Il Messaggero 10.7.04
Scienza/ A Lisbona convegno dei maggiori ricercatori europei sulla neurobiologia delle emozioni
Amore? Fa rima con cervello
Sono sempre più numerose le indagini cognitive sui sentimenti
di FABRIZIO MICHETTI
L’IO e il suo cervello : sotto questo titolo sono trascritti i dialoghi che Karl Popper e John Eccles intrecciarono a metà degli anni Settanta nella quiete di Villa Serbelloni sul lago di Como. Questo rimane certo un tentativo fra i più alti per l’incontro fra la filosofia dell’io e la biologia del cervello; ma da quelle pagine emerge la consapevolezza del filosofo e del neurobiologo che l’enigma del rapporto fra mente e cervello rimaneva ben lontano dall’essere risolto, se mai fosse risolvibile.
Eppure, come accade nelle fasi cruciali dei processi culturali, il tema del rapporto mente-cervello viene ora riproposto con frequenza sempre maggiore, quasi con urgenza. L’impressione è che il desiderio di incontro, se non di riconciliazione, tra gli studiosi di entrambi i versanti sia ormai forte. A metà dello scorso novembre a Roma il Centro Italiano di Psicologia Analitica ha promosso il convegno “Psicologia analitica e teorie della mente. Complessi, affetti, neuroscienze”, e poco prima, a Pisa, a conclusione del convegno della Società Italiana di Neuroscienze, una tavola rotonda sul tema “Psicanalisi e neuroscienze: elementi di conflittualità e di integrazione” aveva fatto trovare insieme neurobiologi e psicoanalisti. Forse ha giocato un ruolo la crescente penetrazione che gli studi sulle funzioni cerebrali hanno nella cultura generale: sono continue le nuove acquisizioni circa il modo in cui, l’una dopo l’altra, le attività quotidiane della nostra vita, le nostre emozioni, vengono tradotte nel linguaggio delle cellule nervose. Non sono sfuggite nemmeno le esperienze mistiche, l’estetica; è di questi giorni la pubblicazione della ricerca che indica le basi neurobiologiche per gli sconvolgimenti mentali che talvolta accompagnano il sentimento d’amore, e certo non è per caso che oggi a Lisbona il Convegno della Federazione della Società Europee di Neuroscienze si apra con una relazione di Antonio Damasio sul tema “Neurobiologia delle emozioni”: giorno dopo giorno, le neuroscienze si candidano al ruolo di ponte naturale fra cultura scientifica e umanistica.
E dal versante degli studiosi della psiche, è ormai attiva a Londra, con sede presso il Centro Anna Freud, la Società Internazionale di Neuropsicoanalisi, che ha dato vita alla sua rivista scientifica ufficiale Neuro-psychoanalysis , il cui programma editoriale dichiara l’intenzione di “costruire ponti tra psicoanalisi, neuroscienze, scienze cognitive e psichiatria biologica”. Proprio a Roma, a settembre, questa società scientifica promuoverà un convegno sul tema “Negazione, difese e narcisismo: prospettive neuropsicoanalitiche sull’emisfero destro”. In fondo, si sottolinea sempre più spesso, lo stesso Sigmund Freud aveva una formazione biologica, e all’inizio della sua carriera si dedicò a studi di fisiologia, anatomia e zoologia. Nel suo scritto Progetto per una psicologia scientifica cercava basi biologiche per le sue teorie psicologiche. Il tentativo fu poi abbandonato, nella espressa consapevolezza che le conoscenze scientifiche sul cervello erano allora troppo limitate.
Oggi il quadro sembra cambiato. Grazie a tecniche sofisticate anche di uso clinico, come la risonanza magnetica funzionale, che proprio lo scorso anno ha consegnato il premio Nobel per la medicina a Paul Lauterbur e Peter Mansfield, è ormai possibile seguire momento per momento il coinvolgimento dei diversi sistemi funzionali del cervello durante varie attività mentali. E gli psicoanalisti appaiono attratti da concetti derivati dalla indagine scientifica sperimentale delle funzioni cerebrali, come la memoria implicita. A questa forma di memoria, di cui non siamo consapevoli, vengono attribuite tra l’altro le esperienze vissute nelle prime fasi della vita. Ne sarebbero responsabili strutture cerebrali già attive nei primissimi anni dello sviluppo, quando non sono ancora mature le strutture che presiedono alla memoria esplicita, consapevole, quella che offre ad ognuno di noi una autobiografia. Questo - si è detto - potrebbe avere rilievo per lo studio dell’inconscio. E si fa anche strada l’idea unificante che qualunque stimolo agisca sul nostro cervello, un farmaco, una situazione ambientale, ma anche le parole di un genitore, di un amico, dello psicoterapeuta, si traduce momento per momento in modificazioni chimiche e talvolta anche microstrutturali nel nostro cervello. Ecco un passaggio comune per l’effetto di psicofarmaci e per il colloquio psicoterapeutico. Insomma, sono ormai tanti i tasselli che sembrano ricomporsi nel puzzl e; ma è ancora difficile prevedere se i fenomeni neurobiologici, catturabili dal metodo scientifico dell’esperimento misurabile, e gli eventi mentali, originati e conclusi nella sfuggente sfera del nostro vissuto, sono davvero destinati a trovare un’unica chiave comune che ne apra le porte.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 10 luglio 2004
Antonio Gramsci
La Stampa 10.7.04
1911-1922: TORNANO GLI SCRITTI TORINESI DI ANTONIO GRAMSCI
Avanti popolo c’è da studiare
Socialismo e fabbriche, donne e letteratura
l’unico obiettivo è istruire i lavoratori:
«Abbiamo bisogno della vostra intelligenza»
di Angelo d’Orsi
SOCIALISTA che impartisce lezioni di liberalismo ai liberali, marxista umanista e antidogmatico, leader nemico della retorica e politico concreto, persona attenta agli altri e ispiratrice discreta del loro agire, Gramsci alla fine della guerra - tra i 27 anni e i 28 anni - è un dirigente socialista pienamente riconosciuto a livello locale; ma a lui si incomincia a guardare con attenzione anche al di fuori di Torino. Egli appare diversissimo tanto dai politici di professione quanto dagli intellettuali canonici (accademici o militanti), sia dagli imbonitori di partito sia dagli uomini degli apparati sindacali. Parla in modo calmo, con una piccola voce che esce dal suo corpo malformato, provato dalla malattia; e tuttavia quella voce flebile e quella bassa statura non gli impediscono di imporsi. Anche per la capacità di affrontare temi che all’epoca sono assai poco usuali nella propaganda socialista: per esempio la questione femminile. Ecco la testimonianza di Rita Montagnana: «Ricordo la prima conferenza di Gramsci al circolo del Borgo (San Paolo) a Torino: parlava lentamente, senza enfasi retorica, senza parole grosse. Incominciò a spiegarci perché in Italia come in Spagna - più che in altri paesi d’Europa - anche la donna lavoratrice fosse arretrata e lontana dalla vita politica e sociale. Ci parlò della donna del Meridione che, per le sue condizioni di vita, poteva essere paragonata a quella musulmana. Ragioni di sviluppo economico e l’influenza della religione opponevano tante difficoltà a che le donne italiane venissero alla lotta e all’organizzazione di classe e al movimento rivoluzionario. Ci parlò della donna della piccola e media borghesia considerata generalmente dal marito come un gingillo e ricordo che citò il dramma di Ibsen Casa di bambola tratteggiando in modo semplice e concreto la miseria morale delle donne, anche di quelle borghesi, in regime capitalistico. Gramsci trasse poi dalla sua analisi la conclusione che era necessario creare delle organizzazioni femminili indipendenti nelle quali le donne lavoratrici, vincendo la propria timidezza, si sarebbero abituate a parlare nelle riunioni, si sarebbero interessate di questioni sociali politiche, avrebbero sviluppato il loro spirito di iniziativa e imparato a dirigere».
La dura esperienza umana e politica della Torino che l’accolse con freddezza, e quella successiva della guerra, pur vissuta in città, da civile, ma combattendo molte battaglie politiche e culturali, l’interrotto «garzonato universitario», l’incontro con i compagni socialisti, la conoscenza del mondo operaio e dell’organizzazione capitalistica della fabbrica, l’intensa attività giornalistica, l'inserimento in una rete di rapporti stabili con persone... Tutto ciò ha contribuito a cambiare largamente la psicologia di colui che si sentiva un esiliato e ora è un giovane «capo», riconosciuto e anche amato. «Nino» insomma non somiglia più «al giovane timido, tutto raggomitolato in sé dei primi anni torinesi». Anche la sua salute è migliorata, e la sua personalità si impone per autorevolezza agli amici, ai compagni, ai famigliari, con i quali incomincia a dar prova di una vena di pedagogo che insegna innanzi tutto un principio, quello della responsabilità personale, che sempre più col tempo diverrà una specie di chiodo fisso nella sua mente. Scrive per esempio al fratello Carlo, ancora in zona di guerra, ad armistizio ormai raggiunto: «I miei auguri per la promozione. Ricordati che essa ti impone dei doveri e delle responsabilità. Ogni cosa che imprendiamo a fare nella vita, dobbiamo cercare di adempierla nel modo più perfetto. I tuoi obblighi sono accresciuti, non diminuiti: devi studiare, supplire con la buona volontà e col lavoro all’inesperienza della tua giovinezza e degli studi interrotti. Questi doveri tanto più devi sentirli vivamente in quanto ne va della sicurezza e della vita di altri uomini, affidati alla tua capacità e alla tua competenza». Intanto, rientrati dal fronte i vecchi compagni di università (Tasca, Terracini, Togliatti), tutti socialisti come lui, e qualcuno - Angelo Tasca - prima di lui, riparte l’idea di una rivista; rispetto a prima, la grande novità è rappresentata dalla Rivoluzione sovietica; e dal dibattito internazionale, che non è puramente teorico, sulla possibilità della rivoluzione nell’Occidente capitalistico, ma anche sui modi e le vie per «aggiornare» la dottrina marxiana, senza cadere nel revisionismo riformistico. «L’Ordine Nuovo», «rassegna settimanale di cultura socialista», esce in un’occasione eccellente per farsi conoscere: il primo maggio; l’anno è il 1919. Gramsci figura come «segretario di redazione», ma, come unanimemente riconoscono tutte le testimonianze, sarà molto di più: l’autentico animatore di una piccola impresa che colloca Torino in una dimensione internazionale, in fondo non lontana dalle discussioni che gruppi di giovani marxisti imprendono in varie località e situazioni, di qua e di là dell’Atlantico. L’idea iniziale è quella della necessità per il proletariato di costruirsi una propria cultura, base essenziale per lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria; ma essa non esclude, anzi include, preventivamente, l’acquisizione di strumenti più ampi e generali, ivi comprese le maggiori tradizioni culturali che hanno preceduto l’avvento della classe operaia sulla scena mondiale, a cominciare dall’insieme di manifestazioni (scientifiche, artistiche, letterarie...) che possono essere riassunte nella formula della grande «civiltà borghese». In Gramsci è chiaro che la rivoluzione, più che un atto, costituisce un processo; e che alla base di tale processo ci debba essere lo sforzo di acquisizione di consapevolezza politica, e dunque di preparazione culturale, delle classi lavoratrici. Di qui dunque l’importanza decisiva dello sforzo volto ad aiutare un proletariato a istruirsi («istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza», è una delle scritte che occhieggiano sulla testata del settimanale), e più in generale della battaglia delle idee, del lavoro pedagogico e culturale, che procurerà agli «ordinovisti», come incominciano presto ad essere chiamati, le accuse di «culturalismo». Specialmente Tasca subirà tale accusa, in particolare da parte del gruppo di giovani socialisti napoletani che si ritrovano intorno alla rivista «Il Soviet», e al suo leader Amadeo Bordiga. Lo stesso Gramsci, a distanza di oltre un anno dalla fondazione della rivista, ne traccerà un bilancio critico che, in termini francamente eccessivi, riduce le prime settimane della pubblicazione a un modesto zibaldone culturale, animato da buoni quanto vaghi proponimenti; nulla di più, insomma, secondo la ricostruzione autocritica troppo severa del suo animatore, che «il prodotto di un mediocre intellettualismo».
1911-1922: TORNANO GLI SCRITTI TORINESI DI ANTONIO GRAMSCI
Avanti popolo c’è da studiare
Socialismo e fabbriche, donne e letteratura
l’unico obiettivo è istruire i lavoratori:
«Abbiamo bisogno della vostra intelligenza»
di Angelo d’Orsi
SOCIALISTA che impartisce lezioni di liberalismo ai liberali, marxista umanista e antidogmatico, leader nemico della retorica e politico concreto, persona attenta agli altri e ispiratrice discreta del loro agire, Gramsci alla fine della guerra - tra i 27 anni e i 28 anni - è un dirigente socialista pienamente riconosciuto a livello locale; ma a lui si incomincia a guardare con attenzione anche al di fuori di Torino. Egli appare diversissimo tanto dai politici di professione quanto dagli intellettuali canonici (accademici o militanti), sia dagli imbonitori di partito sia dagli uomini degli apparati sindacali. Parla in modo calmo, con una piccola voce che esce dal suo corpo malformato, provato dalla malattia; e tuttavia quella voce flebile e quella bassa statura non gli impediscono di imporsi. Anche per la capacità di affrontare temi che all’epoca sono assai poco usuali nella propaganda socialista: per esempio la questione femminile. Ecco la testimonianza di Rita Montagnana: «Ricordo la prima conferenza di Gramsci al circolo del Borgo (San Paolo) a Torino: parlava lentamente, senza enfasi retorica, senza parole grosse. Incominciò a spiegarci perché in Italia come in Spagna - più che in altri paesi d’Europa - anche la donna lavoratrice fosse arretrata e lontana dalla vita politica e sociale. Ci parlò della donna del Meridione che, per le sue condizioni di vita, poteva essere paragonata a quella musulmana. Ragioni di sviluppo economico e l’influenza della religione opponevano tante difficoltà a che le donne italiane venissero alla lotta e all’organizzazione di classe e al movimento rivoluzionario. Ci parlò della donna della piccola e media borghesia considerata generalmente dal marito come un gingillo e ricordo che citò il dramma di Ibsen Casa di bambola tratteggiando in modo semplice e concreto la miseria morale delle donne, anche di quelle borghesi, in regime capitalistico. Gramsci trasse poi dalla sua analisi la conclusione che era necessario creare delle organizzazioni femminili indipendenti nelle quali le donne lavoratrici, vincendo la propria timidezza, si sarebbero abituate a parlare nelle riunioni, si sarebbero interessate di questioni sociali politiche, avrebbero sviluppato il loro spirito di iniziativa e imparato a dirigere».
La dura esperienza umana e politica della Torino che l’accolse con freddezza, e quella successiva della guerra, pur vissuta in città, da civile, ma combattendo molte battaglie politiche e culturali, l’interrotto «garzonato universitario», l’incontro con i compagni socialisti, la conoscenza del mondo operaio e dell’organizzazione capitalistica della fabbrica, l’intensa attività giornalistica, l'inserimento in una rete di rapporti stabili con persone... Tutto ciò ha contribuito a cambiare largamente la psicologia di colui che si sentiva un esiliato e ora è un giovane «capo», riconosciuto e anche amato. «Nino» insomma non somiglia più «al giovane timido, tutto raggomitolato in sé dei primi anni torinesi». Anche la sua salute è migliorata, e la sua personalità si impone per autorevolezza agli amici, ai compagni, ai famigliari, con i quali incomincia a dar prova di una vena di pedagogo che insegna innanzi tutto un principio, quello della responsabilità personale, che sempre più col tempo diverrà una specie di chiodo fisso nella sua mente. Scrive per esempio al fratello Carlo, ancora in zona di guerra, ad armistizio ormai raggiunto: «I miei auguri per la promozione. Ricordati che essa ti impone dei doveri e delle responsabilità. Ogni cosa che imprendiamo a fare nella vita, dobbiamo cercare di adempierla nel modo più perfetto. I tuoi obblighi sono accresciuti, non diminuiti: devi studiare, supplire con la buona volontà e col lavoro all’inesperienza della tua giovinezza e degli studi interrotti. Questi doveri tanto più devi sentirli vivamente in quanto ne va della sicurezza e della vita di altri uomini, affidati alla tua capacità e alla tua competenza». Intanto, rientrati dal fronte i vecchi compagni di università (Tasca, Terracini, Togliatti), tutti socialisti come lui, e qualcuno - Angelo Tasca - prima di lui, riparte l’idea di una rivista; rispetto a prima, la grande novità è rappresentata dalla Rivoluzione sovietica; e dal dibattito internazionale, che non è puramente teorico, sulla possibilità della rivoluzione nell’Occidente capitalistico, ma anche sui modi e le vie per «aggiornare» la dottrina marxiana, senza cadere nel revisionismo riformistico. «L’Ordine Nuovo», «rassegna settimanale di cultura socialista», esce in un’occasione eccellente per farsi conoscere: il primo maggio; l’anno è il 1919. Gramsci figura come «segretario di redazione», ma, come unanimemente riconoscono tutte le testimonianze, sarà molto di più: l’autentico animatore di una piccola impresa che colloca Torino in una dimensione internazionale, in fondo non lontana dalle discussioni che gruppi di giovani marxisti imprendono in varie località e situazioni, di qua e di là dell’Atlantico. L’idea iniziale è quella della necessità per il proletariato di costruirsi una propria cultura, base essenziale per lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria; ma essa non esclude, anzi include, preventivamente, l’acquisizione di strumenti più ampi e generali, ivi comprese le maggiori tradizioni culturali che hanno preceduto l’avvento della classe operaia sulla scena mondiale, a cominciare dall’insieme di manifestazioni (scientifiche, artistiche, letterarie...) che possono essere riassunte nella formula della grande «civiltà borghese». In Gramsci è chiaro che la rivoluzione, più che un atto, costituisce un processo; e che alla base di tale processo ci debba essere lo sforzo di acquisizione di consapevolezza politica, e dunque di preparazione culturale, delle classi lavoratrici. Di qui dunque l’importanza decisiva dello sforzo volto ad aiutare un proletariato a istruirsi («istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza», è una delle scritte che occhieggiano sulla testata del settimanale), e più in generale della battaglia delle idee, del lavoro pedagogico e culturale, che procurerà agli «ordinovisti», come incominciano presto ad essere chiamati, le accuse di «culturalismo». Specialmente Tasca subirà tale accusa, in particolare da parte del gruppo di giovani socialisti napoletani che si ritrovano intorno alla rivista «Il Soviet», e al suo leader Amadeo Bordiga. Lo stesso Gramsci, a distanza di oltre un anno dalla fondazione della rivista, ne traccerà un bilancio critico che, in termini francamente eccessivi, riduce le prime settimane della pubblicazione a un modesto zibaldone culturale, animato da buoni quanto vaghi proponimenti; nulla di più, insomma, secondo la ricostruzione autocritica troppo severa del suo animatore, che «il prodotto di un mediocre intellettualismo».
autismo e matematica
Repubblica 10.7.04
CHRISTOPH E LA MAGIA DEI NUMERI
intervista a Mark Haddon
Un bestseller internazionale che parla di autismo e di matematica
di PIERGIORGIO ODIFREDDI
ROMA. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (Einaudi) è uno dei successi editoriali dell´anno. Il romanzo, tradotto in decine di lingue, è narrato in prima persona da un ragazzo autistico che guarda il mondo sotto la specie della matematica, al punto da numerare i capitoli del suo libro secondo la successione dei numeri primi.
Che sembri esserci un legame tra autismo e matematica, è ben noto: ad esempio, in L´uomo che scambiò sua moglie per un cappello Oliver Sacks descrive due gemelli autistici che giocavano a scambiarsi grandi numeri primi. E i sintomi della sindrome di Asperger, di cui soffre il protagonista del romanzo di Haddon, sono tipici della caricatura dei matematici: più interessati alle cose che alle persone, poco comunicativi, ossessivi, asociali, maniacali, osservatori, classificatori e iperrazionalisti.
In realtà, più che ai matematici veri e propri questi sintomi sembrano applicarsi agli ingegneri, agli informatici e ai ragionieri: a quelle categorie di persone, cioè, che riducono la realtà a numeri e regole. E infatti, alcune indagini statistiche hanno rivelato un´anormale presenza di ingegneri (il 25%, due volte e mezzo superiore alla norma) nelle famiglie con storie di autismo. E lo stesso Bill Gates rivela sintomi da sindrome di Asperger, dall´eccezionale memoria infantile all´ipnotico dondolamento sulla sedia.
Abbiamo discusso di questi argomenti con Mark Haddon in occasione della consegna del premio Serono al suo libro.
L´aspetto più immediato del suo libro è che esso si presenta come un racconto in prima persona fatto da un ragazzo autistico. Che esperienza ha nel campo?
«Ho lavorato a lungo con ragazzi portatori di vari handicap, e ripensandoci mi accorgo che qualcuno di loro era probabilmente autistico, anche se all´epoca nessuno li definiva cosí. Da allora l´argomento dell´handicap mi ha sempre interessato molto, soprattutto il fatto che gli invalidi non conducono vite molto diverse dagli altri: hanno gli stessi problemi di soldi, di famiglia, della lavatrice che si rompe, dei vicini troppo rumorosi ...»
Ma a scuola vengono spesso segregati.
«Non in quella dove ho lavorato io, che era in realtà un parco giochi rivolto a bambini di tutti i generi. C´erano portatori di handicap, ma erano mescolati con gli altri, e spesso neppure noi insegnanti conoscevamo le loro problematiche. Questa è stata una lezione fondamentale, per me: se vuoi conoscere una persona devi parlarci, non basta guardare l´etichetta che porta».
Perché ha pensato a un romanzo proprio sull´autismo?
«In realtà, il mio unico scopo era di buttare giù una paginetta che fosse cosí emozionante da convincere il lettore a proseguire nella lettura. La prima immagine che mi è venuta in mente, quella da cui è partita la narrazione, è il cane stecchito in un giardino, trafitto da un forcone. Non me ne vogliano i cinofili, ma trovo quell´immagine molto divertente. E ho pensato che sarebbe stata molto più divertente se fossi riuscito a esprimerla con un tono di voce molto neutro, senza tracce di emozione. Non avevo ancora finito di scrivere il primo capitolo, che già mi domandavo: "Ma la voce narrante, di chi è?"».
In altre parole, la scelta dell´autismo è stata accidentale?
«Sí, e ne sono felice. Perché se avessi voluto scrivere un libro sull´autismo in particolare, o sulla disabilità in generale, sarebbe stato pessimo e nessuno l´avrebbe letto».
E il protagonista è basato su qualcuno in particolare, o è invece una sua invenzione?
«In effetti non ho mai incontrato nessuno che assomigliasse a Christopher. E nessuno dei bambini dai quali ho tratto ispirazione è disabile. Ho descritto il personaggio mettendo insieme abitudini, comportamenti e schemi mentali di una serie di persone che ho veramente conosciuto: famigliari o amici, che singolarmente non sono certamente autistici, anche se messi insieme lo diventano. Per questo Christopher appare strano o bizzarro, anche se poi molta gente ci ritrova alcuni tratti di suo padre o di suo fratello».
Leggendo il libro si percepisce una duplice angoscia: quella del ragazzo che soffre, e quella dei suoi genitori che soffrono per lui e a causa sua. Che effetto ha avuto su di lei questa angoscia, nel periodo in cui l´ha immaginata e descritta?
«Ogni scrittore finisce sempre per identificarsi con il suo personaggio, qualunque esso sia, ma alla fine della giornata ce lo si toglie di dosso, come se fosse un vecchio maglione. La stessa cosa succedeva con Christopher, anche se tutto sommato era piuttosto rassicurante mettersi nei suoi panni, entrare nel suo mondo e pensare i suoi pensieri. Un lettore mi ha detto che non gli sarebbe piaciuto vivere come Christopher per tutta la vita, ma per una settimana non sarebbe stato male non doversi preoccuparsi delle reazioni del prossimo, e prendersi una vacanza dal mondo e dagli altri».
Perché, però, rappresentare l´esperienza di un ragazzo autistico attraverso la prospettiva della matematica?
«La verità, molto semplice, è che io adoro la matematica e i suoi enigmi. E siccome non è facile per uno scrittore far sfoggio della sua matematica, appena c´è stata la possibilità non me la sono lasciata scappare! Anche se da sola la matematica non sarebbe stata sufficiente, e ho dovuto costruire una trama che ancorasse il lettore alle pagine del libro».
Ci sono però vari studi che collegano autismo e matematica, nelle due direzioni: la matematica come possibile salvezza dalla malattia, ma anche come suo possibile detonatore.
«Qualcuno ha descritto il mio libro come un romanzo che ha per protagonista un ragazzo con la mente matematica, che per caso è anche autistico. Un mio amico matematico, invece, mi ha detto che il protagonista è semplicemente un giovane matematico con qualche leggero problema comportamentale. Secondo lui, la conclusione del libro dovrebbe essere che Christopher, dopo la laurea, intraprende una carriera universitaria, dove vivrà circondato da colleghi non troppo diversi da lui ...»
Però a me sembra che il libro presenti una visione un po´ parodistica della matematica: le regole meccaniche che, entro certi limiti, permettono a Christopher di sopravvivere, descrivono più il modo di procedere dei computer che quello dei matematici.
«La cosa imbarazzante è che molte delle opinioni di Christopher sono anche le mie! Anch´io sono affascinato dalla scienza, e la considero lo strumento per vedere il mondo e capire il senso delle cose. Quando avevo sette o otto anni, mi chiedevo spesso se l´universo fosse finito o infinito, e ancor oggi questo genere di cose mi trasmette quel senso di mistero che altri riescono a trovare soltanto nella religione».
In ogni caso, Christopher pensa soltanto in maniera formale. I veri ragionamenti, invece, e soprattutto quelli matematici, sono ben più complessi delle loro caricature formali.
«Si tratta dei pensieri di un ragazzo di quindici anni, che ha necessariamente una visione riduttiva del mondo. Ma anche noi adulti organizziamo la nostra vita sulla base di un´infinità di piccole regole, di cui spesso non siamo consci perché fanno parte della nostra quotidianità, come una sorta di tappezzeria della nostra vita. Alcuni trovano divertente il libro proprio perché Christopher è conscio delle regole della sua vita e di quella degli altri, e a volte riesce a osservarle con distacco, fino ad ammettere che alcune sono ben strane».
Quali sono, precisamente, le caratteristiche della sindrome di Asperger di cui soffre il ragazzo?
«E´ una forma di autismo ad alta funzionalità, che permette un buon livello di vita perché presenta un alto livello intellettivo, pur unito a una grande incapacità relazione. Ma non vorrei entrare nei dettagli, in parte perché non è il mio campo, e in parte perché sembra essere molto difficile categorizzare con precisione questo genere di malattia».
Ho fatto questa domanda perché, leggendo il libro, mi è sembrato che il ragazzo soffrisse piuttosto, o anche, di ebefrenia: dell´incapacità, cioè, di capire il linguaggio in maniera metaforica, prendendo tutto in maniera letterale. Un problema di comunicazione molto specifico, che si limita all´uso del linguaggio ed esclude completamente il metalinguaggio.
«Questo è veramente uno dei paradossi fondamentali del libro. Christopher dovrebbe essere un pessimo narratore, proprio perché capisce soltanto il significato letterale di ciò che gli viene detto, non comprende le emozioni, e gli sfugge sempre il quadro completo di ciò che gli sta attorno. Ma come scrittore ho notato una cosa interessante: che di fronte a un narratore di questo genere, al lettore rimane molto spazio per l´interpretazione. E infatti, alcuni hanno riso dalla prima pagina all´ultima, e altri hanno pianto: ciò che conta è come leggiamo, o non leggiamo, ciò che sta scritto».
CHRISTOPH E LA MAGIA DEI NUMERI
intervista a Mark Haddon
Un bestseller internazionale che parla di autismo e di matematica
di PIERGIORGIO ODIFREDDI
ROMA. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (Einaudi) è uno dei successi editoriali dell´anno. Il romanzo, tradotto in decine di lingue, è narrato in prima persona da un ragazzo autistico che guarda il mondo sotto la specie della matematica, al punto da numerare i capitoli del suo libro secondo la successione dei numeri primi.
Che sembri esserci un legame tra autismo e matematica, è ben noto: ad esempio, in L´uomo che scambiò sua moglie per un cappello Oliver Sacks descrive due gemelli autistici che giocavano a scambiarsi grandi numeri primi. E i sintomi della sindrome di Asperger, di cui soffre il protagonista del romanzo di Haddon, sono tipici della caricatura dei matematici: più interessati alle cose che alle persone, poco comunicativi, ossessivi, asociali, maniacali, osservatori, classificatori e iperrazionalisti.
In realtà, più che ai matematici veri e propri questi sintomi sembrano applicarsi agli ingegneri, agli informatici e ai ragionieri: a quelle categorie di persone, cioè, che riducono la realtà a numeri e regole. E infatti, alcune indagini statistiche hanno rivelato un´anormale presenza di ingegneri (il 25%, due volte e mezzo superiore alla norma) nelle famiglie con storie di autismo. E lo stesso Bill Gates rivela sintomi da sindrome di Asperger, dall´eccezionale memoria infantile all´ipnotico dondolamento sulla sedia.
Abbiamo discusso di questi argomenti con Mark Haddon in occasione della consegna del premio Serono al suo libro.
L´aspetto più immediato del suo libro è che esso si presenta come un racconto in prima persona fatto da un ragazzo autistico. Che esperienza ha nel campo?
«Ho lavorato a lungo con ragazzi portatori di vari handicap, e ripensandoci mi accorgo che qualcuno di loro era probabilmente autistico, anche se all´epoca nessuno li definiva cosí. Da allora l´argomento dell´handicap mi ha sempre interessato molto, soprattutto il fatto che gli invalidi non conducono vite molto diverse dagli altri: hanno gli stessi problemi di soldi, di famiglia, della lavatrice che si rompe, dei vicini troppo rumorosi ...»
Ma a scuola vengono spesso segregati.
«Non in quella dove ho lavorato io, che era in realtà un parco giochi rivolto a bambini di tutti i generi. C´erano portatori di handicap, ma erano mescolati con gli altri, e spesso neppure noi insegnanti conoscevamo le loro problematiche. Questa è stata una lezione fondamentale, per me: se vuoi conoscere una persona devi parlarci, non basta guardare l´etichetta che porta».
Perché ha pensato a un romanzo proprio sull´autismo?
«In realtà, il mio unico scopo era di buttare giù una paginetta che fosse cosí emozionante da convincere il lettore a proseguire nella lettura. La prima immagine che mi è venuta in mente, quella da cui è partita la narrazione, è il cane stecchito in un giardino, trafitto da un forcone. Non me ne vogliano i cinofili, ma trovo quell´immagine molto divertente. E ho pensato che sarebbe stata molto più divertente se fossi riuscito a esprimerla con un tono di voce molto neutro, senza tracce di emozione. Non avevo ancora finito di scrivere il primo capitolo, che già mi domandavo: "Ma la voce narrante, di chi è?"».
In altre parole, la scelta dell´autismo è stata accidentale?
«Sí, e ne sono felice. Perché se avessi voluto scrivere un libro sull´autismo in particolare, o sulla disabilità in generale, sarebbe stato pessimo e nessuno l´avrebbe letto».
E il protagonista è basato su qualcuno in particolare, o è invece una sua invenzione?
«In effetti non ho mai incontrato nessuno che assomigliasse a Christopher. E nessuno dei bambini dai quali ho tratto ispirazione è disabile. Ho descritto il personaggio mettendo insieme abitudini, comportamenti e schemi mentali di una serie di persone che ho veramente conosciuto: famigliari o amici, che singolarmente non sono certamente autistici, anche se messi insieme lo diventano. Per questo Christopher appare strano o bizzarro, anche se poi molta gente ci ritrova alcuni tratti di suo padre o di suo fratello».
Leggendo il libro si percepisce una duplice angoscia: quella del ragazzo che soffre, e quella dei suoi genitori che soffrono per lui e a causa sua. Che effetto ha avuto su di lei questa angoscia, nel periodo in cui l´ha immaginata e descritta?
«Ogni scrittore finisce sempre per identificarsi con il suo personaggio, qualunque esso sia, ma alla fine della giornata ce lo si toglie di dosso, come se fosse un vecchio maglione. La stessa cosa succedeva con Christopher, anche se tutto sommato era piuttosto rassicurante mettersi nei suoi panni, entrare nel suo mondo e pensare i suoi pensieri. Un lettore mi ha detto che non gli sarebbe piaciuto vivere come Christopher per tutta la vita, ma per una settimana non sarebbe stato male non doversi preoccuparsi delle reazioni del prossimo, e prendersi una vacanza dal mondo e dagli altri».
Perché, però, rappresentare l´esperienza di un ragazzo autistico attraverso la prospettiva della matematica?
«La verità, molto semplice, è che io adoro la matematica e i suoi enigmi. E siccome non è facile per uno scrittore far sfoggio della sua matematica, appena c´è stata la possibilità non me la sono lasciata scappare! Anche se da sola la matematica non sarebbe stata sufficiente, e ho dovuto costruire una trama che ancorasse il lettore alle pagine del libro».
Ci sono però vari studi che collegano autismo e matematica, nelle due direzioni: la matematica come possibile salvezza dalla malattia, ma anche come suo possibile detonatore.
«Qualcuno ha descritto il mio libro come un romanzo che ha per protagonista un ragazzo con la mente matematica, che per caso è anche autistico. Un mio amico matematico, invece, mi ha detto che il protagonista è semplicemente un giovane matematico con qualche leggero problema comportamentale. Secondo lui, la conclusione del libro dovrebbe essere che Christopher, dopo la laurea, intraprende una carriera universitaria, dove vivrà circondato da colleghi non troppo diversi da lui ...»
Però a me sembra che il libro presenti una visione un po´ parodistica della matematica: le regole meccaniche che, entro certi limiti, permettono a Christopher di sopravvivere, descrivono più il modo di procedere dei computer che quello dei matematici.
«La cosa imbarazzante è che molte delle opinioni di Christopher sono anche le mie! Anch´io sono affascinato dalla scienza, e la considero lo strumento per vedere il mondo e capire il senso delle cose. Quando avevo sette o otto anni, mi chiedevo spesso se l´universo fosse finito o infinito, e ancor oggi questo genere di cose mi trasmette quel senso di mistero che altri riescono a trovare soltanto nella religione».
In ogni caso, Christopher pensa soltanto in maniera formale. I veri ragionamenti, invece, e soprattutto quelli matematici, sono ben più complessi delle loro caricature formali.
«Si tratta dei pensieri di un ragazzo di quindici anni, che ha necessariamente una visione riduttiva del mondo. Ma anche noi adulti organizziamo la nostra vita sulla base di un´infinità di piccole regole, di cui spesso non siamo consci perché fanno parte della nostra quotidianità, come una sorta di tappezzeria della nostra vita. Alcuni trovano divertente il libro proprio perché Christopher è conscio delle regole della sua vita e di quella degli altri, e a volte riesce a osservarle con distacco, fino ad ammettere che alcune sono ben strane».
Quali sono, precisamente, le caratteristiche della sindrome di Asperger di cui soffre il ragazzo?
«E´ una forma di autismo ad alta funzionalità, che permette un buon livello di vita perché presenta un alto livello intellettivo, pur unito a una grande incapacità relazione. Ma non vorrei entrare nei dettagli, in parte perché non è il mio campo, e in parte perché sembra essere molto difficile categorizzare con precisione questo genere di malattia».
Ho fatto questa domanda perché, leggendo il libro, mi è sembrato che il ragazzo soffrisse piuttosto, o anche, di ebefrenia: dell´incapacità, cioè, di capire il linguaggio in maniera metaforica, prendendo tutto in maniera letterale. Un problema di comunicazione molto specifico, che si limita all´uso del linguaggio ed esclude completamente il metalinguaggio.
«Questo è veramente uno dei paradossi fondamentali del libro. Christopher dovrebbe essere un pessimo narratore, proprio perché capisce soltanto il significato letterale di ciò che gli viene detto, non comprende le emozioni, e gli sfugge sempre il quadro completo di ciò che gli sta attorno. Ma come scrittore ho notato una cosa interessante: che di fronte a un narratore di questo genere, al lettore rimane molto spazio per l´interpretazione. E infatti, alcuni hanno riso dalla prima pagina all´ultima, e altri hanno pianto: ciò che conta è come leggiamo, o non leggiamo, ciò che sta scritto».
neuroscienze a congresso sull'autismo
Galileo Magazine 10.7.04
AUTISMO
Stregati da un ormone
di Johann Rossi Mason
Il cervello rimane l'organo umano più misterioso. Complice anche la barriera emato-encefalica, il "muro" che lo separa dal resto dell'organismo che solo alcune sostanze riescono a valicare e all'interno del quale non è più possibile misurare la concentrazione delle sostanze che vi circolano. Così come l'organo, anche le malattie a esso correlate sono di difficile definizione. Di molte di esse si conoscono le manifestazioni e i sintomi, ma non le cause scatenanti. Di alcune di queste si è parlato durante il 4° Congresso Internazionale "Genetics and Regeneration in Neuroscience" che si è svolto a Terni dal 27 al 30 giugno scorso, organizzato dalla Fondazione Agarini.
Prima fra tutte l'autismo, una patologia quantitativamente importante quanto l'Alzheimer che necessita di una assistenza sanitaria 'long-life' con costi sociali da capogiro. Dal 1980 al 2000 gli studi su questa malattia sono quadruplicati e hanno permesso di formulare un quadro più preciso, anche se incompleto. Si ipotizzano cause ambientali: vaccini, tossine, fattori autoimmuni, neurologici. Dal punto di vista anatomico è stata osservata una eccessiva proliferazione dei neuroni con un aumento della materia bianca e grigia, sovradimensionamento del cranio probabilmente a causa del mancato 'pruning' a due anni (il fenomeno di eliminazione dei neuroni in sovrannumero).
Alla fisiologia del cervello guarda anche Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health, branca dei National Institute of Health statunitensi, che nelle persone affette da autismo ha ipotizzato un malfunzionamento dei due peptidi prodotti nell'ipotalamo e attualmente indagati come i maggiori responsabili della costruzione dei legami sociali: ossitocina e vasopressina.
Che relazione c'è tra i due peptidi e la capacità di stare in mezzo ad altri esseri umani? "Studi sui mammiferi" ha spiegato Insel a Terni "hanno dimostrato che l'ossitocina ha un ruolo primario sia nell'attaccamento che nel riconoscimento sociale. In maniera più ampia sembra che l'OT sovrintenda a tutti i legami di attaccamento, da quello madre-figlio a quello con il partner (infatti è secreta abbondantemente durante il rapporto sessuale) sino a quello con il gruppo di appartenenza. Si è notata inoltre una distribuzione diversa dei vari recettori nel cervello a seconda delle specie e il pattern di espressione del recettore ha un corrispondente preciso nel comportamento: quindi si trovano maggiori recettori nelle specie che per esempio accudiscono i figli dopo la nascita e in quelli che vivono in branco rispetto ai 'solitari'. La secrezione di ossitocina e vasopressina è associata a sensazioni di ricompensa, un circolo virtuoso di gratificazione reciproca". Tanto per fare un esempio al momento del parto sia la madre che il figlio sono 'ubriachi' di ossitocina e questo favorisce il cosiddetto 'bonding', il legame di attaccamento primario, che si manifesta nei primi attimi di vita.
Altresì è stato osservato che l'ossitocina viene secreta durante un massaggio e nel neonato, durante le coccole e i toccamenti della madre. E proprio a proposito di coccole una recente ricerca su Nature Neuroscience sembrerebbe aver dimostrato che le coccole durante la primissima infanzia sarebbero in grado di proteggere il bebè dallo stress per il resto della vita. I ricercatori della McGill University di Montreal, in Canada, suggeriscono la capacità delle carezze di plasmare i geni, in particolare quello che codifica il recettore dei glucocorticoidi. Forse un costante afflusso di ormoni antistress nel cervello giovane, innescherebbe un meccanismo protettivo e gratificante che agirebbe come difesa dagli stress futuri, tramite 'buone sinapsi'. I ricercatori invece sostengono che l'ambiente e i comportamenti possano intervenire sui geni in modo che l'influenzamento sia a due vie, mentre sino ad oggi era stato sostenuto che i geni influenzassero il comportamento e non potesse avvenire il contrario.
Anche alcune ricercatrici del Cnr hanno tentato di svelare il meccanismo psicobiologico alla base del bonding misurando le sostanze coinvolte. E hanno verificato che nel momento in cui tra madre e figlio scatta il primo sguardo e quindi si gettano le basi di un legame esclusivo, nel cervello si verifica una vera esplosione di oppiacei endogeni, di cui fanno parte anche le endorfine e che hanno come corrispondente in natura oppio, morfina ed eroina. Questo spiegherebbe in parte la forma di 'dipendenza' che il neonato ha dalla propria madre e come sia per lui esasperante affrontare il distacco da essa. Mentre si riteneva che la dipendenza del neonato dalla madre fosse solo una necessità per garantirsi la sopravvivenza (cibo e protezione), sembra che la deprivazione dalla madre provochi una vera e propria crisi di astinenza.
E' stato creato in laboratorio un modello animale che non reagisce agli oppiacei e che, di fronte alla separazione dalla madre, mostrano indifferenza, al contrario di ciò che accade nei topolini normali che piangono disperatamente e a lungo se la madre non accorre ai loro richiami. Questo non fa che riportarci all'autismo. La scoperta infatti è una indicazione sperimentale che nei bambini autistici l'indifferenza sociale sia legata proprio a un cattivo funzionamento degli oppiacei naturali.
Magazine, 16 luglio 2004 © Galileo
AUTISMO
Stregati da un ormone
di Johann Rossi Mason
Il cervello rimane l'organo umano più misterioso. Complice anche la barriera emato-encefalica, il "muro" che lo separa dal resto dell'organismo che solo alcune sostanze riescono a valicare e all'interno del quale non è più possibile misurare la concentrazione delle sostanze che vi circolano. Così come l'organo, anche le malattie a esso correlate sono di difficile definizione. Di molte di esse si conoscono le manifestazioni e i sintomi, ma non le cause scatenanti. Di alcune di queste si è parlato durante il 4° Congresso Internazionale "Genetics and Regeneration in Neuroscience" che si è svolto a Terni dal 27 al 30 giugno scorso, organizzato dalla Fondazione Agarini.
Prima fra tutte l'autismo, una patologia quantitativamente importante quanto l'Alzheimer che necessita di una assistenza sanitaria 'long-life' con costi sociali da capogiro. Dal 1980 al 2000 gli studi su questa malattia sono quadruplicati e hanno permesso di formulare un quadro più preciso, anche se incompleto. Si ipotizzano cause ambientali: vaccini, tossine, fattori autoimmuni, neurologici. Dal punto di vista anatomico è stata osservata una eccessiva proliferazione dei neuroni con un aumento della materia bianca e grigia, sovradimensionamento del cranio probabilmente a causa del mancato 'pruning' a due anni (il fenomeno di eliminazione dei neuroni in sovrannumero).
Alla fisiologia del cervello guarda anche Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health, branca dei National Institute of Health statunitensi, che nelle persone affette da autismo ha ipotizzato un malfunzionamento dei due peptidi prodotti nell'ipotalamo e attualmente indagati come i maggiori responsabili della costruzione dei legami sociali: ossitocina e vasopressina.
Che relazione c'è tra i due peptidi e la capacità di stare in mezzo ad altri esseri umani? "Studi sui mammiferi" ha spiegato Insel a Terni "hanno dimostrato che l'ossitocina ha un ruolo primario sia nell'attaccamento che nel riconoscimento sociale. In maniera più ampia sembra che l'OT sovrintenda a tutti i legami di attaccamento, da quello madre-figlio a quello con il partner (infatti è secreta abbondantemente durante il rapporto sessuale) sino a quello con il gruppo di appartenenza. Si è notata inoltre una distribuzione diversa dei vari recettori nel cervello a seconda delle specie e il pattern di espressione del recettore ha un corrispondente preciso nel comportamento: quindi si trovano maggiori recettori nelle specie che per esempio accudiscono i figli dopo la nascita e in quelli che vivono in branco rispetto ai 'solitari'. La secrezione di ossitocina e vasopressina è associata a sensazioni di ricompensa, un circolo virtuoso di gratificazione reciproca". Tanto per fare un esempio al momento del parto sia la madre che il figlio sono 'ubriachi' di ossitocina e questo favorisce il cosiddetto 'bonding', il legame di attaccamento primario, che si manifesta nei primi attimi di vita.
Altresì è stato osservato che l'ossitocina viene secreta durante un massaggio e nel neonato, durante le coccole e i toccamenti della madre. E proprio a proposito di coccole una recente ricerca su Nature Neuroscience sembrerebbe aver dimostrato che le coccole durante la primissima infanzia sarebbero in grado di proteggere il bebè dallo stress per il resto della vita. I ricercatori della McGill University di Montreal, in Canada, suggeriscono la capacità delle carezze di plasmare i geni, in particolare quello che codifica il recettore dei glucocorticoidi. Forse un costante afflusso di ormoni antistress nel cervello giovane, innescherebbe un meccanismo protettivo e gratificante che agirebbe come difesa dagli stress futuri, tramite 'buone sinapsi'. I ricercatori invece sostengono che l'ambiente e i comportamenti possano intervenire sui geni in modo che l'influenzamento sia a due vie, mentre sino ad oggi era stato sostenuto che i geni influenzassero il comportamento e non potesse avvenire il contrario.
Anche alcune ricercatrici del Cnr hanno tentato di svelare il meccanismo psicobiologico alla base del bonding misurando le sostanze coinvolte. E hanno verificato che nel momento in cui tra madre e figlio scatta il primo sguardo e quindi si gettano le basi di un legame esclusivo, nel cervello si verifica una vera esplosione di oppiacei endogeni, di cui fanno parte anche le endorfine e che hanno come corrispondente in natura oppio, morfina ed eroina. Questo spiegherebbe in parte la forma di 'dipendenza' che il neonato ha dalla propria madre e come sia per lui esasperante affrontare il distacco da essa. Mentre si riteneva che la dipendenza del neonato dalla madre fosse solo una necessità per garantirsi la sopravvivenza (cibo e protezione), sembra che la deprivazione dalla madre provochi una vera e propria crisi di astinenza.
E' stato creato in laboratorio un modello animale che non reagisce agli oppiacei e che, di fronte alla separazione dalla madre, mostrano indifferenza, al contrario di ciò che accade nei topolini normali che piangono disperatamente e a lungo se la madre non accorre ai loro richiami. Questo non fa che riportarci all'autismo. La scoperta infatti è una indicazione sperimentale che nei bambini autistici l'indifferenza sociale sia legata proprio a un cattivo funzionamento degli oppiacei naturali.
Magazine, 16 luglio 2004 © Galileo
un inedito di Joyce
Repubblica 10.7.04
Scritta nel 1909 alla moglie, è stata venduta a Londra per 350.000 euro
la lettera più erotica di James Joyce
Ma gli eredi dello scrittore si oppongono alla divulgazione
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. L´hanno descritta come «l´anello mancante nella più scandalosa corrispondenza erotica della letteratura moderna» e «l´equivalente del sesso telefonico all´inizio del ventesimo secolo». Ora si può aggiungere una terza definizione: la lettera più pagata di tutti i tempi. Questa settimana, a Londra, il martello di Sotheby´s ha aggiudicato a un anonimo acquirente una missiva scritta da James Joyce alla moglie Nora per la cifra record di 240 mila sterline, circa 365 mila euro. La celebre casa d´aste aveva attributo al «lotto numero 201» di una vendita di manoscritti del grande scrittore un prezzo di partenza assai più basso, 50-60 mila sterline; ma l´interesse tra le quattrocento persone presenti in sala e il pubblico che inviava offerte per telefono ha superato ogni aspettativa. Considerato che si tratta di appena tre paginette vergate a mano, chi se ne è impossessato ha pagato per ogni parola molto più di colui che mezz´ora più tardi ha acquistato una copia della prima edizione de L´Ulisse, regalata da Joyce al fratello Stanislaus, con dedica dell´autore.
La corrispondenza «erotica» risale al periodo in cui Joyce e la moglie furono separati: lui a Dublino, lei a Trieste, dove era rimasta insieme ai due figli della coppia. Nora gli scriveva, sostengono i biografi, per «tenerlo lontano dalle prostitute»; lui riversava sulla moglie la passione sessuale che avrebbe poi trasferito sulle pagine di Ulisse nel personaggio, ispirato a Nora, di Molly Bloom. Ma dalla fitta corrispondenza mancava un tassello: la lettera datata primo dicembre 1909, una risposta di Joyce a precedenti «seduzioni» di Nora. Era rimasta infilata dentro un libro nella biblioteca di Stanislaus Joyce, è stata ritrovata recentemente e così è finita all´asta, probabilmente per volere dei discendenti di Stanislaus, la cui vedova, Nelly Joyce, aveva venduto gran parte della corrispondenza alla Cornell University nel 1957.
L´operazione ha tuttavia suscitato le proteste degli eredi legali di Joyce, il nipote Stephen e la moglie Solange, che hanno minacciato di fare causa e costretto Sotheby a rivelare soltanto qualche frase della lettera. Il misterioso acquirente, non si sa se un collezionista privato o un museo, dovrà osservare analoghe restrizioni e non potrà mostrarne il contenuto in pubblico. «Siamo dispiaciuti, e lo sarebbe anche Joyce», afferma Solange. «Queste sono lettere private, e tali dovrebbero restare. Quello che Joyce voleva rendere di dominio pubblico erano i suoi romanzi e racconti. Tutto il resto non deve venire divulgato. E secondo la legge siamo noi ad avere il copyright su qualunque cosa abbia scritto, fosse anche una lista della spesa»
stessa pagina
COME SI RIVOLGE ALLA CONSORTE CHE L'AVEVA INIZIATO AI GIOCHI SESSUALI
Cara Nora, sei la mia puttana
E. F.
LONDRA - «Signora Joyce, via Vincenzo Scuussa 8, Trieste (Austria)», si legge sulla busta. Il timbro è «Dublino», la data «2 december 1909». Joyce comincia chiamando Nora «la mia puttana dagli occhi strani» e finisce, tre pagine e quattrocento parole più avanti, firmandosi «che il cielo perdoni la mia pazzia, Jim». E´ un´ode alla più sfrenata passione erotica, in cui lo scrittore riconosce «l´ingovernabile lussuria» che sente per la moglie. In uno dei passaggi rivelati da Sotheby´s, Joyce afferma l´intenzione di soddisfare il proprio desiderio sessuale e quello di Nora «in una varietà di accoppiamenti, di posizioni e di circostanze», ciascuno dei quali riflette «gusti, predilezioni e ossessioni». In seguito lo scrittore si sofferma sulle parti del corpo di Nora e sul suo abbigliamento, esprime la convizione che, «essendo diventati partner nell´amore spirituale», ora debbano condividere fino in fondo anche una «complicità onanistica». Il senso e lo scopo della corrispondenza: eccitarsi a vicenda, portarsi vicendevolmente a un orgasmo, nonostante la distanza.
Come nella vita, anche nelle lettere è Nora che prende l´iniziativa, rivela Brenda Maddox, autrice di una biografia della moglie dello scrittore. «Fu lei a infilargli la mano nei calzoni il 16 giugno 1904», nel loro primo incontro, in cui come Joyce annotò più tardi «mi hai reso un uomo». Fu lei a sussurrargli «le prime oscenità, pochi mesi dopo, quando fuggirono insieme a Trieste», e ancora lei a introdurre un elemento erotico nelle loro lettere. Joyce, secondo gli eredi legali dei diritti d´autore, chiese a Nora di distruggere le lettere, ma lei non lo fece.
Scritta nel 1909 alla moglie, è stata venduta a Londra per 350.000 euro
la lettera più erotica di James Joyce
Ma gli eredi dello scrittore si oppongono alla divulgazione
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. L´hanno descritta come «l´anello mancante nella più scandalosa corrispondenza erotica della letteratura moderna» e «l´equivalente del sesso telefonico all´inizio del ventesimo secolo». Ora si può aggiungere una terza definizione: la lettera più pagata di tutti i tempi. Questa settimana, a Londra, il martello di Sotheby´s ha aggiudicato a un anonimo acquirente una missiva scritta da James Joyce alla moglie Nora per la cifra record di 240 mila sterline, circa 365 mila euro. La celebre casa d´aste aveva attributo al «lotto numero 201» di una vendita di manoscritti del grande scrittore un prezzo di partenza assai più basso, 50-60 mila sterline; ma l´interesse tra le quattrocento persone presenti in sala e il pubblico che inviava offerte per telefono ha superato ogni aspettativa. Considerato che si tratta di appena tre paginette vergate a mano, chi se ne è impossessato ha pagato per ogni parola molto più di colui che mezz´ora più tardi ha acquistato una copia della prima edizione de L´Ulisse, regalata da Joyce al fratello Stanislaus, con dedica dell´autore.
La corrispondenza «erotica» risale al periodo in cui Joyce e la moglie furono separati: lui a Dublino, lei a Trieste, dove era rimasta insieme ai due figli della coppia. Nora gli scriveva, sostengono i biografi, per «tenerlo lontano dalle prostitute»; lui riversava sulla moglie la passione sessuale che avrebbe poi trasferito sulle pagine di Ulisse nel personaggio, ispirato a Nora, di Molly Bloom. Ma dalla fitta corrispondenza mancava un tassello: la lettera datata primo dicembre 1909, una risposta di Joyce a precedenti «seduzioni» di Nora. Era rimasta infilata dentro un libro nella biblioteca di Stanislaus Joyce, è stata ritrovata recentemente e così è finita all´asta, probabilmente per volere dei discendenti di Stanislaus, la cui vedova, Nelly Joyce, aveva venduto gran parte della corrispondenza alla Cornell University nel 1957.
L´operazione ha tuttavia suscitato le proteste degli eredi legali di Joyce, il nipote Stephen e la moglie Solange, che hanno minacciato di fare causa e costretto Sotheby a rivelare soltanto qualche frase della lettera. Il misterioso acquirente, non si sa se un collezionista privato o un museo, dovrà osservare analoghe restrizioni e non potrà mostrarne il contenuto in pubblico. «Siamo dispiaciuti, e lo sarebbe anche Joyce», afferma Solange. «Queste sono lettere private, e tali dovrebbero restare. Quello che Joyce voleva rendere di dominio pubblico erano i suoi romanzi e racconti. Tutto il resto non deve venire divulgato. E secondo la legge siamo noi ad avere il copyright su qualunque cosa abbia scritto, fosse anche una lista della spesa»
stessa pagina
COME SI RIVOLGE ALLA CONSORTE CHE L'AVEVA INIZIATO AI GIOCHI SESSUALI
Cara Nora, sei la mia puttana
E. F.
LONDRA - «Signora Joyce, via Vincenzo Scuussa 8, Trieste (Austria)», si legge sulla busta. Il timbro è «Dublino», la data «2 december 1909». Joyce comincia chiamando Nora «la mia puttana dagli occhi strani» e finisce, tre pagine e quattrocento parole più avanti, firmandosi «che il cielo perdoni la mia pazzia, Jim». E´ un´ode alla più sfrenata passione erotica, in cui lo scrittore riconosce «l´ingovernabile lussuria» che sente per la moglie. In uno dei passaggi rivelati da Sotheby´s, Joyce afferma l´intenzione di soddisfare il proprio desiderio sessuale e quello di Nora «in una varietà di accoppiamenti, di posizioni e di circostanze», ciascuno dei quali riflette «gusti, predilezioni e ossessioni». In seguito lo scrittore si sofferma sulle parti del corpo di Nora e sul suo abbigliamento, esprime la convizione che, «essendo diventati partner nell´amore spirituale», ora debbano condividere fino in fondo anche una «complicità onanistica». Il senso e lo scopo della corrispondenza: eccitarsi a vicenda, portarsi vicendevolmente a un orgasmo, nonostante la distanza.
Come nella vita, anche nelle lettere è Nora che prende l´iniziativa, rivela Brenda Maddox, autrice di una biografia della moglie dello scrittore. «Fu lei a infilargli la mano nei calzoni il 16 giugno 1904», nel loro primo incontro, in cui come Joyce annotò più tardi «mi hai reso un uomo». Fu lei a sussurrargli «le prime oscenità, pochi mesi dopo, quando fuggirono insieme a Trieste», e ancora lei a introdurre un elemento erotico nelle loro lettere. Joyce, secondo gli eredi legali dei diritti d´autore, chiese a Nora di distruggere le lettere, ma lei non lo fece.
giunto al suo quarto anno
il solito «festival della filosofia»
a Modena in settembre
Repubblica 10.7.04
A MODENA IN SETTEMBRE
tre giorni dedicati al pensiero Con Cacciari e Greenaway
MODENA - Per il quarto anno consecutivo, i comuni di Modena, Carpi e Sassuolo si preparano ad ospitare per tre giorni, dal 17 al 19 settembre prossimi, il "Festival della Filosofia", la manifestazione promossa dalla fondazione Collegio San Carlo che l´anno scorso ha visto la partecipazione di 75mila persone. Numerosi gli appuntamenti che in quest´edizione ruotano attorno al tema "mondo": dalle lezioni dei maestri del pensiero contemporaneo alla letteratura, passando attraverso il teatro e una rassegna cinematografica, intitolata "Isole Oceani e Stretti di mare". Tra i nomi che hanno già dato conferma della loro presenza alla rassegna ci sono quelli dei filosofi Jean-Luc Marion e John Tomlinson, degli antropologi Marc Augé e Jonathan Friedman, del regista Peter Greenaway, dell´africanista Jean-Loup Amselle e degli italiani Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Remo Bodei, Umberto Galimberti, Ermanno Bencivenga e Salvatore Natoli. Dopo l´iniziativa dell´anno scorso, tornano le cene filosofiche ideate dall´accademico dei Lincei Tullio Gregory. In occasione del fine settimana filosofico, saranno allestite la mostra fotografica "Atlante" di Luigi Ghirri, l´esposizione di mappe e cartine geografiche curata da Gianni Valbonesi e sarà organizzato un programma su misura per i ragazzi con spettacoli, letture e visite guidate al planetario.
A MODENA IN SETTEMBRE
tre giorni dedicati al pensiero Con Cacciari e Greenaway
MODENA - Per il quarto anno consecutivo, i comuni di Modena, Carpi e Sassuolo si preparano ad ospitare per tre giorni, dal 17 al 19 settembre prossimi, il "Festival della Filosofia", la manifestazione promossa dalla fondazione Collegio San Carlo che l´anno scorso ha visto la partecipazione di 75mila persone. Numerosi gli appuntamenti che in quest´edizione ruotano attorno al tema "mondo": dalle lezioni dei maestri del pensiero contemporaneo alla letteratura, passando attraverso il teatro e una rassegna cinematografica, intitolata "Isole Oceani e Stretti di mare". Tra i nomi che hanno già dato conferma della loro presenza alla rassegna ci sono quelli dei filosofi Jean-Luc Marion e John Tomlinson, degli antropologi Marc Augé e Jonathan Friedman, del regista Peter Greenaway, dell´africanista Jean-Loup Amselle e degli italiani Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Emanuele Severino, Remo Bodei, Umberto Galimberti, Ermanno Bencivenga e Salvatore Natoli. Dopo l´iniziativa dell´anno scorso, tornano le cene filosofiche ideate dall´accademico dei Lincei Tullio Gregory. In occasione del fine settimana filosofico, saranno allestite la mostra fotografica "Atlante" di Luigi Ghirri, l´esposizione di mappe e cartine geografiche curata da Gianni Valbonesi e sarà organizzato un programma su misura per i ragazzi con spettacoli, letture e visite guidate al planetario.
uno studio sulla democrazia antica
Repubblica edizione di Napoli 10.7.04
LE IDEE
Il governo delle masse e la libertà
di MARCO LOMBARDI
È un libro meditato, difficile e sostanzioso, che il suo autore vorrebbe farci credere di aver scritto quasi per caso, onorando meri obblighi didattici. Impossibile seguirlo su questa strada. Certo Gennaro Carillo, autore di "Katechein. Uno studio sulla democrazia antica" (Editoriale Scientifica, 204 pagine, 14,50 euro) insegna "Storia delle dottrine politiche" al Suor Orsola Benincasa ed è un fenomenale affabulatore, gettonatissimo da pletore di studenti. Un ragazzone di trentasei anni fenomenalmente colto, all´anagrafre accademica allievo di Francesco De Sanctis, convinto che tutto l´importante in Occidente è successo tra 2500 e 2300 anni fa. Non è un caso che Carillo abbia dedicato un bellissimo saggio, qualche anno fa, a Vico, che nell´angusta ma intellettualmente operosissima Napoli di tre secoli fa dialogò, tra gli altri, da pari a pari con Platone. La critica di quest´ultimo alla democrazia, un must della filosofia politica occidentale, è l´attuale interesse di Carillo: questo volume ne è una sorta di ouverture.
Erodoto, Tucidide e la commedia attica sono i luoghi nei quali Carillo si addentra. Dialogo costante con i testi, quindi, e bibliografia selezionatissima: un modo intelligente per farli respirare e consentir loro di sprigionare tutti i conturbanti aromi concettuali, impedendo alla letteratura secondaria quel terribile effetto di soffocamento e di conseguente depauperamento, per chi legge, delle capacità di attenzione.
Il cuore dell´argomentazione è, probabilmente, il seguente: «motivo conduttore della ricerca è l´atto di frenare, il katechein del titolo. Un verbo che evoca passioni imperiose da domare, eccessi di motilità da imbrigliare: il grido (lo phtoggos) di Ifigenia sull´altare del sacrificio (Eschilo, Agamennone, vv.236-237); il passo nervoso di giovenca (schirtema moschou) con il quale Polissena va incontro alla morte, sacrificata vergine per compiacere lo spettro di Achille (Euripide, Ecuba, v.526); le lacrime (i dakrya) di Critone davanti a Socrate morente (Platone, Fedone, 117d2-3). Nelle pagine che seguono il katechein denota un problema costante della democrazia antica, costante almeno quanto il metechein ("la partecipazione") agli affari della polis: la necessità di contenere la moltitudine (il plethos: la maggior parte) entro una giusta misura. Con questo non voglio avanzare, esagerando, la congettura che nel katechein si condensi il problema centrale della democrazia classica (centrale soprattutto per i critici della politeia democratica). Il conflitto di valori tra katechein e metechein e le sue possibili soluzioni rappresentano un aspetto, uno soltanto, di un problema senz´altro più ampio e complesso; tuttavia mi sembra difficile negarne la rilevanza per la storia del pensiero politico».
Tradotto e parafrasato in lingua italiana del XXI secolo: gli antichi dobbiamo studiarli, perché, pur non essendo come noi, risultandoci, anzi, sideralmente lontani e altri, hanno perciò la possibilità di farci riflettere criticamente sul nostro presente: fosse solo per quel loro lessico, che ha modellato il nostro modo di pensare e di agire. Con robusta fantasia interpretativa possiamo cercarvi già abbozzata quella critica alle degenerazioni della democrazia, sviluppata nell´Ottocento, secondo un´angolatura liberale - per loro, naturalmente, improponibile - da Tocqueville. Quasi superfluo sottolineare che questo, oggi, è il problema dei problemi. Dall´America ai Quartieri spagnoli, il disciplinamento della potenza disgregatrice delle masse, senza rinunciare alla libertà, è il banco di prova per la bontà dell´autogoverno e per la capacità dei suoi rappresentanti di agire con efficacia, senza tradirne lo spirito e le garanzie. Altro tema attualissimo, alla luce di quanto sta succedendo in Medio Oriente; un tema sul quale soprattutto a sinistra varrebbe la pena di riflettere più compiutamente.
Conclusioni della traduzione e della parafrasi interamente mie, naturalmente, ché alla acribia e all´avalutatività dello studioso Carillo poco si addicono, in tale esemplificata presentazione. Il suo volume si raccomanda anche per un altro, forse ugualmente, importante motivo, questa volta esprimibile in forma di speranza: che la filosofia, qui a Napoli, si riprenda quell´aggettivo civile che, soprattutto nel Settecento, con essa faceva tutt´uno. Il discorso è lungo, complicato, leggermente doloroso, e, magari, varrà la pena, una prossima volta, di articolarlo più compiutamente. Dopo anni di abbuffate neo-storicistiche e di imbandigioni nichilistico-heidegerrian-decostruzioniste, è forse venuto il tempo di discorsi meno teoreticamente svolazzanti e alla moda, ma, sicuramente, più utili per afferrare il tempo in cui si vive. Una filosofia che, da lontano o da vicino, aiuti a comprendere i nostri nuovi quadri concettuali, può di nuovo onorevolmente assolvere a quel suo ruolo in «soccorso de´ governi» che, ancora nel Settecento, costituì il suo più prezioso e non dimenticato biglietto da visita.
Non so se al vichiano Carillo questo Settecento così marcatamente, sfacciatamente illuministico piaccia; ma lo spirito del suo libro va in quella direzione, nel modo compiuto che non può farcelo assolutamente considerare il truciolo di bottega di un artigiano in altre, apparentemente più serie, faccende affaccendato.
LE IDEE
Il governo delle masse e la libertà
di MARCO LOMBARDI
È un libro meditato, difficile e sostanzioso, che il suo autore vorrebbe farci credere di aver scritto quasi per caso, onorando meri obblighi didattici. Impossibile seguirlo su questa strada. Certo Gennaro Carillo, autore di "Katechein. Uno studio sulla democrazia antica" (Editoriale Scientifica, 204 pagine, 14,50 euro) insegna "Storia delle dottrine politiche" al Suor Orsola Benincasa ed è un fenomenale affabulatore, gettonatissimo da pletore di studenti. Un ragazzone di trentasei anni fenomenalmente colto, all´anagrafre accademica allievo di Francesco De Sanctis, convinto che tutto l´importante in Occidente è successo tra 2500 e 2300 anni fa. Non è un caso che Carillo abbia dedicato un bellissimo saggio, qualche anno fa, a Vico, che nell´angusta ma intellettualmente operosissima Napoli di tre secoli fa dialogò, tra gli altri, da pari a pari con Platone. La critica di quest´ultimo alla democrazia, un must della filosofia politica occidentale, è l´attuale interesse di Carillo: questo volume ne è una sorta di ouverture.
Erodoto, Tucidide e la commedia attica sono i luoghi nei quali Carillo si addentra. Dialogo costante con i testi, quindi, e bibliografia selezionatissima: un modo intelligente per farli respirare e consentir loro di sprigionare tutti i conturbanti aromi concettuali, impedendo alla letteratura secondaria quel terribile effetto di soffocamento e di conseguente depauperamento, per chi legge, delle capacità di attenzione.
Il cuore dell´argomentazione è, probabilmente, il seguente: «motivo conduttore della ricerca è l´atto di frenare, il katechein del titolo. Un verbo che evoca passioni imperiose da domare, eccessi di motilità da imbrigliare: il grido (lo phtoggos) di Ifigenia sull´altare del sacrificio (Eschilo, Agamennone, vv.236-237); il passo nervoso di giovenca (schirtema moschou) con il quale Polissena va incontro alla morte, sacrificata vergine per compiacere lo spettro di Achille (Euripide, Ecuba, v.526); le lacrime (i dakrya) di Critone davanti a Socrate morente (Platone, Fedone, 117d2-3). Nelle pagine che seguono il katechein denota un problema costante della democrazia antica, costante almeno quanto il metechein ("la partecipazione") agli affari della polis: la necessità di contenere la moltitudine (il plethos: la maggior parte) entro una giusta misura. Con questo non voglio avanzare, esagerando, la congettura che nel katechein si condensi il problema centrale della democrazia classica (centrale soprattutto per i critici della politeia democratica). Il conflitto di valori tra katechein e metechein e le sue possibili soluzioni rappresentano un aspetto, uno soltanto, di un problema senz´altro più ampio e complesso; tuttavia mi sembra difficile negarne la rilevanza per la storia del pensiero politico».
Tradotto e parafrasato in lingua italiana del XXI secolo: gli antichi dobbiamo studiarli, perché, pur non essendo come noi, risultandoci, anzi, sideralmente lontani e altri, hanno perciò la possibilità di farci riflettere criticamente sul nostro presente: fosse solo per quel loro lessico, che ha modellato il nostro modo di pensare e di agire. Con robusta fantasia interpretativa possiamo cercarvi già abbozzata quella critica alle degenerazioni della democrazia, sviluppata nell´Ottocento, secondo un´angolatura liberale - per loro, naturalmente, improponibile - da Tocqueville. Quasi superfluo sottolineare che questo, oggi, è il problema dei problemi. Dall´America ai Quartieri spagnoli, il disciplinamento della potenza disgregatrice delle masse, senza rinunciare alla libertà, è il banco di prova per la bontà dell´autogoverno e per la capacità dei suoi rappresentanti di agire con efficacia, senza tradirne lo spirito e le garanzie. Altro tema attualissimo, alla luce di quanto sta succedendo in Medio Oriente; un tema sul quale soprattutto a sinistra varrebbe la pena di riflettere più compiutamente.
Conclusioni della traduzione e della parafrasi interamente mie, naturalmente, ché alla acribia e all´avalutatività dello studioso Carillo poco si addicono, in tale esemplificata presentazione. Il suo volume si raccomanda anche per un altro, forse ugualmente, importante motivo, questa volta esprimibile in forma di speranza: che la filosofia, qui a Napoli, si riprenda quell´aggettivo civile che, soprattutto nel Settecento, con essa faceva tutt´uno. Il discorso è lungo, complicato, leggermente doloroso, e, magari, varrà la pena, una prossima volta, di articolarlo più compiutamente. Dopo anni di abbuffate neo-storicistiche e di imbandigioni nichilistico-heidegerrian-decostruzioniste, è forse venuto il tempo di discorsi meno teoreticamente svolazzanti e alla moda, ma, sicuramente, più utili per afferrare il tempo in cui si vive. Una filosofia che, da lontano o da vicino, aiuti a comprendere i nostri nuovi quadri concettuali, può di nuovo onorevolmente assolvere a quel suo ruolo in «soccorso de´ governi» che, ancora nel Settecento, costituì il suo più prezioso e non dimenticato biglietto da visita.
Non so se al vichiano Carillo questo Settecento così marcatamente, sfacciatamente illuministico piaccia; ma lo spirito del suo libro va in quella direzione, nel modo compiuto che non può farcelo assolutamente considerare il truciolo di bottega di un artigiano in altre, apparentemente più serie, faccende affaccendato.
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Virgilio Notizie 10.7.04
SCIENZE/IL SEGRETO DEL BUONUMORE? E' NEL DNA, SECONDO RICERCA USA
09/07/2004 - 16:25
Scoperto meccanismo della 'propensione' ad ansia e depressione
Milano, 09 lug. (Apcom) - Per la prima volta un gruppo di scienziati del Massachusetts General Hospital di Boston è riuscito a scoprire il meccanismo genetico che potrebbe spiegare come mai alcune persone sono più soggette di altre alla depressione cronica, all'ansia e altri disturbi psichiatrici. La chiave di volta - e questa non è una novità - sta tutta nella serotonina. Una sostanza che viene prodotta naturalmente dal cervello e che è strettamente legata all'umore e alle emozioni. Finora gli psichiatri usavano mettere in ordine il livello di serotonina dei propri pazienti attraverso farmaci antidepressivi come il famoso Prozac.
Il problema è che questo tipo di medicinali dà risultati apprezzabili solo nel 30-40 per cento dei casi. Ora la scoperta nel Dna di alcuni topi di una certa variante genetica responsabile della regolazione del livello di serotonina - spiegano sul numero di oggi della rivista "Science" gli autori della scoperta - potrebbe aprire la strada a cure davvero efficaci per tutti. Non è stato ancora provato che differenze genetiche simili a quelle riscontrate nei topi siano presenti anche negli esseri umani, avverte Marc G. Caron professore di biologia cellulare alla Duke University, "Ma speriamo che il risultato dei nostri studi ci dia un suggerimento, un indizio per capire quali possano essere potenziali differenze negli individui". Nelle persone sane la serotonina, soprannominata la "madre del buonumore", agisce in coppia con un altro neurotrasmettitore, la dopamina.
Il risultato è un equilibrio chimico in grado di mantenere umore e comportamento relativamente stabili. Quando però questo equilibrio manca, gli antidepressivi rallentano il tasso di re-assorbimento della seratonina, in modo stia attiva più a lungo. Ora la sfida degli scienziati è quella di arrivare a cure tagliate su misura per la mente di ciascun paziente.
copyright @ 2004 APCOM
SCIENZE/IL SEGRETO DEL BUONUMORE? E' NEL DNA, SECONDO RICERCA USA
09/07/2004 - 16:25
Scoperto meccanismo della 'propensione' ad ansia e depressione
Milano, 09 lug. (Apcom) - Per la prima volta un gruppo di scienziati del Massachusetts General Hospital di Boston è riuscito a scoprire il meccanismo genetico che potrebbe spiegare come mai alcune persone sono più soggette di altre alla depressione cronica, all'ansia e altri disturbi psichiatrici. La chiave di volta - e questa non è una novità - sta tutta nella serotonina. Una sostanza che viene prodotta naturalmente dal cervello e che è strettamente legata all'umore e alle emozioni. Finora gli psichiatri usavano mettere in ordine il livello di serotonina dei propri pazienti attraverso farmaci antidepressivi come il famoso Prozac.
Il problema è che questo tipo di medicinali dà risultati apprezzabili solo nel 30-40 per cento dei casi. Ora la scoperta nel Dna di alcuni topi di una certa variante genetica responsabile della regolazione del livello di serotonina - spiegano sul numero di oggi della rivista "Science" gli autori della scoperta - potrebbe aprire la strada a cure davvero efficaci per tutti. Non è stato ancora provato che differenze genetiche simili a quelle riscontrate nei topi siano presenti anche negli esseri umani, avverte Marc G. Caron professore di biologia cellulare alla Duke University, "Ma speriamo che il risultato dei nostri studi ci dia un suggerimento, un indizio per capire quali possano essere potenziali differenze negli individui". Nelle persone sane la serotonina, soprannominata la "madre del buonumore", agisce in coppia con un altro neurotrasmettitore, la dopamina.
Il risultato è un equilibrio chimico in grado di mantenere umore e comportamento relativamente stabili. Quando però questo equilibrio manca, gli antidepressivi rallentano il tasso di re-assorbimento della seratonina, in modo stia attiva più a lungo. Ora la sfida degli scienziati è quella di arrivare a cure tagliate su misura per la mente di ciascun paziente.
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