Sabato 27 Marzo 2004
Ansa 27.3.04
pubblicata su Panorama all'indirizzo:
http://www.panorama.it/spettacoli/ultimora/articolo/ix1-AA020001025491
Cinema: Bellocchio a New York, lotto contro la normalità
(ANSA)- NEW YORK, 27 MAR - "Nel mio cinema prevale il distacco dalla realtà. Sono in costante lotta con la normalità'', ha detto il regista Marco Bellocchio a New York. Il settimanale newyorcherse "Time out", in occasione di una rassegna dedicata a Bellocchio dal Brooklyn Museum of Music, ha dedicato al regista un'ampia intervista dove ha smentito chi considera il talento di Bellocchio offuscato da quello di Bertolucci.
nella speranza di poter al più presto inserire in "segnalazioni" anche questa intervista su "Time Out" ecco intanto cosa si trova sul sito della BAM - Brooklin Academy of Music di New York (http://www.bam.org/film/bellocchio.aspx) che sta ospitando in questi giorni la rassegna dei film dell'Artista:
Tribute to Marco Bellocchio
Mar 19/28
«Marco Bellocchio emerged as perhaps the most incisive and passionate cinematic witness to the social, political and spiritual upheavals that convulsed Italy in the 1960s and 70s.» The New York Times
«Marco Bellocchio is finally ensconced in the mandarin priesthood of great international filmmakers» Village Voice
One of Italy's most talented, socially conscious, and respected directors, Marco Bellocchio has been making films for almost 40 years. Ranging from historical epics to family dramas, his cutting examinations of humanity and stunning natural-light cinematography make his films some of the most important work to emerge from Italy in the last half century. This series focuses on some of his most recent films, and includes a Q&A with Bellocchio himself on March 27. All films in Italian with English subtitles. Special thanks to Cinecitta Holdings.
This series is generously supported by the Italian Cultural Institute of New York
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 27 marzo 2004
il film di Marco Bellocchio di nuovo a Londra
Liberazione 27.3.04
Nella capitale britannica l'11° Festival dedicato alla cinematografia del belpaese
Pellicole "made in Italy" a Londra
di Guy Fawkes
Londranostro servizio. Serata di gala ieri sera a Londra dove nella prestigiosa sede del British Academy of Film and Television Arts di Piccadilly si è svolto il lancio del 11° Festival del Film Italiano nel Regno Unito. Ospite d'onore, l'attrice Sandra Ceccarelli, che interpretava Rita nel film di Cristina Comencini "Il giorno più bello della mia vita". Quest'ultimo - insieme agli ultimi lavori di Marco Bellocchio, Matteo Garrone, Aurelio Grimaldi, Ferzan Ozpetek, Daniele Luchetti, Dario Argento, Gabriele Salvatores, Marco Tullio Giordana e Roberto Benigni - saranno in programmazione nelle sale londinesi e britanniche dal 16 aprile al 10 maggio. La manifestazione, che negli ultimi quattro anni ha acquistato un ruolo determinante per far conoscere il nuovo cinema italiano in Gran Bretagna, vanta tra i suoi principali promotori il direttore dell'Istituto di Cultura di Londra, Mario Fortunato e l'Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo. «Il cinema italiano ha bisogno di supporto perché il mercato cinematografico nel Regno Unito è schiacciato dal prodotto made in Usa e dà poco spazio alla produzione europea. Solo con il supporto adeguato è possibile farlo apprezzare all'estero» dice Fortunato. Il direttore dell'Istituto di Cultura sostiene che gli inglesi hanno una fruizione "strabica" del cinema made in Italy. Da una parte c'è un nobile passato - vedi Fellini, Visconti, Pasolini - dall'altro un recente fatto solo da pochi acuti. I film italiani sono più che altro visti da un'elite che li apprezza molto. «Quando sono arrivato a Londra nel 2000 il cinema italiano era sparito. In questi ultimi quattro anni - ha proseguito Fortunato - ho affiancato al festival delle retrospettive importanti che ripescassero un maestro conosciuto ma magari poco visto come Totò o Germi. Questo per consolidare l'immagine forte che gli inglesi hanno del passato e contemporaneamente per dare credibilità ai nuovi artisti meno conosciuti». Fortunato, tuttavia, ha parole di rammarico per il debole sostegno all'estero che l'Italia offre alla propria produzione. «Lo stato - ha concluso Fortunato - dovrebbe aiutare, ma ho l'impressione che lo faccia poco e male. Francia e Germania hanno delle agenzie nazionali per la difesa e la distribuzione dei loro film. Fino a poco tempo fa esisteva Italia Cinema, ma al momento sembra essere missing in action. Si può e si deve fare di più. Queste agenzie sono utilissime come punti di riferimento e di collegamento per i distributori all'estero. Se Italia Cinema fosse stata chiusa sarebbe uno sbaglio».
Nella capitale britannica l'11° Festival dedicato alla cinematografia del belpaese
Pellicole "made in Italy" a Londra
di Guy Fawkes
Londranostro servizio. Serata di gala ieri sera a Londra dove nella prestigiosa sede del British Academy of Film and Television Arts di Piccadilly si è svolto il lancio del 11° Festival del Film Italiano nel Regno Unito. Ospite d'onore, l'attrice Sandra Ceccarelli, che interpretava Rita nel film di Cristina Comencini "Il giorno più bello della mia vita". Quest'ultimo - insieme agli ultimi lavori di Marco Bellocchio, Matteo Garrone, Aurelio Grimaldi, Ferzan Ozpetek, Daniele Luchetti, Dario Argento, Gabriele Salvatores, Marco Tullio Giordana e Roberto Benigni - saranno in programmazione nelle sale londinesi e britanniche dal 16 aprile al 10 maggio. La manifestazione, che negli ultimi quattro anni ha acquistato un ruolo determinante per far conoscere il nuovo cinema italiano in Gran Bretagna, vanta tra i suoi principali promotori il direttore dell'Istituto di Cultura di Londra, Mario Fortunato e l'Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo. «Il cinema italiano ha bisogno di supporto perché il mercato cinematografico nel Regno Unito è schiacciato dal prodotto made in Usa e dà poco spazio alla produzione europea. Solo con il supporto adeguato è possibile farlo apprezzare all'estero» dice Fortunato. Il direttore dell'Istituto di Cultura sostiene che gli inglesi hanno una fruizione "strabica" del cinema made in Italy. Da una parte c'è un nobile passato - vedi Fellini, Visconti, Pasolini - dall'altro un recente fatto solo da pochi acuti. I film italiani sono più che altro visti da un'elite che li apprezza molto. «Quando sono arrivato a Londra nel 2000 il cinema italiano era sparito. In questi ultimi quattro anni - ha proseguito Fortunato - ho affiancato al festival delle retrospettive importanti che ripescassero un maestro conosciuto ma magari poco visto come Totò o Germi. Questo per consolidare l'immagine forte che gli inglesi hanno del passato e contemporaneamente per dare credibilità ai nuovi artisti meno conosciuti». Fortunato, tuttavia, ha parole di rammarico per il debole sostegno all'estero che l'Italia offre alla propria produzione. «Lo stato - ha concluso Fortunato - dovrebbe aiutare, ma ho l'impressione che lo faccia poco e male. Francia e Germania hanno delle agenzie nazionali per la difesa e la distribuzione dei loro film. Fino a poco tempo fa esisteva Italia Cinema, ma al momento sembra essere missing in action. Si può e si deve fare di più. Queste agenzie sono utilissime come punti di riferimento e di collegamento per i distributori all'estero. Se Italia Cinema fosse stata chiusa sarebbe uno sbaglio».
la "sparizione" dell'evoluzionismo
Repubblica 27.3.04
Sparito l'evoluzionismo alle elementari e alle medie, il Cdm approva il programma didattico della Cei
Scuola, a spiegare l'origine dell'uomo resta solo la nuova ora di religione
Vertecchi: "Così si rivolta il principio della razionalità da Copernico in poi"
di MARIO REGGIO
ROMA - La scuola italiana dice basta alla teoria dell´evoluzione dell´uomo e sposa quella della Chiesa cattolica. I bambini che approderanno il prossimo anno alla prima elementare e alle medie non sapranno più chi è Darwin e come si è sviluppata la scienza da Copernico ad oggi. L´unica teoria valida resterà quella della Chiesa cattolica. Il passaggio epocale è confermato dai due decreti approvati due giorni fa dal Consiglio dei ministri, che ha trasformato in legge l´accordo tra il ministro dell´Istruzione e la Conferenza Episcopale firmato il 23 ottobre del 2003. L´accordo fissa i programmi dell´insegnamento della religione cattolica nella scuola dell´infanzia e nel primo ciclo della primaria, vale a dire le elementari. Per i più piccoli il programma è "leggero": «Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi dono di Dio creatore, scoprire la persona di Gesù, individuare i luoghi d´incontro della comunità cristiana...». L´approfondimento avviene in prima elementare. I prof di religione dovranno spiegare ai bambini come «Dio è creatore e padre di tutti gli uomini», «l´origine del mondo e dell´uomo nel cristianesimo e nelle altre religioni....». Una volta passati alle medie inferiori, i giovani dovranno dedicarsi a ben altri argomenti che la teoria dell´evoluzione, cancellata dai nuovi programmi di Scienze. Spremeranno le loro meningi prima sulle caratteristiche dei suoli, animali vertebrati e invertebrati, l´equilibrio degli ecosistemi. Senza dimenticare «le esperienze di tessitura e ricamo per scopi funzionali ed estetici». In terza media, poi, concentreranno le loro energie mentali sul «sistema nervoso dell´organismo umano ed effetti di psicofarmaci, sostanze stupefacenti od eccitanti», nonché le «malattie che si trasmettono per via sessuale», e «la riproduzione nell´uomo: sua specificità, specie per quanto riguarda l´allevamento della prole».
La scuola italiana sta imboccando una china oscurantista? Ne è convinto il professor Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia sperimentale all´università Roma Tre. «Il testo del programma di religione è abbastanza ambiguo, sembra riguardare gli aspetti della dottrina cattolica, dà spiegazioni non solo religiose ma anche scientifiche - commenta - l´idea di Dio come creatore ed essere supremo è tipica del "creazionismo" molto diffuso negli Stati Uniti, dove l´evoluzione scientifica è inserita nella fede. Questa scelta conferma la diffusione che l´irrazionalismo sta assumendo in Italia. La ragione sembra scomparsa da qualsiasi programma di apprendimento, l´intelligenza non è più un fattore positivo, si parla solo di sogni e quando si deve fornire una spiegazione dell´origine dell´uomo si usano solo termini e parametri religiosi. Ho paura che alla fine - conclude Vertecchi - tutto questo faccia sistema, condizioni bambini e ragazzi all´accettazione di principi non provati scientificamente. Si rivolta il principio della razionalità da Copernico in poi». Qualche dubbio serpeggia anche nel mondo cattolico: «Darwin cancellato? Una scelta che mi stupisce, forse dipende da un errore di percorso - afferma il professor Luciano Corradini, segretario nazionale dell´Associazione degli insegnanti cattolici - culturalmente non sta in piedi. Anche se condividiamo i principi ispiratori della riforma, sulla cancellazione della teoria dell´evoluzione non siamo assolutamente d´accordo».
Sparito l'evoluzionismo alle elementari e alle medie, il Cdm approva il programma didattico della Cei
Scuola, a spiegare l'origine dell'uomo resta solo la nuova ora di religione
Vertecchi: "Così si rivolta il principio della razionalità da Copernico in poi"
di MARIO REGGIO
ROMA - La scuola italiana dice basta alla teoria dell´evoluzione dell´uomo e sposa quella della Chiesa cattolica. I bambini che approderanno il prossimo anno alla prima elementare e alle medie non sapranno più chi è Darwin e come si è sviluppata la scienza da Copernico ad oggi. L´unica teoria valida resterà quella della Chiesa cattolica. Il passaggio epocale è confermato dai due decreti approvati due giorni fa dal Consiglio dei ministri, che ha trasformato in legge l´accordo tra il ministro dell´Istruzione e la Conferenza Episcopale firmato il 23 ottobre del 2003. L´accordo fissa i programmi dell´insegnamento della religione cattolica nella scuola dell´infanzia e nel primo ciclo della primaria, vale a dire le elementari. Per i più piccoli il programma è "leggero": «Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi dono di Dio creatore, scoprire la persona di Gesù, individuare i luoghi d´incontro della comunità cristiana...». L´approfondimento avviene in prima elementare. I prof di religione dovranno spiegare ai bambini come «Dio è creatore e padre di tutti gli uomini», «l´origine del mondo e dell´uomo nel cristianesimo e nelle altre religioni....». Una volta passati alle medie inferiori, i giovani dovranno dedicarsi a ben altri argomenti che la teoria dell´evoluzione, cancellata dai nuovi programmi di Scienze. Spremeranno le loro meningi prima sulle caratteristiche dei suoli, animali vertebrati e invertebrati, l´equilibrio degli ecosistemi. Senza dimenticare «le esperienze di tessitura e ricamo per scopi funzionali ed estetici». In terza media, poi, concentreranno le loro energie mentali sul «sistema nervoso dell´organismo umano ed effetti di psicofarmaci, sostanze stupefacenti od eccitanti», nonché le «malattie che si trasmettono per via sessuale», e «la riproduzione nell´uomo: sua specificità, specie per quanto riguarda l´allevamento della prole».
La scuola italiana sta imboccando una china oscurantista? Ne è convinto il professor Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia sperimentale all´università Roma Tre. «Il testo del programma di religione è abbastanza ambiguo, sembra riguardare gli aspetti della dottrina cattolica, dà spiegazioni non solo religiose ma anche scientifiche - commenta - l´idea di Dio come creatore ed essere supremo è tipica del "creazionismo" molto diffuso negli Stati Uniti, dove l´evoluzione scientifica è inserita nella fede. Questa scelta conferma la diffusione che l´irrazionalismo sta assumendo in Italia. La ragione sembra scomparsa da qualsiasi programma di apprendimento, l´intelligenza non è più un fattore positivo, si parla solo di sogni e quando si deve fornire una spiegazione dell´origine dell´uomo si usano solo termini e parametri religiosi. Ho paura che alla fine - conclude Vertecchi - tutto questo faccia sistema, condizioni bambini e ragazzi all´accettazione di principi non provati scientificamente. Si rivolta il principio della razionalità da Copernico in poi». Qualche dubbio serpeggia anche nel mondo cattolico: «Darwin cancellato? Una scelta che mi stupisce, forse dipende da un errore di percorso - afferma il professor Luciano Corradini, segretario nazionale dell´Associazione degli insegnanti cattolici - culturalmente non sta in piedi. Anche se condividiamo i principi ispiratori della riforma, sulla cancellazione della teoria dell´evoluzione non siamo assolutamente d´accordo».
matematica, inconscio, arte
Franco Voltaggio intervista Piergiorgio Odifreddi
il manifesto 27.3.04
INTERVISTA
Tra Euclide e Mozart il calcolo imprevisto dell'invisibile
Le tre invidie del matematico, un'intervista a Piergiorgio Odifreddi
L'arte della fuga in quattro note di Johann Sebastian Bach, la costruzione di puri oggetti poetici di Jorge Luis Borges, il riduzionismo cubista di Georges Braque. Ovvero le relazioni segrete, e spesso inconsce, tra matematica, musica, letteratura e pittura. Bacchetta, penna, pennello e grandezze aritmetiche e algebriche analizzati nei loro intrecci come linguaggi che indagano il «gran libro della natura» e la misteriosa «geometria delle passioni», tra libertà e ricerca della misura e della forma delle cose
di FRANCO VOLTAGGIO
Nel più autobiografico dei suoi romanzi brevi, Tonio Kröger, Thomas Mann definisce il difficile esercizio della letteratura come una pratica che, in qualche modo, estrania il letterato dal vissuto comune, talora anche banale, ma certamente intenso, di tanti uomini e donne e, in particolare, dall'amore. Di qui uno struggente senso di invidia dello scrittore di professione per chi «può abbandonarsi ai sentimenti», ma anche nel contempo la consapevolezza che queste stesse creature, una volta divenute eroine di un testo letterario, saranno pretesto per ricostruire il senso e la misura della realtà e della vita, impresa sicuramente ardua, ma non priva, per chi la tenti e ne faccia mestiere, di qualche gratificazione. Ecco perché Mann-Kröger può accomiatarsi dal lettore, confessando di essere preso da «un tantino di invidia e da una grande, casta felicità». Resta il fatto, comunque, che un romanzo può esser letto, così come un brano musicale ascoltato, un dipinto osservato a lungo e con piacere, talché anche il più candido fruitore dell'opera d'arte avverte, sia pure confusamente, di trovarsi di fronte all'armonia dell'esistenza, sua e addirittura cosmica, tributando, per ciò stesso, all'artista una sorta di riconoscente ammirazione. Diverso, indubbiamente, il caso del matematico, il cui tema è pur sempre la misura e la forma delle cose, misura e forma che, tuttavia, non possono essere comunicate altro che in un linguaggio, quello matematico che, nelle sue modalità più complesse, resta estraneo ai più. Il pubblico di media cultura riconosce la grandezza di un Euclide, ma chi mai si accosterebbe agli Elementi con la stessa certezza di trarne diletto come quando si appresta a leggere Guerra e pace o ad ascoltare un brano del Flauto magico di Mozart? Nasce da questa circostanza «l'invidia» del matematico che, tanto più profonda di quella dei professionisti dell'arte cui è esplicitamente rivolta, è tuttavia associata a «una grande, casta felicità» forse persino più viva, perché la consuetudine con le grandezze geometriche, aritmetiche, algebriche lo pone, quasi ogni momento, nella condizione di un privilegiato «percettore del mondo», sempre che continui ad esser vero per tutti quanto diceva Galilei, l'essere cioè «il gran libro della natura» scritto in linguaggio matematico.
E' questo il caso, ci pare, del matematico Piergiorgio Odifreddi, docente di logica matematica delle università di Torino e di Cornell (Usa) che dal 29 al 31 marzo, nell'Aula Magna dell'università di Bologna - con Umberto Eco quale discussant - terrà, per conto della Fondazione Sigma Tau di Roma, tre «Lezioni Italiane» destinate, per l'appunto, a dar voce alla «invidia del matematico», da lui espressa in tre «invidie»: «della bacchetta» (matematica e musica), «della penna» (matematica e letteratura), «del pennello» (matematica e pittura).
Dalla lettura di alcuni dei libri di Odifreddi, Il computer di Dio (Cortina, 2000), La repubblica dei numeri (Cortina, 2002), Il divertimento geometrico (Bollati Boringhieri, 2003), Il diavolo in cattedra: la logica da Aristotele a Godel (Einaudi, 2003), si evince che l'autore prova una gioia profonda nell'esercitare la sua professione, ha un'eccellente capacità di divulgare con eleganza la sua scienza, senza indulgere in faciloneria, convinto com'è che il suo lettore non ha soltanto il diritto, ma anche il dovere di familiarizzarsi con la matematica, dal momento che tutto, dal modo con il quale sono ordinati i suoi geni alle parti in cui si distribuisce il suo corpo, all'insieme dei corpi celesti, a quella che qualcuno definisce la misteriosa «geometria delle passioni», è struttura, cioè matematica. Da questo punto di vista, non è azzardato affermare che Odifreddi si comporta con la stessa affettuosa aggressività dei philosophes dell'illuminismo i quali vedevano in una ragione, eminentemente ispirata all'indole matematica delle scienze della natura, la chiave per dar vita alla loro rivoluzione. La rivoluzione francese, del resto, non fu in definitiva, il tentativo di prestare alla politica il senso matematico della misura, un ordine che non nascesse dal dispotismo del privilegio, ma dall'ordine della libertà e dell'eguaglianza? Quel che di Odifreddi abbiamo letto basta, da un lato, per apprezzare di questo studioso un'autentica passione civile (tanto forte da riscattare qualche momento di ingenuità), dall'altro, per cercare di saperne di più delle «tre invidie del matematico». Di qui un'intervista, di cui riproduciamo i momenti essenziali.
Professore, qual è, a suo parere, la relazione della matematica con la musica?
Le rispondo, con Leibniz, «che la musica è l'esercizio matematico nascosto di una mente che calcola inconsciamente». Sul filo di Leibniz, un allievo di Bach, Lorenz Christoph Mitzler, affermava che «la musica è il suono della matematica».
Mi incuriosisce in particolare il tema del «calcolo inconscio», argomento suscettibile di dar vita a un'esplorazione a tutto campo sul rapporto tra musica e inconscio, il cui linguaggio, secondo Lacan, è matematico, fondandosi sul «no» e il «si», dunque sullo 0 e sull'1 dell'aritmetica del basic, cioè l'aritmetica binaria. Ma ora le chiedo è possibile far musica in concreto a partire da un'ispirazione matematica?
Penso proprio di sì. Ecco un caso classico. La mattina del 28 luglio 1750 Johann Sebastian Bach si svegliò e vide la luce. Non la vedeva da tempo, perché due operazioni agli occhi effettuate qualche mese prima l'avevano lasciato completamente cieco. La sera morì, lasciando incompiuta una grande fuga su un tema di quattro note: «si bemolle, la, do, si» in notazione italiana, o «B, A, C, H» in notazione tedesca. Sostituendo le lettere dell'alfabeto con i numeri corrispondenti (1 per la A, 2 per la B, eccetera) «Bach» diventa «2138» e sommando le cifre si ottiene 14. La grande fuga lasciata incompiuta è appunto la quattordicesima dell'Arte della fuga, e il numero 14 ricorre spesso nell'opera di Bach. Per esempio, nella Fantasia corale sul tema «Sto di fronte al tuo trono», il tema è di 14 note, l'intera melodia di 41. L'ultimo numero è ovviamente l'inverso di 14, ma corrisponde anche a «J. S. Bach». Ma c'è qualcosa di più. Studiando gli ultimi lavori del grande musicista, ci troviamo di fronte a una musica smaterializzata, costruita in base ad astratti principi di simmetria aritmetica e geometrica. Come già dice la parola, che significa «regola» o «legge», la forma musicale che più si presta a questo tipo di simmetria è il canone: una serie di voci che si rincorrono, ripetendo la prima in forma traslata, riflessa o proporzionale. Le varie voci, benché tutte simili, possono cioè essere sincronizzate o sfalsate: più alte o più basse, parallele o speculari, più veloci o più lente. Un primo approccio a questo tipo di musica ci è offerto dalla prima grande serie di canoni bachiani, vale a dire le famose Variazioni Goldberg composte nel 1741.
Come dire che, se il calcolo guida alla musica e nasce altresì da motivazioni inconsce, che non si vedono e non hanno voce, allora avrebbe avuto ragione Mann nel sostenere, nel Doctor Faustus, che il fondamento della musica è il silenzio.
Non si sbaglia. Mi viene in mente, a questo proposito, una possibile analogia con la natura e le sue leggi che, se le paragoniamo al programma di un computer, paiono offrirci un software talmente sconfinato da essere di fatto - altro che per le informazioni («verità locali») raccolte, di volta in volta, dagli scienziati dei diversi campi- nel suo insieme invisibile e indicibile.
La relazione tra matematica e letteratura consisterebbe per lei, stando a quanto scrive, nel fatto che il vero scrittore non è tanto interessato alle cose, esseri umani, eventi, ecc. di cui racconta, quanto alla struttura della narrazione in sé. Sotto questo aspetto, lo scrittore, mettendo a punto le forme della sua narrazione, è come l'aritmetico che prima crea i numeri - potente struttura matematica - e solo dopo vi ingabbia gli oggetti reali che, numerati, acquistano un ordine che in precedenza non avevano. In modo inconsapevole certo, il lessico ordinario sarebbe nel giusto quando fa del verbo contare il sinonimo di narrare. Ma che cosa è in concreto la struttura nel lavoro letterario? Vorrebbe chiarirlo?
La servo subito. Devo però rifarmi soprattutto al passato. Un tempo, il romanzo produsse opere memorabili, che assumevano narratore e lettore come protagonisti, e forma e struttura come contenuto. Opere che erigevano la divagazione a discorso, l'interruzione ad azione, il superfluo a necessario, il caos a regola, la molteplicità a unità. Opere quali La vita e le opinioni di Tristram Shandy di Sterne, che non temevano di presentare pagine nere e pagine bianche, capitoli di due righe e capitoli sui capitoli, spazi vuoti da riempire e storie interrotte da continuare a piacere. Opere quali Jacques il fatalista di Diderot, che srotolavano il Grande Rotolo della scrittura fingendo di tessere trame con fili inesistenti. Dopo queste prove strepitose il romanzo ha smarrito la diritta via, impantanandosi in una selva dai colori rosa, giallo e nero.
I romanzi scritti, pubblicati, recensiti e letti non sono altro che variazioni sui temi dell'antica tradizione omerica (e pensare che il fascino dei poemi di Omero sta proprio nelle loro divagazioni!) del reportage di guerra, di viaggio o d'altro. Quasi tutti insistono nel raccontare storie: incuranti del fatto che, come fece notare Nabokov, quando si matura ci si interessa più a come sono fatti i libri, che non a ciò che essi dicono. Per fortuna il XX secolo presenta alcune eccezioni, la più nota e illustre delle quali è rappresentata da Borges che mirava soprattutto alla costruzione, come il suo letterato esemplare, il Jules Menard delle Ficciones, di «puri oggetti poetici» - un analogo di quegli oggetti ideali che sono le grandezze matematiche - associando a questa impresa il recupero della piena libertà del narratore e del lettore.
Facendo il bilancio complessivo di un corso di letteratura inglese tenuto nell'università di Buenos Aires, Borges identificava la libertà del lettore con quella di amare gli autori, praticando i quali avesse evitato di pascolare nella noia: «non ho insegnato agli studenti la letteratura inglese che ignoro, ma l'amore per certi autori. O meglio, per certe pagine. O meglio, per certe frasi. Ci si innamora di una frase, poi di una pagina, poi di un autore».
Questo circolo virtuoso, che congiunge matematica, libertà e arte narrativa, compare anche in pittura?
Senz'altro. Mi limito a un solo esempio incentrato sul riduzionismo cubista di Georges Braque e di Pablo Picasso esploso nel primo decennio del secolo scorso. La più significativa tela del Picasso cubista è il Ritratto di Ambroise Vollard del 1910. Nel quadro la figura appare come in uno specchio spezzato: ogni scheggia riflette una sezione del volto o del busto secondo un piano diverso, e la tridimensionalità è completamente delegata a una ricomposizione mentale delle varie vedute bidimensionali, in accordo col motto del grande pittore: «Io dipingo ciò che penso, non ciò che vedo». Un'operazione matematica dunque che in qualche modo riflette una delle grandi speculazioni dei matematici di quel tempo, la messa in questione delle dimensioni dello spazio, ma anche una rivendicazione della piena libertà nell'arte pittorica.
Sin qui Odifreddi. Alla fine l'intervistatore finisce con l'avvertire, nell'esaltazione della matematica, il vertiginoso elogio della libertà e forse ancora un'altra cosa. Dall'invidia per l'arte, lo studioso è pervenuto a un senso di amore e gratitudine per la sua condizione di matematico. In una parola, si è accettato. Ma non diceva forse Sartre, nell'Età della ragione, che la libertà è accettarsi?
INTERVISTA
Tra Euclide e Mozart il calcolo imprevisto dell'invisibile
Le tre invidie del matematico, un'intervista a Piergiorgio Odifreddi
L'arte della fuga in quattro note di Johann Sebastian Bach, la costruzione di puri oggetti poetici di Jorge Luis Borges, il riduzionismo cubista di Georges Braque. Ovvero le relazioni segrete, e spesso inconsce, tra matematica, musica, letteratura e pittura. Bacchetta, penna, pennello e grandezze aritmetiche e algebriche analizzati nei loro intrecci come linguaggi che indagano il «gran libro della natura» e la misteriosa «geometria delle passioni», tra libertà e ricerca della misura e della forma delle cose
di FRANCO VOLTAGGIO
Nel più autobiografico dei suoi romanzi brevi, Tonio Kröger, Thomas Mann definisce il difficile esercizio della letteratura come una pratica che, in qualche modo, estrania il letterato dal vissuto comune, talora anche banale, ma certamente intenso, di tanti uomini e donne e, in particolare, dall'amore. Di qui uno struggente senso di invidia dello scrittore di professione per chi «può abbandonarsi ai sentimenti», ma anche nel contempo la consapevolezza che queste stesse creature, una volta divenute eroine di un testo letterario, saranno pretesto per ricostruire il senso e la misura della realtà e della vita, impresa sicuramente ardua, ma non priva, per chi la tenti e ne faccia mestiere, di qualche gratificazione. Ecco perché Mann-Kröger può accomiatarsi dal lettore, confessando di essere preso da «un tantino di invidia e da una grande, casta felicità». Resta il fatto, comunque, che un romanzo può esser letto, così come un brano musicale ascoltato, un dipinto osservato a lungo e con piacere, talché anche il più candido fruitore dell'opera d'arte avverte, sia pure confusamente, di trovarsi di fronte all'armonia dell'esistenza, sua e addirittura cosmica, tributando, per ciò stesso, all'artista una sorta di riconoscente ammirazione. Diverso, indubbiamente, il caso del matematico, il cui tema è pur sempre la misura e la forma delle cose, misura e forma che, tuttavia, non possono essere comunicate altro che in un linguaggio, quello matematico che, nelle sue modalità più complesse, resta estraneo ai più. Il pubblico di media cultura riconosce la grandezza di un Euclide, ma chi mai si accosterebbe agli Elementi con la stessa certezza di trarne diletto come quando si appresta a leggere Guerra e pace o ad ascoltare un brano del Flauto magico di Mozart? Nasce da questa circostanza «l'invidia» del matematico che, tanto più profonda di quella dei professionisti dell'arte cui è esplicitamente rivolta, è tuttavia associata a «una grande, casta felicità» forse persino più viva, perché la consuetudine con le grandezze geometriche, aritmetiche, algebriche lo pone, quasi ogni momento, nella condizione di un privilegiato «percettore del mondo», sempre che continui ad esser vero per tutti quanto diceva Galilei, l'essere cioè «il gran libro della natura» scritto in linguaggio matematico.
E' questo il caso, ci pare, del matematico Piergiorgio Odifreddi, docente di logica matematica delle università di Torino e di Cornell (Usa) che dal 29 al 31 marzo, nell'Aula Magna dell'università di Bologna - con Umberto Eco quale discussant - terrà, per conto della Fondazione Sigma Tau di Roma, tre «Lezioni Italiane» destinate, per l'appunto, a dar voce alla «invidia del matematico», da lui espressa in tre «invidie»: «della bacchetta» (matematica e musica), «della penna» (matematica e letteratura), «del pennello» (matematica e pittura).
Dalla lettura di alcuni dei libri di Odifreddi, Il computer di Dio (Cortina, 2000), La repubblica dei numeri (Cortina, 2002), Il divertimento geometrico (Bollati Boringhieri, 2003), Il diavolo in cattedra: la logica da Aristotele a Godel (Einaudi, 2003), si evince che l'autore prova una gioia profonda nell'esercitare la sua professione, ha un'eccellente capacità di divulgare con eleganza la sua scienza, senza indulgere in faciloneria, convinto com'è che il suo lettore non ha soltanto il diritto, ma anche il dovere di familiarizzarsi con la matematica, dal momento che tutto, dal modo con il quale sono ordinati i suoi geni alle parti in cui si distribuisce il suo corpo, all'insieme dei corpi celesti, a quella che qualcuno definisce la misteriosa «geometria delle passioni», è struttura, cioè matematica. Da questo punto di vista, non è azzardato affermare che Odifreddi si comporta con la stessa affettuosa aggressività dei philosophes dell'illuminismo i quali vedevano in una ragione, eminentemente ispirata all'indole matematica delle scienze della natura, la chiave per dar vita alla loro rivoluzione. La rivoluzione francese, del resto, non fu in definitiva, il tentativo di prestare alla politica il senso matematico della misura, un ordine che non nascesse dal dispotismo del privilegio, ma dall'ordine della libertà e dell'eguaglianza? Quel che di Odifreddi abbiamo letto basta, da un lato, per apprezzare di questo studioso un'autentica passione civile (tanto forte da riscattare qualche momento di ingenuità), dall'altro, per cercare di saperne di più delle «tre invidie del matematico». Di qui un'intervista, di cui riproduciamo i momenti essenziali.
Professore, qual è, a suo parere, la relazione della matematica con la musica?
Le rispondo, con Leibniz, «che la musica è l'esercizio matematico nascosto di una mente che calcola inconsciamente». Sul filo di Leibniz, un allievo di Bach, Lorenz Christoph Mitzler, affermava che «la musica è il suono della matematica».
Mi incuriosisce in particolare il tema del «calcolo inconscio», argomento suscettibile di dar vita a un'esplorazione a tutto campo sul rapporto tra musica e inconscio, il cui linguaggio, secondo Lacan, è matematico, fondandosi sul «no» e il «si», dunque sullo 0 e sull'1 dell'aritmetica del basic, cioè l'aritmetica binaria. Ma ora le chiedo è possibile far musica in concreto a partire da un'ispirazione matematica?
Penso proprio di sì. Ecco un caso classico. La mattina del 28 luglio 1750 Johann Sebastian Bach si svegliò e vide la luce. Non la vedeva da tempo, perché due operazioni agli occhi effettuate qualche mese prima l'avevano lasciato completamente cieco. La sera morì, lasciando incompiuta una grande fuga su un tema di quattro note: «si bemolle, la, do, si» in notazione italiana, o «B, A, C, H» in notazione tedesca. Sostituendo le lettere dell'alfabeto con i numeri corrispondenti (1 per la A, 2 per la B, eccetera) «Bach» diventa «2138» e sommando le cifre si ottiene 14. La grande fuga lasciata incompiuta è appunto la quattordicesima dell'Arte della fuga, e il numero 14 ricorre spesso nell'opera di Bach. Per esempio, nella Fantasia corale sul tema «Sto di fronte al tuo trono», il tema è di 14 note, l'intera melodia di 41. L'ultimo numero è ovviamente l'inverso di 14, ma corrisponde anche a «J. S. Bach». Ma c'è qualcosa di più. Studiando gli ultimi lavori del grande musicista, ci troviamo di fronte a una musica smaterializzata, costruita in base ad astratti principi di simmetria aritmetica e geometrica. Come già dice la parola, che significa «regola» o «legge», la forma musicale che più si presta a questo tipo di simmetria è il canone: una serie di voci che si rincorrono, ripetendo la prima in forma traslata, riflessa o proporzionale. Le varie voci, benché tutte simili, possono cioè essere sincronizzate o sfalsate: più alte o più basse, parallele o speculari, più veloci o più lente. Un primo approccio a questo tipo di musica ci è offerto dalla prima grande serie di canoni bachiani, vale a dire le famose Variazioni Goldberg composte nel 1741.
Come dire che, se il calcolo guida alla musica e nasce altresì da motivazioni inconsce, che non si vedono e non hanno voce, allora avrebbe avuto ragione Mann nel sostenere, nel Doctor Faustus, che il fondamento della musica è il silenzio.
Non si sbaglia. Mi viene in mente, a questo proposito, una possibile analogia con la natura e le sue leggi che, se le paragoniamo al programma di un computer, paiono offrirci un software talmente sconfinato da essere di fatto - altro che per le informazioni («verità locali») raccolte, di volta in volta, dagli scienziati dei diversi campi- nel suo insieme invisibile e indicibile.
La relazione tra matematica e letteratura consisterebbe per lei, stando a quanto scrive, nel fatto che il vero scrittore non è tanto interessato alle cose, esseri umani, eventi, ecc. di cui racconta, quanto alla struttura della narrazione in sé. Sotto questo aspetto, lo scrittore, mettendo a punto le forme della sua narrazione, è come l'aritmetico che prima crea i numeri - potente struttura matematica - e solo dopo vi ingabbia gli oggetti reali che, numerati, acquistano un ordine che in precedenza non avevano. In modo inconsapevole certo, il lessico ordinario sarebbe nel giusto quando fa del verbo contare il sinonimo di narrare. Ma che cosa è in concreto la struttura nel lavoro letterario? Vorrebbe chiarirlo?
La servo subito. Devo però rifarmi soprattutto al passato. Un tempo, il romanzo produsse opere memorabili, che assumevano narratore e lettore come protagonisti, e forma e struttura come contenuto. Opere che erigevano la divagazione a discorso, l'interruzione ad azione, il superfluo a necessario, il caos a regola, la molteplicità a unità. Opere quali La vita e le opinioni di Tristram Shandy di Sterne, che non temevano di presentare pagine nere e pagine bianche, capitoli di due righe e capitoli sui capitoli, spazi vuoti da riempire e storie interrotte da continuare a piacere. Opere quali Jacques il fatalista di Diderot, che srotolavano il Grande Rotolo della scrittura fingendo di tessere trame con fili inesistenti. Dopo queste prove strepitose il romanzo ha smarrito la diritta via, impantanandosi in una selva dai colori rosa, giallo e nero.
I romanzi scritti, pubblicati, recensiti e letti non sono altro che variazioni sui temi dell'antica tradizione omerica (e pensare che il fascino dei poemi di Omero sta proprio nelle loro divagazioni!) del reportage di guerra, di viaggio o d'altro. Quasi tutti insistono nel raccontare storie: incuranti del fatto che, come fece notare Nabokov, quando si matura ci si interessa più a come sono fatti i libri, che non a ciò che essi dicono. Per fortuna il XX secolo presenta alcune eccezioni, la più nota e illustre delle quali è rappresentata da Borges che mirava soprattutto alla costruzione, come il suo letterato esemplare, il Jules Menard delle Ficciones, di «puri oggetti poetici» - un analogo di quegli oggetti ideali che sono le grandezze matematiche - associando a questa impresa il recupero della piena libertà del narratore e del lettore.
Facendo il bilancio complessivo di un corso di letteratura inglese tenuto nell'università di Buenos Aires, Borges identificava la libertà del lettore con quella di amare gli autori, praticando i quali avesse evitato di pascolare nella noia: «non ho insegnato agli studenti la letteratura inglese che ignoro, ma l'amore per certi autori. O meglio, per certe pagine. O meglio, per certe frasi. Ci si innamora di una frase, poi di una pagina, poi di un autore».
Questo circolo virtuoso, che congiunge matematica, libertà e arte narrativa, compare anche in pittura?
Senz'altro. Mi limito a un solo esempio incentrato sul riduzionismo cubista di Georges Braque e di Pablo Picasso esploso nel primo decennio del secolo scorso. La più significativa tela del Picasso cubista è il Ritratto di Ambroise Vollard del 1910. Nel quadro la figura appare come in uno specchio spezzato: ogni scheggia riflette una sezione del volto o del busto secondo un piano diverso, e la tridimensionalità è completamente delegata a una ricomposizione mentale delle varie vedute bidimensionali, in accordo col motto del grande pittore: «Io dipingo ciò che penso, non ciò che vedo». Un'operazione matematica dunque che in qualche modo riflette una delle grandi speculazioni dei matematici di quel tempo, la messa in questione delle dimensioni dello spazio, ma anche una rivendicazione della piena libertà nell'arte pittorica.
Sin qui Odifreddi. Alla fine l'intervistatore finisce con l'avvertire, nell'esaltazione della matematica, il vertiginoso elogio della libertà e forse ancora un'altra cosa. Dall'invidia per l'arte, lo studioso è pervenuto a un senso di amore e gratitudine per la sua condizione di matematico. In una parola, si è accettato. Ma non diceva forse Sartre, nell'Età della ragione, che la libertà è accettarsi?
Un film parlato
Repubblica 27.3.04
Una commedia sofisticata che è anche una lezione di storia
Manoel de Oliveira e il gusto di una mela
L´epilogo spiazzante pare quasi un'allegoria della fine del mondo
di ROBERTO NEPOTI
Nelle sue lezioni all´Actor´s Studio, Lee Strasberg diceva: «Il pubblico è abituato a un certo gusto. Provate a fargli assaggiare lo spicchio di una mela dal sapore diverso: forse gli piacerà, e finirà per mangiarla tutta». Un film parlato è la mela dal sapore diverso. Certo, non è con un´opera come questa che il novantacinquenne Manoel de Oliveira si conquisterà i gradi di cineasta popolare: ma che gliene può importare, dopo settantacinque anni di cinema e dotato di una lucidità che la maggior parte dei colleghi giovani dovrebbe invidiargli? Un film parlato comincia come una lezione di storia, prosegue sui toni della commedia sofisticata e finisce in dramma, verniciando il tutto con uno strato, sottile e prezioso, d´ironia.
Per raggiungere il marito a Bombay, una giovane professoressa universitaria traversa il Mediterraneo assieme alla sua deliziosa bambina di sette anni, facendo tappa a Marsiglia e Napoli, Atene e Istanbul, Aden. Nella culla della civiltà moderna, la donna ci conduce in una visita guidata ai miti fondatori della cultura occidentale. Sulla stessa nave, comandata dal capitano americano di origine polacca John Malkovich, viaggiano Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli, Irene Papas, che simboleggiano rispettivamente il mondo degli affari, della moda, del canto: sono tre Parche moderne e sofisticate; conversano ciascuna nella propria lingua ma si capiscono alla perfezione. Si parla molto, moltissimo nel film del patriarca portoghese, quasi si trattasse di una torre di Babele rappacificata e ormai capace di comprensione reciproca. Solo in apparenza, però. Come sappiamo troppo bene, i dissensi tra i vari popoli perdurano e si acuiscono, facendo naufragare nella violenza l´utopia di un mondo finalmente senza conflitti. Inattesa, alla fine del film incombe sui passeggeri l´ombra del terrorismo: Oliveira cambia registro e vira alla riflessione acre sul vero posto della nostra civiltà, che da troppo tempo presume di occupare quello centrale, nell´effimero mondo d´oggi. L´epilogo spiazzante, fisso sul fotogramma di un uomo senza più parole, pare quasi un´allegoria della fine del mondo. Però il geniale Manoel riesce a circondare le sue amare riflessioni politiche e filosofiche di un´aura leggera, di una disinvoltura straordinaria, componendo una sorta di film-saggio in anticipo di qualche decennio suo cinema odierno, da cui esala una strana seduzione che non sapremmo ritrovare in nessun altro.
Corriere della Sera 27.3.04
DRAMMATICO / «Un film parlato», l’apocalisse secondo de Oliveira
Quattro donne e la parodia del «Titanic»
Qualche volta il cinema riesce a diventare uno specchio nel quale leggere la contemporaneità meglio che nel telegiornale. Messo di fronte all’apocalisse finale di Un film parlato , l’atterrito John Malkovich siamo noi, uomini del XXI secolo folgorati dal crollo delle Torri Gemelle o dalla strage di Madrid. Sempre arditamente spiazzante, Manoel de Oliveira ci offre una parodia del Titanic imbastita fra divagazioni didascaliche e aneddoti frivoli, ma con un approdo da brividi. Lo sa solo lui che cosa vuol dire esattamente con questo apologo di quattro donne in crociera (Silveira, Sandrelli, Deneuve, Papas) e ci gira intorno con sorniona ironia. Tuttavia il film (puntualmente ignorato dalla giuria veneziana) trasmette un segnale allarmante sulla condizione disperata di un mondo che naviga in brutte acque. Rimane il dubbio: semplice constatazione o cupa profezia? (T.K.)
UN FILM PARLATO di Manoel de Oliveira
Con Irene Papas, Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli
Una commedia sofisticata che è anche una lezione di storia
Manoel de Oliveira e il gusto di una mela
L´epilogo spiazzante pare quasi un'allegoria della fine del mondo
di ROBERTO NEPOTI
Nelle sue lezioni all´Actor´s Studio, Lee Strasberg diceva: «Il pubblico è abituato a un certo gusto. Provate a fargli assaggiare lo spicchio di una mela dal sapore diverso: forse gli piacerà, e finirà per mangiarla tutta». Un film parlato è la mela dal sapore diverso. Certo, non è con un´opera come questa che il novantacinquenne Manoel de Oliveira si conquisterà i gradi di cineasta popolare: ma che gliene può importare, dopo settantacinque anni di cinema e dotato di una lucidità che la maggior parte dei colleghi giovani dovrebbe invidiargli? Un film parlato comincia come una lezione di storia, prosegue sui toni della commedia sofisticata e finisce in dramma, verniciando il tutto con uno strato, sottile e prezioso, d´ironia.
Per raggiungere il marito a Bombay, una giovane professoressa universitaria traversa il Mediterraneo assieme alla sua deliziosa bambina di sette anni, facendo tappa a Marsiglia e Napoli, Atene e Istanbul, Aden. Nella culla della civiltà moderna, la donna ci conduce in una visita guidata ai miti fondatori della cultura occidentale. Sulla stessa nave, comandata dal capitano americano di origine polacca John Malkovich, viaggiano Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli, Irene Papas, che simboleggiano rispettivamente il mondo degli affari, della moda, del canto: sono tre Parche moderne e sofisticate; conversano ciascuna nella propria lingua ma si capiscono alla perfezione. Si parla molto, moltissimo nel film del patriarca portoghese, quasi si trattasse di una torre di Babele rappacificata e ormai capace di comprensione reciproca. Solo in apparenza, però. Come sappiamo troppo bene, i dissensi tra i vari popoli perdurano e si acuiscono, facendo naufragare nella violenza l´utopia di un mondo finalmente senza conflitti. Inattesa, alla fine del film incombe sui passeggeri l´ombra del terrorismo: Oliveira cambia registro e vira alla riflessione acre sul vero posto della nostra civiltà, che da troppo tempo presume di occupare quello centrale, nell´effimero mondo d´oggi. L´epilogo spiazzante, fisso sul fotogramma di un uomo senza più parole, pare quasi un´allegoria della fine del mondo. Però il geniale Manoel riesce a circondare le sue amare riflessioni politiche e filosofiche di un´aura leggera, di una disinvoltura straordinaria, componendo una sorta di film-saggio in anticipo di qualche decennio suo cinema odierno, da cui esala una strana seduzione che non sapremmo ritrovare in nessun altro.
Corriere della Sera 27.3.04
DRAMMATICO / «Un film parlato», l’apocalisse secondo de Oliveira
Quattro donne e la parodia del «Titanic»
Qualche volta il cinema riesce a diventare uno specchio nel quale leggere la contemporaneità meglio che nel telegiornale. Messo di fronte all’apocalisse finale di Un film parlato , l’atterrito John Malkovich siamo noi, uomini del XXI secolo folgorati dal crollo delle Torri Gemelle o dalla strage di Madrid. Sempre arditamente spiazzante, Manoel de Oliveira ci offre una parodia del Titanic imbastita fra divagazioni didascaliche e aneddoti frivoli, ma con un approdo da brividi. Lo sa solo lui che cosa vuol dire esattamente con questo apologo di quattro donne in crociera (Silveira, Sandrelli, Deneuve, Papas) e ci gira intorno con sorniona ironia. Tuttavia il film (puntualmente ignorato dalla giuria veneziana) trasmette un segnale allarmante sulla condizione disperata di un mondo che naviga in brutte acque. Rimane il dubbio: semplice constatazione o cupa profezia? (T.K.)
UN FILM PARLATO di Manoel de Oliveira
Con Irene Papas, Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli
il convegno su
"Biologia moderna e visioni dell'umanità"
Galileo 27.3.04
BIOLOGIA E SOCIETÀ
Dialogo imperfetto
di Adriana Albini
Un equipaggio di 50 uomini salpato dalle Colonne d'Ercole a seguito di una violenta tempesta e finito sulla Luna: quelli narrati nel II secolo dopo Cristo da Luciano di Samosata sono forse i primi astronauti dell'umanità. La fantascienza ha quindi radici lontane e con essa le paure e i sogni suscitati dalla ricerca scientifica. È stato questo uno dei molti spunti offerti da "Biologia moderna e visioni dell'umanità", la conferenza organizzata dalla Commissione Europea e dal Gruppo Europeo per le Scienze della vita che si è svolta gli scorsi 22 e 23 marzo a Genova. Padrone di casa il rappresentante italiano del gruppo, Leonardo Santi, medico e biotecnologo, che ha riunito in questa occasione scienziati, filosofi, eticisti, cineasti, poeti, umanisti e politici.
Il confronto fra biologia e cultura umanistica al centro delle due giornate è stato declinato in quattro temi per altrettanti incontri: la fiducia nel progresso, la sfida e i limiti del riduzionismo, ricerca e democrazia, la fantascienza. Proprio la "science-fiction" (prima letteraria e poi cinematografica) può essere presa come una sorta di cartina di tornasole per per capire quali siano le paure e le aspettative del grande pubblico nei confronti della scienza. Come per esempio, "L'isola del Dottor Moreau", pellicola di Don Taylor (1977) che narra la storia di un uomo che su un'isola sconosciuta si dedica a strani esperimenti che trasformano animali in mostruosi esseri umanoidi.
Ma non è solo questione di sequenziare il genoma, scoprire nuove molecole, scovare cellule staminali nei tessuti, inventare nuove terapie e curarsi meglio. Le scienze biologiche influenzano la nostra visione dell'umanità e sono parte integrante di cultura, società, politica e fantasia. A sottolineare la preoccupazione e l'angoscia della crescente difficoltà di tener vivo il dibattito tra scienza e politica, tecnologia e democrazia è stato il poeta Edoardo Sanguineti. "Chi sono i mandanti dei ricercatori?". Lo scienziato, secondo Sanguineti, non può più ignorare le implicazioni socio-politiche e la responsabilità che ha verso il mondo con le sue invenzioni.
Su questo punto, l'incontro ha evidenziato la difficoltà di conciliare le richieste che provengono dalla società con le forti resistenze che ancora esistono nella comunità scientifica. A chi, come il sociologo della scienza italiano Massimiano Bucchi, ha auspicato un "ritorno della politica" cui spetterebbe sperimentare nuove strade per incorporare i temi scientifici nel suo dibattito, si è contrapposto per esempio il dogmatismo di Lewis Wolpert, biologo dello University College di Londra: che ha detto a chiare lettere di non aver mai sentito un bioeticista fare un discorso sensato, di considerare la scienza rigidamente distinta dalla tecnologia, di non vedere alcun problema etico nella clonazione umana e di pensare che "l'arte non abbia mai contribuito in alcun modo alla scienza, mentre la scienza ha contribuito molto all'arte". Più pacate e promettenti, per fortuna, le posizioni di altri come Steven Rose, neuroscienziato britannico, che ha sottolineato la necessità per i media di assumere un ruolo più critico e meno riverente verso gli scienziati e gli "esperti" di ogni ramo.
BIOLOGIA E SOCIETÀ
Dialogo imperfetto
di Adriana Albini
Un equipaggio di 50 uomini salpato dalle Colonne d'Ercole a seguito di una violenta tempesta e finito sulla Luna: quelli narrati nel II secolo dopo Cristo da Luciano di Samosata sono forse i primi astronauti dell'umanità. La fantascienza ha quindi radici lontane e con essa le paure e i sogni suscitati dalla ricerca scientifica. È stato questo uno dei molti spunti offerti da "Biologia moderna e visioni dell'umanità", la conferenza organizzata dalla Commissione Europea e dal Gruppo Europeo per le Scienze della vita che si è svolta gli scorsi 22 e 23 marzo a Genova. Padrone di casa il rappresentante italiano del gruppo, Leonardo Santi, medico e biotecnologo, che ha riunito in questa occasione scienziati, filosofi, eticisti, cineasti, poeti, umanisti e politici.
Il confronto fra biologia e cultura umanistica al centro delle due giornate è stato declinato in quattro temi per altrettanti incontri: la fiducia nel progresso, la sfida e i limiti del riduzionismo, ricerca e democrazia, la fantascienza. Proprio la "science-fiction" (prima letteraria e poi cinematografica) può essere presa come una sorta di cartina di tornasole per per capire quali siano le paure e le aspettative del grande pubblico nei confronti della scienza. Come per esempio, "L'isola del Dottor Moreau", pellicola di Don Taylor (1977) che narra la storia di un uomo che su un'isola sconosciuta si dedica a strani esperimenti che trasformano animali in mostruosi esseri umanoidi.
Ma non è solo questione di sequenziare il genoma, scoprire nuove molecole, scovare cellule staminali nei tessuti, inventare nuove terapie e curarsi meglio. Le scienze biologiche influenzano la nostra visione dell'umanità e sono parte integrante di cultura, società, politica e fantasia. A sottolineare la preoccupazione e l'angoscia della crescente difficoltà di tener vivo il dibattito tra scienza e politica, tecnologia e democrazia è stato il poeta Edoardo Sanguineti. "Chi sono i mandanti dei ricercatori?". Lo scienziato, secondo Sanguineti, non può più ignorare le implicazioni socio-politiche e la responsabilità che ha verso il mondo con le sue invenzioni.
Su questo punto, l'incontro ha evidenziato la difficoltà di conciliare le richieste che provengono dalla società con le forti resistenze che ancora esistono nella comunità scientifica. A chi, come il sociologo della scienza italiano Massimiano Bucchi, ha auspicato un "ritorno della politica" cui spetterebbe sperimentare nuove strade per incorporare i temi scientifici nel suo dibattito, si è contrapposto per esempio il dogmatismo di Lewis Wolpert, biologo dello University College di Londra: che ha detto a chiare lettere di non aver mai sentito un bioeticista fare un discorso sensato, di considerare la scienza rigidamente distinta dalla tecnologia, di non vedere alcun problema etico nella clonazione umana e di pensare che "l'arte non abbia mai contribuito in alcun modo alla scienza, mentre la scienza ha contribuito molto all'arte". Più pacate e promettenti, per fortuna, le posizioni di altri come Steven Rose, neuroscienziato britannico, che ha sottolineato la necessità per i media di assumere un ruolo più critico e meno riverente verso gli scienziati e gli "esperti" di ogni ramo.
caos
Galileo 26.3.04
LIBRI
Sulle orme del caos
Gian Italo Bischi, Rosa Carini, Laura Gardini, Paolo Tenti
Sulle orme del caos. Comportamenti complessi in modelli matematici semplici
Bruno Mondadori, 2004
p. 256, euro 19,00
È possibile governare il caos? Come comprendere i meccanismi che sono alla base dei fenomeni caotici che regolano l'andamento dei mercati finanziari o lo sviluppo di un determinato ecosistema?
La scoperta che esiste una sorta di ripetitività implicita in questo tipo di manifestazioni ha permesso l'affermarsi del concetto di caos deterministico e della teoria dei sistemi dinamici che ne consente l'analisi. Infatti, nonostante possa sembrare poco convincente associare alla parola "caos" l'aggettivo "deterministico", gli autori di questo volume ci conducono con semplici modelli matematici non lineari, composti da funzioni algebriche di secondo o terzo grado, nell'ambiente di sistemi reali che si evolvono nel tempo secondo una certa regolarità. Il mondo che abbiamo sotto i nostri occhi è un intreccio complesso di relazioni tra agenti e la matematica rappresenta il mezzo con cui è possibile spiegare i fenomeni naturali che ci circondano e che spesso sfuggono a osservazioni lineari. Se per esempio si può studiare con facilità il moto uniforme, ma molto poco reale, di un corpo, più complesso risulta analizzare il suo moto discontinuo su cui intervengono fattori diversi come l'attrito dell'aria.
Certo anche il modello matematico più preciso non può dare la spiegazione degli aspetti irrazionali che spesso regolano lo sviluppo e il comportamento di una società come il gusto, le mode o la paura. Ma è questa l'unica avvertenza con cui si deve affrontare la lettura di questo testo il cui scopo principale è di presentare al lettore le proprietà matematiche elementari che stanno alla base dei modelli dinamici deterministici che generano sequenze caotiche. Fu Galileo a introdurre il linguaggio matematico come l'unico in grado di decifrare il complicato codice con cui era scritto quello che egli definì il "libro della Natura". Dal Seicento in poi la matematica ha quindi iniziato a configurarsi come lo strumento attraverso cui osservare e spiegare i fenomeni naturali e le loro dinamiche. Secondo il principio meccanicistico venutosi a formare dall'osservazione empirica, avendo a disposizione i valori delle variabili di uno stato in un certo istante, il modello permetteva di calcolare in modo univoco lo stato del sistema all'istante successivo.
Tuttavia nel corso dei quattro secoli che ci separano dalle scoperte dello scienziato pisano, la nostra stessa percezione della natura si è notevolmente trasformata. All'inizio del Novecento i fisici e i matematici furono infatti scossi dalle affermazioni del filosofo e matematico francese Jules-Henri Poincarè secondo cui anche una piccola variazione dei parametri del sistema nella condizione iniziale avrebbe comportato enormi cambiamenti su tutta l'evoluzione del sistema stesso. Studiando le traiettorie di tre corpi celesti - Sole, Terra, Luna - si accorse che esse generavano un'equazione non lineare; le curve che Poincarè poteva solo immaginare producevano una serie di infinite intersezioni dando una maglia di reti il cui stato nel momento successivo era impossibile da prevedere. Era il primo incontro con il caos; i sistemi caotici così individuati avevano mostrato una sensibilità alle condizioni iniziali tale da annullare il postulato meccanicistico che ne consentiva di studiare l'evoluzione temporale. Il modello causa-effetto, che poteva fornirci soluzioni esatte solo per quei pochi fenomeni semplici e uniformi, non era dunque più rappresentativo di una natura che offriva ora una realtà non lineare costituita da una rete indefinita di relazioni e intersezioni.
Le tecniche matematiche che negli ultimi tre decenni hanno permesso ai ricercatori di scoprire schemi ordinati in sistemi caotici si basano proprio sull'intuizione di Poincarè e sono direttamente legate allo sviluppo dei computer. Grazie allo sviluppo dei calcolatori elettronici è stato quindi possibile rappresentare i complessi modelli che gli autori di questo volume ci aiutano a comprendere meglio attraverso un percorso che partendo dai modelli lineari più semplici giunge a quelli più complessi che oggi trovano numerose applicazioni nelle più diverse discipline come la fisica, la biologia o l'economia ma anche la sociologia e la storia.
Nel libro, chiaramente di carattere divulgativo, vengono esposti principi matematici come iterazione, biforcazione e punto di svolta, fondamentali a uno studio sui fenomeni caotici. Infatti, semplici esempi di iterazione di funzioni algebriche di secondo grado, come quelle che si incontrano sui banchi di scuola, permettono di osservare eventi tipici del caos. In questo modo viene dunque fatta giustizia circa l'ipotesi che la teoria del caos non possa dare previsioni, anche se esse riguardano più gli aspetti qualitativi del comportamento di un sistema che i suoi valori precisi.
La matematica della complessità è rappresentata come un'importante intuizione nella scienza del XX secolo, consentendo di sostituire un'analisi qualitativa a una quantitativa più capace di descrivere le relazioni e le configurazioni (pattern) dei sistemi, spostando il paradigma scientifico dagli oggetti alle relazioni.
Per chi volesse infine cimentarsi con applicazioni pratiche di sistemi caotici il sito della casa editrice offre una serie di link a programmi di Excel e Visual Basic con cui il lettore potrà eseguire direttamente gli esperimenti suggeriti dal testo
LIBRI
Sulle orme del caos
Gian Italo Bischi, Rosa Carini, Laura Gardini, Paolo Tenti
Sulle orme del caos. Comportamenti complessi in modelli matematici semplici
Bruno Mondadori, 2004
p. 256, euro 19,00
È possibile governare il caos? Come comprendere i meccanismi che sono alla base dei fenomeni caotici che regolano l'andamento dei mercati finanziari o lo sviluppo di un determinato ecosistema?
La scoperta che esiste una sorta di ripetitività implicita in questo tipo di manifestazioni ha permesso l'affermarsi del concetto di caos deterministico e della teoria dei sistemi dinamici che ne consente l'analisi. Infatti, nonostante possa sembrare poco convincente associare alla parola "caos" l'aggettivo "deterministico", gli autori di questo volume ci conducono con semplici modelli matematici non lineari, composti da funzioni algebriche di secondo o terzo grado, nell'ambiente di sistemi reali che si evolvono nel tempo secondo una certa regolarità. Il mondo che abbiamo sotto i nostri occhi è un intreccio complesso di relazioni tra agenti e la matematica rappresenta il mezzo con cui è possibile spiegare i fenomeni naturali che ci circondano e che spesso sfuggono a osservazioni lineari. Se per esempio si può studiare con facilità il moto uniforme, ma molto poco reale, di un corpo, più complesso risulta analizzare il suo moto discontinuo su cui intervengono fattori diversi come l'attrito dell'aria.
Certo anche il modello matematico più preciso non può dare la spiegazione degli aspetti irrazionali che spesso regolano lo sviluppo e il comportamento di una società come il gusto, le mode o la paura. Ma è questa l'unica avvertenza con cui si deve affrontare la lettura di questo testo il cui scopo principale è di presentare al lettore le proprietà matematiche elementari che stanno alla base dei modelli dinamici deterministici che generano sequenze caotiche. Fu Galileo a introdurre il linguaggio matematico come l'unico in grado di decifrare il complicato codice con cui era scritto quello che egli definì il "libro della Natura". Dal Seicento in poi la matematica ha quindi iniziato a configurarsi come lo strumento attraverso cui osservare e spiegare i fenomeni naturali e le loro dinamiche. Secondo il principio meccanicistico venutosi a formare dall'osservazione empirica, avendo a disposizione i valori delle variabili di uno stato in un certo istante, il modello permetteva di calcolare in modo univoco lo stato del sistema all'istante successivo.
Tuttavia nel corso dei quattro secoli che ci separano dalle scoperte dello scienziato pisano, la nostra stessa percezione della natura si è notevolmente trasformata. All'inizio del Novecento i fisici e i matematici furono infatti scossi dalle affermazioni del filosofo e matematico francese Jules-Henri Poincarè secondo cui anche una piccola variazione dei parametri del sistema nella condizione iniziale avrebbe comportato enormi cambiamenti su tutta l'evoluzione del sistema stesso. Studiando le traiettorie di tre corpi celesti - Sole, Terra, Luna - si accorse che esse generavano un'equazione non lineare; le curve che Poincarè poteva solo immaginare producevano una serie di infinite intersezioni dando una maglia di reti il cui stato nel momento successivo era impossibile da prevedere. Era il primo incontro con il caos; i sistemi caotici così individuati avevano mostrato una sensibilità alle condizioni iniziali tale da annullare il postulato meccanicistico che ne consentiva di studiare l'evoluzione temporale. Il modello causa-effetto, che poteva fornirci soluzioni esatte solo per quei pochi fenomeni semplici e uniformi, non era dunque più rappresentativo di una natura che offriva ora una realtà non lineare costituita da una rete indefinita di relazioni e intersezioni.
Le tecniche matematiche che negli ultimi tre decenni hanno permesso ai ricercatori di scoprire schemi ordinati in sistemi caotici si basano proprio sull'intuizione di Poincarè e sono direttamente legate allo sviluppo dei computer. Grazie allo sviluppo dei calcolatori elettronici è stato quindi possibile rappresentare i complessi modelli che gli autori di questo volume ci aiutano a comprendere meglio attraverso un percorso che partendo dai modelli lineari più semplici giunge a quelli più complessi che oggi trovano numerose applicazioni nelle più diverse discipline come la fisica, la biologia o l'economia ma anche la sociologia e la storia.
Nel libro, chiaramente di carattere divulgativo, vengono esposti principi matematici come iterazione, biforcazione e punto di svolta, fondamentali a uno studio sui fenomeni caotici. Infatti, semplici esempi di iterazione di funzioni algebriche di secondo grado, come quelle che si incontrano sui banchi di scuola, permettono di osservare eventi tipici del caos. In questo modo viene dunque fatta giustizia circa l'ipotesi che la teoria del caos non possa dare previsioni, anche se esse riguardano più gli aspetti qualitativi del comportamento di un sistema che i suoi valori precisi.
La matematica della complessità è rappresentata come un'importante intuizione nella scienza del XX secolo, consentendo di sostituire un'analisi qualitativa a una quantitativa più capace di descrivere le relazioni e le configurazioni (pattern) dei sistemi, spostando il paradigma scientifico dagli oggetti alle relazioni.
Per chi volesse infine cimentarsi con applicazioni pratiche di sistemi caotici il sito della casa editrice offre una serie di link a programmi di Excel e Visual Basic con cui il lettore potrà eseguire direttamente gli esperimenti suggeriti dal testo
donne nella storia: Christine de Pizan
Il Giornale di Vicenza 27.3.04
Christine de Pizan editrice medievale
di Attilio Fraccaro
Interessante "fuori programma" oggi a Campese dell'edizione 2003-2004 degli incontri "medievali" organizzati, al Monastero di Santa Croce, dal Centro Studi dedicato all'Abate Ponzio di Cluny.
A partire dalle 18 infatti è in calendario l'incontro dedicato alla lettura di brani tratti dalle opere di Christine de Pizan, scrittrice ed editrice tardomedievale italo-francese che molti, soprattutto nei paesi anglosassoni, considerano la prima femminista della storia.
Praticamente sconosciuta in Italia, pur essendo nata a Venezia e da genitori italiani, Christine sarà "presentata" da Lino Canepari mentre alcune delle sue più belle poesie e riflessioni tratte dalle sue opera in prosa saranno lette da Giusy Bizzotto.
Per tornare agli scritti di Christine de Pizan (Cristina di Pizzano) c'è da dire che questi furono composti in difesa della dignità della donna all'inizio del '400. la scrittrice ha senza dubbio il merito storico di avere sollevato per prima e con forza quella che poi è stata chiamata la "questione femminile".
Come detto questo appuntamento, non compreso inizialmente in? locandina, chiude il ciclo "Medioevo al femminile" iniziato nel novembre scorso.
Durante l'incontro il Centro Studi presenterà ufficialmente gli Atti dei due corsi precedenti, quelli dedicati alle Crociate e all'Inquisizione.
Volumi che poi saranno posti in vendita nelle librerie della zona o nella segreteria del sodalizio culturale.
Christine de Pizan editrice medievale
di Attilio Fraccaro
Interessante "fuori programma" oggi a Campese dell'edizione 2003-2004 degli incontri "medievali" organizzati, al Monastero di Santa Croce, dal Centro Studi dedicato all'Abate Ponzio di Cluny.
A partire dalle 18 infatti è in calendario l'incontro dedicato alla lettura di brani tratti dalle opere di Christine de Pizan, scrittrice ed editrice tardomedievale italo-francese che molti, soprattutto nei paesi anglosassoni, considerano la prima femminista della storia.
Praticamente sconosciuta in Italia, pur essendo nata a Venezia e da genitori italiani, Christine sarà "presentata" da Lino Canepari mentre alcune delle sue più belle poesie e riflessioni tratte dalle sue opera in prosa saranno lette da Giusy Bizzotto.
Per tornare agli scritti di Christine de Pizan (Cristina di Pizzano) c'è da dire che questi furono composti in difesa della dignità della donna all'inizio del '400. la scrittrice ha senza dubbio il merito storico di avere sollevato per prima e con forza quella che poi è stata chiamata la "questione femminile".
Come detto questo appuntamento, non compreso inizialmente in? locandina, chiude il ciclo "Medioevo al femminile" iniziato nel novembre scorso.
Durante l'incontro il Centro Studi presenterà ufficialmente gli Atti dei due corsi precedenti, quelli dedicati alle Crociate e all'Inquisizione.
Volumi che poi saranno posti in vendita nelle librerie della zona o nella segreteria del sodalizio culturale.
Galimberti e Amore e Psiche...
Libertà 27.3.04
Settimana di spettacoli del “Lemming” a Castellarquato, venerdì incontro col filosofo Galimberti
E da lunedì viaggio tra Amore e Psiche, per due spettatori
Uno spettacolo per due spettatori. Certo, è curioso, ma il Teatro del Lemming di Rovigo, di cui è fondatore e “anima” il regista Massimo Munaro ci ha abituati a queste proposte. [...] Gli spettacoli da lunedì 29 marzo al 4 aprile sono sette al giorno e durano 45 minuti [...]. Ogni spettacolo è per uno spettatore e una spettatrice.
Venerdì 2 aprile alle 21, come approfondimento sul tema, al Museo Archeologico di Castellarquato il filosofo Umberto Galimberti parlerà su Amore e Psiche insieme con il regista Massimo Munaro.[...]
Settimana di spettacoli del “Lemming” a Castellarquato, venerdì incontro col filosofo Galimberti
E da lunedì viaggio tra Amore e Psiche, per due spettatori
Uno spettacolo per due spettatori. Certo, è curioso, ma il Teatro del Lemming di Rovigo, di cui è fondatore e “anima” il regista Massimo Munaro ci ha abituati a queste proposte. [...] Gli spettacoli da lunedì 29 marzo al 4 aprile sono sette al giorno e durano 45 minuti [...]. Ogni spettacolo è per uno spettatore e una spettatrice.
Venerdì 2 aprile alle 21, come approfondimento sul tema, al Museo Archeologico di Castellarquato il filosofo Umberto Galimberti parlerà su Amore e Psiche insieme con il regista Massimo Munaro.[...]
una nuova legge USA
Liberazione 27.3.04
USA: passa una legge "a difesa del feto"
Al termine di un serrato dibattito, il Senato statunitense ha approvato la legge che, in caso di violenza su una donna incinta, riconosce il feto come una vittima diversa dalla madre. Con 61 voti a 38, il Senato dominato dalla maggioranza repubblicana ha consegnato il provvedimento, approvato il mese scorso dalla Camera dei Rappresentanti, al presidente George W. Bush. Secondo la legislazione attuale, un individuo che compie una violenza su una donna incinta non riceve una punizione aggiuntiva per aver ferito o ucciso il bimbo non ancora nato. Adesso la situazione potrà cambiare. Secondo le organizzazioni dei diritti civili, con il riconoscimento del feto come persona, la legge è un primo passo per minare il diritto costituzionale all'aborto. Entusiasta il presidente Bush che ha già detto che non vede l'ora di firmare il provvedimento per farlo diventare legge.
USA: passa una legge "a difesa del feto"
Al termine di un serrato dibattito, il Senato statunitense ha approvato la legge che, in caso di violenza su una donna incinta, riconosce il feto come una vittima diversa dalla madre. Con 61 voti a 38, il Senato dominato dalla maggioranza repubblicana ha consegnato il provvedimento, approvato il mese scorso dalla Camera dei Rappresentanti, al presidente George W. Bush. Secondo la legislazione attuale, un individuo che compie una violenza su una donna incinta non riceve una punizione aggiuntiva per aver ferito o ucciso il bimbo non ancora nato. Adesso la situazione potrà cambiare. Secondo le organizzazioni dei diritti civili, con il riconoscimento del feto come persona, la legge è un primo passo per minare il diritto costituzionale all'aborto. Entusiasta il presidente Bush che ha già detto che non vede l'ora di firmare il provvedimento per farlo diventare legge.
Emma Bovary
Il Messaggero 27.4.03
Madame Bovary, l’amore estremo
di RENATO MINORE
Vale la pena ricordare alcune considerazioni di Alberto Moravia, raccolte in un'intervista da Nello Ajello, sull'autore di Madame Bovary : «Flaubert è troppo scrittore e poco narratore. Le due cose sono diverse. Io, per esempio, sono nato narratore: da bambino, quando ero solo, raccontavo dei romanzi a me stesso, ad alta voce, Ancor oggi qualcuno dice che scrivo male. Flaubert scriveva troppo bene, almeno in Madame Bovary ». E ancora: "Con la sua fissazione della parola, della perfezione formale, ha ammazzato il romanzo. Il romanzo non può essere basato sulla mera scrittura. Se si modifica una parola in una poesia la si distrugge. Il romanzo si fonda invece su delle strutture: se si cancella una parola non succede niente».
Il colpo di grazia inferto a Flaubert svela paradossalmente, sia pure in controluce, tutta la provocatoria, abbagliante grandezza di un personaggio come Emma: una figura, una forma in qualche modo sacra, oscenamente sacra nella sua sensualità. Proprio come la tensione che pervadeva il suo autore durante la stesura dell' opera: «Amo il mio lavoro con un amore frenetico e perverso, come un asceta il cilicio che gli raschia il ventre», scrive nel 1852 Gustave a Luise Colet, la donna con cui ha diviso sei anni di passione, ora preziosa confidente intellettuale. E' a Luise che lo scrittore rivela come gli ci vogliano «spesso molte ore per cercare una parola«, «cinque giorni per fare una pagina». Le parole somigliano a lettere di una preghiera, l'ossessione per esse è quasi vicina alla frenesia con cui i cabbalisti permutano in continuazione, nella Scrittura, l'impronunziabile parola di Dio. E d'altra parte la lucidità verso il presente non è da meno: «Nessun pensiero umano può prevedere a quali scintillanti soli psichici si schiuderanno le opere dell'avvenire, Nell'attesa, noi siamo in un corridoio pieno d'ombra, e brancoliamo nel buio. Tra la folla e noi, non c'è nessun legame. Tanto peggio per la folla; e soprattutto tanto peggio per noi».
Ma che fatidico anno il 1857: pubblicato a puntate sulla "Revue de Paris" tra l'ottobre e il dicembre del '56, Madame Bovary è accusato dal pubblico ministero Pinard di oltraggio alla morale pubblica, religiosa e ai buoni costumi. Flaubert viene assolto e l'opera esce in volume ad aprile. Il 25 giugno appare Le Fleurs du Mal e Pinard ci riprova, riuscendo a far condannare, ad agosto, Baudelaire e gli editori. L' intreccio tra Giustizia e Letteratura appare trionfalmente risolto dal poeta dello spleen, che recensendo il romanzo nell'ottobre di quell'anno scrive: «La magistratura si è dimostrata leale e imparziale come il libro che era spinto dinanzi a lei in olocausto(…) che fu data causa vinta alla Musa, e che tutti gli scrittori, almeno tutti quelli degni di questo nome, sono stati assolti nella persona di Gustave Flaubert». Ma qual' era l'oltraggio? E il "bovarismo" è davvero, come scrisse de Gaultier nel 1902, la «disposizione propria dell'uomo di concepirsi diverso da sé»? E se l'insoddisfazione della Bovary per la realtà, assieme a quella di Flaubert («Mi si crede innamorato del reale, mentre lo esecro») fossero la vera figura imbarazzante, scaturita da una dinamica di contrasto con la realtà assai vicina all'ascesi? I " Tre racconti " costituiscono l' ultimo libro pubblicato da Gustave, nel 1877: i rispettivi protagonisti Félicité, San Giuliano, Giovanni Battista sono figure della santità a tutto tondo, e insieme il prodotto quintessenziale di una strabiliante raffinatezza stilistica. «Senza l'amore della forma, sarei forse stato un grande mistico», aveva scritto nel 1852.
Fu in effetti il più grande mistico-scrittore d'occidente, capace di contrapporre la consistenza di una figura seducente, femminile (quasi potessimo abbracciarla, addirittura amarla) alla miseria del reale. Franco Cordelli ha scritto: «Il narratore viene da oriente, il romanziere dimora in occidente. Lo scrittore sta qui con noi, ma guarda da un'altra parte». E Moravia, narratore puro, ossia uno per il quale «la figura è sacra», intoccabile, percepiva forse questo incredibile "oltraggio" nell'inquietudine di Emma: un inammissibile corpo desiderante nato dalla parola.
Madame Bovary, l’amore estremo
di RENATO MINORE
Vale la pena ricordare alcune considerazioni di Alberto Moravia, raccolte in un'intervista da Nello Ajello, sull'autore di Madame Bovary : «Flaubert è troppo scrittore e poco narratore. Le due cose sono diverse. Io, per esempio, sono nato narratore: da bambino, quando ero solo, raccontavo dei romanzi a me stesso, ad alta voce, Ancor oggi qualcuno dice che scrivo male. Flaubert scriveva troppo bene, almeno in Madame Bovary ». E ancora: "Con la sua fissazione della parola, della perfezione formale, ha ammazzato il romanzo. Il romanzo non può essere basato sulla mera scrittura. Se si modifica una parola in una poesia la si distrugge. Il romanzo si fonda invece su delle strutture: se si cancella una parola non succede niente».
Il colpo di grazia inferto a Flaubert svela paradossalmente, sia pure in controluce, tutta la provocatoria, abbagliante grandezza di un personaggio come Emma: una figura, una forma in qualche modo sacra, oscenamente sacra nella sua sensualità. Proprio come la tensione che pervadeva il suo autore durante la stesura dell' opera: «Amo il mio lavoro con un amore frenetico e perverso, come un asceta il cilicio che gli raschia il ventre», scrive nel 1852 Gustave a Luise Colet, la donna con cui ha diviso sei anni di passione, ora preziosa confidente intellettuale. E' a Luise che lo scrittore rivela come gli ci vogliano «spesso molte ore per cercare una parola«, «cinque giorni per fare una pagina». Le parole somigliano a lettere di una preghiera, l'ossessione per esse è quasi vicina alla frenesia con cui i cabbalisti permutano in continuazione, nella Scrittura, l'impronunziabile parola di Dio. E d'altra parte la lucidità verso il presente non è da meno: «Nessun pensiero umano può prevedere a quali scintillanti soli psichici si schiuderanno le opere dell'avvenire, Nell'attesa, noi siamo in un corridoio pieno d'ombra, e brancoliamo nel buio. Tra la folla e noi, non c'è nessun legame. Tanto peggio per la folla; e soprattutto tanto peggio per noi».
Ma che fatidico anno il 1857: pubblicato a puntate sulla "Revue de Paris" tra l'ottobre e il dicembre del '56, Madame Bovary è accusato dal pubblico ministero Pinard di oltraggio alla morale pubblica, religiosa e ai buoni costumi. Flaubert viene assolto e l'opera esce in volume ad aprile. Il 25 giugno appare Le Fleurs du Mal e Pinard ci riprova, riuscendo a far condannare, ad agosto, Baudelaire e gli editori. L' intreccio tra Giustizia e Letteratura appare trionfalmente risolto dal poeta dello spleen, che recensendo il romanzo nell'ottobre di quell'anno scrive: «La magistratura si è dimostrata leale e imparziale come il libro che era spinto dinanzi a lei in olocausto(…) che fu data causa vinta alla Musa, e che tutti gli scrittori, almeno tutti quelli degni di questo nome, sono stati assolti nella persona di Gustave Flaubert». Ma qual' era l'oltraggio? E il "bovarismo" è davvero, come scrisse de Gaultier nel 1902, la «disposizione propria dell'uomo di concepirsi diverso da sé»? E se l'insoddisfazione della Bovary per la realtà, assieme a quella di Flaubert («Mi si crede innamorato del reale, mentre lo esecro») fossero la vera figura imbarazzante, scaturita da una dinamica di contrasto con la realtà assai vicina all'ascesi? I " Tre racconti " costituiscono l' ultimo libro pubblicato da Gustave, nel 1877: i rispettivi protagonisti Félicité, San Giuliano, Giovanni Battista sono figure della santità a tutto tondo, e insieme il prodotto quintessenziale di una strabiliante raffinatezza stilistica. «Senza l'amore della forma, sarei forse stato un grande mistico», aveva scritto nel 1852.
Fu in effetti il più grande mistico-scrittore d'occidente, capace di contrapporre la consistenza di una figura seducente, femminile (quasi potessimo abbracciarla, addirittura amarla) alla miseria del reale. Franco Cordelli ha scritto: «Il narratore viene da oriente, il romanziere dimora in occidente. Lo scrittore sta qui con noi, ma guarda da un'altra parte». E Moravia, narratore puro, ossia uno per il quale «la figura è sacra», intoccabile, percepiva forse questo incredibile "oltraggio" nell'inquietudine di Emma: un inammissibile corpo desiderante nato dalla parola.
Masako
LA CASA IMPERIALE GIAPPONESE
Masako depressa, lascia il palazzo
La principessa si è trasferita in una residenza segreta
Da ieri il palazzo Akasaka, residenza a Tokyo dei principi ereditari al trono giapponese Naruhito e Masako, è vuoto. Masako, 40 anni, assente dalla vita pubblica da quasi quattro mesi per problemi di salute causati da stress, ha lasciato Tokyo, in compagnia del marito e della primogenita, principessa Aiko, diretta in una villa tenuta segreta nella prefettura montagnosa di Nagano, circa 200 km a nord-ovest della capitale. Lo ha annunciato l’Ente della casa imperiale limitandosi a dire che Masako «ha bisogno di riposo e tranquillità» e diffidando espressamente tutti i mass-media, tv giornali e fotografi, dal tentare di individuare la villa.
«Speriamo in un completo ristabilimento della sua salute», ha affermato un portavoce dell’Ente della casa imperiale senza specificare per quanto si protrarrà l’assenza della principessa dal suo palazzo di Tokyo. Secondo fonti bene informate, il principe ereditario Naruhito si tratterrà qualche giorno con Masako nella villa misteriosa di Nagano prima di rientrare da solo nella capitale. È la prima volta, da quando all’inizio del dicembre scorso Masako non compare più in pubblico, dopo essere stata colpita dal fuoco di Sant’Antonio - nome popolare per una forma spesso grave di eritema cutaneo e nevrite provocata dal virus dell’herps zoster - che la principessa si allontana dalla capitale. «Un fatto che ha pochi precedenti nella storia della famiglia imperiale giapponese», hanno detto fonti bene informate.
Nulla è trapelato sulle reali condizioni di salute di Masako, che sembra attraversare un momento difficile della sua vita, come ammesso il mese scorso dal marito Naruhito in occasione del suo 44esimo compleanno. «Ci vorrà ancora del tempo prima che Masako possa tornare a svolgere attività pubblica - aveva detto il principe ereditario- Ha subito pressioni notevoli e inimmaginabili per chi vede le cose dall'esterno, soprattutto per quanto riguarda la successione al trono. Spero solo che dimentichi tutto e attendo senza fretta che si riprenda». In quell'occasione erano state diffuse le prime foto di Masako dopo la malattia. L’ex diplomatica è apparsa sorridente ma affaticata, a fianco del marito e della primogenita Aiko, data alla luce nel dicembre 2001.
Masako depressa, lascia il palazzo
La principessa si è trasferita in una residenza segreta
Da ieri il palazzo Akasaka, residenza a Tokyo dei principi ereditari al trono giapponese Naruhito e Masako, è vuoto. Masako, 40 anni, assente dalla vita pubblica da quasi quattro mesi per problemi di salute causati da stress, ha lasciato Tokyo, in compagnia del marito e della primogenita, principessa Aiko, diretta in una villa tenuta segreta nella prefettura montagnosa di Nagano, circa 200 km a nord-ovest della capitale. Lo ha annunciato l’Ente della casa imperiale limitandosi a dire che Masako «ha bisogno di riposo e tranquillità» e diffidando espressamente tutti i mass-media, tv giornali e fotografi, dal tentare di individuare la villa.
«Speriamo in un completo ristabilimento della sua salute», ha affermato un portavoce dell’Ente della casa imperiale senza specificare per quanto si protrarrà l’assenza della principessa dal suo palazzo di Tokyo. Secondo fonti bene informate, il principe ereditario Naruhito si tratterrà qualche giorno con Masako nella villa misteriosa di Nagano prima di rientrare da solo nella capitale. È la prima volta, da quando all’inizio del dicembre scorso Masako non compare più in pubblico, dopo essere stata colpita dal fuoco di Sant’Antonio - nome popolare per una forma spesso grave di eritema cutaneo e nevrite provocata dal virus dell’herps zoster - che la principessa si allontana dalla capitale. «Un fatto che ha pochi precedenti nella storia della famiglia imperiale giapponese», hanno detto fonti bene informate.
Nulla è trapelato sulle reali condizioni di salute di Masako, che sembra attraversare un momento difficile della sua vita, come ammesso il mese scorso dal marito Naruhito in occasione del suo 44esimo compleanno. «Ci vorrà ancora del tempo prima che Masako possa tornare a svolgere attività pubblica - aveva detto il principe ereditario- Ha subito pressioni notevoli e inimmaginabili per chi vede le cose dall'esterno, soprattutto per quanto riguarda la successione al trono. Spero solo che dimentichi tutto e attendo senza fretta che si riprenda». In quell'occasione erano state diffuse le prime foto di Masako dopo la malattia. L’ex diplomatica è apparsa sorridente ma affaticata, a fianco del marito e della primogenita Aiko, data alla luce nel dicembre 2001.
aumentano i suicidi per depressione
dice la sua il prof. Giambattista Cassano...
Il Tempo 27.3.04
Depressione, aumentano i suicidi
di GIANCARLO CALZOLARI
LA DEPRESSIONE, la malinconia, la tristezza sono una componente fondamentale della nostra società. I molteplici stress della vita moderna acuiscono il disagio e le difficoltà. Favoriscono la depressione, oltre ad una certa predisposizione genetica, almeno così dice il professor Giambattista Cassano, uno dei «guru» della psichiatria, le esaltazioni giovanili delle notti in discoteca, i viaggi da un continente all'altro, l'eccessiva disponibilità e il conseguente consumo di superalcoolici, di sostanze stimolanti ed eccitanti, la maniacale convinzione che tutto adesso è permesso e lecito, oltre alla erronea sicurezza che in farmacia, o addirittura dall'erborista o dallo spacciatore dietro l'angolo sia possibile trovare il preparato che ci permette di raggiungere la felicità. Questa «vita spericolata» sempre sul filo del rasoio può essere, in molti casi, l'anticamera della depressione o della cosiddetta malattia bipolare, in cui alla lucida ipertrofia dell'Io fa seguito la più profonda delle angosce.
Adesso In Italia quasi tre milioni di persone richiedono al medico cure contro il «male oscuro». Al congresso medico di Verona dedicato a questi temi è stato annunciato che tra dieci anni circa la depressione costituirà la seconda causa di disabilità nel mondo. Al congresso veronese, dedicato ad una molecola «psichiatrica», la lamotrigina, è stato lanciato l'allarme suicidi, perché il 60-70% dei suicidi è commesso da depressi molto spesso giovani e in piena attività lavorativa. Sono più depresse le donne, in un rapporto da 10 contro 6. Per fortuna le donne muoiono meno in rapporto ai più numerosi tentativi di togliersi la vita. Per curare la depressione un malato spende in farmaci 578 euro l'anno di cui solo il 19% è a carico del servizio sanitario. I nuovi farmaci stabilizzatori dell'umore sono efficaci anche contro la malattia bipolare, oltre che contro la depressione, ma è importante anche una terapia psicologica d'appoggio. Per quasi un quarto degli uomini, in cui la depressione è associata all'impotenza, al recente congresso di Vienna sull'urologia è stata dimostrata l'efficacia indiscutibile del vardanafil (vivanza), uno dei nuovi tipi di viagra e anche della dutasteride, che riduce i disturbi e le dimensione della prostata, causa di pessima e deprimente qualità di vita. I nuovi stabilizzatori dell'umore, come la lamotrigina, hanno dimostrato inoltre di essere molto ben tollerati e sorattutto [sic!] non provocano nessun aumento di peso.
Depressione, aumentano i suicidi
di GIANCARLO CALZOLARI
LA DEPRESSIONE, la malinconia, la tristezza sono una componente fondamentale della nostra società. I molteplici stress della vita moderna acuiscono il disagio e le difficoltà. Favoriscono la depressione, oltre ad una certa predisposizione genetica, almeno così dice il professor Giambattista Cassano, uno dei «guru» della psichiatria, le esaltazioni giovanili delle notti in discoteca, i viaggi da un continente all'altro, l'eccessiva disponibilità e il conseguente consumo di superalcoolici, di sostanze stimolanti ed eccitanti, la maniacale convinzione che tutto adesso è permesso e lecito, oltre alla erronea sicurezza che in farmacia, o addirittura dall'erborista o dallo spacciatore dietro l'angolo sia possibile trovare il preparato che ci permette di raggiungere la felicità. Questa «vita spericolata» sempre sul filo del rasoio può essere, in molti casi, l'anticamera della depressione o della cosiddetta malattia bipolare, in cui alla lucida ipertrofia dell'Io fa seguito la più profonda delle angosce.
Adesso In Italia quasi tre milioni di persone richiedono al medico cure contro il «male oscuro». Al congresso medico di Verona dedicato a questi temi è stato annunciato che tra dieci anni circa la depressione costituirà la seconda causa di disabilità nel mondo. Al congresso veronese, dedicato ad una molecola «psichiatrica», la lamotrigina, è stato lanciato l'allarme suicidi, perché il 60-70% dei suicidi è commesso da depressi molto spesso giovani e in piena attività lavorativa. Sono più depresse le donne, in un rapporto da 10 contro 6. Per fortuna le donne muoiono meno in rapporto ai più numerosi tentativi di togliersi la vita. Per curare la depressione un malato spende in farmaci 578 euro l'anno di cui solo il 19% è a carico del servizio sanitario. I nuovi farmaci stabilizzatori dell'umore sono efficaci anche contro la malattia bipolare, oltre che contro la depressione, ma è importante anche una terapia psicologica d'appoggio. Per quasi un quarto degli uomini, in cui la depressione è associata all'impotenza, al recente congresso di Vienna sull'urologia è stata dimostrata l'efficacia indiscutibile del vardanafil (vivanza), uno dei nuovi tipi di viagra e anche della dutasteride, che riduce i disturbi e le dimensione della prostata, causa di pessima e deprimente qualità di vita. I nuovi stabilizzatori dell'umore, come la lamotrigina, hanno dimostrato inoltre di essere molto ben tollerati e sorattutto [sic!] non provocano nessun aumento di peso.
Mirò a Como
Repubblica, ed. di Milano 27.3.04
Magico Mirò lieve e surreale a Villa Olmo
CHIARA GATTI
Dal filo di lana può nascere un volto, da una piuma appesa a un pendolo un ritratto di danzatrice. Magico Miró. Nelle sue mani l´oggetto più banale si trasformava in poesia, mentre i suoi segni, misteriose scritture liberate nello spazio, inventavano storie di straordinaria levità. Come quelle protagoniste della mostra allestita nelle sale, fresche di restauro, di Villa Olmo a Como e che in 125 opere, fra dipinti, arazzi, sculture e grafiche, racconta gli ultimi vent´anni di attività del maestro catalano. Gli anni che soprattutto nelle ceramiche e nei bronzi (pezzo forte della rassegna svilito tuttavia da un allestimento un po´ stipato), vedono riemergere tutta la spontaneità creativa e l´energia scherzosa del suo periodo surreale. Ecco allora le donne d´argilla, metafore della vita come germinazione, ed ecco gli assemblaggi totemici, dove in bilico fra mestiere e divertissement, prendono forma testine dagli occhi strabuzzati e con le bocche serrate da piccoli chiavistelli. «Io sono di natura tragica e taciturna» diceva, « se c´è qualche cosa di umoristico nella mia pittura non l´ho cercato coscientemente». Un Miró paradossalmente tenebroso che attinse dunque all´inconscio primitivo del selvaggio e del bambino per creare un mondo ludico e solare. Mai nostalgico, ma lirico come i suoi pochi, calibratissimi segni grafici, capaci di tracciare sulla tela racconti fiabeschi, misti di memoria e immaginazione. Giunti dalla Fondazione Joan Miró di Barcellona, bronzi come Costellation silencieuse del ´70 e oli come La speranza del navigatore del '68, svelano la magia di un prestigiatore delle forme, in grado di trasformare sacchi di tela e gomitoli di lana in curiose fiabe della buona notte.
«Joan Miró. Alchimista del segno» Como, Villa Olmo, fino al 6 giugno. Orari: martedì, mercoledì e giovedì 9-20; venerdì
Magico Mirò lieve e surreale a Villa Olmo
CHIARA GATTI
Dal filo di lana può nascere un volto, da una piuma appesa a un pendolo un ritratto di danzatrice. Magico Miró. Nelle sue mani l´oggetto più banale si trasformava in poesia, mentre i suoi segni, misteriose scritture liberate nello spazio, inventavano storie di straordinaria levità. Come quelle protagoniste della mostra allestita nelle sale, fresche di restauro, di Villa Olmo a Como e che in 125 opere, fra dipinti, arazzi, sculture e grafiche, racconta gli ultimi vent´anni di attività del maestro catalano. Gli anni che soprattutto nelle ceramiche e nei bronzi (pezzo forte della rassegna svilito tuttavia da un allestimento un po´ stipato), vedono riemergere tutta la spontaneità creativa e l´energia scherzosa del suo periodo surreale. Ecco allora le donne d´argilla, metafore della vita come germinazione, ed ecco gli assemblaggi totemici, dove in bilico fra mestiere e divertissement, prendono forma testine dagli occhi strabuzzati e con le bocche serrate da piccoli chiavistelli. «Io sono di natura tragica e taciturna» diceva, « se c´è qualche cosa di umoristico nella mia pittura non l´ho cercato coscientemente». Un Miró paradossalmente tenebroso che attinse dunque all´inconscio primitivo del selvaggio e del bambino per creare un mondo ludico e solare. Mai nostalgico, ma lirico come i suoi pochi, calibratissimi segni grafici, capaci di tracciare sulla tela racconti fiabeschi, misti di memoria e immaginazione. Giunti dalla Fondazione Joan Miró di Barcellona, bronzi come Costellation silencieuse del ´70 e oli come La speranza del navigatore del '68, svelano la magia di un prestigiatore delle forme, in grado di trasformare sacchi di tela e gomitoli di lana in curiose fiabe della buona notte.
«Joan Miró. Alchimista del segno» Como, Villa Olmo, fino al 6 giugno. Orari: martedì, mercoledì e giovedì 9-20; venerdì
monomania
Repubblica, ed. di Bari 27.3.04
L´ANALISI
Lo studente modello omicida ci sono i segni premonitori
È una forma di monomania le cui caratteristiche portano i soggetti agenti a essere talvolta insolitamente eccitati e altre volte misantropi e chiusi
di NUNZIO SMACCHIA, criminologo
Viene chiamata monomania omicida l´azione di chi compie gesti impulsivi sotto la spinta dell´irresistibilità, soggiogato, spinto da un´idea, da "una voce interiore", come quella "sentita" dallo studente universitario di Brindisi, quando ha ucciso la nonna di 87 anni. Nel nostro caso è probabile che si possa parlare di furore maniacale senza delirio, derivante da una degenerazione della sfera emotiva-affettiva, una forma di pazzia impulsiva che ha coperto "il fuoco che covava sotto la cenere". Allo stato è difficile avere un´idea precisa o imputare all´immaginazione malata la causa scatenante della volontà omicida. L´azione omicida sembra occupare quella terra di nessuno che mette in risalto una condotta impulsiva e violenta in un quadro auto-etero distruttivo, i cui contorni non sono ben definibili in senso psicopatologico. La criminologia clinica si trova spesso di fronte a crimini "inspiegabili", la cui indecifrabilità è connotata dall´irrazionalità del comportamento, dalla particolare atrocità o, ancora, dall´impossibilità di comprendere le vere motivazioni sottostanti od inconsapevoli. La psichiatria in questi casi va alla scoperta di nuovi "elementi interpretativi", senza soffermarsi nella ricerca di differenze o peculiarità, trova non tanto una patologia precisa e specifica, ma, nascondendosi dietro l´incomprensibilità dell´atto, afferma l´esistenza di una malattia mentale. Nel nostro soggetto si è in presenza di furore maniacale senza delirio, di una sorta di follia istintiva, come viene denominata in psichiatria forense. Questo stato si presenta sotto forma di perversione e sfocia spesso nell´omicidio. E´ una lesione degli affetti, dei sentimenti, che è estranea al mondo etico dell´individuo. Consiste nella deviazione morbosa dei sentimenti naturali, delle inclinazioni, delle abitudini, senza alcuna lesione dell´intelletto o della capacità di comprensione e di ragionamento. E´ una forma di monomania omicida le cui caratteristiche portano i soggetti agenti ad essere talvolta insolitamente eccitati ed altre volte misantropi e chiusi, denunciando sintomi di una follia istantanea, segnata da uno scompenso psicopatologico momentaneo, brusco, con successiva completa remissione. Il primo atto di follia può essere un omicidio e il disturbo mentale può continuare o essere intermittente. Se l´atto riprovevole è l´omicidio, si tratta di follia istantanea, passeggera, transitoria. Un atto orribile come l´omicidio commesso senza causa, senza un reale ed apparente motivo di interesse, da un individuo i cui costumi e comportamenti sono stati fino a quel momento normali, non può che valutarsi come follia istantanea, monomania istintiva, alterazione repentina delle funzioni psichiche. Una forma di impeto nervoso, di durata più o meno breve, che altera le funzioni psichiche o scatena impulsi violenti ed irresistibili. E´ possibile che tutto questo si sia presentato come "il mostro" nella mente e nell´animo del gerontocida brindisino, armando la sua mano assassina.
L´ANALISI
Lo studente modello omicida ci sono i segni premonitori
È una forma di monomania le cui caratteristiche portano i soggetti agenti a essere talvolta insolitamente eccitati e altre volte misantropi e chiusi
di NUNZIO SMACCHIA, criminologo
Viene chiamata monomania omicida l´azione di chi compie gesti impulsivi sotto la spinta dell´irresistibilità, soggiogato, spinto da un´idea, da "una voce interiore", come quella "sentita" dallo studente universitario di Brindisi, quando ha ucciso la nonna di 87 anni. Nel nostro caso è probabile che si possa parlare di furore maniacale senza delirio, derivante da una degenerazione della sfera emotiva-affettiva, una forma di pazzia impulsiva che ha coperto "il fuoco che covava sotto la cenere". Allo stato è difficile avere un´idea precisa o imputare all´immaginazione malata la causa scatenante della volontà omicida. L´azione omicida sembra occupare quella terra di nessuno che mette in risalto una condotta impulsiva e violenta in un quadro auto-etero distruttivo, i cui contorni non sono ben definibili in senso psicopatologico. La criminologia clinica si trova spesso di fronte a crimini "inspiegabili", la cui indecifrabilità è connotata dall´irrazionalità del comportamento, dalla particolare atrocità o, ancora, dall´impossibilità di comprendere le vere motivazioni sottostanti od inconsapevoli. La psichiatria in questi casi va alla scoperta di nuovi "elementi interpretativi", senza soffermarsi nella ricerca di differenze o peculiarità, trova non tanto una patologia precisa e specifica, ma, nascondendosi dietro l´incomprensibilità dell´atto, afferma l´esistenza di una malattia mentale. Nel nostro soggetto si è in presenza di furore maniacale senza delirio, di una sorta di follia istintiva, come viene denominata in psichiatria forense. Questo stato si presenta sotto forma di perversione e sfocia spesso nell´omicidio. E´ una lesione degli affetti, dei sentimenti, che è estranea al mondo etico dell´individuo. Consiste nella deviazione morbosa dei sentimenti naturali, delle inclinazioni, delle abitudini, senza alcuna lesione dell´intelletto o della capacità di comprensione e di ragionamento. E´ una forma di monomania omicida le cui caratteristiche portano i soggetti agenti ad essere talvolta insolitamente eccitati ed altre volte misantropi e chiusi, denunciando sintomi di una follia istantanea, segnata da uno scompenso psicopatologico momentaneo, brusco, con successiva completa remissione. Il primo atto di follia può essere un omicidio e il disturbo mentale può continuare o essere intermittente. Se l´atto riprovevole è l´omicidio, si tratta di follia istantanea, passeggera, transitoria. Un atto orribile come l´omicidio commesso senza causa, senza un reale ed apparente motivo di interesse, da un individuo i cui costumi e comportamenti sono stati fino a quel momento normali, non può che valutarsi come follia istantanea, monomania istintiva, alterazione repentina delle funzioni psichiche. Una forma di impeto nervoso, di durata più o meno breve, che altera le funzioni psichiche o scatena impulsi violenti ed irresistibili. E´ possibile che tutto questo si sia presentato come "il mostro" nella mente e nell´animo del gerontocida brindisino, armando la sua mano assassina.
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