finché resiste il dogma del partito unico: senza ricambio, senza alternanza, senza elezioni democratiche, l´impunità dei capi conosce rare eccezioni. Finora il presidente Hu Jintao non dà segno di voler discutere quel dogma. Anzi. Proprio alla vigilia del Plenum, in un discorso televisivo che è stato interpretato anche come un segnale di debolezza nei confronti di Jiang Zemin, Hu ha escluso ogni evoluzione futura verso il pluralismo: «La storia indica che copiare indiscriminatamente i sistemi politici occidentali è un vicolo cieco per la Cina».
Sembrano lontani i giorni del 1989 in cui - sotto la pressione del movimento studentesco e degli eventi dell´Europa dell´Est - Zhao Ziyang diceva che «la democrazia è una tendenza universale» e lo stesso Deng ammetteva che «un giorno anche la Cina avrà delle elezioni a suffragio universale». Deng poi fece la scelta opposta, puntò su un modello autoritario per la transizione accelerata all´economia di mercato. Il dibattito sulla democrazia non è più così appariscente ma questo non vuol dire che sia morto. La recente vicenda di Hong Kong, dove la Cina ha "giocato" alle elezioni semi-democratiche, sia pure in un laboratorio su scala ridotta, può suscitare riflessioni nuove.
Intanto i pensatori liberal si accontenterebbero di tappe graduali. Le dimissioni di Jiang sono una di queste. «Deng Xiaoping - dice il noto intellettuale di Shanghai Zhu Xue Qin - nominò ben due generazioni di successori. Fu lui a designare sia Jiang Zemin, sia Hu Jintao. In questo modo Jiang fu deprivato di un diritto autocratico tipico di ogni leader comunista, quello di scegliere lui il proprio successore. Deng cercò di indicare la strada di successioni ordinate, nel rispetto di alcune regole del gioco, per evitare che ogni ricambio generazione fosse accompagnato da paralisi, poi da faide laceranti con effetti drammatici. Questo è il momento della prova».
USA:
antidepressivi: la FDA fa il dover suo!
una segnalazione di Francesco Troccoli
da Repubblica
Washington - Un'etichetta speciale, con una cornice nera sulla confezione, simile a quella dei pacchetti di sigarette, anche per gli antidepressivi. È quanto ha richiesto la Food and Drug Administration al governo dopo aver esaminato uno studio britannico sull'uso degli antidepressivi nei bambini. Nei piccoli pazienti aumenterebbero i rischi di comportamenti o pensieri suicidi di una percentuale doppia rispetto alla media.
da Repubblica
Washington - Un'etichetta speciale, con una cornice nera sulla confezione, simile a quella dei pacchetti di sigarette, anche per gli antidepressivi. È quanto ha richiesto la Food and Drug Administration al governo dopo aver esaminato uno studio britannico sull'uso degli antidepressivi nei bambini. Nei piccoli pazienti aumenterebbero i rischi di comportamenti o pensieri suicidi di una percentuale doppia rispetto alla media.
che fine ha fatto Clorofilla?
Stamparomana (giornale delsindacato unitario dei giornalisti del
Lazio e Molise)
Quando di necessità si fa virtù. Il Restomancia.
Ed è subito boom di tovagliette informative
Pino di Maula
Impazzire. Oppure scrivere. Poco importa su cosa o per chi quando non hai più lavoro. Bisogna farlo e basta. In solitudine. Per se stessi. Per non “dare di matto”. Per strapparsi dal quel divano di casa che sembra pretendere un rivestimento nuovo. Non più in stoffa ma in vera pelle umana.
Correva l’estate 2003 quando l’amministratore unico pone l’intera redazione di fronte alla scelta di rinunciare per iscritto al pregresso di molti mesi di lavoro o fare le valigie!. Al simpatico out out del manager si contrappongono discorsi sulla deontologia professionale, codici civili e penali, si tirano in ballo diritti e consuetudini che regolano l’attività professionale. Ma lui niente, se ne “fotte” di tutte quelle “menate tipiche dei giornalisti che si danno arie da giornalisti”. A lui basta un ragazzotto disponile per poter vestire i panni dell’editore. Di marchette. Della testata on line si può far invece a meno. Si chiude dunque. Si torna a casa. Sul divano che aspetta per avvolgerti nella malinconia. E sulle prime sembra riuscirci. Ansia e colite nervose stringono d’assedio. Ma c’è ancora quel pc portatile in casa. E’ collegato in Rete. Serviva di notte per pubblicare l’ultimora. Possibilmente prima che lo facessero gli altri. Quelli con l’articolo 1 in tasca. Quelli fortunati che non dovevano dimostrare nulla. Altri tempi. Altre invidie. Ora non c’è più niente da battere su quei tasti. Se non puoi pubblicare non ha senso intervistare il soldato dissidente il pacifista o il ricercatore nottambulo.
Ecco allora lentamente prendere forma un viaggio contorto tra immaginario, storia e cronaca nera di un gruppo di giornalisti vittima, non è ben chiaro, se delle proprie nevrosi o di qualche non bene identificato potere occulto che li perseguita a causa delle loro inchieste impertinenti. Le pubblicavano su un giornale concepito per fare da “coperto d’intrattenimento” sui tavoli di osterie e pub alternativi. Una veste grafica a prova di macchia dunque. E per questo era molto richiesto. Il Restomancia.
Fin qui la trama del romanzo che dopo una scrittura estiva disperatissima trova la parola fine e inizia a girare tra amici e colleghi che dispensano consigli con aggiunte e correzioni. Siamo in pieno 2004 e il divano fa sentire di nuovo il suo canto triste. L’unico modo per sottrarsi era mettere in pratica quanto nel libro era stato una pura invenzione letteraria. Ecco allora le corse al Tribunale per registrare la testata. La ricerca del grafico e dello stampatore di fiducia. Nasce così la buffa creatura. Chiamatela free press da tavola o mensile in formato tovaglietta o - come dicono gli esperti - new media cartaceo. Comunque sia, è il primo in Europa (ma non si hanno notizie neanche d’oltreoceano, ma dire “nel mondo” suona spaccone). L’unico – recita lo slogan pubblicitario – che serve tra le posate notizie agrodolci a misura di palato per stuzzicare il cervello. Con testi e fumetti d’autore. Disponibile in 900mila copie Il Restomancia scivola sulle tavole di circa 4mila esercizi pubblici italiani come un qualsiasi giornale. E con in più solo un pizzico di sale e buon umore. Nasce così la nuova tovaglietta d’informazione indipendente. Mentre a fine agosto va in scena “Vorrei ma non posso”, il numero 0 del romanzo illustrato. E a settembre è la volta di Bimbinforma. La notizia questa volta s’indossa. Su t-shirt per piccini che non te lo mandano a dire…
Lazio e Molise)
Quando di necessità si fa virtù. Il Restomancia.
Ed è subito boom di tovagliette informative
Pino di Maula
Impazzire. Oppure scrivere. Poco importa su cosa o per chi quando non hai più lavoro. Bisogna farlo e basta. In solitudine. Per se stessi. Per non “dare di matto”. Per strapparsi dal quel divano di casa che sembra pretendere un rivestimento nuovo. Non più in stoffa ma in vera pelle umana.
Correva l’estate 2003 quando l’amministratore unico pone l’intera redazione di fronte alla scelta di rinunciare per iscritto al pregresso di molti mesi di lavoro o fare le valigie!. Al simpatico out out del manager si contrappongono discorsi sulla deontologia professionale, codici civili e penali, si tirano in ballo diritti e consuetudini che regolano l’attività professionale. Ma lui niente, se ne “fotte” di tutte quelle “menate tipiche dei giornalisti che si danno arie da giornalisti”. A lui basta un ragazzotto disponile per poter vestire i panni dell’editore. Di marchette. Della testata on line si può far invece a meno. Si chiude dunque. Si torna a casa. Sul divano che aspetta per avvolgerti nella malinconia. E sulle prime sembra riuscirci. Ansia e colite nervose stringono d’assedio. Ma c’è ancora quel pc portatile in casa. E’ collegato in Rete. Serviva di notte per pubblicare l’ultimora. Possibilmente prima che lo facessero gli altri. Quelli con l’articolo 1 in tasca. Quelli fortunati che non dovevano dimostrare nulla. Altri tempi. Altre invidie. Ora non c’è più niente da battere su quei tasti. Se non puoi pubblicare non ha senso intervistare il soldato dissidente il pacifista o il ricercatore nottambulo.
Ecco allora lentamente prendere forma un viaggio contorto tra immaginario, storia e cronaca nera di un gruppo di giornalisti vittima, non è ben chiaro, se delle proprie nevrosi o di qualche non bene identificato potere occulto che li perseguita a causa delle loro inchieste impertinenti. Le pubblicavano su un giornale concepito per fare da “coperto d’intrattenimento” sui tavoli di osterie e pub alternativi. Una veste grafica a prova di macchia dunque. E per questo era molto richiesto. Il Restomancia.
Fin qui la trama del romanzo che dopo una scrittura estiva disperatissima trova la parola fine e inizia a girare tra amici e colleghi che dispensano consigli con aggiunte e correzioni. Siamo in pieno 2004 e il divano fa sentire di nuovo il suo canto triste. L’unico modo per sottrarsi era mettere in pratica quanto nel libro era stato una pura invenzione letteraria. Ecco allora le corse al Tribunale per registrare la testata. La ricerca del grafico e dello stampatore di fiducia. Nasce così la buffa creatura. Chiamatela free press da tavola o mensile in formato tovaglietta o - come dicono gli esperti - new media cartaceo. Comunque sia, è il primo in Europa (ma non si hanno notizie neanche d’oltreoceano, ma dire “nel mondo” suona spaccone). L’unico – recita lo slogan pubblicitario – che serve tra le posate notizie agrodolci a misura di palato per stuzzicare il cervello. Con testi e fumetti d’autore. Disponibile in 900mila copie Il Restomancia scivola sulle tavole di circa 4mila esercizi pubblici italiani come un qualsiasi giornale. E con in più solo un pizzico di sale e buon umore. Nasce così la nuova tovaglietta d’informazione indipendente. Mentre a fine agosto va in scena “Vorrei ma non posso”, il numero 0 del romanzo illustrato. E a settembre è la volta di Bimbinforma. La notizia questa volta s’indossa. Su t-shirt per piccini che non te lo mandano a dire…
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