martedì 14 ottobre 2003

Marco Bellocchio:
una nuova breve intervista è andata in onda su RaiTre

CINEMA: BELLOCCHIO ANNUNCIA NUOVO PROGETTO CON CASTELLITTO
Adnkronos 13/OTT/03 - 16:49
(ricevuto da Andrea Mancini e Simonetta Pitzalis)

Roma, 13 ott. (Adnkronos) - Si intitola ''Il regista di matrimoni'' il nuovo progetto cui sta lavorando Marco Bellocchio. Il regista lo ha rivelato nel corso di un'intervista a ''Off Hollywood- Rai Educational'', in onda domani [oggi, per chi legge. ndr] alle 0.36 [o 0.50] su Raitre. Il film avra' per protagonista Sergio Castellitto, gia' attore per Bellocchio di 'L'ora di religione". Nel corso dell'intervista, il regista ha anche spiegato di aver accantonato il progetto del "Mercante di Venezia". Il regista e' tornato poi a parlare delle polemiche sulla Mostra del cinema di Venezia che ha lasciato senza premi il suo "Buongiorno, notte". Bellocchio, rispondendo alle accuse di Nanni Moretti all'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto: «Moretti e' un bravo politico ma lasci perdere i moralismi. Io e Nanni siamo divisi da molte cose. Io non appartengo a nessuna lobby e non partecipo neppure alle votazioni per i David di Donatello». (Ken/Cnz/Adnkronos)

Libertà 14.10.03
Rivelazione a Rai educational
Bellocchio: mai più a un concorso


ROMA. «Mai più ad un concorso». Lo dice Marco Bellocchio, nonostante la calorosa accoglienza ricevuta da Buongiorno, notte al New York Film Festival, in un'intervista esclusiva che sarà proposta oggi a “Off Hollywood”, il programma di Rai Educational in onda alle 0.36 [o 0.50] su Raitre che in occasione delle celebrazioni del Columbus Day proporrà una puntata speciale da New York. «Aveva ragione il mio amico Bertolucci quando mi consigliò di lasciar perdere la gara», sottolinea Bellocchio in gara alla Mostra di Venezia. «Se ho perdonato i giurati di Venezia? Delusione grande ma per me il caso è chiuso. I riscontri da Rio, Londra, Toronto e New York contraddicono chi sostiene che la storia è solo “italiana”».

che cosa aveva detto Moretti:

Yahoo Notizie, giovedì 2.10.03
Cinema, Moretti: ''Vergognosa la dichiarazione di Leone a Venezia''
di Marcello Giannotti


Roma, 2 ott. - (Adnkronos) - Un po' in ritardo ma alla fine gli strali di Nanni Moretti sulla Mostra del cinema di Venezia sono arrivati. Non sui film presentati o sull'organizzazione ma sul doppio concorso, sulla cerimonia di premiazione e, soprattutto, sulle proteste di Rai Cinema rispetto al verdetto della giuria che ha 'bocciato' 'Buongiorno, notte' di Marco Bellocchio. ''Sono particolarmente imbarazzato -spiega Moretti in un'intervista al mensile 'Ciak'- perche' ho sempre lavorato bene con Rai Cinema avendo per di piu' scelto, per principio, di non lavorare con Mediaset o Medusa. Ma trovo la dichiarazione di Leone ridicola e vergognosa'', dice il regista che e' stato presidente della Giuria a Venezia nel 2001. All'indomani del verdetto, l'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto che dal prossimo anno i titoli di Rai Cinema non andranno piu' al Lido. ''Non so con quale giravolta fara' l'inevitabile marcia indietro -dice Moretti riferendosi a Leone- ma purtroppo ha appannato l'immagine non solo della Mostra appena finita ma anche delle prossime edizioni. Se in futuro ci dovesse essere un premio importante a un film italiano ci si chiedera' infatti se sara' stato assegnato perche' lo meritava veramente o perche' gli apparati statali e parastatali avranno definitivamente 'italianizzato' la Biennale con quel che ne consegue. Da regista, produttore e spettatore -spiega Moretti, impegnato nella scrittura del suo nuovo film con Heidrun Schleef- resto comunque per la competizione, in concorsi garantiti da giurie qualificate e indipendenti''. Poi l'attacco a come la Mostra e' stata vista dai media e al doppio concorso: ''Ho visto in tv qualche trasmissione pietosa con ospiti che dicevano insensatezze sul cinema, sui giornali poco spazio per i film e troppo per le cavolate -dice Moretti in un'intervista pubblicata sul mensile 'Ciak'- E la peggior premiazione da molti anni a questa parte. E poi i premi sono troppi, eliminerei il secondo concorso''.

citati al Lunedì

(...oltre alla bella trasmissione "Ritratto d'Autore" con Marco Bellocchio, di venerdì 10.10 su Skay - adesso disponibile, oltre che in visione presso la libreria AMORE E PSICHE di Roma, anche sul web all'indirizzo http://www.mawivideo.it -, e al pessimo inserto su "Buongiorno, notte" pubblicato sul supplemento (Alias) del manifesto dell'11.10)

Repubblica sabato 11.10.03
L' orribile commedia dell' affare Moro
FRANCO CORDERO


L' affare Moro, evocato da "Buongiorno, notte", ha riacceso vecchie dispute, placate le quali, mi permetterei di fissare qualche punto. Cominciando da uno incontrovertibile: la colpa dello Stato nell' avvenimento che insanguina via Fani, angolo Stresa, giovedì mattina 16 marzo 1978, ore 9.15, quando nove brigatisti l' aspettano al varco: eccolo sulla solita 130 blu, seguito dall' Alfetta bianca; una 128 le supera, converge a destra, frena; gli otto appostati sparano sulle vetture imbottigliate ammazzando l' intera scorta con ragguardevole precisione, visto che lui esce incolume; se ne impadroniscono; lo portano via in barba alle polizie che accorrono inutilmente sul luogo, anziché sciamare sui possibili percorsi della fuga. Gli uccisi erano bersaglio d' un tiro a segno, sagome inerti. Quanto al rapito, sarebbe stato meno pericoloso andare in taxi o sull' autobus. Le Brigate rosse appartengono al bestiario italiano: uccidono da qualche anno; Aldo Moro costituiva la massima preda, fautore d' intese larghe fino alla graduale inclusione del Pci nell' area governativa, quindi odiato dagli estremisti hinc inde, 10 anni prima che cada il Muro; e non dimentichiamolo, presidente in pectore della Repubblica. Insomma, era molto esposto; bisognava difenderlo; quanto male vi provvedessero i responsabili, consta dall' assurda strage. Altrettanto ovvia la seconda conclusione: non l' hanno protetto; sta in mano ai sequestratori; lo salvino. L' indomani nasce un comitato interministeriale, le cui 7 riunioni pesano meno d' una giaculatoria. Nel Viminale un' équipe presieduta dal ministro tiene riunioni quotidiane, poi trisettimanali, senza verbali né appunti: anziché agire, gli apparati inscenano le frenesie d' un corpo senza cervello; spiegamenti pour épater le bourgeois; viene il dubbio che non lo cerchino. Esce una fotografia dalla "prigione del popolo". Terzo capitolo. Nella prima lettera, giovedì 29, il recluso ventila negoziati. No, esclamano i virtuosi: lo Stato non siede al tavolo dei terroristi assassini, e commettono una cosiddetta "ignorantia elenchi": vizio piuttosto diffuso, consiste nell' evadere dai termini della causa; "prouver autre chose que ce qui est question" (Arnauld e Nicole, Logique de Port-Royal, III.19.1). L' argomento varrebbe se, trattando, l' autorità abdicasse: ad esempio, quel telegramma 28 ottobre 1922 dal Quirinale a Benito Mussolini; ma le Brigate rosse non la riconoscono né chiedono riconoscimenti. Nel loro universo fantasmagorico l' unico rapporto possibile con le diaboliche sovrastrutture borghesi è guerra senza quartiere: avendo sequestrato un nemico importante, intendono scambiarlo con dei detenuti, uomini loro; altrimenti morrà. Dal punto di vista dello Stato, classica estorsione: può resistere o subirla, riservandosi il rendiconto; vince il più forte; sono partite tra ordinamenti incompatibili. Il giovane Cesare ne sbriga una, anno 75 a.C.: navigando verso Rodi, alla scuola del retore-grammatico Molone (rectius Apollonio), cade in mano ai pirati; la sua vita vale 50 talenti; li paga sull' unghia; riparte, arma una piccola flotta, insegue i rapitori, li cattura e impicca. A parte il supplizio, così agiscono gli Stati rispettabili, dove manchino alternative. Inutile dire quale sia l' auspicabile, irrompere nel covo. Se al Viminale sedesse Giolitti (s' era sempre tenuto gl' Interni), non vi penserebbe due volte. In spregio alle norme? Nossignori, nel codice penale esiste l' art. 54: fatti previsti come reato (a esempio, aprire le porte ai detenuti fuori dei casi legittimi) diventano leciti ("scriminati") ogniqualvolta l' autore vi sia "costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale d' un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile". Come minimo, i negoziati mangiano tempo, guadagno netto dove esistano organi efficienti. Qui non lo sono. Dura 55 giorni la bancarotta poliziesca. L' ex-oratoriano Fouché, ministro napoleonico, risolveva casi simili in poche ore. Siamo al quarto punto, orribile commedia. Moro penalista era scrittore nebuloso. L' uomo politico coltivava un lessico ermetico in frasi lunghe, sinuose, a taglio multiplo, sul filo del nonsense (le famose "convergenze parallele"). Nella "prigione del popolo" cambia stile. Sono chiarissime le 8 lettere edite, l' ultima all' allora presidente della Repubblica, 4 maggio, quando gli restano solo più 5 mattine. Sciolti i sottintesi, il discorso suona così: "Possibile che nessuno scovi la mia prigione?; allora riscattatemi; il mio sangue non giova a nessuno; lo espiereste". Non è più lui, rispondono i santoni: l' autentico Aldo Moro era uno statista; i verbi all' imperfetto mandano rintocchi funebri; e quanto più disperatamente ragiona, tanto meno l' ascoltano; lo seppelliscono vivo. Hieronymus Bosch ha dipinto tali maschere nella salita al Calvario. Mentre i Tartufi fingono compassione, dei rigoristi gliela negano: non piagnucoli come un povero diavolo qualunque; gli uomini al potere hanno privilegi e responsabilità. Massima romana, ma diversamente da Attilio Regolo, costoro fanno gli eroi sulla pelle altrui. Fioriscono vari teoremi. A esempio, deve morire perché sono morti i cinque: "le mort saisit le vif"; discorsi degni delle Erinni, spiriti infernali incombenti su Oreste prima che Atena l' addomestichi. «Il contrappasso non c' entra», direbbe la dea protoilluminista: «avevano un compito, difenderlo dalle aggressioni; non era comoda sinecura; sia colpa loro o dei superiori, non l' hanno adempiuto; riposino in pace; salvate lui piuttosto». Nella primavera italiana 1978 rombano retoriche funeree sorde all' intelligenza illuministica. Poi, articolo quinto, vengono i brigatisti. Il colpo in via Fani era una quaterna al lotto. Hanno l' occasione irripetibile: l' establishment svela miserie, infamie, stupidità; che colpo sarebbe dire al prigioniero «sei libero», gratis. Paolo VI li esorta nell' appello 21 aprile: "Restituite l'onorevole Aldo Moro; liberatelo semplicemente". Anche Sua Santità avalla la linea dura? Sarebbe un avallo incongruo e l' espertissimo curialista non commette gaffes simili. Se vuol persuadere i brigatisti, l' appello va letto così: sinora hanno tenuto lo Stato in scacco; non buttino via la vittoria. L' enorme prestigio acquisito con una mossa da signori benevoli vale più d' ogni riscatto. Dicono d' essere in guerra con gl' imperialismi: liberando Moro, scatenano pandemoni nei santuari del potere; l' atto omicida serve solo a chi, avendo giocato la carta mortuaria, sbiancherebbe vedendoselo davanti, altro che Lazzaro. Discorso molto persuasivo se i destinatari capissero. Che teste abbiano, lo dicono i 32 capitoli della "Risoluzione strategica" annessa al comunicato n. 4, 4 aprile, asfissiante logorrea sulla guerra civile antimperialista. Nessun dubbio sull' anamnesi: discendono dal chiericato marx-leninista, un filone eretico, onniscienti come ogni chierico; senonché l' infallibile dottrina non spiega come gestire Moro, né possono insistere nel sequestro; faute de mieux, l' ammazzano. Stupidità macabra. L' ultimo capitolo tocca l' attuale teatro italiano dell' assurdo. L' allora ministro degli Interni era irremovibile sulla linea ferma, uno dei due nella Dc (lo ricorda senza pentimenti: intervista al Corriere, Sette, 18 settembre). Cosa v'aspettereste? Che esca umilmente dal giro, e altrove succede. Qui no: l' enorme défaillance lo lancia alle stelle; nei 7 anni seguenti presiede il consiglio, poi la Camera alta, infine sale al Quirinale, eletto trionfalmente. Svanisce l' equivoco "compromesso storico": Spadolini, Craxi, ancora gabinetti democristiani, equilibrio instabile, finché il sistema consociativo implode, consumato dal malaffare (i processi sono effetto, non causa); e dal rimescolìo salta fuori l' affarista plutocrate, creatura della defunta consorteria. L' Italia riaffonda, stavolta sotto un regime personale la cui bancarotta politica appare prossima, ma la ronda seguiterà se non cambia qualcosa nei cromosomi.

Repubblica sabato 11.10.03
Il regista esplora i meandri dell' amicizia e dell' erotismo negli anni della contestazione
Bertolucci, il Sessantotto dedicato a chi non c' era
Tre ragazzi scoprono l' amore, mentre in strada scoppiano le prime molotov
di PAOLO D' AGOSTINI


L' ha fatto per sé e per chi era giovane nel ' 68, oppure per i ragazzi di oggi? Non importa tanto rispondere a questa domanda (ma l' autore vuole interessare la gioventù odierna, stimolarne la curiosità: e ci riuscirà, perché il tema universale è quello dell' essere giovanissimi), quanto dire che Bernardo Bertolucci ha fatto un film importante. Denso, profondo, poetico: come, così compattamente, non gli accadeva da un pezzo. I sognatori racconta il "prima" di ciò che ha portato a quel "dopo" le cui estreme conseguenze stanno dentro il film fratello Buongiorno, notte del regista fratello Marco Bellocchio che dal 4 settembre raccoglie allori in giro per l' Italia e il mondo. Neanche quest' accostamento - quello tra le prime molotov e le Brigate rosse - piace a Bertolucci. Ma non racconta né mostra, se non al minimo indispensabile, cortei né bandiere, slogan né sassaiole. Ha scelto, per questo suo prima della rivoluzione 39 anni dopo il film giovanile così intitolato, una chiave intimista, ossessivamente "chiusa" all' esterno (alla strada: lo slogan che alla fine gridano i manifestanti del Maggio sorgente è "dans la route") e claustrofobica. Torna in mente Ultimo tango? Non a torto: i due appartamenti si somigliano, ma non c' è ombra di cinica ricerca di rilancio dello scandalo di allora. Nella primavera parigina dell' anno che nessuno sapeva ancora destinato a diventare "il ' 68" si conoscono lo studente americano che più americano di provincia non si può Mathew, e la coppia di fratello e sorella parigini Theo e Isabelle. Li unisce la passione viscerale per il cinema, la frequentazione - primissime file, come si conviene a un cinéphile doc - della mitica Cinématèque diretta dal mitico Langlois. Che proprio sotto i loro occhi, e furono i prodromi del "Maggio", viene rimosso dall' incarico provocando un imponente schieramento di solidarietà da Godard a Carné. I due ragazzi borghesi, legati da un amore morboso ma anche da un' intelligenza vivida, una sensibilità speciale, un vitalismo incoercibile, coinvolgono lo yankee in una convivenza scioccante e rivelatrice. L' esplorazione dei meandri dell' amicizia e dell' erotismo farà di lui un' altra persona, spregiudicata e più matura. Ma, quando alle ultimissime battute la "strada" non potrà non richiamarli, sarà lui a capire subito, e non i due sofisticati intellettuali (e, ahinoi, quanti come loro), che le barricate e le bottiglie incendiarie non promettono nulla di buono, a sapere che il rifiuto dell' autoritarismo e la non violenza si fanno ottima compagnia.

Repubblica mercoledì 8.10.03
"Contro i revisionisti racconto il meglio del '68"
Il regista parla di "The Dreamers" che uscirà venerdì in 350 sale
compromessi Ideologia oggi è una parolaccia, riformismo da insulto è diventato il target da raggiungere
L'atmosfera Allora la politica si legava al sesso, al cinema, al rock'n'roll e ai primi spinelli
di Paolo D'Agostini


(già citato anche al Mercoledì)

ROMA - Si poteva coltivare un pregiudizio negativo su I sognatori, si poteva pensare a un film preoccupato soprattutto di rinnovare il sapore della provocazione e dello scandalo di Ultimo tango, una brutta copia, invece la nuova opera di Bertolucci è molto bella, densa, poetica. «E autonoma. Mi fa piacere di aver deluso questo pregiudizio. Non c'è niente di vicino se non il fascino che hanno per me gli interni delle case haussmaniane a Parigi. Lì come qui sono importanti: i muri fanno parte del racconto».
Il '68 del film è la scoperta del sesso e del cinema, della libertà nei comportamenti. Molto meno della politica.
«La politica accade fuori da loro, per le strade. In quelle poche uscite dalla claustrofobia sentiamo che qualcosa sta nascendo ed esploderà. Non potevo immaginare di fare un film sul '68 con le assemblee e gli slogan. A me interessava l'atmosfera che io sentii allora. La politica era una delle cose insieme a cinema, rock, sesso, le prime "canne". Nel mio '68 non c´era il predominio della politica».
È l'aspetto che è sopravvissuto meno, il resto ha lasciato il segno.
«Quando qualcuno dei protagonisti di allora deluso parla del fallimento del '68 si riferisce al sogno della rivoluzione. Mentre tutti questi revisionisti che vogliono buttare il '68 nell´immondizia non ricordano che tutto il mondo che viviamo oggi è stato immaginato nel '68. Dove è cominciata la trasformazione totale dei rapporti tra le persone? Io ero già adulto e ricordo bene un'Italia di piccole autorità, dovunque c'era qualcuno che ti diceva "silenzio, torna a posto"».
Un messaggio da trasmettere ai ragazzi di oggi, a chi non c'era?
«Assolutamente sì. Proprio perché dal momento in cui è caduto il Muro di Berlino si è cominciato a disprezzare la parola ideologia, c'è stata anche la caduta di interesse per la politica. Se la politica viene privata dell'ideologia diventa una disciplina per tecnici, e interessa molto meno. Oggi ideologia è una parolaccia. Mentre quello che era l'insulto del '68 è diventato il target da raggiungere, il riformismo. Madonna mia, quanti compromessi».
Come in Prima della rivoluzione anche qui si racconta una vigilia. Un "prima" il cui "dopo" ha condotto a ciò che racconta Bellocchio.
«Non mi sembra giusta l'equazione molotov-terrorismo. Non identificherei la molotov del finale del film con le Br. Marco non lo dice ma è tutto ancora terribilmente oscuro quello che è accaduto in quei giorni del rapimento, del processo, dell'esecuzione di Moro, io sento tremenda la presenza di servizi segreti. Qualcuno tra i brigatisti ha preso una strada molto losca. Io ero a Valle Giulia. Abitavo al Babuino, guardo giù e vedo il corteo avviato ad Architettura, scendo e mi unisco. Ho visto bruciare i pullman della Celere, ho visto i "cari studenti vi odio cari studenti" di Pier Paolo, ho preso una sassata da un poliziotto. Sarebbe come dire che non si può usare il fornello a gas perché è stato usato per l'Olocausto. Quelli che di più demonizzano il '68 lo fanno per ragioni strumentali legate al presente politico».
Quale dei suoi film più ha espresso lo spirito di quel momento?
«Credo proprio Prima della rivoluzione, che è del ´64. Per questo io nel '68, avendo vissuto quel tipo di emozione qualche anno prima, non potevo partecipare come hanno fatto amici e colleghi, quel tipo di estremismo era già consumato. Questo mi ha portato a momenti di tensione con Godard e con Bellocchio che erano procinesi militanti - La chinoise, La Cina è vicina - ed ero così irritato dal loro anticomunismo da sinistra che mi sono iscritto al Pci».
Quanto è significativo che alla fine quello dei tre personaggi che fa proprio il più autentico spirito del '68 sia proprio l'americano, in partenza è il più distante ed estraneo?
«Perché la sua non violenza era quella degli hippies ed era tipicamente americana. I loro falò dove bruciare le cartoline di richiamo per il Vietnam. Sorprende perché oggi gli americani appena possono dichiarano guerra a un paese, i francesi invece si tirano fuori. Io credo che questo sia anche un film sul presente. Tenevo molto che questi tre ragazzi, gli attori, restassero loro stessi. Un giovanissimo giornalista mi ha detto: questo è un film su di noi, io con Internet sto sempre in casa, come vorrei anch'io vivere quelle emozioni. Mi piace se i giovani lo sentono così».
Quindi il film soddisfa il desiderio che a varie riprese aveva espresso di tornare al presente: a partire dal suo giudizio sull'Italia politica di oggi, e sui movimenti di dissenso del presente?
«Io avevo molto desiderato di chiudere Novecento con un terzo atto sull'Italia dalla fine della guerra alla fine del secolo. Ma mi sembrava un falso. Novecento era nato in un momento speciale, di tensione ideale, che sarebbe stato stroncato dalla morte di Berlinguer e dal delitto Moro. Ho deciso di lasciar perdere. Quando ho letto questo libro di Gilbert Adair mi sembrava che contenesse una visione poetica così affascinante di quegli anni, quasi a riempire in me un buco lasciato dalla rinuncia a Novecento. Ho una specie di frenesia di fare un film sul presente, anche se il prossimo sarà quello su Gesualdo, finalmente. Ma anche lì giocherò molto sul presente-passato. C'è Stravinsky nel '51 a Napoli con sua moglie Vera che va a visitare i luoghi di Gesualdo, la casa di Napoli e il castello a Venosa. Per lui ascoltare Gesualdo nel contesto della musica del '500 è come, dice, vedere Picasso sulle mura della Sistina. Più sono attratto da storie che avvengono tanto tempo fa e più sento che devo arrivare a quel tanto tempo fa attraverso un cordone ombelicale legato all'oggi. Mi sono completamente arreso al fatto che l'unico tempo del cinema è il presente, perché la macchina filma il presente anche se davanti cè limperatore della Cina. Ti trovi davanti il presente di quei visi, quei corpi, quel giorno. Il cinema si coniuga solo al presente».

"psicoterapia" di guerra

Corriere della Sera 14.10.03
AL FRONTE
Il Pentagono arruola psicologi per curare il male oscuro dei soldati
Dopo 13 casi di suicidio, allarme per la stanchezza delle truppe in prima linea


(...)
C'è il fuoco nemico. Quello «amico» di chi uccide per errore un compagno in combattimento. E quello «molto amico» di chi decide di farla finita. E' la piccola storia di Corey Small, 20 anni, sposato, con una figlia di due. L'ha raccontata Usa Today: il 3 luglio in una base di Bagdad il soldato Small si è sparato un colpo alla testa dopo aver chiamato casa, davanti ai commilitoni in coda al telefono. Come lui, secondo i dati diffusi dallo Stato Maggiore della Difesa, negli ultimi sette mesi almeno 10 soldati e tre marines si sono tolti la vita in Iraq. Altri dodici decessi «sospetti» sono sotto inchiesta. Su base annua corrisponde a 17 suicidi ogni 100 mila militari. Di solito nelle forze armate (come nella popolazione civile) il tasso è di 10-13.
Nel 2002 è stato di otto. Quest'anno il doppio. L'Iraq peggio dell'Afghanistan. Dati che hanno indotto il Pentagono a inviare un team di dottori per indagare sul morale delle truppe. Un contingente di psicologi, psichiatri, assistenti sociali ha fatto parlare a ruota libera un campione di 700 soldati.
(...)

grandezza della psicologia anglosassone:
no all'innatismo, in un mese tutti ottimisti!

Gazzetta del Mezzogiorno 14.10.03
Lo psicologo inglese Richard Wiseman: bisogna alimentare un “circolo virtuoso” dell'ottimismo
Fortunati non si nasce, si diventa
Una scuola insegna a interpretare positivamente gli eventi
di Luisella Seveso


Fortunati si diventa: nessuno nasce con la camicia, ma si comporta in modo tale da “attirare” gli eventi positivi. Cosa aiuta? L'intuito, la serenità, la socievolezza e anche un bel sorriso. Lo sostiene (e lo motiva) un autorevole psicologo inglese, Richard Wiseman, dell'Università dell'Hertfordshire. Autore di importanti ricerche in campo psicologico (solitamente pubblicate da riviste del calibro di “Nature” o “Science”), Wiseman non è nuovo a esperimenti originali. Ha, tra l'altro, realizzato un “laboratorio della risata” on line , raccogliendo tra i navigatori oltre 100.000 barzellette per scoprire l'essenza dell'umorismo. Insieme con un altro grande divulgatore, Simon Singh, ha scritto e portato in scena uno spettacolo a metà tra scienza e cabaret: «Il teatro della Scienza». In questi anni Wiseman si è fatto inoltre promotore di un curioso esperimento scientifico condotto con il suo staff su oltre un migliaio di «sfortunati Paperini» e «fortunatissimi Gastoni» (nella foto gli straordinari personaggi Disney) . L'esperimento si è tradotto in un saggio di grande successo: «Fattore fortuna» (Sonzogno). Wiseman svela quelli che lui considera i quattro princìpi per imparare a essere fortunati (cogliere le opportunità offerte dal caso; seguire l'istinto; essere ottimisti; trasformare la sfortuna in fortuna). Un vero e proprio corso con esercizi, questionari, schemi e verifiche. Provare per credere. – Come è nata, dottor Wiseman, questa “scuola di fortuna”? «È successo che mi sono accorto che in tutti i colloqui che facevo emergeva spesso il fattore fortuna, al quale le persone davano un gran peso. Al contrario né la psicologia né la scienza gli attribuivano invece qualche importanza. Ho deciso allora di indagare». – Perché sostiene che non si nasce fortunati? «Ho iniziato questa ricerca perché volevo far piazza pulita di un'idea molto diffusa tra la gente: che la fortuna sia un fatto genetico e che non si possa far niente per modificare questo stato. Invece con un po' di impegno si può fare moltissimo». – Che significa «trasformare la sfortuna in fortuna»? «Le persone fortunate, quando parlano della propria vita, sostengono di non aver mai vissuto eventi fortemente negativi. Indagando ci si accorge invece che anche loro ne hanno avuti, ma che hanno saputo tradurli in qualcosa di positivo». – L'ottimismo è fondamentale, evidentemente, ma per un pessimista cambiare è molto difficile. «Vero. Ecco perché, come dico nel libro, ci vuole almeno un mese per ottenere i primi risultati. La cosa importante però è che il cambiamento si autoalimenta, l'importante è fare un primo sforzo. Basta in effetti cercare di vedere con più ottimismo anche una piccola parte della propria vita, e le cose lentamente cambiano. L'ho verificato nella mia “Luck school”: un piccolo lento cambiamento alimenterà un circolo virtuoso dell'ottimismo».

Ernesto De Martino

Il Mattino di Napoli 14.10.03
CICLO DI INCONTRI A MATERA E POTENZA
De Martino,
le apocalissi a Mezzogiorno
di Corrado Ocone


A cinquant’anni esatti dalla missione di Ernesto De Martino (1908-1965) nelle terre di Lucania, l’Università della Basilicata ha avuto la splendida idea di ricordare il grande antropologo con una serie di conferenze che si si svolgeranno fino al 7 novembre fra Matera e Potenza (con Massimo Cacciari, Ernesto Galli Della Loggia, Antonino Buttitta e Giovanni Jervis). Il titolo del ciclo, «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche», riproduce fedelmente quello di un saggio che De Martino pubblicò nel 1964 su «Nuovi argomenti». È certamente un titolo pregnante, che testimonia una precisa scelta prospettica da parte degli organizzatori. Tanto più necessaria nel caso di una personalità poliedrica e non facilmente riducibile quale è stata quella dello studioso napoletano.
Al tema dell’apocalissi, cioè dell’attesa di un cambiamento radicale del mondo, De Martino lavorò nella fase più matura della sua vita di pensatore, quella che comincia nel 1959, l’anno in cui diventò professore di ruolo di Storia delle religioni nell’Università di Cagliari. È una tematica particolarmente attuale anche perché mette in gioco il rapporto fra la civiltà occidentale e le culture altre. È essa che permette a De Martino di elaborare la prospettiva dell’«etnocentrismo critico», che, con i dovuti accorgimenti, è sicuramente valida ancora oggi. Essa consiste in un modo di guardare la realtà che evita sia l’etnocentrismo classico di chi ritiene che i valori della nostra cultura siano da considerarsi «superiori» in assoluto e vadano senz’altro imposti alle altre civiltà, sia il relativismo di chi ritiene che ogni civiltà abbia valore in sé e vada rispettata e non giudicata con parametri di valore suoi non propri. Per de Martino è necessario certamente, da una parte, che la civiltà occidentale si storicizzi e faccia costantemente autocritica, ma anche, dall’altra, che essa non rinunci a denunciare le culture che contraddicano palesemente quei valori umanistici e di tolleranza che sono iscritti nel suo Dna.
De Martino, come ha messo in evidenza magistralmente Giuseppe Galasso, aveva subito profondamente, da giovane, attraverso Adolfo Omodeo, l’influsso crociano. Egli tuttavia, troppo curioso del mondo quale era, non si pose come epigono o ripetitore. Con la sua trasversalità di interessi, anche metodologici e disciplinari, De Martino andò anche oltre l’immagine crociana del «discepolo non inerte». Prese semplicemente altre strade. E discusse da pari a pari col Maestro, che, ormai vecchissimo, cominciò a dubitare, grazie anche all’influsso del giovane allievo, della saldezza e universalità delle sue categorie. Il ragionamento di De Martino era suppergiù questo: le categorie individuate da Croce, lungi dall’essere delle strutture universalmente umane, sono storicamente condizionate e determinate. E, prima dell’ambito razionale, c’è il campo prelogico della vita vissuta. In questa dimensione, l’umanità ha vissuto per lungo tempo, agli inizi della sua avventura, e vive oggi ancora in molte civiltà non occidentali. Non solo: la stessa nostra civiltà conserva tracce di «primitivismo», che vanno studiate e capite se si vuole afferrare veramente l’umano.
Il Sud, da questo punto di vista, offriva a De Martino un privilegiato terreno di indagine. In esso persistono vecchie tradizioni magico-religiose, di origine probabilmente pagana, che il cattolicesimo non ha saputo superare e ha dovuto, in qualche modo, integrare. Utilizzando strumenti di documentazione e analisi di tipo moderno, De Martino compì, negli anni Cinquanta, con una équipe di studiosi di varie discipline, tre missioni scientifiche nelle terre del Sud: una nel Salento, per cercare di capire il tarantismo, due in Lucania per studiare il complesso mitico-rituale delle fascinazione e le persistenze del pianto funebre. Il documentario «Nei giorni e nella storia», realizzato dalla Rai e presentato ieri pomeriggio all’Università di Matera, dà testimonianza proprio degli «itinerari lucani» dell’antropologo.

Manoel de Oliveira è a Roma

il manifesto 14.10.03
Manoel de Oliveira, il cinema e l'utopia
Un secolo di grande cinema, dal muto alla «globalizzazione». Premio Filmcritica 2003, il regista portoghese Manoel de Oliveira è a Roma. Ha affascinato l'Europa cercando di emulare, nella scrittura visiva, Camoes e Pessoa. E, a 95 anni, sarà presto sul set
di ROBERTO SILVESTRI


ROMA. Ogni film realizzato, dal `31 ad oggi, da "Aniki Bobo" a "Un film parlato", una sorpresa. Difficile intrappolarlo in una definizione, come quasi tutti i cineasti ribollenti che piacciono a Filmcritica, la più eccentrica rivista italiana, a tutt'oggi, di cinema. E che, dopo Clint Eastwood e Paul Scharder, assegna domani il suo premio annuale a Manoel de Oliveira, portoghese di Porto, classe 1908, autore di capolavori come "Il passato e il presente", "Amore di perdizione", "Benilde o la vergine madre". Oggi, alle ore 12, in cerimonia solenne al Campidoglio (nella adattissima sala Pietro da Cortona dei musei Capitolini, dedicata a uno dei tre grandi architetti della Roma barocca) l'assessore Gianni Borgna (è un cinephile poco hard il sindaco-critico Walter Veltroni?) gli consegnerà il premio Filmcritica. La vacanza romana del cineasta (ex atleta, per anni campione di canotaggio) è iniziata il 12, al teatro Argentina, quando ha presentato, applauditissimo sia prima che dopo la proiezione, la sua ultima opera, "Un filme falado" (Un film parlato) reduce dal concorso di Venezia e acida e crudele metafora della globalizzazione criminale.

Cineasta di idee e di passioni forti, Manoel de Oliveira è forse il più rosselliniano dei cineasti europei di oggi, per la serietà e libertà con la quale costruisce, sempre come «work in progress», i suoi elaborati giochi, «play» elisabettiani di straordinaria tensione e, coraggiosamente, sempre sull'orlo dell'abisso. Forse fin troppo emozionante la sua tastiera creativa, almeno per il pubblico accecato da piaceri schermici piccoli piccoli....

Diciamo che Manoel de Oliveira fa film d'avventura. Ma per adulti. E piuttosto profondi per i cine-burocrati che ci circondano abitualmente tra Rai e Cinecittà. In Italia non farebbe un film. Le sue sono avventure di profondità nella cultura e nella storia lusitana, nei riti popolari, nella fatica del lavoro salariato (Douro), nell'anarchia dei poetici ragazzi portegni, nella insorgenza delle donne (Benilde), nella scrittura sopraffina che cerca di emulare, con immagini degne di Camoes, Camilo Castelo Branco, Pessoa... Mai esotico, mai fiabesco, mai consolatorio. Artista concettuale? No, sarebbe troppo limitativo per una carriera sfavillante durante gli anni settanta, ma iniziata con il muto e ammutolita dal fascismo salazariano illetterato, e molto segnata dal formalismo sovietico e dalle avanguardie storiche, poi dispiegata interamente, dopo la rivoluzione dei garofani, al ritmo di un film all'anno, fino a oggi. Grazie anche all'appoggio di un produttore mecenate del calibro e dell'intelligenza di Paulo Branco.

Arzillo novantacinquenne, oggi, de Oliveira è in già procinto di tornare sul set, argomento il «mito di re Sebastiano», il sovrano scomparso sul campo di battaglia per difenderci dai Mori....Certo che i suoi film rischiano sempre di essere «troppo» letterari, teatrali, addirittura operistici, «fredde riproduzioni», fiancheggiatori, come sono, di drammi, melodrammi, classici, rappresentazioni sacre o romanzi di alta qualità. E invece Manoel de Oliveira, nato in una metropoli dall'architettura granitica e barocca, è proprio così, un regista contemporaneamente rarefatto e disumano, fino alla trascendenza formale, e contemporaneamente sensuale, passionale, commuovente, ironico, sarcastico, di umorismo «celtico»: un alchimista che lavora i materiali di partenza trasformando e «reificando» tutto, fino a renderle «il verbo carne cinematografica».

Insomma è indocile alle imbragature d'autore, alle costanti stilistiche d'origine controllata, alla rendita parassitaria dei tanti artisti di regime che controllano in Europa i finanziamenti pubblici. De Oliveira infastidisce i burocrati perché è un regista commerciale. È amato dal pubblico (certo, di tutto il mondo). Lo rispetta. Ha maltrattato le ipocrisie e i crimini della classe politica portoghese di centro destra e di centro sinistra molto prima che i recenti scandali (pedofilia) distruggessero il partito socialisto di Sampaio. Ha conquistato come pochi la fiducia di chi va al cinema per ripetere un rito sempre differente. Conoscere le cose dal di dentro. Attraverso documentari, propri e impropri.

a Ravenna un Corso sul cinema di Marco Bellocchio,
con qualche evidente limite però...

CORRIERE Romagna martedì 14 ottobre 2003
Edizione di: RAVENNA
Il cinema nella storia Corso su Bellocchio


Ravenna - Lezioni di cinema in vista del Festival dei registi emiliano-romagnoli. La quinta edizione della manifestazione ravennate, in programma dal 7 al 13 novembre, sarà dedicata a marco Bellocchio. Contemporaneamente il Comune di Ravenna, in collaborazione con la Provincia e la regione Emilia Romagna, organizza un ciclo di lezioni dedicate all’aggiornamento e alla qualificazione professionale in campo didattico. Il calendario delle lezione prevede quattro appuntamenti - tutti in programma in via di Roma 69 dalle 17 alle 19 - a partire da giovedì prossimo quando il critico cinematografico Pierpaolo Loffreda terrà la prima lezione sul cinema di Bellocchio da "I pugni in tasca" a "La Cina è vicina". Seguirà il 23 ottobre un incontro con Tiberio Pedrini che illustrerà l’impegno intellettuale-politico del regista piacentino. Giovedì 30 ottobre Chiara Pioppo commenterà “La Balia: la novella di Pirandello e il film di Bellocchio”. Il giovedì successivo il critico Loris Lepri presenta “Un salto nel vuoto”, mentre il giorno successivo, il 7 novembre, si terrà l’incontro conclusivo che vedrà la partecipazioni dei critici cinematografici Tullio Masoni, Gualtiero De Santi e Giacomo Gabetti, e dello stesso regista Marchio Bellocchio. Per iscrizione ai corsi è possibile telefonare, entro domani, allo 0544 35142.

il cinema di Bellocchio a Caracas a Dicembre, e in India:
ma perché non "Buongiorno, notte"?

Liberazione 14.10.03
Il nuovo cinema italiano a dicembre a Caracas


Presso la Cinamateca Nacional di Caracas, Venezuela, si aprirà il prossimo 2 dicembre la prima rassegna cinematografica sul Nuovo Cinema Italiano. La rassegna comprenderà alcune fra le opere del nostro cinema piò premiate in ambito europeo come ad esempio "Respiro" di Emanuele Crialese che sarà presente alla rassegna, "Il mestiere delle armi" di Ermanno Olmi e "L'ora di religione" di Marco Bellocchio. Aprirà la rassegna "Il mio viaggio in Italia" di Martin Scorsese.

The Times of India
TIMES NEWS NETWORK [SUNDAY, OCTOBER 12, 2003 03:28:21 PM]
The Italian connection


He’s an Indian film aficionado with a difference. Luca Marziali, the director of the River to River Indian film festival in Florence, discusses the magic of the movies. (...)
Marziali, who first came to India in 1984, has been here at least 15 times since. He was recently in the country to scout for Indian feature and documentary films for his festival, as well as to coordinate "New Italian Eyes", a package of Italian films that will travel to India for the international film festivals of India (Delhi, Mumbai, Kolkata and Thiruvananthapuram). Besides, he coordinated a package of Indian films at the recent Namaste India programme held during the Fashion Week in Milan. (...)
The New Italian Eyes package coming to the Indian festivals include Marco Bellocchio’s "L’ora di religione" (My Mother’s Smile), Gabriele Muccino’s Come te nessuno mai (But forever in my mind), Ettore Scola’s Concorrenza Sleale (Unfair competition), and two films by the maestro Pietro Germi – A Bad Swindle and Ladies and Gentlemen. (...)