giovedì 28 aprile 2005

follia metropolitana

una segnalazione ricevuta da numerose lettrici e lettori

Repubblica 28.4.05

Bimba 'parcheggiata' alle Molinette
A 11 anni "malata psichiatrica"

I pediatri: è ingestibile. "Urlava, scalciava e si rifiutava di parlare". È la prima volta che accade nei 27 anni di legge 180
di ALBERTO CUSTODERO

TORINO - Una bambina di appena undici anni è stata ricoverata nel repartino psichiatrico dell'ospedale Molinette. È, forse, la prima volta che, a 27 anni dalla legge 180 che ha sancito il superamento dei manicomi, un paziente così giovane entra in una struttura contenitiva per malati di mente, il cosiddetto Spdc, "servizio psichiatrico diagnosi e cura". Antonella (nome di fantasia), è rinchiusa in quel repartino da tre giorni.
A chiederne il ricovero agli esterrefatti psichiatri delle Molinette sono stati gli specialisti della neuropsichiatria infantile dell'ospedale pediatrico torinese, il Regina Margherita. Ma per capire come una bimba di 11 anni possa essere finita in un repartino psichiatrico, bisogna fare un passo indietro.
La piccola, accudita e amata dai genitori, ha iniziato a manifestare disturbi del comportamento fin dai primi anni delle scuola elementare. Il Tribunale per i Minorenni, coinvolto dalla stessa struttura scolastica, aveva disposto, alcuni mesi fa, il suo trasferimento in una comunità protetta nella quale la giovane paziente potesse essere educata e curata. Ma sabato scorso Antonella è stata ricoverata nel reparto di endocrinologia dell'Infantile per essere sottoposta ad alcuni esami e per essere controllata dai neuropsichiatri. Il suo ricovero, però, ha da subito creato un problema in quell'ospedale, tanto che i medici del Regina Margherita domenica scorsa hanno chiesto ai loro colleghi delle Molinette di ricoverare la bambina nella loro psichiatria.
La risposta dal repartino psichiatrico è stata un secco rifiuto: "Tenetela là - hanno detto - verremo a visitarla, in consulenza, lunedì". Domenica notte, tuttavia, Antonella ha manifestato tutto il suo disagio con comportamenti anche aggressivi che hanno indotto gli specialisti della neuropsichiatria universitaria del Regina Margherita a caricarla in ambulanza e "spedirla" al pronto soccorso delle Molinette con una richiesta scritta di ricovero motivata da un "qui non siamo in grado di gestirla. Pensateci voi". Inutile è stato il tentativo dei medici di questo ospedale di opporsi: il padre della piccola ha firmato una autorizzazione scritta.
Il magistrato di turno della procura torinese, interpellato, s'è dichiarato incompetente. Il Tribunale per i Minorenni, allertato via fax martedì mattina, non ha neppure risposto. Così, agli psichiatri delle Molinette non è rimasto altro che ricoverare Antonella, dopo averle predisposto una cameretta tutta per lei, trasferendo alcuni malati in altre stanze. Da tre giorni la bimba si trova là, in attesa che qualcuno decida del suo futuro. In questo periodo, non le è stata somministrata alcuna terapia.
Antonella, appena arrivata nel repartino, lunedì mattina, s'è addormentata e ha dormito a lungo, esausta dopo la notte difficile trascorsa al Regina Margherita. Nelle ultime ore è uscita dalla sua stanzetta, s'è guardata intorno stupita di trovarsi in quel luogo. Ha parlato con alcuni pazienti. È coccolata dagli infermieri. È visitata dai genitori. Ha avuto una crisi, scalciando e urlando, dalla quale s'è poi ripresa.
Il suo, dicono gli psichiatri, è di certo un caso complesso, difficile. Antonella è stata ricoverata in psichiatria con la diagnosi di "disturbo della condotta". Non collabora, rifiuta il dialogo, si oppone a qualsiasi richiesta. A volte manifesta comportamenti violenti. Ma è sufficiente questo per segregare una bambina undicenne in un reparto psichiatrico?

Erika cambia carcere

La Stampa 27 Aprile 2005
NOVI LIGURE, LA RAGAZZA UCCISE LA MADRE E IL FRATELLO
Erika cambia carcere
«Adesso ho paura»


Domani compie 21 anni e sarà trasferita in un penitenziario per adulti
E’ stata condannata a sedici anni, ne dovrà scontare altri dodici
Il difensore: «La sua situazione psichiatrica non è ancora stabilizzata»

Anche il padre si dice «molto preoccupato». Il legale di famiglia: «Nessuno chiede trattamenti di favore ma è forte il timore che tutti gli sforzi compiuti da lei e per lei vengano vanificati». Anche perché non avrà più al suo fianco educatori e psicologi

MILANO. HO paura di quello che mi può succedere». Paura di una vendetta (nelle carceri succede spesso, e lei lo sa), paura del futuro («cosa farò, là dentro?»). Paura di venire abbandonata («ma potrò ricevere ancora le mie visite?»). Questa è Erika De Nardo, di anni ventuno che compirà domani. E domani la ragazza di Novi Ligure non festeggerà il suo compleanno con un trasferimento obbligato, così dice la legge: dal carcere minorile Beccaria di Milano ad un carcere per adulti.
Un carcere vero, senza sconti di nessun genere. Senza i percorsi didattici, gli educatori, gli psicologi che assistono i minorenni per tutto il tempo della detenzione. Fino alla maggiore età, ma con la possibilità di scontare ancora tre anni nella stessa struttura. Fino al ventunesimo compleanno, non oltre. E adesso il momento è arrivato. Domani mattina sul presto Erika verrà portata nel carcere dove sconterà il resto della sua pena. Riserbo sulla prigione dove finirà di scontare il resto dei sedici anni di carcere che la Cassazione le ha inflitto per aver ucciso la madre Susy Cassini e il fratello Gianluca (12 anni), la sera del 21 febbraio 2001, a Novi Ligure.
«Quella sera ho perso la testa», scriveva la ragazza ad un suo amico qualche tempo fa. «Non ricordo tutto quello che pensavo e facevo. Ma non sono un mostro». Quella sera raccontò che erano stati «gli albanesi», a massacrare (il termine è scientifico) la mamma e il fratello. I carabinieri si mobilitarono, le battute per cercare «gli albanesi» si spinsero fino alla Lombardia, e oltre. Qualcuno pensò bene di organizzare una fiaccolata di protesta contro gli extracomunitari delinquenti che minacciavano le villette d’Italia. Ma era tutto falso. Non c’erano albanesi assassini, a Novi Ligure. C’erano due ragazzi, Erika e Omar, che avevano pianificato di uccidere i genitori di lei, adottare il fratello, incassare l’eredità, prendere possesso della casa, ricostruire una famiglia nuova.
Il piano andò a gambe all’aria quasi subito. Uccidere non era come nei film, un colpo di coltello e via. Susy De Nardo fece resistenza quanto potè, prima di morire nella bella cucina di casa sua. Il bambino Gianluca vide la scena e cercò di scappare al piano di sopra. Erika e Omar deciso di eliminarlo in quanto testimone. «Quella sera dovevo bere io il veleno nel succo di frutta che maledettamente avevo preparato per te», scrisse poi Erika al fratello morto, «caro angioletto mio, caro Gianluca».
Il bambino non voleva bere il topicida versato nel bicchiere, e allora venne colpito a coltellate, finito faticosamente nella vasca da bagno da due adolescenti sempre più stanchi. La stanchezza - e solo quella - impedì loro di proseguire nel piano: aspettare il rientro del padre di lei, e ucciderlo. Il piano venne modificato, lui saltò sul motorino e se ne andò a casa, lei aspettò ancora un po’- da sola, nella casa imbrattata di sangue in cucina, nel salotto, sulle scale, nel bagno, nella cameretta di Gianluca), e poi scese in strada, a gridare nella notte «aiutatemi! hanno ucciso mia madre e mio fratello». Una messinscena, miseramente caduta il giorno dopo, quando i carabinieri videoregistrarono i due che si raccontavano la verità. Ora, quattro anni dopo, quella ragazza così sicura di sé da sfidare il mondo intero che la accusava - i giudici, gli educatori, i giornalisti, l’opinione pubblica - quella ragazza ha solo paura.
Il padre Francesco dice di essere «molto preoccupato» per quello che potrà succederle in un carcere per adulti. L’avvocato Mario Boccassi capisce i sentimenti di entrambi, e sottolinea che «nessuno chiede per Erika un trattamento di favore, ma c’è il timore che tutti gli sforzi compiuti da lei e per lei vengano vanificati. Mi riferisco all’assistenza psichiatrica ricevuta al Beccaria, e ai risultati raggiunti dalla ragazza». Ad esempio il diploma di maturità ottenuto studiando in carcere (Erika oggi è una geometra, sulla carta). «Preoccupa molto che da un punto di vista psichiatrico la sua situazione non sia ancora stabilizzata», aggiunge il difensore.
Erika pensava anche di iscriversi all’università, «ma ho rinunciato», ha raccontato ai suoi parenti. Troppo complicato seguire i corsi dall’interno di un carcere vero. Le difficoltà l’hanno spaventata, il progetto è sfumato quando mancava poco all’iscrizione. Così è oggi la detenuta Erika De Nardo, che molti odiano e ritengono un simbolo contemporaneo del male, e insieme il concentrato di tutte le peggiori paure che affliggono i genitori: il figlio che ti uccide, il fallimento di un progetto educativo, degli sforzi fatti negli anni per crescere bene una persona.
Ma accanto a quelli che odiano il ricordo di Erika, e praticano una specie di «damnatio memoriae» («Non parliamone più, mi fa schifo solo il pensiero», quanti parlano così...), ci sono quelli che credono nella possibilità di un recupero (che è prevista dalla legge, a maggior ragione per i minori). Non solo il padre di Erika, che ha tutte le ragioni umane per credere fino in fondo ad un recupero di sua figlia. Ma anche altri, che si pongono il problema di cosa fare dei ragazzi che uccidono, di quelli che compiono crimini orrendi e - una volta scoperti - negano di averli commessi. Erika è stata così, per alcuni anni. Poi ha cominciato a dire «sappiate che ho un cuore e un cervello», e «non sono un mostro», e anche «mi domando che futuro avrò». Per chi la conosce, è già un passo avanti.