Repubblica DOMENICA, 23 GENNAIO 2005
Intervista al leader di Rifondazione. I Ds: moratoria sulle primarie
Bertinotti sfida l'Ulivo "Io corro per vincere"
Bertinotti: "Le primarie in Puglia iniezione di democrazia. Il risultato non può farci cambiare strada"
"La Quercia deve rassegnarsi vado avanti e voglio vincere"
Alternativo. La mia candidatura è alternativa a Prodi, ma il programma no. Alle primarie confronto tra ispirazioni diverse
Ambizione. Abbiamo il diritto di aspirare a diventare maggioranza. A Fassino dico: a sinistra può esserci qualcun'altro
LUIGI CONTU
Onorevole Bertinotti, la vittoria di Vendola in Puglia ha provocato un terremoto nell´alleanza di centrosinistra. Le chiedono ancora di rinunciare a candidarsi alle primarie. È disposto al passo indietro?
«La risposta, naturalmente, è no. Non ci penso nemmeno. E francamente sono sorpreso di questa domanda. Dissi che mi sarei candidato all'indomani dell'annuncio di Prodi di voler chiedere le elezioni primarie, in tempi non sospetti».
Dopo giorni di tensione il segretario dei Ds Piero Fassino propone di sospendere il confronto sulle primarie almeno fino alle elezioni regionali. È d'accordo?
«Non vedo il problema. L'agenda politica è fitta di scadenze impegnative come appunto le elezioni amministrative e il referendum. È evidente che il calendario risponde a queste esigenze. Ma il punto è un altro...»
Quale?
«Se queste primarie si vogliono fare per davvero o no. Dopo mesi abbiamo definito le regole in un documento messo a punto da un gruppo di lavoro collegiale coordinato da Arturo Parisi. Ed ecco che improvvisamente sembrano essere diventate l'ostacolo principale tra di noi. A costo di apparire ingenuo continuo a pensare che la straordinaria partecipazione alla gara tra Vendola e Boccia in Puglia avrebbe dovuto incoraggiare lo sviluppo di questo percorso democratico. Come hanno sostenuto quasi tutti i commentatori ritengo che la vicenda pugliese abbia rappresentato una vera e propria iniezione di democrazia, un tonico per una coalizione che si definisce alleanza democratica. E trovo molto strano che si tenti oggi di trasformare in una mia tattica piratesca ciò che tutti nella coalizione dicevano fino a pochi giorni orsono »
Riconoscerà che il risultato ha spiazzato tutti, compreso il suo partito.
«Ci ha sorpreso, è vero. Ma noi abbiamo affrontato la campagna pugliese per vincere sul serio, così come io affronterò il confronto con Prodi. E il nostro candidato ha vinto mettendo per la prima volta in discussione la tesi secondo la quale in Italia il campo riformista è sempre maggioritario rispetto alla sinistra alternativa. Abbiamo accettato l'alleanza ma nessuno può chiederci di stare nella coalizione senza avere l'ambizione, un giorno, di tentare di diventare maggioranza»
Un concetto che ricorda la famosa frase di Prodi quando disse agli alleati "competition is competition"...
«Un concetto basilare di democrazia. Nello schieramento alternativo a Berlusconi si svolge anche una competizione tra le due aree della sinistra. Nulla di strano. A meno che qualcuno non abbia la bizzarra concezione di costruire la coalizione solo se una parte accetta di essere sempre minoranza. L'esperienza pugliese ha impartito a tutti noi una doppia lezione: la democrazia delle primarie rappresenta una risorsa per battere Berlusconi ma è aperta a qualsiasi risultato. Lo so che è dura, ma ognuno di noi deve accettare il fatto che può sempre succedere che ci sia qualcuno alla sua sinistra. Lo dico persino io che sono discretamente a sinistra. Vedo purtroppo che ci stiamo avvitando in una discussione che diventa sempre più barocca e sempre più incomprensibile. Ma le obiezioni reali vengono nascoste dietro quelle tecniche».
Quali sono le obiezioni politiche nascoste?
«È giusto farsi carico della realtà e capisco che ci sia un problema nei Ds rappresentato dal fatto che nella competizione tra me e Prodi ci possa essere per la Quercia un deficit di visibilità. Per questo nei ragionamenti che abbiamo svolto in questi mesi si è affacciata l'ipotesi di un'assemblea programmatica da eleggere contestualmente alle primarie nella quale i partiti siano rappresentati proporzionalmente. Bene, possono essere prese in considerazione questa o altre soluzioni che diano una risposta ai timori sollevati legittimamente dai Ds».
Le chiedono anche di presentare un programma alternativo a Prodi.
«Se mi si chiede se sono alternativo a Prodi rispondo: elementare Watson. Lo sono per definizione perché tra due o più concorrenti se ne sceglie uno solo. Se mi si dice che anche il mio programma deve essere alternativo dico "no". Le mie ispirazioni programmatiche saranno certamente alternative a Berlusconi ma non a Prodi».
Scusi, un elettore che vuole scegliere tra lei e il professore in base a cosa dovrebbe decidere il proprio voto?
«In base ad un libero confronto di idee che si svolgerà alla luce del sole sulle grandi questioni della politica. Discuteremo della pace nel mondo, di come uscire dalla crisi economica che attanaglia il paese, di immigrazione, di scuola, di ambiente, di diritti e democrazia. Ma le ispirazioni programmatiche saranno diverse, differenti, non alternative. Ed è per questo che si potrà scegliere tra queste opzioni senza pregiudicare l'alleanza. Un candidato si sceglie depositando nell'urna un nome ed un cognome che si confronta con altri nomi e cognomi. Una scelta semplice. Un programma è fatto di migliaia di parole, di proposte articolate e complesse. Alle primarie scegliamo il candidato e gli orientamenti programmatici che poi saranno alla base del progetto che presenteremo agli elettori. O c'è qualcuno che immagina che il giorno dopo le primarie Prodi tiri dritto sul suo programma? Spero di no perché noi siamo contro una concezione leaderistica della coalizione»
E cosa dovrà fare Prodi all'indomani delle primarie, contrattare il programma con tutta la coalizione?
«Il leader è colui che ci guida nella costruzione del programma ma deve fare una sintesi, associare le forze. Immagino una grande consultazione delle associazioni, dei movimenti, delle organizzazioni sindacali e produttive. Un percorso lungo ed articolato. Chiedere programmi alternativi è un artificio dialettico per indebolire le primarie. È insensato tentare di trasformare questo momento di democrazia in una ghigliottina con cui si mette fuori non questo o quel candidato ma un mondo che vuole partecipare alla costruzione del programma. Chi vince deve dialogare con tutti. Qualcuno può anche pensare di risolvere il problema con Bertinotti, ma poi deve risolverlo con gli elettori. Mi pare purtroppo che ci sia una strana pulsione nel centrosinistra più a pensare a risolvere beghe interne che a cercare di convincere gli elettori»
Cosa ne pensa delle altre candidature avanzate in questi giorni da Pecoraro Scanio e Di Pietro?
«C'è un principio fondamentale in democrazia che chiedo venga rispettato. Le candidature sono nelle mani di chi le propone. Non ci possono essere preclusioni. E se uno pensa di avere delle proposte su cui competere si presenti, poi decideranno gli elettori: se i suoi ragionamenti non convinceranno sarà bocciato dall'urna»
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 23 gennaio 2005
l'embrione
un'intervista al prof. Giovanni Berlinguer
La Stampa 23 Gennaio 2005
IL PRESIDENTE ONORARIO DEL COMITATO DI BIOETICA
intervista
Berlinguer: impossibile definirlo un individuo
«Sono quindici secoli che si cerca una risposta, ma la personalità
giuridica in tutte le leggi si attribuisce soltanto dopo la nascita»
ROMA. È impossibile definire ogni embrione un individuo e perfino attribuirgli una personalità giuridica, cioè pieni diritti. Oggi in tutte le leggi del mondo la personalità giuridica si attribuisce soltanto alla nascita, ossia quando la vita diventa autonoma». A replicare alla presa di posizione «pro embrione» della seconda carica dello Stato è il presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica Giovanni Berlinguer.
È sorpreso di trovare il «Grande laico» Marcello Pera sulle posizioni della Chiesa?
«Mi preoccupa questa escalation dell’integralismo. Rispetto i sentimenti religiosi al punto da non volerli mescolati a questioni partitiche o subordinati a scelte della Chiesa. Non voglio sindacare le motivazioni di non credenti, come il presidente del Senato, che abbracciano battaglie ecclesiali. Sia che ciò accada per evoluzione morale o strumentalizzazione politica, è un grave errore, spostare la discussione dalla procreazione assistita all’embrione. In generale, comunque, mi sembra che il centrodestra voglia ingraziarsi le gerarchie ecclesiastiche e piegare la laicità dello Stato alle mere esigenze elettorali e propagandistiche. Lo hanno già fatto per istruzione, scienza e ricerca scientifica. Pera, inoltre, dimentica che la biologia non può stabilire se l’embrione sia una persona. Certamente è un progetto di vita, ma è sbagliato attendersi dai referendum la risposta a una controversia che da quindici secoli manca di un’argomentazione scientifica o teologica risolutiva».
Si aspettava sulla procreazione schieramenti trasversali al mondo laico e a quello cattolico?
«In realtà non c’è un’etica laica e un’etica cattolica distinguibili in assoluto. Ci sono tante etiche laiche e tante etiche religiose. La procreazione assistita non è un esperimento, è una pratica che si usa e che permette a coppie sterili di avere figli. E’ una tecnica valida, molto utile che allarga lo spazio delle scelte possibili anche se, per me, bisogna preoccuparsi molto di più del destino di chi nasce. C’è stato un caso negli Stati Uniti di un bambino nato orfano di cinque genitori. Sembra una follia. Una coppia di persone sterili si è rivolta a un centro per la procreazione assistita per avere spermatozoi e ovuli, e non essendo possibile alla donna della coppia neanche entrare in gravidanza, si è rivolta a una madre sostitutiva o utero in affitto (in termini più brutali, ma più veridici) per avere la possibilità che essa portasse a termine la gravidanza. Dopo di che, la coppia da cui era partita l’esigenza si è divisa, e, quando il bambino è nato, la madre sostitutiva non l’ha voluto e questo figlio appunto si è trovato orfano di cinque genitori».
In ballo, secondo i referendari, c’è anche la libertà scientifica. Cosa risponde?
«È vero, i limiti vanno posti ai metodi che usa la scienza, ma non alla conoscenza, al sapere. Per esempio è inammissibile sperimentare su esseri umani, senza il loro consenso e senza un loro vantaggio. È inquietante pretendere di migliorare la specie umana per via biologica, attraverso interventi sul patrimonio genetico. Ma la domanda cruciale è: quando comincia la vita? Per me inizia dal momento in cui lo spermatozoo entra nell’ovulo, avviene una mescolanza di due patrimoni ereditari e si crea un nuovo Dna, unico e irripetibile, tranne che l’ovulo fecondato si divida e dia luogo a due gemelli geneticamente uguali. Da lì esiste un’individualità biologica, però non una persona. L’embrione ha biologicamente diversi gradi di sviluppo e gran parte degli ovuli fecondati spontaneamente muoiono. O non si annidano nell’utero o non crescono, non si sviluppano, vengono espulsi. E ciò corrisponde a un criterio di selezione naturale. Quindi l’embrione umano merita il massimo rispetto possibile ed occorre predisporre, culturalmente e socialmente, tutte le forme di tutela, anche legale, che sono necessarie. Vedo due posizioni opposte. L’embrione come semplicemente una parte del corpo femminile o come una persona già dotata di pieni diritti. Sono due paradossi. Entrambi da evitare».
IL PRESIDENTE ONORARIO DEL COMITATO DI BIOETICA
intervista
Berlinguer: impossibile definirlo un individuo
«Sono quindici secoli che si cerca una risposta, ma la personalità
giuridica in tutte le leggi si attribuisce soltanto dopo la nascita»
ROMA. È impossibile definire ogni embrione un individuo e perfino attribuirgli una personalità giuridica, cioè pieni diritti. Oggi in tutte le leggi del mondo la personalità giuridica si attribuisce soltanto alla nascita, ossia quando la vita diventa autonoma». A replicare alla presa di posizione «pro embrione» della seconda carica dello Stato è il presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica Giovanni Berlinguer.
È sorpreso di trovare il «Grande laico» Marcello Pera sulle posizioni della Chiesa?
«Mi preoccupa questa escalation dell’integralismo. Rispetto i sentimenti religiosi al punto da non volerli mescolati a questioni partitiche o subordinati a scelte della Chiesa. Non voglio sindacare le motivazioni di non credenti, come il presidente del Senato, che abbracciano battaglie ecclesiali. Sia che ciò accada per evoluzione morale o strumentalizzazione politica, è un grave errore, spostare la discussione dalla procreazione assistita all’embrione. In generale, comunque, mi sembra che il centrodestra voglia ingraziarsi le gerarchie ecclesiastiche e piegare la laicità dello Stato alle mere esigenze elettorali e propagandistiche. Lo hanno già fatto per istruzione, scienza e ricerca scientifica. Pera, inoltre, dimentica che la biologia non può stabilire se l’embrione sia una persona. Certamente è un progetto di vita, ma è sbagliato attendersi dai referendum la risposta a una controversia che da quindici secoli manca di un’argomentazione scientifica o teologica risolutiva».
Si aspettava sulla procreazione schieramenti trasversali al mondo laico e a quello cattolico?
«In realtà non c’è un’etica laica e un’etica cattolica distinguibili in assoluto. Ci sono tante etiche laiche e tante etiche religiose. La procreazione assistita non è un esperimento, è una pratica che si usa e che permette a coppie sterili di avere figli. E’ una tecnica valida, molto utile che allarga lo spazio delle scelte possibili anche se, per me, bisogna preoccuparsi molto di più del destino di chi nasce. C’è stato un caso negli Stati Uniti di un bambino nato orfano di cinque genitori. Sembra una follia. Una coppia di persone sterili si è rivolta a un centro per la procreazione assistita per avere spermatozoi e ovuli, e non essendo possibile alla donna della coppia neanche entrare in gravidanza, si è rivolta a una madre sostitutiva o utero in affitto (in termini più brutali, ma più veridici) per avere la possibilità che essa portasse a termine la gravidanza. Dopo di che, la coppia da cui era partita l’esigenza si è divisa, e, quando il bambino è nato, la madre sostitutiva non l’ha voluto e questo figlio appunto si è trovato orfano di cinque genitori».
In ballo, secondo i referendari, c’è anche la libertà scientifica. Cosa risponde?
«È vero, i limiti vanno posti ai metodi che usa la scienza, ma non alla conoscenza, al sapere. Per esempio è inammissibile sperimentare su esseri umani, senza il loro consenso e senza un loro vantaggio. È inquietante pretendere di migliorare la specie umana per via biologica, attraverso interventi sul patrimonio genetico. Ma la domanda cruciale è: quando comincia la vita? Per me inizia dal momento in cui lo spermatozoo entra nell’ovulo, avviene una mescolanza di due patrimoni ereditari e si crea un nuovo Dna, unico e irripetibile, tranne che l’ovulo fecondato si divida e dia luogo a due gemelli geneticamente uguali. Da lì esiste un’individualità biologica, però non una persona. L’embrione ha biologicamente diversi gradi di sviluppo e gran parte degli ovuli fecondati spontaneamente muoiono. O non si annidano nell’utero o non crescono, non si sviluppano, vengono espulsi. E ciò corrisponde a un criterio di selezione naturale. Quindi l’embrione umano merita il massimo rispetto possibile ed occorre predisporre, culturalmente e socialmente, tutte le forme di tutela, anche legale, che sono necessarie. Vedo due posizioni opposte. L’embrione come semplicemente una parte del corpo femminile o come una persona già dotata di pieni diritti. Sono due paradossi. Entrambi da evitare».
cosa aveva detto Pera:
repubblica.it 22 gennaio 2005
Il presidente del Senato intervistato dal direttore del Tg2
"Quali sono i limiti della scienza e quali i diritti degli individui?"
Pera: "L'embrione non è muffa
Niente riforma: sì al referendum"
ROMA - "L'embrione è persona, non è una muffa". E' netto il presidente del Senato, Marcello Pera, che in un'intervista al direttore del Tg2, Mauro Mazza, spiega: "Io sostengo , ancorchè non sia credente, che l'embrione sia persona fin dal concepimento. Ritengo che questa sia la posizione moralmente più responsabile e che sia, anche dal punto di vista laico, la posizione più confacente alla mia storia, alla mia tradizione di italiano e di europeo".
Il presidente del Senato non crede che il Parlamento riuscirà a legiferare sui punti della legge sulla fecondazione assistita che i quesiti referendari mirano ad abrogare: "Mi sembra - dice - che l'orientamento delle forze politiche sia quello di attendere la data del referendum e di celebrarlo". Ma quando si discute, come in queste settimane, su temi che riguardano la vita, i diritti della persona e la ricerca scientifica, a giudizio del presidente Pera è bene sottolineare quale sia la posta in gioco: "Da un lato - spiega - è in discussione il valore della persona umana-embrione.
Dall'altro lato è in discussione il valore della libertà scientifica, o il diritto di curare malattie tramite la ricerca scientifica. Questi due valori devono essere combinati. Si può decidere che il valore della persona sia preminente a quello della libertà di ricerca. E si può anche decidere diversamente. L'unica cosa che non si dovrebbe fare è credere di poter sperimentare come Galileo con le palline metalliche che rotolavano su un piano inclinato. O come faceva Flemming con le muffe per scoprire la penicillina. Perchè - sottolinea il presidente del Senato - l'embrione non è una muffa".
"La posta in gioco - ribadisce Pera - è esattamente questa: quali sono i limiti della ricerca scientifica e quali sono i diritti degli individui: diritto alla salute e a concepire; il diritto ad avere un figlio che magari, un domani, si vorrà alto, biondo, con gli occhi celesti. Quanto sono questi diritti prevalenti sul rispetto della persona? Questa è la posta in gioco che i cittadini italiani avranno di fronte quando si recheranno a votare per i referendum".
(22 gennaio 2005)
Le Scienze 21.01.2005
Diagnosticare il deficit di attenzione
Un test oculare consentirà di individuare in anticipo il disturbo
Alcuni ricercatori della Brunel University di Londra hanno sviluppato un semplice test oculare per diagnosticare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini. Gli scienziati affermano che l'esame, che richiede ai bambini di seguire una macchia luminosa sullo schermo di un computer, è preciso al 93 per cento. Ma alcuni esperti dubitano che il test possa diagnosticare con tanta accuratezza un disturbo del comportamento i cui sintomi variano notevolmente da bambino a bambino.
Al momento, per diagnosticare l'ADHD, i medici si affidano a numerose tecniche differenti, compresi questionari e accertamenti psichiatrici, ma non esiste ancora nessun test biologico. La diagnosi in giovane età è particolarmente difficile, perché molti bambini sono iperattivi ed esuberanti per natura. L'ADHD colpisce circa il 6 per cento dei bambini in età scolastica, ma la gravità dei sintomi è molto varia.
Durante lo studio, a 65 bambini di età compresa fra i quattro e i sei anni è stato chiesto di seguire una macchia luminosa sullo schermo, per 30 secondi, attraverso quattro diversi tipi di movimento. Gli scienziati hanno scoperto che i bambini con l'ADHD presentano uno schema di movimento oculare differente da quelli senza il disturbo. Secondo quanto riferiscono i ricercatori George Pavlidis e Panagiotis Samaras, il test rappresenta una pietra miliare nel campo della diagnostica di questo disturbo, in quanto consentirà ai pazienti di ricevere aiuto più presto.
© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.
Diagnosticare il deficit di attenzione
Un test oculare consentirà di individuare in anticipo il disturbo
Alcuni ricercatori della Brunel University di Londra hanno sviluppato un semplice test oculare per diagnosticare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini. Gli scienziati affermano che l'esame, che richiede ai bambini di seguire una macchia luminosa sullo schermo di un computer, è preciso al 93 per cento. Ma alcuni esperti dubitano che il test possa diagnosticare con tanta accuratezza un disturbo del comportamento i cui sintomi variano notevolmente da bambino a bambino.
Al momento, per diagnosticare l'ADHD, i medici si affidano a numerose tecniche differenti, compresi questionari e accertamenti psichiatrici, ma non esiste ancora nessun test biologico. La diagnosi in giovane età è particolarmente difficile, perché molti bambini sono iperattivi ed esuberanti per natura. L'ADHD colpisce circa il 6 per cento dei bambini in età scolastica, ma la gravità dei sintomi è molto varia.
Durante lo studio, a 65 bambini di età compresa fra i quattro e i sei anni è stato chiesto di seguire una macchia luminosa sullo schermo, per 30 secondi, attraverso quattro diversi tipi di movimento. Gli scienziati hanno scoperto che i bambini con l'ADHD presentano uno schema di movimento oculare differente da quelli senza il disturbo. Secondo quanto riferiscono i ricercatori George Pavlidis e Panagiotis Samaras, il test rappresenta una pietra miliare nel campo della diagnostica di questo disturbo, in quanto consentirà ai pazienti di ricevere aiuto più presto.
© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.
Yahoo! Salute venerdì 21 gennaio 2005
Il Pensiero Scientifico Editore
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Uomini e donne: materia grigia e materia bianca
di Emanuela Grasso
Gli uomini e le donne usano il cervello in maniera diversa. Lo si dice sempre, di solito alla fine di discussioni interminabili in cui non si raggiunge un punto di vista che sia anche solo lontanamente condiviso da entrambi i sessi. Il punto è che gli uomini e le donne usano la loro intelligenza in modo diverso, questo sostiene una ricerca pubblicata sulla rivista NeuroImage.
Secondo uno studio condotto da Richard Haier, della University of California, le capacità intellettive delle donne sono gestite prevalentemente dalla materia bianca cerebrale; quelle degli uomini, invece, dalla materia grigia. “Questo suggerisce quasi che nel corso dell’evoluzione umana si siano sviluppati due differenti tipi di cervelli ed entrambi sono stati in grado di adattarsi e di affrontare la vita sul nostro pianeta”, sostiene Haier. Gli uomini e le donne, quindi, sarebbero proprio due varianti della stessa specie che si sono adattate entrambe con ottimi risultati a vivere sulla terra.
Questa ipotesi affascinante potrebbe mettere fine alle inutili discussioni tra amici, al lavoro, a tavola. Gli uomini e le donne hanno circuiti cerebrali differenti. Entrambi validi, ma differenti. Non c’è possibilità di mediazione, l’unica cosa che si può sperare è che questi circuiti, seppure con percorsi differenti, portino alla stessa meta.
Gli uomini hanno una quantità di materia grigia collegata a funzioni intellettive sei volte maggiore rispetto a quella delle donne; queste ultime invece hanno una quantità di materia bianca impegnata nella rete di connessioni cerebrali dieci volte maggiore rispetto a quella degli uomini. Per questo studio Richard ha usato la risonanza magnetica nucleare: sottoponendo i volontari che hanno partecipato allo studio ad un semplice test per la valutazione del quoziente intellettivo, il medico e il suo gruppo hanno verificato quali aree del cervello venivano coinvolte. Sono riusciti così ad ottenere una mappa del cervello che correla alcune zone cerebrali con le capacità cognitive coinvolte nei processi intellettivi.
Il Pensiero Scientifico Editore
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Uomini e donne: materia grigia e materia bianca
di Emanuela Grasso
Gli uomini e le donne usano il cervello in maniera diversa. Lo si dice sempre, di solito alla fine di discussioni interminabili in cui non si raggiunge un punto di vista che sia anche solo lontanamente condiviso da entrambi i sessi. Il punto è che gli uomini e le donne usano la loro intelligenza in modo diverso, questo sostiene una ricerca pubblicata sulla rivista NeuroImage.
Secondo uno studio condotto da Richard Haier, della University of California, le capacità intellettive delle donne sono gestite prevalentemente dalla materia bianca cerebrale; quelle degli uomini, invece, dalla materia grigia. “Questo suggerisce quasi che nel corso dell’evoluzione umana si siano sviluppati due differenti tipi di cervelli ed entrambi sono stati in grado di adattarsi e di affrontare la vita sul nostro pianeta”, sostiene Haier. Gli uomini e le donne, quindi, sarebbero proprio due varianti della stessa specie che si sono adattate entrambe con ottimi risultati a vivere sulla terra.
Questa ipotesi affascinante potrebbe mettere fine alle inutili discussioni tra amici, al lavoro, a tavola. Gli uomini e le donne hanno circuiti cerebrali differenti. Entrambi validi, ma differenti. Non c’è possibilità di mediazione, l’unica cosa che si può sperare è che questi circuiti, seppure con percorsi differenti, portino alla stessa meta.
Gli uomini hanno una quantità di materia grigia collegata a funzioni intellettive sei volte maggiore rispetto a quella delle donne; queste ultime invece hanno una quantità di materia bianca impegnata nella rete di connessioni cerebrali dieci volte maggiore rispetto a quella degli uomini. Per questo studio Richard ha usato la risonanza magnetica nucleare: sottoponendo i volontari che hanno partecipato allo studio ad un semplice test per la valutazione del quoziente intellettivo, il medico e il suo gruppo hanno verificato quali aree del cervello venivano coinvolte. Sono riusciti così ad ottenere una mappa del cervello che correla alcune zone cerebrali con le capacità cognitive coinvolte nei processi intellettivi.
Corriere Salute 23.1.05
la fede è un antidoto al dolore?
Neuroscienze. Un gruppo di ricercatori di Oxford ha intrapreso uno studio per capire quanto un credo religioso influisca sulla soglia della sofferenza.
I partecipanti, volontari, subiranno "piccole torture"
di Franca Porciani
La baronessa Susan Greenfield, neuroscienziata di fama, autrice di best-seller, come La vita privata del cervello , Il cervello umano: un tour guidato , che il quotidiano The Guardian inserisce fra le cinquanta donne più influenti del Regno Unito, crede incondizionatamente in questo nuovo filone di ricerche. Gli studi sul "fattore fede" saranno coordinati dal suo Istituto, il Centro per la scienza della mente, nato da pochi mesi all’Università di Oxford. «Bisogna cominciare a chiederci come il credo religioso, o comunque, le convinzioni forti di una persona influiscono e modificano i circuiti del nostro cervello, o, forse, ne creano di nuovi - afferma la baronessa - . E’ strano che non si sia fatto finora; è come se fossimo interessati allo stomaco e non alla digestione, cioè al processo di cui quest’organo è protagonista. Nell’esplorazione di questo nuovo mondo, la soglia del dolore è un primo passo di grande interesse».
In questi giorni i quotidiani inglesi hanno dato risalto alla ricerca di Oxford, ai nastri di partenza adesso - durerà almeno due anni -, evocando le torture della Santa Inquisizione perché i volontari che accetteranno di diventarne oggetto dovranno subire qualche piccolo supplizio.
Un gel a base di peperoncino spalmato sulla mano provocherà la stessa percezione dolorosa di una bruciatura, mentre un tampone scaldato fino a 60° infliggerà la pena di una scottatura.
Non solo: nello studio si andrà a verificare se la visione di certi simboli religiosi, come il crocefisso o l’immagine di Maria, rinforzando la fede della volontaria vittima, attenuano la percezione dolorosa. E si potrà anche definire quali sono le persone con la soglia del dolore più alta, se quelle confortate dalla fede (di qualsiasi confessione) o gli atei convinti.
Un potente placebo
La parte più interessante è la possibilità di fotografare, attimo per attimo, con le tecniche di imaging cerebrale, la Tac e la Risonanza magnetica, l’attività dei neuroni di questi volontari e d’identificare le aree cerebrali attivate di volta in volta.
Il singolare studio, che oltre a farmacologi e neurologi, coinvolge filosofi e teologi si inserisce in un filone di ricerche, principalmente americano, che tenderebbero a dimostrare come la fede aiuti a controllare il dolore. Ipotesi cara anche a Lewis Wolpert, dell’University College di Londra, sempre più convinto che la religione non sia l’oppio dei popoli, come affermava Carlo Marx, ma il più potente placebo inventato dalla cultura occidentale.
I limiti
Ma i propositi dei ricercatori di Oxford, che possono contare su un finanziamento di due milioni di dollari della Templeton Foundation, non sono un po’ ambiziosi?
«Forse sì - risponde Paolo Marchettini, Responsabile del Centro di medicina del dolore dell’Ospedale San Raffaele di Milano - . Soprattutto perché la ricerca, per quanto se ne sa adesso - mancano i dettagli su come verrà articolata - vuole scoprire i segreti del controllo della sofferenza a livello cerebrale attuando un esperimento che ha invece a che fare con un fenomeno diverso, quello della nocicezione, la percezione del dolore a livello periferico. Mi spiego meglio: se applico uno stimolo doloroso, ad esempio il tampone caldo o il gel al peperoncino sulla pelle, dai recettori presenti sulla sua superficie parte un impulso che correndo lungo i nervi sensitivi, arriva al midollo spinale. Da qui il messaggio non procede immodificato verso la corteccia cerebrale. Esiste un sistema di contrattacco, definito discendente - da cui il detto, il dolore inibisce il dolore - che, partendo dal cervello, cerca di bloccare l’impulso. In altri termini, quello che noi sentiamo alla fine è frutto di qualcosa di ben più elaborato della semplice percezione dello stimolo che fa male».
L’esempio più clamoroso e più studiato della potenza del meccanismo di inibizione sono i fachiri indiani. Questi individui, attraverso forme di autosuggestione particolarmente intense - si parla di estasi - riescono ad attivarlo alla perfezione, tanto che la percezione del dolore si attenua fino quasi a vanificarsi.
Il risultato è che l’abnorme intensità dello stimolo diventa sopportabile: i fachiri camminano sui carboni ardenti, si sdraiano tranquilli su lame appuntite e fanno molte altre cose straordinarie.
Fenomeni di autosuggestione si ritrovano anche nella vita di molti Santi che si infliggevano pene corporali crudelissime, dando prova di sopportarle senza conseguenze.
Le prospettive
«Quindi, più che di piccole torture, abbiamo bisogno di capire il processo cognitivo che modula l’intensità della sofferenza individuale, quindi anche la soglia del dolore, agendo su questo meccanismo di inibizione - prosegue Marchettini - . Processo che ha una dimensione culturale, che si adatta alla convenzioni sociali, alle giustificazioni etiche, ai contenuti spirituali e che si integra con la sfera affettiva, con i sentimenti. Di questa elaborazione si sa abbastanza per quanto riguarda il dolore cronico, molto meno per quello acuto».
Ma niente frena l’entusiasmo di Susan Greenfield e del suo più stretto collaboratore, Toby Collins, convinti di riuscire a scoprire perfino cosa scatta nei circuiti cerebrali dei fondamentali islamici, tanto da permettere loro di darsi la morte a fini terroristici.
Sarà, però, difficile trovare in quella "cerchia" volontari disposti a provare il brivido del gel al peperoncino o del tampone caldo sulla pelle. Ma chissà...
Altre indagini
Pregare sembra che aiuti a guarire
La preghiera allunga la vita, fa ammalare di meno e guarire prima. Sono più di trent'anni che alcuni studiosi americani si interrogano appasionatamente sul tema. Di questi uno dei più famosi è Herbert Benson, clinico della Harvard Medical School, autore di molti studi sull'effetto benefico della meditazione sul metabolismo, sulla respirazione e sulla pressione, studi che sempre sono stati accolti con favore dalla comunità scientifica. In effetti lcune ricerche, condotte con rigore, hanno dimostrato che fra i pazienti ricoverati in unità coronarica per un infarto, quelli che pregavano ed erano sostenuti da una fede forte, approdavano più velocemente alla convalescenza. Da altre ancora emerge il beneficio delle pratiche religiose: nel 2002 la rivista British Medical Journal pubblicò uno studio secondo il quale il rosario (quello canonico, in latino) recitato ogni giorno regolarizza il battito cardiaco e la pressione nelle persone che soffrono di scompenso cardiaco cronico.
la fede è un antidoto al dolore?
Neuroscienze. Un gruppo di ricercatori di Oxford ha intrapreso uno studio per capire quanto un credo religioso influisca sulla soglia della sofferenza.
I partecipanti, volontari, subiranno "piccole torture"
di Franca Porciani
La fede nel sovrannaturale, in qualsiasi modo si esprima, anche con il fanatismo dei fondamentalisti, modifica le risposte del cervello al dolore? Un gruppo di neurologi, filosofi e teologi inglesi ha deciso di trovare una risposta ad un quesito che serpeggia da tempo nel campo delle Neuroscienze. Lavorando per due anni, grazie ai due milioni di dollari elargiti dalla John Templeton Foundation, su volontari, credenti e miscredenti, cattolici, protestanti e altro, disposti a subire piccole torture - farsi spalmare sulle mani un gel di peperoncino che produce la sensazione di una bruciatura, ad esempio -, per scoprire se i loro circuiti cerebrali sono influenzati dal "fattore fede" e in che modo. L'attività dei loro cervelli sarà registrata con la Tac e la Risonanza magnetica.
La baronessa Susan Greenfield, neuroscienziata di fama, autrice di best-seller, come La vita privata del cervello , Il cervello umano: un tour guidato , che il quotidiano The Guardian inserisce fra le cinquanta donne più influenti del Regno Unito, crede incondizionatamente in questo nuovo filone di ricerche. Gli studi sul "fattore fede" saranno coordinati dal suo Istituto, il Centro per la scienza della mente, nato da pochi mesi all’Università di Oxford. «Bisogna cominciare a chiederci come il credo religioso, o comunque, le convinzioni forti di una persona influiscono e modificano i circuiti del nostro cervello, o, forse, ne creano di nuovi - afferma la baronessa - . E’ strano che non si sia fatto finora; è come se fossimo interessati allo stomaco e non alla digestione, cioè al processo di cui quest’organo è protagonista. Nell’esplorazione di questo nuovo mondo, la soglia del dolore è un primo passo di grande interesse».
In questi giorni i quotidiani inglesi hanno dato risalto alla ricerca di Oxford, ai nastri di partenza adesso - durerà almeno due anni -, evocando le torture della Santa Inquisizione perché i volontari che accetteranno di diventarne oggetto dovranno subire qualche piccolo supplizio.
Un gel a base di peperoncino spalmato sulla mano provocherà la stessa percezione dolorosa di una bruciatura, mentre un tampone scaldato fino a 60° infliggerà la pena di una scottatura.
Non solo: nello studio si andrà a verificare se la visione di certi simboli religiosi, come il crocefisso o l’immagine di Maria, rinforzando la fede della volontaria vittima, attenuano la percezione dolorosa. E si potrà anche definire quali sono le persone con la soglia del dolore più alta, se quelle confortate dalla fede (di qualsiasi confessione) o gli atei convinti.
Un potente placebo
La parte più interessante è la possibilità di fotografare, attimo per attimo, con le tecniche di imaging cerebrale, la Tac e la Risonanza magnetica, l’attività dei neuroni di questi volontari e d’identificare le aree cerebrali attivate di volta in volta.
Il singolare studio, che oltre a farmacologi e neurologi, coinvolge filosofi e teologi si inserisce in un filone di ricerche, principalmente americano, che tenderebbero a dimostrare come la fede aiuti a controllare il dolore. Ipotesi cara anche a Lewis Wolpert, dell’University College di Londra, sempre più convinto che la religione non sia l’oppio dei popoli, come affermava Carlo Marx, ma il più potente placebo inventato dalla cultura occidentale.
I limiti
Ma i propositi dei ricercatori di Oxford, che possono contare su un finanziamento di due milioni di dollari della Templeton Foundation, non sono un po’ ambiziosi?
«Forse sì - risponde Paolo Marchettini, Responsabile del Centro di medicina del dolore dell’Ospedale San Raffaele di Milano - . Soprattutto perché la ricerca, per quanto se ne sa adesso - mancano i dettagli su come verrà articolata - vuole scoprire i segreti del controllo della sofferenza a livello cerebrale attuando un esperimento che ha invece a che fare con un fenomeno diverso, quello della nocicezione, la percezione del dolore a livello periferico. Mi spiego meglio: se applico uno stimolo doloroso, ad esempio il tampone caldo o il gel al peperoncino sulla pelle, dai recettori presenti sulla sua superficie parte un impulso che correndo lungo i nervi sensitivi, arriva al midollo spinale. Da qui il messaggio non procede immodificato verso la corteccia cerebrale. Esiste un sistema di contrattacco, definito discendente - da cui il detto, il dolore inibisce il dolore - che, partendo dal cervello, cerca di bloccare l’impulso. In altri termini, quello che noi sentiamo alla fine è frutto di qualcosa di ben più elaborato della semplice percezione dello stimolo che fa male».
L’esempio più clamoroso e più studiato della potenza del meccanismo di inibizione sono i fachiri indiani. Questi individui, attraverso forme di autosuggestione particolarmente intense - si parla di estasi - riescono ad attivarlo alla perfezione, tanto che la percezione del dolore si attenua fino quasi a vanificarsi.
Il risultato è che l’abnorme intensità dello stimolo diventa sopportabile: i fachiri camminano sui carboni ardenti, si sdraiano tranquilli su lame appuntite e fanno molte altre cose straordinarie.
Fenomeni di autosuggestione si ritrovano anche nella vita di molti Santi che si infliggevano pene corporali crudelissime, dando prova di sopportarle senza conseguenze.
Le prospettive
«Quindi, più che di piccole torture, abbiamo bisogno di capire il processo cognitivo che modula l’intensità della sofferenza individuale, quindi anche la soglia del dolore, agendo su questo meccanismo di inibizione - prosegue Marchettini - . Processo che ha una dimensione culturale, che si adatta alla convenzioni sociali, alle giustificazioni etiche, ai contenuti spirituali e che si integra con la sfera affettiva, con i sentimenti. Di questa elaborazione si sa abbastanza per quanto riguarda il dolore cronico, molto meno per quello acuto».
Ma niente frena l’entusiasmo di Susan Greenfield e del suo più stretto collaboratore, Toby Collins, convinti di riuscire a scoprire perfino cosa scatta nei circuiti cerebrali dei fondamentali islamici, tanto da permettere loro di darsi la morte a fini terroristici.
Sarà, però, difficile trovare in quella "cerchia" volontari disposti a provare il brivido del gel al peperoncino o del tampone caldo sulla pelle. Ma chissà...
Altre indagini
Pregare sembra che aiuti a guarire
La preghiera allunga la vita, fa ammalare di meno e guarire prima. Sono più di trent'anni che alcuni studiosi americani si interrogano appasionatamente sul tema. Di questi uno dei più famosi è Herbert Benson, clinico della Harvard Medical School, autore di molti studi sull'effetto benefico della meditazione sul metabolismo, sulla respirazione e sulla pressione, studi che sempre sono stati accolti con favore dalla comunità scientifica. In effetti lcune ricerche, condotte con rigore, hanno dimostrato che fra i pazienti ricoverati in unità coronarica per un infarto, quelli che pregavano ed erano sostenuti da una fede forte, approdavano più velocemente alla convalescenza. Da altre ancora emerge il beneficio delle pratiche religiose: nel 2002 la rivista British Medical Journal pubblicò uno studio secondo il quale il rosario (quello canonico, in latino) recitato ogni giorno regolarizza il battito cardiaco e la pressione nelle persone che soffrono di scompenso cardiaco cronico.
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