Avvenire 18.9.03
Editoriale
Anni di piombo, l'assoluzione del nichilismo
di Maurizio Cecchetti
Un film come quello di Marco Bellocchio, «Buongiorno, notte», dimostra il grado di penetrazione che ha raggiunto nella coscienza morale dell'Occidente il concetto che dà il titolo a uno dei saggi più discussi di Hannah Arendt: «La banalità del male». Il XX secolo è stato il tempo dove questa idea del male che s'incarna nell'operato di gente comune, normale, ha toccato un punto di non-ritorno: in fondo, i «volenterosi carnefici» di Hitler sono soltanto l'altra faccia di quella imponderabile pericolosità che Elias Canetti metteva in luce nei comportamenti delle masse. E fu un sogno rivolto alle masse quello degli «anni di piombo», che produsse anche una militanza consistente. Il film di Bellocchio sembra voler sostenere che un pugno di uomini e donne, che tennero in scacco il Paese, partecipavano di una cultura di morte che ha contrassegnato il secolo. Furono interpreti di una «hybris» aleggiante nell'aria stessa che respiravano giorno per giorno. I dubbi, le ingenuità, la fragilità del credere a un'idea che devono ripetersi uno con l'altro per essere certi che abbia un senso, i contrasti fra loro che crescono ora dopo ora mentre si avvicina il momento dell'esecuzione del prigioniero Aldo Moro, è la finzione psicologica del parto immaginativo di Bellocchio che sostanzialmente dice: fu un errore uccidere Moro, fu un errore lasciarlo uccidere, chi lo uccise, in fondo, si trovò costretto in una sorta di obbligo di colpire per non morire a sua volta (la realtà è che, quell'assassinio, fu davvero il suicidio della strategia terroristica). I carnefici di Moro divennero attori di una tragedia ripetutasi infinite volte nel Novecento: il nichilismo. D'altra parte, se così fosse, sarebbe appunto una tragedia fondata sulla «coazione a ripetere», o per così dire su un'azione non-volontaria, ma subita sotto la pressione di un qualche burattinaio, fosse pure la Storia e non il presunto grande vecchio che sempre si postula quando c'è puzza di complotto. Che ci sia voglia di assoluzione anche per loro? Che sia questo il modo per chiudere i conti col passato? Ma, in realtà, il film di Bellocchio non rappresenta uno scavo nelle oscure profondità di quella scelta che, nel sogno catartico rivissuto a posteriori, lascia immaginare che Aldo Moro se ne vada silenzioso dalla sua prigione e alzando il bavero del suo cappotto si avvii verso la libertà. C'era un'altra possibilità, dunque, ma non si realizzò, il perché non ci è dato sapere. In fondo, è questa la debolezza del film: il sogno. Un sogno anch'esso banale come il male che lo cancella: perché sappiamo bene che nel 1978 di sogni in giro ce n'erano parecchi, ma in gran parte fatti di catene, bastoni, aggressioni con la pistola in pugno. E di compassione ben poca. È un plot storicamente noto, che ci viene riproposto in modo poco coraggioso, se si considera che questo film vorrebbe scavare nelle psicologie e si ferma invece all'involucro. Non c'è pietà cristiana alla radice di questa visione, sembra emergere invece una sorta di fatalismo di marca psicoanalitica, che, come sappiamo, nella modernità rischia di prendere il posto dell'esame di coscienza e dell'escatologia religiosa.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
giovedì 18 settembre 2003
Kezich: questo non è cinema politico
(ricevuto da Daniela Venanzi)
Sette, inserto del Corriere della Sera 18.9.03
SARÒ UN PASSATISTA MA PER ME IL CINEMA POLITICO BISOGNA FARLO ANCORA COME LO FACEVA ROSI
di Tullio Kezich
Ammetto che non se ne può più di interviste e commenti sulla Mostra di Venezia (vi raccomando quelli che cominciano: "Non ho visto i film, ma...") e tuttavia mi azzardo ad aggiungere una breve constatazione. Al Lido il cinema politico italiano ha fatto passi da gigante. Indietro.
A parte l'appassionante fuori concorso di Bernardo Bertolucci, The Dreamers, che di "italiano" ha ben poco (romanzo e lingua inglese, ambientazione Parigi '68), i due concorrenti nostrati a sfondo storico-politico lasciano interdetti per ragioni opposte. Mentre Segreti di Stato soffre di un parossismo di dietrologia, Buongiorno, notte ne è del tutto esente. Parlo di contenuti e messaggi, non di arte. I film si assomigliano perché entrambi affrontano tragici capitoli nella vicenda delle "trame nere".
Paolo Benvenuti ha il merito di proporre una retrodatazione di tale storia, che di solito si fa iniziare con la bomba di Piazza Fontana (1969), al 1° maggio 1947, ovvero alla strage di Portella della Ginestra; Marco Bellocchio rievoca i 55 giorni della tragedia di Aldo Moro nel 1978. Vale la pena di sottolineare che nell'uno e nell'altro caso inchieste e processi non sono mai pervenuti a nessuna certezza. Segreti di Stato fa un uso fuorviante delle ipotesi dello storico Giuseppe Casarrubea, che da anni porta avanti una rigorosa ricerca su eventuali responsabilità "altre" (la Cia, i servizi segreti) operanti sopra la testa del bandito Giuliano. Sullo schermo, fra i deliranti sospetti di connivenza riguardanti tutto il potentato civile e religioso dell'epoca, spicca una panzana macroscopica quando il bandito Pisciotta afferma di aver accolto all'aeroporto di Palermo una sporca dozzina di mercenari e di averli accompagnati a sparare a Portella.
Nell'onirico Buongiorno, notte Moro è rapito da un gruppo spontaneistico e infine se ne scappa libero per Roma. "Ma allora non è morto?", mi ha chiesto sbalordito un critico straniero. Accolto da quasi tutti come un capolavoro, il film ha riscosso il plauso degli ex brigatisti e di molti interessati ad accantonare ogni interrogativo su motivi e mandanti mettendoci una pietra sopra. O magari (ma gli è andata male) un Leone d'Oro. Un consiglio ai registi di film politici? Torniamo all'antico, a Francesco Rosi, e sarà un progresso.
Sette, inserto del Corriere della Sera 18.9.03
SARÒ UN PASSATISTA MA PER ME IL CINEMA POLITICO BISOGNA FARLO ANCORA COME LO FACEVA ROSI
di Tullio Kezich
Ammetto che non se ne può più di interviste e commenti sulla Mostra di Venezia (vi raccomando quelli che cominciano: "Non ho visto i film, ma...") e tuttavia mi azzardo ad aggiungere una breve constatazione. Al Lido il cinema politico italiano ha fatto passi da gigante. Indietro.
A parte l'appassionante fuori concorso di Bernardo Bertolucci, The Dreamers, che di "italiano" ha ben poco (romanzo e lingua inglese, ambientazione Parigi '68), i due concorrenti nostrati a sfondo storico-politico lasciano interdetti per ragioni opposte. Mentre Segreti di Stato soffre di un parossismo di dietrologia, Buongiorno, notte ne è del tutto esente. Parlo di contenuti e messaggi, non di arte. I film si assomigliano perché entrambi affrontano tragici capitoli nella vicenda delle "trame nere".
Paolo Benvenuti ha il merito di proporre una retrodatazione di tale storia, che di solito si fa iniziare con la bomba di Piazza Fontana (1969), al 1° maggio 1947, ovvero alla strage di Portella della Ginestra; Marco Bellocchio rievoca i 55 giorni della tragedia di Aldo Moro nel 1978. Vale la pena di sottolineare che nell'uno e nell'altro caso inchieste e processi non sono mai pervenuti a nessuna certezza. Segreti di Stato fa un uso fuorviante delle ipotesi dello storico Giuseppe Casarrubea, che da anni porta avanti una rigorosa ricerca su eventuali responsabilità "altre" (la Cia, i servizi segreti) operanti sopra la testa del bandito Giuliano. Sullo schermo, fra i deliranti sospetti di connivenza riguardanti tutto il potentato civile e religioso dell'epoca, spicca una panzana macroscopica quando il bandito Pisciotta afferma di aver accolto all'aeroporto di Palermo una sporca dozzina di mercenari e di averli accompagnati a sparare a Portella.
Nell'onirico Buongiorno, notte Moro è rapito da un gruppo spontaneistico e infine se ne scappa libero per Roma. "Ma allora non è morto?", mi ha chiesto sbalordito un critico straniero. Accolto da quasi tutti come un capolavoro, il film ha riscosso il plauso degli ex brigatisti e di molti interessati ad accantonare ogni interrogativo su motivi e mandanti mettendoci una pietra sopra. O magari (ma gli è andata male) un Leone d'Oro. Un consiglio ai registi di film politici? Torniamo all'antico, a Francesco Rosi, e sarà un progresso.
Cossiga dice la sua sul film di Marco Bellocchio e sull'affare Moro
(ricevuto da Daniela Venanzi - segnalato anche da Lucia Ianniello)
Sette inserto del Corriere della sera del giovedì 18.9.03
COSSIGA: "ANCORA UN GIORNO E LA FERMEZZA SAREBBE SVANITA"
"Perché io e Andreotti saremmo stati messi in minoranza dai trattativisti".
L'uomo che era ministro dell'Interno quando le Br sequestrarono e uccisero il leader della DC ha visto con "Sette" il film di Bellocchio.
Si è commosso, ha criticato, e si è lasciato andare a molte ricostruzioni e ricordi. Assolutamente clamorosi.
intervista a cura di Giorgio del Re
Del delitto Moro, del sequestro, di quello che è successo in quegli anni, ha parlato poco, pochissimo, e mai a cuor leggero. Francesco Cossiga all'epoca era ministro dell'Interno, e destinatario della lettera più dura di Aldo Moro, quella in cui dal covo brigatista lanciava la sua maledizione biblica: "Il mio sangue ricadrà su di voi". Ma dopo il dibattito che si è aperto sul film di Marco Bellocchio, il presidente emerito ha deciso di fare un'eccezione, vedere Buongiorno, notte per "Sette", e raccontare le emozioni e le riflessioni che questa visione gli ha provocato.
È in vacanza in Sardegna (quando gli altri tornano a lavorare lui parte) in una località amena, proprio di fronte a Tavolara, accompagnato dalla sua "famiglia allargata". Le due più giovani collaboratrici del suo staff, Sabrina e Alessandra ("Sono incantevoli, vero?"), gli uomini della scorta che vedono insieme a lui il film, in una cassetta della Rai. Durante la proiezione resta quasi sempre in silenzio: ogni tanto una notazione, un'immagine che ha colpito, un promemoria per quello che dirà dopo.
Si emoziona - gli occhi lucidi - quando nella tv dei brigatisti rivede le immagini dei funerali della scorta, un gesto della mano, come per fugare una nuvola di pensieri e una frase che sembra parlar d'altro: "Funerali militari...". E poi quando Aldo Moro-Roberto chiama i carcerieri per legger loro la sua lettera al Papa: "Sì, sì... penso proprio che il suo rapporto con loro poteva essere di questo tenore".
Una delle frasi più importanti di Giulio Andreotti sulle lettere di Moro gli provoca una piccola sorpresa ("La suggerii io"), e la passeggiata finale una rivelazione: "Avevo pronta la lettera di dimissioni, la terza che ho scritto in quei terribili giorni: loro non capirono di aver vinto politicamente. Se avessero resistito per un giorno in più, nella Dc la linea della fermezza sarebbe svanita, io e Andreotti saremmo stati messi in minoranza da Fanfani e dai trattativisti".
Dulcis in fundo la conferma di quello che Andreotti ha detto al Giornale: "Sì, è tutto vero, demmo il nulla osta all'ipotesi di un riscatto pagato dalla Santa Sede: Andreotti dice che informò Berlinguer, io posso dire che ne parlai con Pecchioli e lui mi rispose: "Se la cosa uscirà fuori protesteremo, ma non verrà meno il nostro sostegno"".
Presidente, posso iniziare da una domanda indiscreta e molto personale?
"Quale?".
È vera la leggenda che i capelli grigi le diventarono bianchi, in una notte, per l'angoscia del sequestro?
"In una notte è una leggenda. Certo si accelerò quel processo".
Che effetto le fa questo Bellocchio, venticinque anni dopo?
"Confesso, ho guardato il film con qualche prevenzione, temevo la solita ricostruzione dietrologica e priva di valore... ".
E invece?
"È un bel film. Lo dico anche forte della conoscenza di un vecchio amico, Franco Mauri, che nel 1940 scrisse da appassionato cinefilo un saggio sul realismo nel cinema sovietico".
Franco Mauri il suo discepolo trentenne?
"No, lo zio".
Quindi il film le piace...
"C'è del mestiere, nel senso alto del termine: l'arte senza l'artigianato non esiste. Naturalmente, si muove dalla realtà per creare un'altra storia e poi...".
E poi?
"Ho scoperto un'attrice straordinaria, Maya Sansa, grande interpretazione: non la conoscevo. Conosco invece la Braghetti, che ho incontrato quando venne da me a perorare - e le credetti - la causa dell'innocenza della Mambro e di Fioravanti. Non mi parlò delle loro cose, forse perché sapeva come la pensavo".
È vero che lei ha conosciuto tre dei carcerieri di Moro?
"Sì, sono uomini e donne, e questo rende ancora più drammatico quello che è avvenuto. Si è detto che Bellocchio ha messo le Br sul lettino della psicanalisi: penso piuttosto che lui, da ex ragazzo maoista, abbia proiettato molto se stesso nel film. Le Br sono come lui vorrebbe che fossero state, e la vicenda finisce come lui avrebbe voluto che finisse. Con i brigatisti che mostrano la loro potenza nel sequestro, e alla fine del processo di umanizzazione innescato dalla vicenda rilasciano Moro. In questo c'è più di un desiderio...".
Ovvero?
"Credo che Bellocchio sia più figlio del '68 che del '77. La critica che gli faccio è di non rendere fino in fondo la drammaticità dell'evento. Ma lo fa per un motivo preciso: il '68 fu fondamentalmente un movimento di ribellione borghese, di cui non a caso i due leader principali erano Marcuse, che non trovò nulla di sconveniente nel fare uno studio sul movimento per conto della Cia, e un uomo come Adorno, che aveva ucciso la moglie...".
Quindi secondo lei Bellocchio sovrappone date età diverse?
"Ma certo. Non capisce che il '77 e il brigatismo, invece, furono una rivoluzione, velleitaria forse, ma nata da radici storiche, sociali e culturali ben più profonde: era il vero frutto della guerra fredda, erano i nipotini di Yalta, come dimostra bene la sequenza del canto partigiano alla commemorazione del padre della terrorista. Le loro radici erano nel mito della Resistenza tradita, la terza Resistenza che sognava la lotta di classe, e fu soppiantata dalla guerra di Liberazione e dalla guerra partigiana".
C'è anche il comizio di Lama, però, in cui i brigatisti sono contrapposti ai partigiani, dal Pci...
"Era un modo per difendere la sinistra dal coinvolgimento. Anche noi abbiamo usato le armi della manipolazione politica per mantenere consenso: e a questo fine era più facile chiamarli assassini che rivoluzionari. Oggi in fondo le cose sono molto più grossolane: Berlusconi è un Duce e i comunisti mangiano i bambini...".
Non è che si sta ricredendo sulla fermezza?
"No! Io resto fermo, nonostante l'Unità, che allora fu colonna della fermezza e che ora, come scrive Francesco Merlo, inspiegabilmente diventa trattativista!".
Battutaccia...
"No, verità. Quell'articolo mi ha colpito: non condivido solo la parte sulla Faranda, perché non credo che debba tacere, non credo alla dannazione dei colpevoli. Morucci e Faranda hanno passato un travaglio autentico che io conosco. E poi ci sarebbero molti altri in Italia, allora, che avrebbero dovuto tacere. I Ds...".
Si prepara un'altra stilettata delle sue?
"...Avendo letto il bel libro di Piero Fassino mi rendo conto che gli ex comunisti sono ormai preda di un revisionismo così profondo che presto cancelleranno Berlinguer: per questo non hanno difficoltà a cancellare la fermezza. E non è nemmeno un caso che oggi i Ds si incontrino con Prodi, trattativista di ieri".
Ahi, ahi, quando lei cita quel nome...
"No, perché? Anzi, le dico che una caduta di stile il film ce l'ha quando racconta la seduta spiritica in cui c'era Prodi, e in cui Bellocchio mette un agente dei servizi, che se tale fosse stato, non sarebbe andato in divisa da colonnello! Prodi...".
Sempre a lui ritorna...
"Solo per dire che è prova della sua forza il fatto che per quell'episodio egli non fu mai interrogato da nessuna commissione e nessun magistrato: e dire che fu lui a passare questa notizia a Cavina, che poi la disse al mio capo-gabinetto, Zanda".
Le Br: perché lei dice che il film spiega la loro sconfitta?
"Perché non si accorsero di avere vinto: ma la parola fine alla solidarietà nazionale la scrissero loro. È la non compiutezza della solidarietà nazionale che impedisce il vero bipolarismo e che porta ancora oggi a una visione della politica come lotta tra bene e male".
Quindi le Br non capirono di essere a un passo dalla vittoria finale?
"Sì, e l'avrebbero avuta perché io e Andreotti saremmo finiti in minoranza. Poi non hanno capito che Moro libero avrebbe avuto effetti altrettanto dirompenti: io sono stato costretto a raccontare che Pecchioli venne da me a dire, dopo la lettera che mi mandò: "Per noi è politicamente morto". Malgrado ciò, noi li abbiamo sconfitti militarmente".
E il dibattito sul fatto che forse i brigatisti si potevano prendere?
"All'epoca del sequestro i servizi erano quasi smantellati: solo dopo appresi che qualcuno aveva contatti con le Br...".
Signorile?
"...Una parte del Psi. Se loro ce lo avessero detto, forse saremmo arrivati a Moro vivo".
E il fatto che ci fosse un pezzo di Stato che lavorava contro la liberazione? "Fesserie".
E l'influenza della P2?
"No... Vada da Licio Gelli e gli chieda cosa pensava di Moro".
È vero che quella frase sulle lettere di Moro, "moralmente inautentiche", la scrisse lei e la disse Andreotti?
"Sì: allora gli psichiatri del ministero avevano questa tesi, Scoppola lo pensa tuttora...".
E lei?
"Mi sono convinto di avere sbagliato. Quello era davvero Moro. Tentò fino all'ultimo di trattare con le Br, aveva capito fino in fondo il fatto che le Br erano un soggetto politico, e puntavano a un riconoscimento. Io non avevo capito fino in fondo che loro erano l'album di famiglia della sinistra, lui sì. Non dimentichiamo che solo Giampaolo Pansa ebbe il fegato di andare ai cancelli della Fiat e scrivere in un pezzo che a molti operai non gliene fregava nulla di Moro".
Per questo l'idea brigatista della "propaganda armata" aveva spazio?
"Senza il Pci e senza la fermezza sarebbe passata senz'altro".
E cercare di salvarsi per Moro fu vigliaccheria, come pensarono molti?
"No. Io ho riletto le sue lettere infinite volte e ho capito la nostra diversità. Io ero un cattolico liberale e mettevo sopra tutto lo Stato. Lui era un cattolico sociale, e per lui la vita di suo nipote valeva più di ogni altra cosa. Andreotti aveva l'etica politica della Chiesa, che mai e poi mai avrebbe accettato la malvagità dell'atto violento".
Ma lei mi ha detto che era disposto a pagare!
"Pagare sì: mi dissero che avevano già trovato i soldi, ma era quasi una forma di disprezzo: il canale di contatto veniva dai cappellani carcerari e dalle confessioni, per questo è rimasto segreto. Ma riconoscere no".
Eppure lei pensa che la trattativa non poteva riuscire?
"Oggi so che le Br non avrebbero mai accettato un riscatto".
Sette inserto del Corriere della sera del giovedì 18.9.03
COSSIGA: "ANCORA UN GIORNO E LA FERMEZZA SAREBBE SVANITA"
"Perché io e Andreotti saremmo stati messi in minoranza dai trattativisti".
L'uomo che era ministro dell'Interno quando le Br sequestrarono e uccisero il leader della DC ha visto con "Sette" il film di Bellocchio.
Si è commosso, ha criticato, e si è lasciato andare a molte ricostruzioni e ricordi. Assolutamente clamorosi.
intervista a cura di Giorgio del Re
Del delitto Moro, del sequestro, di quello che è successo in quegli anni, ha parlato poco, pochissimo, e mai a cuor leggero. Francesco Cossiga all'epoca era ministro dell'Interno, e destinatario della lettera più dura di Aldo Moro, quella in cui dal covo brigatista lanciava la sua maledizione biblica: "Il mio sangue ricadrà su di voi". Ma dopo il dibattito che si è aperto sul film di Marco Bellocchio, il presidente emerito ha deciso di fare un'eccezione, vedere Buongiorno, notte per "Sette", e raccontare le emozioni e le riflessioni che questa visione gli ha provocato.
È in vacanza in Sardegna (quando gli altri tornano a lavorare lui parte) in una località amena, proprio di fronte a Tavolara, accompagnato dalla sua "famiglia allargata". Le due più giovani collaboratrici del suo staff, Sabrina e Alessandra ("Sono incantevoli, vero?"), gli uomini della scorta che vedono insieme a lui il film, in una cassetta della Rai. Durante la proiezione resta quasi sempre in silenzio: ogni tanto una notazione, un'immagine che ha colpito, un promemoria per quello che dirà dopo.
Si emoziona - gli occhi lucidi - quando nella tv dei brigatisti rivede le immagini dei funerali della scorta, un gesto della mano, come per fugare una nuvola di pensieri e una frase che sembra parlar d'altro: "Funerali militari...". E poi quando Aldo Moro-Roberto chiama i carcerieri per legger loro la sua lettera al Papa: "Sì, sì... penso proprio che il suo rapporto con loro poteva essere di questo tenore".
Una delle frasi più importanti di Giulio Andreotti sulle lettere di Moro gli provoca una piccola sorpresa ("La suggerii io"), e la passeggiata finale una rivelazione: "Avevo pronta la lettera di dimissioni, la terza che ho scritto in quei terribili giorni: loro non capirono di aver vinto politicamente. Se avessero resistito per un giorno in più, nella Dc la linea della fermezza sarebbe svanita, io e Andreotti saremmo stati messi in minoranza da Fanfani e dai trattativisti".
Dulcis in fundo la conferma di quello che Andreotti ha detto al Giornale: "Sì, è tutto vero, demmo il nulla osta all'ipotesi di un riscatto pagato dalla Santa Sede: Andreotti dice che informò Berlinguer, io posso dire che ne parlai con Pecchioli e lui mi rispose: "Se la cosa uscirà fuori protesteremo, ma non verrà meno il nostro sostegno"".
Presidente, posso iniziare da una domanda indiscreta e molto personale?
"Quale?".
È vera la leggenda che i capelli grigi le diventarono bianchi, in una notte, per l'angoscia del sequestro?
"In una notte è una leggenda. Certo si accelerò quel processo".
Che effetto le fa questo Bellocchio, venticinque anni dopo?
"Confesso, ho guardato il film con qualche prevenzione, temevo la solita ricostruzione dietrologica e priva di valore... ".
E invece?
"È un bel film. Lo dico anche forte della conoscenza di un vecchio amico, Franco Mauri, che nel 1940 scrisse da appassionato cinefilo un saggio sul realismo nel cinema sovietico".
Franco Mauri il suo discepolo trentenne?
"No, lo zio".
Quindi il film le piace...
"C'è del mestiere, nel senso alto del termine: l'arte senza l'artigianato non esiste. Naturalmente, si muove dalla realtà per creare un'altra storia e poi...".
E poi?
"Ho scoperto un'attrice straordinaria, Maya Sansa, grande interpretazione: non la conoscevo. Conosco invece la Braghetti, che ho incontrato quando venne da me a perorare - e le credetti - la causa dell'innocenza della Mambro e di Fioravanti. Non mi parlò delle loro cose, forse perché sapeva come la pensavo".
È vero che lei ha conosciuto tre dei carcerieri di Moro?
"Sì, sono uomini e donne, e questo rende ancora più drammatico quello che è avvenuto. Si è detto che Bellocchio ha messo le Br sul lettino della psicanalisi: penso piuttosto che lui, da ex ragazzo maoista, abbia proiettato molto se stesso nel film. Le Br sono come lui vorrebbe che fossero state, e la vicenda finisce come lui avrebbe voluto che finisse. Con i brigatisti che mostrano la loro potenza nel sequestro, e alla fine del processo di umanizzazione innescato dalla vicenda rilasciano Moro. In questo c'è più di un desiderio...".
Ovvero?
"Credo che Bellocchio sia più figlio del '68 che del '77. La critica che gli faccio è di non rendere fino in fondo la drammaticità dell'evento. Ma lo fa per un motivo preciso: il '68 fu fondamentalmente un movimento di ribellione borghese, di cui non a caso i due leader principali erano Marcuse, che non trovò nulla di sconveniente nel fare uno studio sul movimento per conto della Cia, e un uomo come Adorno, che aveva ucciso la moglie...".
Quindi secondo lei Bellocchio sovrappone date età diverse?
"Ma certo. Non capisce che il '77 e il brigatismo, invece, furono una rivoluzione, velleitaria forse, ma nata da radici storiche, sociali e culturali ben più profonde: era il vero frutto della guerra fredda, erano i nipotini di Yalta, come dimostra bene la sequenza del canto partigiano alla commemorazione del padre della terrorista. Le loro radici erano nel mito della Resistenza tradita, la terza Resistenza che sognava la lotta di classe, e fu soppiantata dalla guerra di Liberazione e dalla guerra partigiana".
C'è anche il comizio di Lama, però, in cui i brigatisti sono contrapposti ai partigiani, dal Pci...
"Era un modo per difendere la sinistra dal coinvolgimento. Anche noi abbiamo usato le armi della manipolazione politica per mantenere consenso: e a questo fine era più facile chiamarli assassini che rivoluzionari. Oggi in fondo le cose sono molto più grossolane: Berlusconi è un Duce e i comunisti mangiano i bambini...".
Non è che si sta ricredendo sulla fermezza?
"No! Io resto fermo, nonostante l'Unità, che allora fu colonna della fermezza e che ora, come scrive Francesco Merlo, inspiegabilmente diventa trattativista!".
Battutaccia...
"No, verità. Quell'articolo mi ha colpito: non condivido solo la parte sulla Faranda, perché non credo che debba tacere, non credo alla dannazione dei colpevoli. Morucci e Faranda hanno passato un travaglio autentico che io conosco. E poi ci sarebbero molti altri in Italia, allora, che avrebbero dovuto tacere. I Ds...".
Si prepara un'altra stilettata delle sue?
"...Avendo letto il bel libro di Piero Fassino mi rendo conto che gli ex comunisti sono ormai preda di un revisionismo così profondo che presto cancelleranno Berlinguer: per questo non hanno difficoltà a cancellare la fermezza. E non è nemmeno un caso che oggi i Ds si incontrino con Prodi, trattativista di ieri".
Ahi, ahi, quando lei cita quel nome...
"No, perché? Anzi, le dico che una caduta di stile il film ce l'ha quando racconta la seduta spiritica in cui c'era Prodi, e in cui Bellocchio mette un agente dei servizi, che se tale fosse stato, non sarebbe andato in divisa da colonnello! Prodi...".
Sempre a lui ritorna...
"Solo per dire che è prova della sua forza il fatto che per quell'episodio egli non fu mai interrogato da nessuna commissione e nessun magistrato: e dire che fu lui a passare questa notizia a Cavina, che poi la disse al mio capo-gabinetto, Zanda".
Le Br: perché lei dice che il film spiega la loro sconfitta?
"Perché non si accorsero di avere vinto: ma la parola fine alla solidarietà nazionale la scrissero loro. È la non compiutezza della solidarietà nazionale che impedisce il vero bipolarismo e che porta ancora oggi a una visione della politica come lotta tra bene e male".
Quindi le Br non capirono di essere a un passo dalla vittoria finale?
"Sì, e l'avrebbero avuta perché io e Andreotti saremmo finiti in minoranza. Poi non hanno capito che Moro libero avrebbe avuto effetti altrettanto dirompenti: io sono stato costretto a raccontare che Pecchioli venne da me a dire, dopo la lettera che mi mandò: "Per noi è politicamente morto". Malgrado ciò, noi li abbiamo sconfitti militarmente".
E il dibattito sul fatto che forse i brigatisti si potevano prendere?
"All'epoca del sequestro i servizi erano quasi smantellati: solo dopo appresi che qualcuno aveva contatti con le Br...".
Signorile?
"...Una parte del Psi. Se loro ce lo avessero detto, forse saremmo arrivati a Moro vivo".
E il fatto che ci fosse un pezzo di Stato che lavorava contro la liberazione? "Fesserie".
E l'influenza della P2?
"No... Vada da Licio Gelli e gli chieda cosa pensava di Moro".
È vero che quella frase sulle lettere di Moro, "moralmente inautentiche", la scrisse lei e la disse Andreotti?
"Sì: allora gli psichiatri del ministero avevano questa tesi, Scoppola lo pensa tuttora...".
E lei?
"Mi sono convinto di avere sbagliato. Quello era davvero Moro. Tentò fino all'ultimo di trattare con le Br, aveva capito fino in fondo il fatto che le Br erano un soggetto politico, e puntavano a un riconoscimento. Io non avevo capito fino in fondo che loro erano l'album di famiglia della sinistra, lui sì. Non dimentichiamo che solo Giampaolo Pansa ebbe il fegato di andare ai cancelli della Fiat e scrivere in un pezzo che a molti operai non gliene fregava nulla di Moro".
Per questo l'idea brigatista della "propaganda armata" aveva spazio?
"Senza il Pci e senza la fermezza sarebbe passata senz'altro".
E cercare di salvarsi per Moro fu vigliaccheria, come pensarono molti?
"No. Io ho riletto le sue lettere infinite volte e ho capito la nostra diversità. Io ero un cattolico liberale e mettevo sopra tutto lo Stato. Lui era un cattolico sociale, e per lui la vita di suo nipote valeva più di ogni altra cosa. Andreotti aveva l'etica politica della Chiesa, che mai e poi mai avrebbe accettato la malvagità dell'atto violento".
Ma lei mi ha detto che era disposto a pagare!
"Pagare sì: mi dissero che avevano già trovato i soldi, ma era quasi una forma di disprezzo: il canale di contatto veniva dai cappellani carcerari e dalle confessioni, per questo è rimasto segreto. Ma riconoscere no".
Eppure lei pensa che la trattativa non poteva riuscire?
"Oggi so che le Br non avrebbero mai accettato un riscatto".
***una intervista a Marco Bellocchio su Famiglia Cristiana
(ricevuto da Daniela Venanzi)
FARE I CONTI
COL PASSATO
intervista a Marco Bellocchio di Maurizio Turrioni
Al di là delle polemiche per la mancata vittoria a Venezia, la pellicola sul "caso Moro" fa riflettere. «Dopo 25 anni», dice il regista, «è ora di riaprire quel doloroso capitolo».
Un polverone. È quello che tanti, troppi, hanno sollevato attorno a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, il film sul "caso Moro" che sarebbe stato scippato del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Anacronistica la posizione di RaiCinema che, come produttrice, per bocca del suo amministratore Giancarlo Leone ha minacciato di non mandare più i suoi titoli al Lido. Caduta di stile condivisa da coloro che, in Tv o sui giornali, si sono scagliati contro la pellicola vincitrice senza neppure averla vista, per loro ammissione. E pur se si può comprenderne l’amarezza, ha sbagliato il regista a non restare a Venezia per ritirare il premio per la sceneggiatura, dichiarando: «Noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose!». Lo ribadiamo: Il ritorno del russo Andrey Zvyagintsev ha strameritato la vittoria.
Un dramma troppo coinvolgente
Ciò che è successo in seno alla giuria della Mostra lo ha spiegato il suo presidente Mario Monicelli: «Sono un ammiratore di Bellocchio. Il suo I pugni in tasca fu uno degli esordi più importanti. L’ora di religione è un capolavoro. Ma qui ci siamo trovati di fronte a un film (di chiara bellezza cinematografica) con un gruppetto di terroristi insicuri, confusi, impauriti, dominati da un sequestrato che è quasi il burattinaio. Una specie di glorificazione. E sembra che a farlo morire non siano quei ragazzi spaventati, ma un establishment di destra e di sinistra. Io e Stefano Accorsi abbiamo vissuto il film con tensione. Ma i giurati stranieri, che non sapevano del "caso Moro", non hanno capito».
Insomma, un dramma troppo radicato nella politica e nella coscienza italiana. Proprio per questo, però, un’occasione da non perdere per chi voglia rivisitare emotivamente atmosfere, ansie e tormenti degli "anni di piombo". Sia che abbia vissuto personalmente quei tragici 55 giorni del rapimento Moro, sia che in quel lontano 1978 fosse troppo giovane per averne memoria.
Dato che lo stile cinematografico dell’opera di Bellocchio è fuori discussione, le critiche pro e contro riguardano il cuore del film. Sdegnata Maria Fida Moro: «In un Paese libero la signora Anna Laura Braghetti ha il diritto di esprimersi e il regista Bellocchio di farne un film», ha detto la figlia dello statista. «Ma io ho il diritto sacrosanto di gridare il mio disappunto. Vedendo il film ho provato contrarietà e schifo. Mi sarebbe piaciuto un film sulla tenerezza e la sollecitudine di un papà brutalmente strappate. Non voglio più sentire parlare della sua tragica morte!».
Il contrappunto, però, è nelle parole che il fratello Giovanni ha affidato a una lettera per il regista Bellocchio: «È stato doloroso vedere il film, ma l’ho molto apprezzato. Questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace di accrescere la conoscenza della realtà. Penso che chi lo vedrà potrà cogliere il senso del dramma di un uomo di fronte a un destino tragico quanto insensato».
Vedendo le intense sequenze girate da Bellocchio, si può insomma pensarla come si vuole. Certo, però, il coinvolgimento è inevitabile.
«Ognuno ha la sua testa. Si può amare un film oppure no, sono io il primo a saperlo. Ma diciamo tutta la verità», dice fuori dai denti Bellocchio, «quello per la sceneggiatura è un premio marginale. Ho gradito di più quello della giuria dei giovani. E poi non è una questione di premi...».
Che cosa intende dire?
«Questo film ha per me un’importanza e senso davvero speciali. Io che sono stato solo spettatore di quegli eventi, che avevo una ridicola e utopistica militanza politica dieci anni prima, al tempo della tragedia mi sono tenuto a distanza, ho chiuso gli occhi. Ecco, 25 anni dopo ci sono le condizioni per ripensare a un qualcosa che riguarda tutti, me per primo. È ora di fare i conti con un passato lasciato in sospeso».
Il regista lo fa fin dalle prime sequenze. Notte e giorno. Verità e bugia. Luce e buio, anche nell’anima. Ossimori. Contraddizioni che la brigatista Chiara (Maya Sansa) vive in modo insostenibile, dividendo le giornate tra la grigia quotidianità del lavoro impiegatizio e il suo segreto compito di vivandiera per Aldo Moro, il rapito, l’uomo politico più importante nell’Italia di fine anni ’70.
I processi proletari condotti dagli altri brigatisti, Mariano (Luigi Lo Cascio) ed Ernesto (Piergiorgio Bellocchio, figlio del sessantaquattrenne regista piacentino). I dialoghi sulla morte e la paura. Gli sguardi rubati dal buco della serratura sul dramma privato dello statista (ben incarnato dall’attore Roberto Herlitzka). È un rapporto umano quello tra Chiara e il recluso?
La terrorista finirà per far vincere la pietà liberando, almeno con l’immaginazione, quell’uomo solo che fu Moro.
«Non potevo accettare la verità storica, ammesso che ce ne sia una», spiega Bellocchio. «Dovevo inventarmi qualcosa di falso e infedele».
Quali fonti ha usato per il film?
«Il libro di Flamigni, le lettere di Moro e, per la cronaca della prigionia, mi è stato utile Il prigioniero della Braghetti, che non ho mai incontrato. Lo spirito di Buongiorno, notte non è nella documentazione storica, ma nella ribellione di Chiara, reale o utopistica che essa sia».
Come mai ha voluto dedicare questo film al suo papà?
«Mio padre è morto quando io avevo 16 anni. Aveva qualcosa in comune con Aldo Moro: anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore dalla profonda umanità. Un’immagine che è entrata piano piano a dare corpo al personaggio. Il film, in fondo, è tutta una storia di padri e figli. O figlie».
FARE I CONTI
COL PASSATO
intervista a Marco Bellocchio di Maurizio Turrioni
Al di là delle polemiche per la mancata vittoria a Venezia, la pellicola sul "caso Moro" fa riflettere. «Dopo 25 anni», dice il regista, «è ora di riaprire quel doloroso capitolo».
Un polverone. È quello che tanti, troppi, hanno sollevato attorno a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, il film sul "caso Moro" che sarebbe stato scippato del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Anacronistica la posizione di RaiCinema che, come produttrice, per bocca del suo amministratore Giancarlo Leone ha minacciato di non mandare più i suoi titoli al Lido. Caduta di stile condivisa da coloro che, in Tv o sui giornali, si sono scagliati contro la pellicola vincitrice senza neppure averla vista, per loro ammissione. E pur se si può comprenderne l’amarezza, ha sbagliato il regista a non restare a Venezia per ritirare il premio per la sceneggiatura, dichiarando: «Noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose!». Lo ribadiamo: Il ritorno del russo Andrey Zvyagintsev ha strameritato la vittoria.
Un dramma troppo coinvolgente
Ciò che è successo in seno alla giuria della Mostra lo ha spiegato il suo presidente Mario Monicelli: «Sono un ammiratore di Bellocchio. Il suo I pugni in tasca fu uno degli esordi più importanti. L’ora di religione è un capolavoro. Ma qui ci siamo trovati di fronte a un film (di chiara bellezza cinematografica) con un gruppetto di terroristi insicuri, confusi, impauriti, dominati da un sequestrato che è quasi il burattinaio. Una specie di glorificazione. E sembra che a farlo morire non siano quei ragazzi spaventati, ma un establishment di destra e di sinistra. Io e Stefano Accorsi abbiamo vissuto il film con tensione. Ma i giurati stranieri, che non sapevano del "caso Moro", non hanno capito».
Insomma, un dramma troppo radicato nella politica e nella coscienza italiana. Proprio per questo, però, un’occasione da non perdere per chi voglia rivisitare emotivamente atmosfere, ansie e tormenti degli "anni di piombo". Sia che abbia vissuto personalmente quei tragici 55 giorni del rapimento Moro, sia che in quel lontano 1978 fosse troppo giovane per averne memoria.
Dato che lo stile cinematografico dell’opera di Bellocchio è fuori discussione, le critiche pro e contro riguardano il cuore del film. Sdegnata Maria Fida Moro: «In un Paese libero la signora Anna Laura Braghetti ha il diritto di esprimersi e il regista Bellocchio di farne un film», ha detto la figlia dello statista. «Ma io ho il diritto sacrosanto di gridare il mio disappunto. Vedendo il film ho provato contrarietà e schifo. Mi sarebbe piaciuto un film sulla tenerezza e la sollecitudine di un papà brutalmente strappate. Non voglio più sentire parlare della sua tragica morte!».
Il contrappunto, però, è nelle parole che il fratello Giovanni ha affidato a una lettera per il regista Bellocchio: «È stato doloroso vedere il film, ma l’ho molto apprezzato. Questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace di accrescere la conoscenza della realtà. Penso che chi lo vedrà potrà cogliere il senso del dramma di un uomo di fronte a un destino tragico quanto insensato».
Vedendo le intense sequenze girate da Bellocchio, si può insomma pensarla come si vuole. Certo, però, il coinvolgimento è inevitabile.
«Ognuno ha la sua testa. Si può amare un film oppure no, sono io il primo a saperlo. Ma diciamo tutta la verità», dice fuori dai denti Bellocchio, «quello per la sceneggiatura è un premio marginale. Ho gradito di più quello della giuria dei giovani. E poi non è una questione di premi...».
Che cosa intende dire?
«Questo film ha per me un’importanza e senso davvero speciali. Io che sono stato solo spettatore di quegli eventi, che avevo una ridicola e utopistica militanza politica dieci anni prima, al tempo della tragedia mi sono tenuto a distanza, ho chiuso gli occhi. Ecco, 25 anni dopo ci sono le condizioni per ripensare a un qualcosa che riguarda tutti, me per primo. È ora di fare i conti con un passato lasciato in sospeso».
Il regista lo fa fin dalle prime sequenze. Notte e giorno. Verità e bugia. Luce e buio, anche nell’anima. Ossimori. Contraddizioni che la brigatista Chiara (Maya Sansa) vive in modo insostenibile, dividendo le giornate tra la grigia quotidianità del lavoro impiegatizio e il suo segreto compito di vivandiera per Aldo Moro, il rapito, l’uomo politico più importante nell’Italia di fine anni ’70.
I processi proletari condotti dagli altri brigatisti, Mariano (Luigi Lo Cascio) ed Ernesto (Piergiorgio Bellocchio, figlio del sessantaquattrenne regista piacentino). I dialoghi sulla morte e la paura. Gli sguardi rubati dal buco della serratura sul dramma privato dello statista (ben incarnato dall’attore Roberto Herlitzka). È un rapporto umano quello tra Chiara e il recluso?
La terrorista finirà per far vincere la pietà liberando, almeno con l’immaginazione, quell’uomo solo che fu Moro.
«Non potevo accettare la verità storica, ammesso che ce ne sia una», spiega Bellocchio. «Dovevo inventarmi qualcosa di falso e infedele».
Quali fonti ha usato per il film?
«Il libro di Flamigni, le lettere di Moro e, per la cronaca della prigionia, mi è stato utile Il prigioniero della Braghetti, che non ho mai incontrato. Lo spirito di Buongiorno, notte non è nella documentazione storica, ma nella ribellione di Chiara, reale o utopistica che essa sia».
Come mai ha voluto dedicare questo film al suo papà?
«Mio padre è morto quando io avevo 16 anni. Aveva qualcosa in comune con Aldo Moro: anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore dalla profonda umanità. Un’immagine che è entrata piano piano a dare corpo al personaggio. Il film, in fondo, è tutta una storia di padri e figli. O figlie».
***sul Corsera del 18 settembre: Marco Bellocchio discute con Macaluso, Follini, Franchi
Corriere della Sera 18.9.03
Moro, simbolo di una tragedia irrisolta «Ma perché la sinistra ora lo ammira?»
(a cura di Paolo Franchi)
Incontro al «Corriere» dopo il film di Bellocchio tra il regista, un ex comunista e un ex democristiano Macaluso: in quelle sue lettere non c’era viltà. Follini: nessuna differenza tra il politico e il prigioniero
LA DISCUSSIONE
Moro, la Dc e il Pci Dubbi e tormenti di un caso mai chiuso
Emanuele Macaluso, all’epoca del sequestro Moro dirigente del Pci, e Marco Follini, allora leader dei giovani dc, discutono - in un incontro al Corriere - con il regista Bellocchio e con Paolo Franchi di Buongiorno, notte , il film che ha riaperto le polemiche. Bellocchio: «Non voglio fare un’obiezione politica alla fermezza. Ma qualcuno, non solo Craxi, quella logica non la condivise. E questo è stato cancellato per anni». Macaluso: «No, quelle divisioni hanno pesato». Follini: «C’era timore per l’incognita che Moro libero avrebbe rappresentato per i rapporti politici».
Franchi: partiamo dalle sequenze finali del film. Da una parte la Basilica di San Giovanni, quel funerale di Stato senza salma, quella classe dirigente muta, quasi spettrale, che dà quasi fisicamente il senso della fine della Prima Repubblica. Dall'altra, quel Moro «sognato», che se ne va libero per le vie di Roma e dà l'impressione di fuggire certo dalle Brigate Rosse, ma anche da quella classe dirigente.
Bellocchio: la convinzione che ci fossero le condizioni per fare questo film non è stata dettata dalla volontà di affermare una tesi politica, ma dalla riflessione e dalla lettura di molti libri. Anche all’epoca, io ero fuori dalla politica attiva. Ma il sequestro prima e poi l'uccisione di Moro mi lasciarono sbigottito. Già allora mi chiesi, e poi ho continuato a chiedermi, se, proprio quando tutto sembrava già scritto secondo regole ferree, non si potesse trovare invece la forza di romperle, queste regole. Di cedere, apparentemente, ma in nome di un principio di libertà. Io non so e non voglio fare un'obiezione politica a tutte le ragioni, concrete e di principio, invocate per resistere, per non trattare, per rifiutarsi a gesti, anche unilaterali, che avrebbero potuto, forse, salvare la vita di Moro. Però so bene che qualcuno, non credo soltanto Craxi, anche altri, anche molti intellettuali, questa logica non la condivisero. Tutto ciò è stato quasi cancellato, quasi nascosto per anni.
Macaluso : Bellocchio dice una cosa giusta: il suo è un film che vuole raccogliere nel pubblico un consenso fondato sulle emozioni che provoca. Lo dico perché, di questi tempi, in Italia, si discute anche di film che pretendono di offrirci «la vera storia» di questo o quel momento delle nostre vicende nazionali. Bellocchio, fortunatamente, fa una cosa diversa, ci racconta, da artista, i comportamenti, le sensazioni, i tormenti, le arroganze e, come lui stesso ha detto, le stupidità di quei 55 giorni nell’appartamento dove fu tenuto prigioniero Moro.
Franchi: Ma questo film ha suscitato anche polemiche aspre.
Macaluso: Certo, e non possono essere ignorate. Io non sono d'accordo con Bellocchio: le divisioni non sono state nascoste, né allora né negli anni successivi, hanno attraversato la storia italiana, non foss'altro perché l'esecuzione di Moro significò anche la fine politica delle Brigate Rosse, e perché è da quel momento, non dal '92 e nemmeno dall'89, che inizia la crisi del sistema politico. Il Pci fu, come il gruppo dirigente della Dc, sulla linea della fermezza. E le ragioni per cui la scelse furono più d'una. Certo, era appena entrato nella maggioranza, doveva dimostrare con i fatti la sua fedeltà allo Stato e la sua intransigenza verso l'eversione di sinistra. Ma la generazione che entrava nella maggioranza aveva succhiato il latte dalla generazione precedente, quella del ferro e del fuoco, gente che aveva fatto anni e anni di carcere. La loro idea era: chi assume una responsabilità politica, deve sapere che c'è un rischio, e deve correrlo fino in fondo. A pensarla così, badate, non erano solo i comunisti. Così la vedevano anche Pertini, Valiani, La Malfa: comunisti, socialisti, azionisti convinti che la grazia non andasse chiesta né a Mussolini né alle Brigate Rosse. Per una parte della Dc e del mondo cattolico, per Moro, e anche per una parte della sinistra, la storia era diversa, perché diversa era la concezione della politica e del rapporto con lo Stato. Qui nasce la contraddizione, qui nasce la difficoltà, per i comunisti ma, più in generale, per tutti i laici del cosiddetto partito della fermezza, e anche per alcuni amici personali di Moro, di prendere atto che le sue lettere dal carcere brigatista non solo non erano un atto di viltà, ma esprimevano il suo modo di vedere il rapporto tra l'uomo, la famiglia, la politica e lo Stato. Penso che in questa contraddizione Moro sia rimasto stritolato, e che questa contraddizione, questo travaglio, dal film di Bellocchio, che ci mostra i personaggi «folli e stupidi», così li definisce lui, dell'appartamento, e la classe politica marmificata del funerale, non emergano appieno.
Franchi: ma lei esclude che le Brigate Rosse fossero eterodirette?
Macaluso: no, non lo ho mai creduto. Però fatico anche a credere, perché conosco il loro mondo, il mondo della politica e il mondo che sta attorno alla politica, che non ci siano state, delle intersezioni, degli intrecci, diciamo così, tra le Br e alcuni poteri visibili e soprattutto invisibili. Non dimentichiamo che Moro era anche un personaggio odiatissimo.
Follini: questo film ha due grandi meriti. Il primo è che sono più le domande che pone che le risposte che cerca di dare: riapre una ferita e molti dilemmi, togliendo di mezzo l'idea che quei 55 giorni siano stati, se così posso dire, una tragedia a lieto fine, nella quale abbiamo pagato prima con la vita di 5 uomini massacrati, poi con quella di Moro, la liberazione del Paese dall'incubo delle Br. Il secondo è che ci restituisce Moro per quello che era. Io l’ho conosciuto e lo ricordo così, anche in certi dettagli. Il Moro che dà del lei ai carcerieri può anche suonare ottocentesco, ma esprime un rispetto e anche un distacco un po' cattedratico che erano davvero suoi, così come l'attenzione e la curiosità per l'altro: ogni individuo rappresentava per lui un mondo irripetibile, anche la persona più lontana portava in dote qualche argomento. Il Moro prigioniero non era diverso dal Moro che ho conosciuto, quelle lettere esprimono il suo pensiero, il film aiuta a spazzare via la paccottiglia di quei giorni, spesso non proprio disinteressata, diffusa per sostenere che non erano moralmente ascrivibili a lui. La mancanza di senso dello Stato non c'entra niente. C'era forse un istinto di difesa personale, ma soprattutto un estremo tentativo di governare politicamente anche il più drammatico dei passaggi. Questo il film lo coglie. Mi convince meno la rappresentazione dei brigatisti. Troppo rispettosi, troppo ossequiosi, troppo attenti ad evitare che il gatto mangi il canarino. E fatico a capire quel segno della croce.
Bellocchio: vuole esprimere la dimensione religiosa, in senso fondamentalista, dei brigatisti...
Follini: capisco. Ma alla fine viene fuori un'idea un po' troppo edulcorata dei terroristi. Sono perplesso, poi, su come nel film viene rappresentato il mondo delle istituzioni e del potere, che doveva decidere cosa fare in termini di gestione quotidiana di un Paese che aveva un apparato di sicurezza sotto scacco, e doveva reagire ad un colpo durissimo. Quanto a Moro: è stato nello stesso tempo il campione della democrazia consociativa e il campione dell'alternanza prossima ventura, a lui guardavano tanto i sostenitori di una grande coalizione destinata a guidare per un lungo periodo il Paese quanto quelli che invece pensavano che la naturale conclusione di quella stagione dovesse essere esattamente opposta. Questo problema Moro stesso non ebbe il tempo di risolverlo. Ma è stato l'uomo che si è avvicinato di più all'idea che il conflitto tra forze diverse potesse essere tenuto entro confini di civiltà, direi anche di umanità: lo conferma paradossalmente il fatto che applica questo canone perfino a coloro che lo hanno rapito e lo uccideranno. Detto questo, attenzione. Moro era certamente rispettoso e votato al confronto, ma sapeva essere durissimo nella contrapposizione, anche con i comunisti: non era un uomo dello scirocco.
Macaluso: Bellocchio, ma lei che idea si è fatto dei brigatisti? Dal film non l’ho capito bene...
Bellocchio: io cerco di raccontare la loro quotidianità mentre di là c'è un signore chiuso a chiave che interrogano e con cui in un certo modo dialogano e trattano. A sinistra qualcuno mi accusa per averli rappresentati all’acqua di rose, altri perché il Moro del film è troppo umano. Io non dico che fossero geni del male, queste categorie non mi appartengono. Ho detto, e confermo, che erano folli e stupidi. Moro in qualcosa mi fa venire in mente mio padre, ma nel rappresentarlo mi sono mosso in maniera assolutamente libera. Era molto più intelligente dei brigatisti perché aveva un rapporto con la realtà umana assai più sicuro, più profondo e più complesso. Loro, dietro l’ideologia, erano disumani.
Follini: mi piacerebbe capire meglio la ragione che porta un regista di sinistra a fare un film come questo. Io all’epoca ero un giovane moroteo, ma l'opinione dominante vedeva in Moro il bastione del potere democristiano che doveva essere abbattuto. Perché questa ammirazione postuma? Lo stesso gruppo dirigente comunista guardava a lui come all’interlocutore naturale, ma temeva che fosse l’avversario più insidioso.
Macaluso: se è per questo, oggi c’è una sinistra radicale che, probabilmente in omaggio alla questione morale, ha assunto per paradosso come riferimenti Moro e Berlinguer, due grandi mediatori, due teorici del compromesso, considerati gli unici leader salvabili della Prima Repubblica.
Franchi: il Moro che se ne va libero alla fine del film mi ha rievocato una sensazione che provai anche in quei giorni, e cioè che molti, all’interno del partito della fermezza, temessero che Moro tornato in libertà sarebbe stato molto diverso dal Moro rapito il 16 marzo.
Follini: Moro aveva capito già nel ’68 che il rapporto con il mondo giovanile era molto segnato. Era al vertice del sistema politico, ma intuiva che quella piramide aveva basi fragili, e quindi richiedeva alla politica una grande capacità di inclusione di tutto quello che ne era fuori. Questo è certo. Non sappiamo, invece, quale Moro sarebbe tornato, e quale peso avrebbe avuto, e se lo avrebbe utilizzato per puntellare quel sistema, o per aprirlo, o forse, chissà, per scardinarlo. Ricordo bene molti degli stati d'animo che lei descrive, non voglio aggiungere malizia, penso che tutti lo volessero sano e salvo. Ma certo c’era anche timore per un’incognita che non riguardava solo i rapporti politici, ma l’idea di rapporto tra potere e società che Moro si sarebbe potuto portare in spalla.
Moro, simbolo di una tragedia irrisolta «Ma perché la sinistra ora lo ammira?»
(a cura di Paolo Franchi)
Incontro al «Corriere» dopo il film di Bellocchio tra il regista, un ex comunista e un ex democristiano Macaluso: in quelle sue lettere non c’era viltà. Follini: nessuna differenza tra il politico e il prigioniero
LA DISCUSSIONE
Moro, la Dc e il Pci Dubbi e tormenti di un caso mai chiuso
Emanuele Macaluso, all’epoca del sequestro Moro dirigente del Pci, e Marco Follini, allora leader dei giovani dc, discutono - in un incontro al Corriere - con il regista Bellocchio e con Paolo Franchi di Buongiorno, notte , il film che ha riaperto le polemiche. Bellocchio: «Non voglio fare un’obiezione politica alla fermezza. Ma qualcuno, non solo Craxi, quella logica non la condivise. E questo è stato cancellato per anni». Macaluso: «No, quelle divisioni hanno pesato». Follini: «C’era timore per l’incognita che Moro libero avrebbe rappresentato per i rapporti politici».
Franchi: partiamo dalle sequenze finali del film. Da una parte la Basilica di San Giovanni, quel funerale di Stato senza salma, quella classe dirigente muta, quasi spettrale, che dà quasi fisicamente il senso della fine della Prima Repubblica. Dall'altra, quel Moro «sognato», che se ne va libero per le vie di Roma e dà l'impressione di fuggire certo dalle Brigate Rosse, ma anche da quella classe dirigente.
Bellocchio: la convinzione che ci fossero le condizioni per fare questo film non è stata dettata dalla volontà di affermare una tesi politica, ma dalla riflessione e dalla lettura di molti libri. Anche all’epoca, io ero fuori dalla politica attiva. Ma il sequestro prima e poi l'uccisione di Moro mi lasciarono sbigottito. Già allora mi chiesi, e poi ho continuato a chiedermi, se, proprio quando tutto sembrava già scritto secondo regole ferree, non si potesse trovare invece la forza di romperle, queste regole. Di cedere, apparentemente, ma in nome di un principio di libertà. Io non so e non voglio fare un'obiezione politica a tutte le ragioni, concrete e di principio, invocate per resistere, per non trattare, per rifiutarsi a gesti, anche unilaterali, che avrebbero potuto, forse, salvare la vita di Moro. Però so bene che qualcuno, non credo soltanto Craxi, anche altri, anche molti intellettuali, questa logica non la condivisero. Tutto ciò è stato quasi cancellato, quasi nascosto per anni.
Macaluso : Bellocchio dice una cosa giusta: il suo è un film che vuole raccogliere nel pubblico un consenso fondato sulle emozioni che provoca. Lo dico perché, di questi tempi, in Italia, si discute anche di film che pretendono di offrirci «la vera storia» di questo o quel momento delle nostre vicende nazionali. Bellocchio, fortunatamente, fa una cosa diversa, ci racconta, da artista, i comportamenti, le sensazioni, i tormenti, le arroganze e, come lui stesso ha detto, le stupidità di quei 55 giorni nell’appartamento dove fu tenuto prigioniero Moro.
Franchi: Ma questo film ha suscitato anche polemiche aspre.
Macaluso: Certo, e non possono essere ignorate. Io non sono d'accordo con Bellocchio: le divisioni non sono state nascoste, né allora né negli anni successivi, hanno attraversato la storia italiana, non foss'altro perché l'esecuzione di Moro significò anche la fine politica delle Brigate Rosse, e perché è da quel momento, non dal '92 e nemmeno dall'89, che inizia la crisi del sistema politico. Il Pci fu, come il gruppo dirigente della Dc, sulla linea della fermezza. E le ragioni per cui la scelse furono più d'una. Certo, era appena entrato nella maggioranza, doveva dimostrare con i fatti la sua fedeltà allo Stato e la sua intransigenza verso l'eversione di sinistra. Ma la generazione che entrava nella maggioranza aveva succhiato il latte dalla generazione precedente, quella del ferro e del fuoco, gente che aveva fatto anni e anni di carcere. La loro idea era: chi assume una responsabilità politica, deve sapere che c'è un rischio, e deve correrlo fino in fondo. A pensarla così, badate, non erano solo i comunisti. Così la vedevano anche Pertini, Valiani, La Malfa: comunisti, socialisti, azionisti convinti che la grazia non andasse chiesta né a Mussolini né alle Brigate Rosse. Per una parte della Dc e del mondo cattolico, per Moro, e anche per una parte della sinistra, la storia era diversa, perché diversa era la concezione della politica e del rapporto con lo Stato. Qui nasce la contraddizione, qui nasce la difficoltà, per i comunisti ma, più in generale, per tutti i laici del cosiddetto partito della fermezza, e anche per alcuni amici personali di Moro, di prendere atto che le sue lettere dal carcere brigatista non solo non erano un atto di viltà, ma esprimevano il suo modo di vedere il rapporto tra l'uomo, la famiglia, la politica e lo Stato. Penso che in questa contraddizione Moro sia rimasto stritolato, e che questa contraddizione, questo travaglio, dal film di Bellocchio, che ci mostra i personaggi «folli e stupidi», così li definisce lui, dell'appartamento, e la classe politica marmificata del funerale, non emergano appieno.
Franchi: ma lei esclude che le Brigate Rosse fossero eterodirette?
Macaluso: no, non lo ho mai creduto. Però fatico anche a credere, perché conosco il loro mondo, il mondo della politica e il mondo che sta attorno alla politica, che non ci siano state, delle intersezioni, degli intrecci, diciamo così, tra le Br e alcuni poteri visibili e soprattutto invisibili. Non dimentichiamo che Moro era anche un personaggio odiatissimo.
Follini: questo film ha due grandi meriti. Il primo è che sono più le domande che pone che le risposte che cerca di dare: riapre una ferita e molti dilemmi, togliendo di mezzo l'idea che quei 55 giorni siano stati, se così posso dire, una tragedia a lieto fine, nella quale abbiamo pagato prima con la vita di 5 uomini massacrati, poi con quella di Moro, la liberazione del Paese dall'incubo delle Br. Il secondo è che ci restituisce Moro per quello che era. Io l’ho conosciuto e lo ricordo così, anche in certi dettagli. Il Moro che dà del lei ai carcerieri può anche suonare ottocentesco, ma esprime un rispetto e anche un distacco un po' cattedratico che erano davvero suoi, così come l'attenzione e la curiosità per l'altro: ogni individuo rappresentava per lui un mondo irripetibile, anche la persona più lontana portava in dote qualche argomento. Il Moro prigioniero non era diverso dal Moro che ho conosciuto, quelle lettere esprimono il suo pensiero, il film aiuta a spazzare via la paccottiglia di quei giorni, spesso non proprio disinteressata, diffusa per sostenere che non erano moralmente ascrivibili a lui. La mancanza di senso dello Stato non c'entra niente. C'era forse un istinto di difesa personale, ma soprattutto un estremo tentativo di governare politicamente anche il più drammatico dei passaggi. Questo il film lo coglie. Mi convince meno la rappresentazione dei brigatisti. Troppo rispettosi, troppo ossequiosi, troppo attenti ad evitare che il gatto mangi il canarino. E fatico a capire quel segno della croce.
Bellocchio: vuole esprimere la dimensione religiosa, in senso fondamentalista, dei brigatisti...
Follini: capisco. Ma alla fine viene fuori un'idea un po' troppo edulcorata dei terroristi. Sono perplesso, poi, su come nel film viene rappresentato il mondo delle istituzioni e del potere, che doveva decidere cosa fare in termini di gestione quotidiana di un Paese che aveva un apparato di sicurezza sotto scacco, e doveva reagire ad un colpo durissimo. Quanto a Moro: è stato nello stesso tempo il campione della democrazia consociativa e il campione dell'alternanza prossima ventura, a lui guardavano tanto i sostenitori di una grande coalizione destinata a guidare per un lungo periodo il Paese quanto quelli che invece pensavano che la naturale conclusione di quella stagione dovesse essere esattamente opposta. Questo problema Moro stesso non ebbe il tempo di risolverlo. Ma è stato l'uomo che si è avvicinato di più all'idea che il conflitto tra forze diverse potesse essere tenuto entro confini di civiltà, direi anche di umanità: lo conferma paradossalmente il fatto che applica questo canone perfino a coloro che lo hanno rapito e lo uccideranno. Detto questo, attenzione. Moro era certamente rispettoso e votato al confronto, ma sapeva essere durissimo nella contrapposizione, anche con i comunisti: non era un uomo dello scirocco.
Macaluso: Bellocchio, ma lei che idea si è fatto dei brigatisti? Dal film non l’ho capito bene...
Bellocchio: io cerco di raccontare la loro quotidianità mentre di là c'è un signore chiuso a chiave che interrogano e con cui in un certo modo dialogano e trattano. A sinistra qualcuno mi accusa per averli rappresentati all’acqua di rose, altri perché il Moro del film è troppo umano. Io non dico che fossero geni del male, queste categorie non mi appartengono. Ho detto, e confermo, che erano folli e stupidi. Moro in qualcosa mi fa venire in mente mio padre, ma nel rappresentarlo mi sono mosso in maniera assolutamente libera. Era molto più intelligente dei brigatisti perché aveva un rapporto con la realtà umana assai più sicuro, più profondo e più complesso. Loro, dietro l’ideologia, erano disumani.
Follini: mi piacerebbe capire meglio la ragione che porta un regista di sinistra a fare un film come questo. Io all’epoca ero un giovane moroteo, ma l'opinione dominante vedeva in Moro il bastione del potere democristiano che doveva essere abbattuto. Perché questa ammirazione postuma? Lo stesso gruppo dirigente comunista guardava a lui come all’interlocutore naturale, ma temeva che fosse l’avversario più insidioso.
Macaluso: se è per questo, oggi c’è una sinistra radicale che, probabilmente in omaggio alla questione morale, ha assunto per paradosso come riferimenti Moro e Berlinguer, due grandi mediatori, due teorici del compromesso, considerati gli unici leader salvabili della Prima Repubblica.
Franchi: il Moro che se ne va libero alla fine del film mi ha rievocato una sensazione che provai anche in quei giorni, e cioè che molti, all’interno del partito della fermezza, temessero che Moro tornato in libertà sarebbe stato molto diverso dal Moro rapito il 16 marzo.
Follini: Moro aveva capito già nel ’68 che il rapporto con il mondo giovanile era molto segnato. Era al vertice del sistema politico, ma intuiva che quella piramide aveva basi fragili, e quindi richiedeva alla politica una grande capacità di inclusione di tutto quello che ne era fuori. Questo è certo. Non sappiamo, invece, quale Moro sarebbe tornato, e quale peso avrebbe avuto, e se lo avrebbe utilizzato per puntellare quel sistema, o per aprirlo, o forse, chissà, per scardinarlo. Ricordo bene molti degli stati d'animo che lei descrive, non voglio aggiungere malizia, penso che tutti lo volessero sano e salvo. Ma certo c’era anche timore per un’incognita che non riguardava solo i rapporti politici, ma l’idea di rapporto tra potere e società che Moro si sarebbe potuto portare in spalla.
Marco Bellocchio, alla presentazione del film a Piacenza
Libertà 18.9.03
Spettacoli
Il pubblico del Jolly applaude calorosamente “Buongiorno, notte” e il regista bobbiese durante l'incontro dell'altra sera
Bellocchio, essere liberi solo nella verità
«La storia di Moro non offre alternative ma può servire per il domani»
C'è fermento in uno dei soliti, angusti interni tipici del cinema di Marco Bellocchio. Quattro brigatisti hanno appena rapito Aldo Moro e lo nascondono in una stanza bunker dell'appartamento. La sua è una di quelle tragedie che si vorrebbero cambiare con un tocco magico, o magari solo con l'uso della fantasia. Eppure gli eventi che furono li conosciamo tutti e, proprio perché immutabili, ci angosciano. Ma ciò che non sapevamo è che Bellocchio concede una via di fuga, certamente non reale, né palpabile, da rintracciare nel sogno della brigatista meno convinta, Chiara (Maya Sansa) o, chissà, forse solo nelle sue fantasticherie, che sanno essere più dolci della realtà; quelle fantasticherie in cui il prigioniero esce dalla porta e cammina per strada libero e sorridente. Immagini di repertorio che spaccano il cuore; e poi tante parole importanti, come morte, condanna, soldati, guerra rivoluzionaria; contrapposizioni come responsabilità e colpevolezza, uomo e simbolo; oggetti come un crocifisso che pende sul letto del carnefice e lettere come unico residuo della memoria; gesti come la lettura delle proprie missive, dando le spalle ai propri futuri assassini; tanti segni della croce sprecati che ci rimandano all'Ora di religione. E poi confessioni struggenti («vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come si vedrà dopo») e moniti inquietanti («quando vedrà il mio cadavere, la gente non capirà»), in un'opera che attraversa il passato, si chiama fuori dallo schieramento ideologico ma ci congela di fronte alla cecità di esso, concede a parti e controparti l'opportunità di esporre le proprie ragioni e di rincorrere le proprie utopie ma, infine, rivive dolorosamente nel nostro odierno. Un'essenzialità stilistica che non fa la minima sbavatura regala lacrime amare ed emozioni struggenti e ridisegna una figura esile di un uomo che chiede dignità e suscita pietà e rispetto. Tanto rispetto. Per tutti questi motivi e per tanti altri ancora, che si nascondono in ogni singolo fotogramma di questa splendida pellicola, il pubblico del cinema Jolly di San Nicolò applaude con commozione Buongiorno, notte e accoglie calorosamente l'entrata in sala di Marco Bellocchio, accompagnato dall'inseparabile Gianni Schicchi, nel corso di un incontro realizzato in tempi brevissimi, attraverso cui il regista, confrontandosi col pubblico, spiega la genesi e il significato della propria opera. Bellocchio ha preso spunto dal libro-confessione della brigatista Anna Braghetti, Il prigioniero, pur non volendo realizzare un film che vivesse su un giudizio, una condanna alle Br: «Io non sono né uno storico né un politico; quando Rai Cinema mi chiese se fossi interessato a girare un film su questo tragico fatto, sottolineai di non voler sposare una tesi. Al tempo della uccisione di Moro ero già adulto e, ripensando ad allora, mi tornavano alla mente immagini che mi erano familiari. E capii che c'era la possibilità di fare un film di fantasia, di immagini: molte delle scene del film, per l'appunto, partono da dati di cronaca per diventare qualcos'altro, che viene sviluppato, “falsificato”». C'è chi, nel suo film, ha individuato la metafora delle ideologie come gabbia in cui si rimane prigionieri. Inevitabile, dunque, approdare al tema “libertà”: «C'è una libertà di fondo che ogni uomo dovrebbe perseguire. La libertà è la possibilità che, nel film, viene espressa dall'immagine di Moro che passeggia sotto la pioggia. Quando mancò la libertà lo Stato iniziò a negare la veridicità delle lettere che il politico scriveva ai familiari. Non ebbe libertà, in quel caso, di considerarle vere, rimanendo vincolato dalla linea della fermezza. Solo Sciascia ha sollevato il dubbio andando molto più in profondità nell'“affaire Moro” di quanto abbiano fatto tanti politici. Ma non lo fece lo Stato o, per lo meno, gran parte di esso». A qualcuno non è andato giù questo incontro tra cronaca ed elaborazione artistica: «In molti mi hanno attaccato, senza però dare il giusto significato al discorso della rappresentazione, del fare immagini. Il figlio di Moro, Giovanni - prosegue il regista - ha apprezzato il mio film perché l'infedeltà con cui è rappresentato il padre dà alla figura di questi una profondità che nessun giornalista poteva dare. Anche Follini, segretario dell'Udc che al tempo conobbe Moro, ha ritrovato nel mio film una figura molto corrispondente». E quando si inizia a discutere sull'importanza di una “seconda possibilità”, Bellocchio aggiunge: «La vita, la storia non offrono alternative. Ma possono servire comunque per quello che ci capiterà domani». Poi conclude: «Sono un cittadino e faccio questo lavoro. Certo, non mi aspettavo tanta ebollizione: rabbia, adesione, emozione da parte di coloro che nel '79 erano ragazzi, adulti e di chi non era nemmeno nato. E' estremamente interessante constatare, appunto, le diverse reazioni che il film ha suscitato; a Venezia, ad esempio, un uomo che al tempo dell'uccisione faceva l'operaio mi confessò: “Quando seppi dell'uccisione di Moro, fui uno di quelli che applaudii. Ora mi viene da piangere”».
Spettacoli
Il pubblico del Jolly applaude calorosamente “Buongiorno, notte” e il regista bobbiese durante l'incontro dell'altra sera
Bellocchio, essere liberi solo nella verità
«La storia di Moro non offre alternative ma può servire per il domani»
C'è fermento in uno dei soliti, angusti interni tipici del cinema di Marco Bellocchio. Quattro brigatisti hanno appena rapito Aldo Moro e lo nascondono in una stanza bunker dell'appartamento. La sua è una di quelle tragedie che si vorrebbero cambiare con un tocco magico, o magari solo con l'uso della fantasia. Eppure gli eventi che furono li conosciamo tutti e, proprio perché immutabili, ci angosciano. Ma ciò che non sapevamo è che Bellocchio concede una via di fuga, certamente non reale, né palpabile, da rintracciare nel sogno della brigatista meno convinta, Chiara (Maya Sansa) o, chissà, forse solo nelle sue fantasticherie, che sanno essere più dolci della realtà; quelle fantasticherie in cui il prigioniero esce dalla porta e cammina per strada libero e sorridente. Immagini di repertorio che spaccano il cuore; e poi tante parole importanti, come morte, condanna, soldati, guerra rivoluzionaria; contrapposizioni come responsabilità e colpevolezza, uomo e simbolo; oggetti come un crocifisso che pende sul letto del carnefice e lettere come unico residuo della memoria; gesti come la lettura delle proprie missive, dando le spalle ai propri futuri assassini; tanti segni della croce sprecati che ci rimandano all'Ora di religione. E poi confessioni struggenti («vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come si vedrà dopo») e moniti inquietanti («quando vedrà il mio cadavere, la gente non capirà»), in un'opera che attraversa il passato, si chiama fuori dallo schieramento ideologico ma ci congela di fronte alla cecità di esso, concede a parti e controparti l'opportunità di esporre le proprie ragioni e di rincorrere le proprie utopie ma, infine, rivive dolorosamente nel nostro odierno. Un'essenzialità stilistica che non fa la minima sbavatura regala lacrime amare ed emozioni struggenti e ridisegna una figura esile di un uomo che chiede dignità e suscita pietà e rispetto. Tanto rispetto. Per tutti questi motivi e per tanti altri ancora, che si nascondono in ogni singolo fotogramma di questa splendida pellicola, il pubblico del cinema Jolly di San Nicolò applaude con commozione Buongiorno, notte e accoglie calorosamente l'entrata in sala di Marco Bellocchio, accompagnato dall'inseparabile Gianni Schicchi, nel corso di un incontro realizzato in tempi brevissimi, attraverso cui il regista, confrontandosi col pubblico, spiega la genesi e il significato della propria opera. Bellocchio ha preso spunto dal libro-confessione della brigatista Anna Braghetti, Il prigioniero, pur non volendo realizzare un film che vivesse su un giudizio, una condanna alle Br: «Io non sono né uno storico né un politico; quando Rai Cinema mi chiese se fossi interessato a girare un film su questo tragico fatto, sottolineai di non voler sposare una tesi. Al tempo della uccisione di Moro ero già adulto e, ripensando ad allora, mi tornavano alla mente immagini che mi erano familiari. E capii che c'era la possibilità di fare un film di fantasia, di immagini: molte delle scene del film, per l'appunto, partono da dati di cronaca per diventare qualcos'altro, che viene sviluppato, “falsificato”». C'è chi, nel suo film, ha individuato la metafora delle ideologie come gabbia in cui si rimane prigionieri. Inevitabile, dunque, approdare al tema “libertà”: «C'è una libertà di fondo che ogni uomo dovrebbe perseguire. La libertà è la possibilità che, nel film, viene espressa dall'immagine di Moro che passeggia sotto la pioggia. Quando mancò la libertà lo Stato iniziò a negare la veridicità delle lettere che il politico scriveva ai familiari. Non ebbe libertà, in quel caso, di considerarle vere, rimanendo vincolato dalla linea della fermezza. Solo Sciascia ha sollevato il dubbio andando molto più in profondità nell'“affaire Moro” di quanto abbiano fatto tanti politici. Ma non lo fece lo Stato o, per lo meno, gran parte di esso». A qualcuno non è andato giù questo incontro tra cronaca ed elaborazione artistica: «In molti mi hanno attaccato, senza però dare il giusto significato al discorso della rappresentazione, del fare immagini. Il figlio di Moro, Giovanni - prosegue il regista - ha apprezzato il mio film perché l'infedeltà con cui è rappresentato il padre dà alla figura di questi una profondità che nessun giornalista poteva dare. Anche Follini, segretario dell'Udc che al tempo conobbe Moro, ha ritrovato nel mio film una figura molto corrispondente». E quando si inizia a discutere sull'importanza di una “seconda possibilità”, Bellocchio aggiunge: «La vita, la storia non offrono alternative. Ma possono servire comunque per quello che ci capiterà domani». Poi conclude: «Sono un cittadino e faccio questo lavoro. Certo, non mi aspettavo tanta ebollizione: rabbia, adesione, emozione da parte di coloro che nel '79 erano ragazzi, adulti e di chi non era nemmeno nato. E' estremamente interessante constatare, appunto, le diverse reazioni che il film ha suscitato; a Venezia, ad esempio, un uomo che al tempo dell'uccisione faceva l'operaio mi confessò: “Quando seppi dell'uccisione di Moro, fui uno di quelli che applaudii. Ora mi viene da piangere”».
Marco Bellocchio, a Telelibertà
Libertà 18.9.03
Il mancato “leone” a venezia
«Monicelli non ha voluto premiarmi»
In una intervista a Maria Vittoria Gazzola per Telelibertà, Marco Bellocchio è tornato sulla vicenda della Mostra del Cinema di Venezia e lo ha fatto con toni molto duri nei confronti del presidente della giuria, il regista Mario Monicelli. Un film di successo che ha lasciato l'amaro in bocca? "L'amarezza deriva dal fatto che la sala stampa non faceva che applaudire, significa che c'è stata emozione, consenso, entusiasmo da parte del pubblico più difficile che è quello dei critici e di giornalisti, consensi anche dalla sala". Forse il tema era molto italiano? "Di fatto pare che il mancato premio sia proprio dovuto agli italiani, cioè uno pensa che gli stranieri non capiscano, invece sta venendo sempre più fuori che è il presidente che non ha voluto premiare, il presidente che è stato ostile, il presidente che ha detto no. Evidentemente perché ha pensato la storia d'Italia un po' con l'ottusità del politico, ha detto che il sequestro Moro non è come Bellocchio lo descrive quindi non è che lo punisco, non lo voglio premiare. Pare invece che i giurati stranieri fossero più favorevoli verso il film di quanto lo fosse lui".
Il mancato “leone” a venezia
«Monicelli non ha voluto premiarmi»
In una intervista a Maria Vittoria Gazzola per Telelibertà, Marco Bellocchio è tornato sulla vicenda della Mostra del Cinema di Venezia e lo ha fatto con toni molto duri nei confronti del presidente della giuria, il regista Mario Monicelli. Un film di successo che ha lasciato l'amaro in bocca? "L'amarezza deriva dal fatto che la sala stampa non faceva che applaudire, significa che c'è stata emozione, consenso, entusiasmo da parte del pubblico più difficile che è quello dei critici e di giornalisti, consensi anche dalla sala". Forse il tema era molto italiano? "Di fatto pare che il mancato premio sia proprio dovuto agli italiani, cioè uno pensa che gli stranieri non capiscano, invece sta venendo sempre più fuori che è il presidente che non ha voluto premiare, il presidente che è stato ostile, il presidente che ha detto no. Evidentemente perché ha pensato la storia d'Italia un po' con l'ottusità del politico, ha detto che il sequestro Moro non è come Bellocchio lo descrive quindi non è che lo punisco, non lo voglio premiare. Pare invece che i giurati stranieri fossero più favorevoli verso il film di quanto lo fosse lui".
candidato all'Oscar?
Il Resto del Carlino 18.9.03
Anche Bellocchio in pole
ROMA — Cinque film per un posto nella Notte degli Oscar. In pole position per rappresentare l'Italia all'Oscar ci sono infatti "Ricordati di me" di Muccino, "Io non ho paura" di Salvatores, "La finestra di fronte" di Ozpetek, "Il cuore altrove" di Avati, ma anche (ultima sopresa) "Buongiorno, notte" di Bellocchio. Il film italiano sarà designato quest'anno il 30 settembre.
Anche Bellocchio in pole
ROMA — Cinque film per un posto nella Notte degli Oscar. In pole position per rappresentare l'Italia all'Oscar ci sono infatti "Ricordati di me" di Muccino, "Io non ho paura" di Salvatores, "La finestra di fronte" di Ozpetek, "Il cuore altrove" di Avati, ma anche (ultima sopresa) "Buongiorno, notte" di Bellocchio. Il film italiano sarà designato quest'anno il 30 settembre.
i familiari dei malati psichiatrici
Corriere della Sera Cronaca di Milano 18.9.03
Disagio e psiche: le famiglie fanno gruppo
di Marta Ghezzi
Nel mondo istituzionale della psichiatria non c’è spazio per i familiari. Per il loro dolore, per il loro disagio. Madri, padri, fratelli, mariti, mogli, figli, con vite altrettanto distrutte, perché quando la malattia psichica entra in una casa, coinvolge a tuttotondo anche chi vive con il malato, e ne stravolge la quotidianità. Un dolore e un disagio che devono trovare, quindi, forme e canali diversi per uscire allo scoperto. Ci prova, da sette anni, la Tartavela Associazione Familiari Milanese per una Milano Psicoattiva (via M.A. Colonna 57, telefono 02.39.26.57.92), che riunisce davanti a un tavolo, ogni giovedì dalle 20.45 alle 23.15, i parenti delle persone con problemi psichiatrici. «Una forma di scambio fra pari - spiega il presidente, Alberto Rovelli - per arricchirsi, trovare soluzioni, non cadere nel vittimismo, e anche, quando si riesce, recuperare un po’ di serenità». «Fra pari - sottolinea - perché solo chi vive questa esperienza può davvero capirne le angosce e le lacerazioni, e perché solo sapendo di essere in un ambiente dove tutti stanno sperimentando una stessa situazione, cadono barriere e tabù e ci si parla a cuore aperto».
Funziona? Sì, a guardare le statistiche delle presenze, 150 persone che hanno partecipato in modo costante a questo progetto di auto-aiuto negli ultimi anni, e le richieste per la creazione di nuovi gruppi. Dopo il nucleo storico di via Colonna, si è da poco costituito un secondo gruppo, che si ritrova, sempre di giovedì, sempre dalle 20.45 alle 23.15, al Padiglione Grossoni 1 dell’Ospedale Niguarda, e a breve dovrebbero nascerne altri in zone diverse della città.
© Corriere della Sera
Disagio e psiche: le famiglie fanno gruppo
di Marta Ghezzi
Nel mondo istituzionale della psichiatria non c’è spazio per i familiari. Per il loro dolore, per il loro disagio. Madri, padri, fratelli, mariti, mogli, figli, con vite altrettanto distrutte, perché quando la malattia psichica entra in una casa, coinvolge a tuttotondo anche chi vive con il malato, e ne stravolge la quotidianità. Un dolore e un disagio che devono trovare, quindi, forme e canali diversi per uscire allo scoperto. Ci prova, da sette anni, la Tartavela Associazione Familiari Milanese per una Milano Psicoattiva (via M.A. Colonna 57, telefono 02.39.26.57.92), che riunisce davanti a un tavolo, ogni giovedì dalle 20.45 alle 23.15, i parenti delle persone con problemi psichiatrici. «Una forma di scambio fra pari - spiega il presidente, Alberto Rovelli - per arricchirsi, trovare soluzioni, non cadere nel vittimismo, e anche, quando si riesce, recuperare un po’ di serenità». «Fra pari - sottolinea - perché solo chi vive questa esperienza può davvero capirne le angosce e le lacerazioni, e perché solo sapendo di essere in un ambiente dove tutti stanno sperimentando una stessa situazione, cadono barriere e tabù e ci si parla a cuore aperto».
Funziona? Sì, a guardare le statistiche delle presenze, 150 persone che hanno partecipato in modo costante a questo progetto di auto-aiuto negli ultimi anni, e le richieste per la creazione di nuovi gruppi. Dopo il nucleo storico di via Colonna, si è da poco costituito un secondo gruppo, che si ritrova, sempre di giovedì, sempre dalle 20.45 alle 23.15, al Padiglione Grossoni 1 dell’Ospedale Niguarda, e a breve dovrebbero nascerne altri in zone diverse della città.
© Corriere della Sera
il "Festival della Filosofia" da domani a Modena e dintorni
Libertà 18 settembre 2003
Modena: la vita al centro del Festival Filosofia
Da domani a domenica cento appuntamenti in città, a Carpi e a Sassuolo
di ELEONORA BAGAROTTI
Al via anche quest'anno, dal 19 al 21 settembre, il Festival Filosofia di Modena: cento gli appuntamenti previsti nella stessa città, a Carpi e a Sassuolo. Dopo il successo riscosso lo scorso anno con la seconda edizione del festival incentrata sul tema della “bellezza” (la prima era su quello della “felicità”), quest'anno la scelta si è orientata sulla “vita”. Nel centinaio di incontri, spiccano sicuramente le lezioni di di grandi maestri del pensiero filosofico contemporaneo: l'antropologo Jack Goody, il teologo Jürgen Moltmann, la filosofa ungherese Agnes Heller, lo psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, il sociologo Richard Sennett, il genetista Edoardo Boncinelli, il filosofo Umberto Galimberti e molti altri grandi pensatori dei nostri giorni, tra cui Fernando Savater e Remo Bodei. A coronamento, sono previste anche “cene filosofiche”, ideate da Tullio Gregory, e letture di Alessandro Bergonzoni, performance nelle stazioni e perfino sui vagoni dei treni, oltre a mostre, installazioni, proiezioni di film sull'argomento, concerti di fisarmoniche, laboratori per bambini e un bizzarro “convegno immaginario” a cura degli scrittori Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati. A Modena, per l'occasione, quest'anno sarà allestito un maxi schermo in piazza Grande coi collegamenti in diretta degli incontri più importanti che permetteranno agli spettatori che non riuscissero a trovare posto nei luoghi delle conferenze (cortili, saloni di palazzi antichi, chiese) di seguirne ugualmente lo svolgimento. Un vasto programma di “contorno” coinvolge letteratura, cinema, teatro e musica: in quest'ultima categoria andrà la narrazione sulla vita di Bach (un monologo con sottofondo di clavicembalo), un omaggio al compositore Luciano Berio, concerti di Claudio Lolli, performance delle fisarmoniche della città di Verona e dei salentini di Officina Zoe (che hanno composto la colonna sonora del nuovo film Il miracolo di Edoardo Winspeare, presentato alla mostra del cinema di Venezia). Numerose anche le mostre: da La vita delle forme, che propone a Modena oltre 300 opere grafiche di artisti del XX secolo - da Picasso a Warhol, da Ernst a Doisneau, da Lichtenstein a Ghirri, da Burri a Vedova - e l'originale l'installazione che l'artista Franco Vaccari presenterà al Palazzo dei Musei (il pubblico entra, siede su una poltrona e vede scorrere cortometraggi e fotografie che appartengono alla memoria personale dell'artista). Vaccari vuole, in tal modo, far riflettere i visitatori sulla malattia con una Provvista di ricordi per il tempo dell'Alzheimer. Infine, a Carpi, la Koiné porterà in scena le Georgiche di Virgilio in latino, italiano e dialetto modenese.
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
Gazzetta del Sud 18.9.03
Da domani a domenica il Festival di Modena, Carpi e Sassuolo
La Filosofia dà spettacolo
Spazio a tematiche di particolare attualità come bioetica e biopotere
di Rossella Martina
Chi apprezza il bollito misto sa che quantità e varietà sono un pregio; che parti raffinate benissimo si accostano con quelle credute meno nobili; che, nonostante l'apparenza, la preparazione richiede una scienza altissima di ogni singolo ingrediente, dei tempi, dei modi. È dunque un complimento dire che quest'anno, al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, si annuncia un carrello più che mai saporito e spettacolare. Da domani a domenica 21, piazze, aule, chiese dei tre comuni emiliani si riempiranno di quella specialissima folla di italiani (tantissimi i giovani) che ama la cultura, la insegue, la gusta, la anima. Lo scorso anno nel triangolo filosofico arrivarono 51.000 persone e quest'anno è presumibile che aumentino ulteriormente poiché il tema conduttore è potenzialmente adatto ad ogni palato: si parlerà infatti della vita, in 122 appuntamenti che vanno dalle lezioni magistrali di filosofi, sociologi, scienziati, alle mostre; dalle rassegne cinematografiche ai concerti, proseguendo con animazioni per bambini, laboratori, spettacoli. Si finisce (la giornata) con uno dei dieci menù della tradizione modenese, in tema col Festival, preparati, come nelle due edizioni precedenti, da Tullio Gregory, filosofo e studioso dell'enogastronomia italiana. In tavola (una trentina i ristoranti che aderiscono all'iniziativa) si serviranno la «Vita vegetale» (trionfo di verdure e legumi) o la «Dolce vita» (dedicata all'agrodolce), le «Vite silenziose» (a base di pesce) e «L'acqua della vita» con un trionfale e simbolico bollito misto. Dovendo necessariamente riassumere in breve gli obiettivi del vasto programma del Festival – organizzato dalla Fondazione Collegio San Carlo di Modena assieme ai tre Comuni, alla Provincia e ad un'encomiabile quantità di sponsor – vanno evidenziate alcune tematiche principali di particolare attualità come bioetica e biopotere oppure vita reale e vita virtuale; altri interrogativi che saranno discussi nella tre giorni filosofica, sono invece eterni, come il rapporto tra vita e morte e le concezioni dell'esistenza nella nostra cultura e in quelle extraeuropee. Tantissimi i grandi nomi internazionali della filosofia, ma, dato il tema, anche di altre scienze: tra i primi Agnes Heller, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Giulio Giorello, Fernando Savater, Laura Boella, Michel Maffesoli, Salvatore Veca, Adriana Cavarero; tra filosofia e psicanalisi Umberto Galimberti, lo sloveno Slavoj Zizek, Silvia Vegetti Finzi; poi l'antropologo Jack Goody da Cambridge; i teologi Enzo Bianchi e Jurgen Moltmann; il genetista Edoardo Boncinelli; il maestro sufi Gabriel Mandel; i sociologi Richard Sennet, Saskia Sassen, Gabriella Turnaturi; il presidente del Comitato di Bioetica Francesco D'Agostino. Come si vede quest'anno è particolarmente nutrita la pattuglia femminile, segno che anche nell'ambito della filosofia – forse la più “maschilista” delle materie assieme alla musica – l'inevitabile si sta affermando. Accennavamo al fatto che il Festival di Modena-Carpi-Sassuolo si caratterizza anche per la capacità di diffondere cultura senza far ricorso a polverose gerarchie. Dopo le lezioni dei grandi accademici è possibile ascoltare un omaggio a Bach o a Luciano Berio, ma anche assistere a una performance di Sylvano Bussotti o a un concerto di Claudio Lolli, passando prima a visitare la mostra dedicata a Francesco Guccini o magari quella che ripercorre l'evoluzione della grafica da Picasso a Warhol. E in una terra dove anche la solidarietà è tradizione e dunque cultura, il tema della vita suggerisce ai partecipanti di donare il sangue (presso la postazione Avis nel piazzale Sant'Agostino a Modena ) o di riflettere su una delle malattie più impietose, attraverso la videoinstallazione di Franco Vaccari Provvista di ricordi per il tempo dell'Alzheimer. Tutte le informazioni e il calendario dettagliato su www.festivalfilosofia.it.
Modena: la vita al centro del Festival Filosofia
Da domani a domenica cento appuntamenti in città, a Carpi e a Sassuolo
di ELEONORA BAGAROTTI
Al via anche quest'anno, dal 19 al 21 settembre, il Festival Filosofia di Modena: cento gli appuntamenti previsti nella stessa città, a Carpi e a Sassuolo. Dopo il successo riscosso lo scorso anno con la seconda edizione del festival incentrata sul tema della “bellezza” (la prima era su quello della “felicità”), quest'anno la scelta si è orientata sulla “vita”. Nel centinaio di incontri, spiccano sicuramente le lezioni di di grandi maestri del pensiero filosofico contemporaneo: l'antropologo Jack Goody, il teologo Jürgen Moltmann, la filosofa ungherese Agnes Heller, lo psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, il sociologo Richard Sennett, il genetista Edoardo Boncinelli, il filosofo Umberto Galimberti e molti altri grandi pensatori dei nostri giorni, tra cui Fernando Savater e Remo Bodei. A coronamento, sono previste anche “cene filosofiche”, ideate da Tullio Gregory, e letture di Alessandro Bergonzoni, performance nelle stazioni e perfino sui vagoni dei treni, oltre a mostre, installazioni, proiezioni di film sull'argomento, concerti di fisarmoniche, laboratori per bambini e un bizzarro “convegno immaginario” a cura degli scrittori Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati. A Modena, per l'occasione, quest'anno sarà allestito un maxi schermo in piazza Grande coi collegamenti in diretta degli incontri più importanti che permetteranno agli spettatori che non riuscissero a trovare posto nei luoghi delle conferenze (cortili, saloni di palazzi antichi, chiese) di seguirne ugualmente lo svolgimento. Un vasto programma di “contorno” coinvolge letteratura, cinema, teatro e musica: in quest'ultima categoria andrà la narrazione sulla vita di Bach (un monologo con sottofondo di clavicembalo), un omaggio al compositore Luciano Berio, concerti di Claudio Lolli, performance delle fisarmoniche della città di Verona e dei salentini di Officina Zoe (che hanno composto la colonna sonora del nuovo film Il miracolo di Edoardo Winspeare, presentato alla mostra del cinema di Venezia). Numerose anche le mostre: da La vita delle forme, che propone a Modena oltre 300 opere grafiche di artisti del XX secolo - da Picasso a Warhol, da Ernst a Doisneau, da Lichtenstein a Ghirri, da Burri a Vedova - e l'originale l'installazione che l'artista Franco Vaccari presenterà al Palazzo dei Musei (il pubblico entra, siede su una poltrona e vede scorrere cortometraggi e fotografie che appartengono alla memoria personale dell'artista). Vaccari vuole, in tal modo, far riflettere i visitatori sulla malattia con una Provvista di ricordi per il tempo dell'Alzheimer. Infine, a Carpi, la Koiné porterà in scena le Georgiche di Virgilio in latino, italiano e dialetto modenese.
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
Gazzetta del Sud 18.9.03
Da domani a domenica il Festival di Modena, Carpi e Sassuolo
La Filosofia dà spettacolo
Spazio a tematiche di particolare attualità come bioetica e biopotere
di Rossella Martina
Chi apprezza il bollito misto sa che quantità e varietà sono un pregio; che parti raffinate benissimo si accostano con quelle credute meno nobili; che, nonostante l'apparenza, la preparazione richiede una scienza altissima di ogni singolo ingrediente, dei tempi, dei modi. È dunque un complimento dire che quest'anno, al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, si annuncia un carrello più che mai saporito e spettacolare. Da domani a domenica 21, piazze, aule, chiese dei tre comuni emiliani si riempiranno di quella specialissima folla di italiani (tantissimi i giovani) che ama la cultura, la insegue, la gusta, la anima. Lo scorso anno nel triangolo filosofico arrivarono 51.000 persone e quest'anno è presumibile che aumentino ulteriormente poiché il tema conduttore è potenzialmente adatto ad ogni palato: si parlerà infatti della vita, in 122 appuntamenti che vanno dalle lezioni magistrali di filosofi, sociologi, scienziati, alle mostre; dalle rassegne cinematografiche ai concerti, proseguendo con animazioni per bambini, laboratori, spettacoli. Si finisce (la giornata) con uno dei dieci menù della tradizione modenese, in tema col Festival, preparati, come nelle due edizioni precedenti, da Tullio Gregory, filosofo e studioso dell'enogastronomia italiana. In tavola (una trentina i ristoranti che aderiscono all'iniziativa) si serviranno la «Vita vegetale» (trionfo di verdure e legumi) o la «Dolce vita» (dedicata all'agrodolce), le «Vite silenziose» (a base di pesce) e «L'acqua della vita» con un trionfale e simbolico bollito misto. Dovendo necessariamente riassumere in breve gli obiettivi del vasto programma del Festival – organizzato dalla Fondazione Collegio San Carlo di Modena assieme ai tre Comuni, alla Provincia e ad un'encomiabile quantità di sponsor – vanno evidenziate alcune tematiche principali di particolare attualità come bioetica e biopotere oppure vita reale e vita virtuale; altri interrogativi che saranno discussi nella tre giorni filosofica, sono invece eterni, come il rapporto tra vita e morte e le concezioni dell'esistenza nella nostra cultura e in quelle extraeuropee. Tantissimi i grandi nomi internazionali della filosofia, ma, dato il tema, anche di altre scienze: tra i primi Agnes Heller, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Giulio Giorello, Fernando Savater, Laura Boella, Michel Maffesoli, Salvatore Veca, Adriana Cavarero; tra filosofia e psicanalisi Umberto Galimberti, lo sloveno Slavoj Zizek, Silvia Vegetti Finzi; poi l'antropologo Jack Goody da Cambridge; i teologi Enzo Bianchi e Jurgen Moltmann; il genetista Edoardo Boncinelli; il maestro sufi Gabriel Mandel; i sociologi Richard Sennet, Saskia Sassen, Gabriella Turnaturi; il presidente del Comitato di Bioetica Francesco D'Agostino. Come si vede quest'anno è particolarmente nutrita la pattuglia femminile, segno che anche nell'ambito della filosofia – forse la più “maschilista” delle materie assieme alla musica – l'inevitabile si sta affermando. Accennavamo al fatto che il Festival di Modena-Carpi-Sassuolo si caratterizza anche per la capacità di diffondere cultura senza far ricorso a polverose gerarchie. Dopo le lezioni dei grandi accademici è possibile ascoltare un omaggio a Bach o a Luciano Berio, ma anche assistere a una performance di Sylvano Bussotti o a un concerto di Claudio Lolli, passando prima a visitare la mostra dedicata a Francesco Guccini o magari quella che ripercorre l'evoluzione della grafica da Picasso a Warhol. E in una terra dove anche la solidarietà è tradizione e dunque cultura, il tema della vita suggerisce ai partecipanti di donare il sangue (presso la postazione Avis nel piazzale Sant'Agostino a Modena ) o di riflettere su una delle malattie più impietose, attraverso la videoinstallazione di Franco Vaccari Provvista di ricordi per il tempo dell'Alzheimer. Tutte le informazioni e il calendario dettagliato su www.festivalfilosofia.it.
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