lunedì 18 ottobre 2004

su Bertinotti e Rifondazione comunista
materiali per un incontro

presso la Libreria Amore e Psiche sono disponibili il recente libro di Fausto Bertinotti: "Per una pace infinita" e "Agire la non violenza", Atti del convegno del febbraio 2004.
Nell'articolo che segue Liberazione presenta un terzo libro.

Liberazione 13.10.04

I quindici anni di storia e organizzazione del Prc nel libro-ricerca di Simone Bertolino
Dentro Rifondazione
Radiografia di un partito
di Maria R. Calderoni

Niente gossip, niente nota di colore, niente "voci" di corridoio, nemmeno voli interpretativi. Niente. Semplicemente lui prende Rifondazione tutta intera e la mette sotto la Tac. E poi racconta quello che l'occhio elettronico ha visto. Con fredda precisione. Con distacco professionale. In 378 pagine, 10 capitoli e 65 tabelle, Simone Bertolino con questo libro - "Rifondazione comunista. Storia e organizzazione" (il Mulino, euro 25) - fa il check up del Prc.
Tutto sul Prc. Il dentro e il fuori, il cuore, il fegato (anche il fegataccio), la febbre, le pulsazioni e gli affanni; il vigore e gli acciacchi, l'imprinting e il materiale genetico. Trattasi di un paziente giovane. Un paziente interessante.
Ben più di una fotografia, il libro di Simone Bertolino (laurea in Scienze politiche presso l'Università di Pavia), è uno "scavo", uno studio nel profondo della entità politica chiamata Rifondazione; una ricognizione tutta eseguita con gli strumenti asettici e meticolosi del ricercatore, mediante la raccolta e l'analisi dei dati. I quali riguardano quasi un quindicennio di esistenza: un materiale tutt'altro che scarno, e una vita pulsante, sanguigna, a tratti persino "disordinata". Una "vera" vita.
Come eravamo e come siamo; la ricerca dell'instancabile indagatore arriva praticamente al 2003 incluso, copre tutti i congressi e tocca anche le ultimissime elaborazioni (come la stessa teoria della non violenza). E in tal senso il libro è anche un utile calendario, un ripasso diligente dei corsi e ricorsi, delle novità e delle "cadute", di quella che è la nostra ormai non più tanto breve storia. Un ripasso rigoroso, fatto coi canoni appunto della scienza della politica, senza mai concedere nulla al lato spicciolo, meramente cronachistico, personalizzato. E questo è un altro non piccolo merito di questo libro, tanto più tenendo presente che il Prc, dalla nascita sino ad oggi, «non ha suscitato particolare interesse in sede scientifica. Fatta eccezione per una ricerca che limita la sua analisi ai primi mesi di vita del partito, per lo più l'attenzione si è concentrata sull'altra formazione nata dallo scioglimento del Pci, il Pds».
La nostra nascita di passione. «La mattina del 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, Achille Occhetto annuncia la decisione storica di voler sciogliere il Partito comunista italiano (Pci)». Arriva il congresso di Rimini. «La mattina del 3 febbraio 1991, un gruppo di delegati contrari alla "svolta" del segretario annuncia di voler costituire un nuovo partito che raccolga l'eredità del Pci. Nasce ufficialmente il Movimento della rifondazione comunista (Mrc), nella cui effigie tornano a campeggiare i simboli della tradizione comunista: la bandiera rossa, la falce, il martello e la stella».
Da quel momento «Rifondazione comunista inizia la sua navigazione nei marosi della politica italiana, affrontando diverse prove elettorali, subendo scissioni e crisi interne, ma nonostante tutto resistendo e passando da semplice aggregazione fondata sulla nostalgia del "comunismo che fu", a forza capace di condizionare gli equilibri politici nazionali».
Rifondazione comunista che ne ha fatta di strada (anche accidentata). E che nasce con un marchio d'origine, quello che continua a "segnarci" ancora oggi e che - scrive Bertolino - trova da subito «la leadership comunista stretta fra la difesa dell'identità e la necessità delle alleanze». In sostanza l'eterno "che fare? " della eredità del Pci, della intera storia novecentesca fino al fallimento del socialismo reale e alla dissoluzione dell'Urss. Un'anima scissa, un fattore genetico che, sottolinea subito l'autore, «taglia verticalmente sia la leadership sia la base del partito». Il nostro peculiare "filo rosso".
Una nascita complicata. Non solo "zoccolo duro", cioè quella parte di militanti comunisti che sente la svolta come un imperdonabile strappo della propria identità politica e personale; in Rifondazione e nel suo nucleo dirigente sono presenti da subito altre forze di diversa ispirazione. In sostanza, sin dall'inizio è un partito toccato da varie "contaminazioni". «A quattro mesi dalla sua nascita il vertice di Rifondazione è composto da tre principali aree o tendenze politiche: il compatto gruppo cossuttiano, la sinistra comunista di ascendenza ingraiana e operaista e la nuova sinistra movimentista o trotzkista di provenienza demoproletaria».
E mica basta. Perché, «queste linee di distinzione non costituiscono l'unica frattura interna alla coalizione dominante; il "gruppo originario" infatti è solcato anche da differenze generazionali». Magari tra chi proviene dalla Resistenza e dal Pci e tra chi viene dal '68. Appunto come scrive l'autore nel "fissare" la prima fotografia di gruppo: «La caratteristica dominante del gruppo originario è senza dubbio la sua disomogeneità, strutturandosi non come un vero e proprio gruppo dirigente complessivo, ma come un'instabile sommatoria di componenti e aree, ciascuna con un proprio leader».
E però la barca va. «La forza organizzativa dell'Mrc si costituisce molto velocemente per lo più in un'unica ondata di mobilitazione che nell'arco di poche settimane aggrega la gran parte dei 112.835 iscritti del 1991, come è testimoniato dalla prima rilevazione ufficiale effettuata dal centro nazionale il 10 marzo 1991».
Il resto non è silenzio. Il resto è la nostra storia. Dieci fitti capitoli non sono pochi, la Tac di Bertolino indaga a tutto campo senza tralasciare nulla: racconta i passaggi, i sussulti, le multiple scissioni, le sconfitte, le vittorie, le ricorrenti lacerazioni, il radicamento nel territorio e nella realtà sociale, cenere e diamanti, le nostre grandezze e le nostre piccolezze. Racconta chi e quanti e dove e come siamo (se tre milioni e mezzo di voti nel 1996 vi sembrano trascurabili); e il volto del nostro popolo e quello della nostra leadership, il composito e mai quieto gruppo dirigente, il carismatico segretario, l'ex Urss e noi, il no-global e noi, l'eterno "chi siamo dove andiamo".
Primo studio sistematico su di noi, guardiamoci dentro, il quadro d'insieme è sorprendentemente ricco.
Un "buon" Partito. Che può persino essere meglio.

Pietro Ingrao:
lettera al Presidente della Repubblica

Liberazione 16.10.03
Costituzione: e ora, Ciampi?

di Pietro Ingrao
Ieri mattina, nell'aula di Montecitorio, è stata varata una mutazione grave della Costituzione repubblicana che deve essere segnalata all'attenzione del Paese.

È stato approvato, con il voto della coalizione di maggioranza una riforma che istaura il cosiddetto premierato forte. In concreto è un mutamento che dà al capo del governo poteri nuovi e cruciali; il Presidente del Consiglio diventa Primo Ministro, e determina - tale è la parola pesante e significativa - la politica del governo. Inoltre è suo il potere di nominare e revocare i ministri, senza dover sottoporre il cambiamento al Capo dello Stato. Infine la sua candidatura è indicata sulla scheda elettorale in collegamento con i candidati deputati. Quindi il Presidente della Repubblica non sceglie più il Presidente del Consiglio, ma solo prende atto della sua avvenuta elezione. E perciò se il premier entra in crisi, non interviene più il Capo dello Stato a interpellare i partiti e - ascoltate le loro opinioni - a decidere lui la continuazione della sessione o lo scioglimento delle Camere: si va invece direttamente allo scioglimento dell'assemblea parlamentare. Quindi la decisione sulla sorte del Parlamento è di nuovo e ancora largamente nella mani del Capo del Governo.
In pratica il premier ha in mano si può dire in ogni istante (stavo per dire brevi manu) la sorte del governo, e quanto al Presidente della Repubblica non si capisce più bene cosa ci stia a fare.
E l'allarme e la preoccupazione non sgorgano tanto da qualche singola parte della proposta di riforma (e tuttavia ce ne sono di clamorose: quale ad esempio il vincolo stringente stabilito fra il premier e ministri). E' l'insieme delle riforme che cancella - in modo persino clamoroso - l'articolazione e pluralità di poteri che, non a caso, quella Costituente - venuta dopo la terribile dittatura fascista - aveva voluto chiaramente costruire e garantire.
Ciò che in quei giorni di rinnovamento si volle non solo assicurare ma dilatare fu chiaramente l'articolazione dei poteri e delle sedi di decisione. E perciò fu creato quell'intreccio di potestà e di confronti, conseguenti alla relazione tra Capo dello Stato, Presidente del Consiglio, governo e assemblea: cioè quel dibattere e quello scontro, articolato e plurimo, che tanto è distante da questo fosco (e a volte anche un po' ridicolo) premier forte.
Fummo troppo aperti? Pensammo che il confronto pubblico delle parti servisse al Paese; e non solo per misurarci nell'aula e nel farci intendere dal paese: perché conoscessero la decisione e la motivazione: e - sì, perché no - le differenze, e la molteplicità.
Perché non volevamo uomini forti e decisi? Ma perché De Gasperi - e come lo combattevamo! - non era uomo forte?
Sì, volemmo un potere plurimo, proprio perché il nostro Paese aveva conosciuto il Parlamento muto e aveva tragicamente pagato quel silenzio.
E insieme con le Assemblee, noi comunisti volemmo che contasse anche il Capo dello Stato; seppure non fu mai della nostra parte, e spesso fu anzi nostro avversario aspro. Nella riforma berlusconiana, che resta di lui se non un dimidiato di cui non si riescono più ad afferrare né autorità né poteri effettivi? Attento, Presidente Ciampi, perché quel premier così goloso sta cercando di dare una stilettata anche al Palazzo dove lei risiede e al potere di decisione e di limiti che lei rappresenta: e non è poco. E della sorte delle istituzioni scritte in Costituzione è responsabile anche Lei. Ciò che oggi ci offende chiama in causa anche il Suo delicatissimo ruolo.
Infine chiedo ancora un attimo, d'ascolto a chi in questi anni mi è stato - nei suoi modi- vicino: persino così generoso verso miei limiti antichi e le debolezze del mio necessario tramonto. E mi scuso con loro se torna qui una mia vecchia domanda che io ebbi già a porre pubblicamente a Firenze, dinanzi a quella sala ardente, al Forum europeo di due anni fa.
Sì, era ancora una domanda cocciuta sui poteri: sui titolari e sui luoghi del potere fissati per legge: accreditati a decidere in nome del Paese.
Che farete? Potete tacere di fronte alla Costituzione stracciata o in pericolo? E dinanzi a una stretta autoritaria così aggressiva?
Attenti, perché fra le ragioni per cui egli, il Berlusca, si affanna tanto ad alzare la cresta temo ci stiate prima di tutto voi, e l'inedito di cui parlate.
Pietro Ingrao,
membro dell'Assemblea Costituente

Liberazione 16.10.04
Diritti sociali ridotti al minimo
Tradito il sacro Patto del 1948
L'intervento alla Camera di Rifondazione comunista
di Graziella Mascia

Rifondazione comunista vota contro il disegno di legge con queste modifiche costituzionali, poiché esse riguardano la parte II della Costituzione, ma incideranno sulla prima, contenente i diritti fondamentali. Si tratta di una riforma che produce la frammentazione della Repubblica e la frantumazione dei vincoli di solidarietà politica, economica e sociale. I diritti sociali dei cittadini si riducono al minimo, si introducono disparità tra regioni ricche e povere e si spezza il principio di uguaglianza. Si produce la demolizione dei diritti e della politica. Mi riferisco anche alla politica, poiché, assieme ad un finto Senato federale, si introduce un elemento ibrido, anomalo e pericoloso, come il "premierato assoluto". Con un Primo ministro che potrà esercitare arbitrariamente il suo potere, fino allo scioglimento delle Camere, ed un Capo dello Stato ridotto a notaio. Si determina una rottura di quella cultura dei contrappesi propria del costituzionalismo: la Corte costituzionale rischia di subire un processo di politicizzazione, il Parlamento viene espropriato dei suoi poteri, un Capo dello Stato perde il suo ruolo super partes ed i Presidenti delle Camere perdono la loro funzione di garanzia, essendo tutti piegati agli interessi governativi.
A fronte di una domanda sempre più forte di partecipazione dei cittadini, in particolare dei giovani, si risponde con un moderno autoritarismo, con una destrutturazione del sistema democratico ed istituendo una carica monocratica, eletta dal popolo, che dovrebbe incarnare il bene assoluto.
In una dialettica politica ed istituzionale con al centro la riforma di un ordinamento democratico, esistono due momenti di democrazia: uno appartiene alla fisica, l'altro alla metafisica. Sono ascrivibili alla fisica le espressioni di pensiero che mirano a garantire un miglior funzionamento delle istituzioni democratiche. In tal senso, si parla di premierati forti o deboli, di parlamenti perfetti o imperfetti e di centralizzazione o decentramento dei poteri. Vi è, poi, un momento metafisico della democrazia, che certa filosofia antica pone quale insieme dei principi primi. In questi casi, le regole della fisica seguono i valori della morale e della metafisica.
La nostra Carta costituzionale pare seguire tale stima, apprendo metafisicamente con i principi fondamentali, per arrivare, poi, fisicamente all'ordinamento della Repubblica. Nel 1948 gli ideali e i valori della metafisica democratica furono il cemento che tenne insieme uomini e donne della classe politica che aveva diretto la guerra di liberazione ed era giunta, sia pure attraverso conflitti, al Patto costituzionale. Da un lato, i conservatori rinunciarono ad un - allora impossibile - ritorno al passato e, dall'altro, le sinistre accantonarono il programma rivoluzionario della "dittatura del proletariato", coniando la formula della "democrazia progressiva" e, per bocca degli stessi Togliatti e Morandi, parlarono, con insistenza, di valori, ideali e metodi democratici.
Che fine ha fatto quel Patto? È indubbio che la Costituzione non è immutabile. Lo sapevano gli stessi costituenti, quando introdussero l'articolo 138. La metafisica della nostra democrazia impone, tuttavia, che non tutte le norme alla base di quel Patto siano modificabili. Anche Mortati parlava di un nucleo immodificabile quale forma di humus culturale che appartiene, quale codice genetico unico, ad ogni popolo. Quando si modifica solo uno di questo insieme di valori e principi non si tratta più di revisione costituzionale, perché non si salva identità e continuità della Costituzione, ovvero la tradizione autentica e i valori della storia.
Gli articoli delle costituzioni, scriveva Calamandrei, sono come membra di un corpo vivo, di cui non si può fare a meno: vivono finché gli circola dentro il sangue che le alimenta. Il sangue, in questo caso, si chiama correttezza politica e lealtà costituzionale. Così, se nella Costituzione si volesse cambiare uno di questi elementi identificatori, questa perderebbe l'identità. Ciò vorrebbe dire far crollare tutta la Costituzione e ricominciare da capo, tornando dal piano della legalità a quello della forza. Diverrebbe l'instaurazione ex novo, di fatto e non di diritto, di un nuovo regime.
Solo con questa premessa, si può passare al secondo momento, quello che riguarda la fisica della democrazia e che si traduce nel problema del governo democratico, che non è solo il governo del popolo e neppure il governo della maggioranza aritmetica del popolo, ma quel governo nel quale si ottiene la maggiore possibile identificazione fra governanti e governati e la minore possibile oppressione di governanti sui governati. Ciò era alla base del sacro Patto del '48, che oggi viene tradito.

Louis Van Delft
antropologia

Repubblica 18.10.04
ALLA FINE DEL '500 NASCE L'ANTROPOLOGIA
Una serie di studi indagano sulla anatomia e sul rapporto tra l'Io, l'anima e l'ambiente
La crisi della metafisica e la scienza moderna portano a un modo nuovo di guardare al soggetto
BENEDETTA CRAVERI

Tutto era cominciato alla fine del Cinquecento, quando Michel de Montaigne, voltando le spalle alla metafisica, aveva fatto suo il progetto socratico di «ricondurre giù dal cielo, dove perdeva il suo tempo, la saggezza umana, per restituirla all´uomo», e se ne era servito per conoscere in primo luogo se stesso. «Ciascuno guarda davanti a sé», egli scriveva negli Essais, «io guardo dentro di me: non ho a che fare che con me, mi osservo continuamente, mi controllo, mi saggio... mi rigiro in me stesso». Per la prima volta sotto la sua penna, il moi (il me) si trasformava in sostantivo e l´esplorazione delle sue regioni più segrete apriva la strada alla riflessione di quella vasta costellazione di scrittori francesi - i così detti moralisti classici - tra cui spiccano i nomi di Pascal, di La Rochefoucauld, di La Bruyère.
Pietra miliare della civiltà letteraria francese, questa nuova scienza antropologica che si proponeva di esaminare l´uomo «ad altezza d´uomo», è stata, negli ultimi decenni, l´oggetto di una attenzione crescente da parte della comunità scientifica internazionale e, nel Gotha dei suoi più insigni specialisti, il nome di Louis Van Delft si impone certamente tra i primi. Nessuno ha, infatti, quanto lui studiato la genealogia di questa scienza, i suoi presupposti teorici, i suoi metodi e i suoi strumenti d´indagine, le sue finalità, il suo impatto culturale e, naturalmente, le sue forme letterarie, le sue metafore, il suo linguaggio. I titoli stessi dei suoi libri - Le moraliste classique (1982), Littérature et anthropologie (1993), Les spectateurs de la vie. Généalogie du regard moralist (in corso di stampa) - indicano con chiarezza il suo percorso di ricerca. L´iniziativa del Mulino di raccogliere in volume, sotto il titolo di Frammento e anatomia, nell´accurata traduzione di Francesca Longo e con una interessante introduzione di Carmelina Imbroscio (pagg. 278, euro 22), i saggi in cui lo studioso indaga sui rapporti tra «rivoluzione scientifica e creazione letteraria» è doppiamente significativa. Non solo perché il volume appare, assai a proposito, nella nuova collana "Scorciatoie", consacrata alla letteratura aforistica, ma perché Bologna, dove ha sede il Mulino, vanta la più antica facoltà di medicina d´Europa e un celebre teatro anatomico. Ed è precisamente il rapporto tra morale e anatomia, così come è andato delineandosi nella letteratura europea tra la fine del Cinquecento e la Rivoluzione Francese, che Van Delft ha voluto indagare in questi saggi.
È un dato di fatto che a partire dai primi decenni del Seicento il termine "anatomia" ricorre sempre più sovente sotto la penna di moralisti, romanzieri e poeti di paesi diversi. In Francia Mademoiselle de Scudéry si interessa alla "anatomia del cuore innamorato" e La Rochefoucauld intende fare «l´anatomia di tutti i recessi dell´animo», in Inghilterra Robert Burton, nel suo The Anathomy of Melancholy, si propone di «anatomizzare correttamente» l´"umore" della malinconia, in Spagna Balthazar Gracián consacra un intero capitolo dell´Oracolo manual alla "Moral anatomía del hombre".
A prima vista tutto lascerebbe credere che si tratti di una metafora letteraria legata, come quelle cosmografiche, cartografiche, ottiche allora in voga, alla grande rivoluzione scientifica che era venuta modificando radicalmente la percezione che l´uomo aveva di se stesso e del posto che occupava nel mondo. Una metafora, d´altronde, perfettamente coerente con la scelta delle "forme brevi" fatta dai moralisti; una scelta che rispecchiava ugualmente la necessità di rendere conto di un´immagine del mondo andata in frantumi e di una segmentazione crescente del processo conoscitivo. Niente di più significativo, a riguardo, della celebre interrogazione di Pascal sull´identità dell´io: «Un uomo è un´unità; ma se lo si anatomizza, sarà la testa, il cuore, lo stomaco, le vene, ogni vena, ogni particella di vena, il sangue, ogni umore del sangue?».
Maestro dello studio del linguaggio metaforico, come attestano le analisi da lui condotte nel corso degli anni, sul significato di espressioni chiave come homo viator, theatrum mundi, piccolo mondo, Louis Van Delft non si è accontentato di queste considerazioni generiche e, a partire dall´uso letterario di un termine chirurgico, ha ricostruito un tassello prezioso della storia della cultura europea. Saggio dopo saggio, sulla scorta di vastissime letture di carattere interdisciplinare e di una interessante documentazione iconografica, lo studioso ci mostra come «la tendenza alla penetrazione sempre più approfondita e all´osservazione sempre più acuta, nell´ambito della conoscenza dell´io, è a grandi linee concomitante con lo sviluppo dell´anatomia e della dissezione, da Vaselio a Dionis e a Morgagni». Una concomitanza che comporta un folto intreccio di influenze reciproche e promuove una relazione tra l´anatomia, la letteratura e la psicologia, non meno "organica" di quelle con le arti. La conclusione a cui approda Van Delft alla fine della sua lunga esplorazione in paesi e in rami del sapere diversi è che non soltanto la dimostrazione anatomica ha costituito per i moralisti una fonte di ispirazione, ma ha fornito loro un preciso metodo di lavoro. Non a caso l´esempio più significativo propostoci dallo studioso è quello dell´autore delle Maximes: «In La Rochefoucauld, più che in chiunque altro», egli scrive, «è evidente come il modello anatomico abbia plasmato, modellato, sia lo sguardo sull´uomo, sia lo stile del discorso: lo sguardo penetra fino nelle "pieghe" più segrete, lo stile è tagliente. L´uno e l´altro sono dei bisturi».
Una volta di più, la curiosità e l´erudizione di Van Delft lo hanno portato ad arricchire, con un contributo nuovo e originale, il dibattito scientifico ancora in corso su quel momento cruciale della cultura europea in cui vediamo formularsi, uno a uno, tutti gli interrogativi che più contribuiranno a determinare la nascita dell´io moderno.

antidepressivi negli USA

ricevuto da Francesco Troccoli

"First World" riprende da: Bloomberg; CBS MarketWatch; CNN Health; Forbes; Morningstar; The New York Times
FDA orders black box warning for antidepressants
William Kanapaux 15.10.04


The FDA on Friday announced that all antidepressants must carry a black box warning that says the drugs are linked to an increased risk of suicidality among children and adolescents, as reported in news sources. The agency is also creating a medication guide that pharmacists will be required to distribute to patients with each prescription. The FDA said it will work with drugmakers to develop "unit of use" packaging so that the medication containers are pre-labelled by the manufacturer. The FDA also said that Pfizer, Wyeth and other antidepressant manufacturers would have to change television ads and other promotional materials, Bloomberg reports. The changes take effect immediately and apply to all drugs including Eli Lilly's Prozac, which is the only one approved for use in children. The new labels must include data from paediatric studies that show Prozac is the safest such drug for young people so far, Forbes reports. Acting FDA Commissioner Dr. Lester Crawford said that the agency sought to balance the risks of using the drugs in younger patients with the benefits. "We continue to believe ... that these drugs provide significant benefits for paediatric patients when used appropriately," he is quoted as saying. The new labels encourage patients to balance the risk of suicidality with clinical need, he said as reported in USA Today. But the American Psychiatric Association said in a statement that it was deeply concerned the black box warning "may have a chilling effect on appropriate prescribing for patients. This would put seriously ill patients at grave risk," CBS MarketWatch quotes the organisation as saying.