Repubblica 27.6.04
Genova, duemila esperti a convegno spiegano il calo demografico: il problema non è solo sociale
Natalità, l'allarme dei ginecologi "Stress e paure, cala il desiderio"
Si alza l´età in cui si decide di avere figli, il parto naturale spaventa e tutto diventa difficile
di Donatella Alfonso
GENOVA - Quello che sempre più spesso le donne non dicono ai loro partner è: «Facciamo l´amore, fammi fare un bambino». Il calo del desiderio femminile è la realtà con la quale con frequenza crescente i ginecologi italiani si scontrano quando le pazienti lamentano mancate gravidanze. «Il primo figlio si fa a 31-32 anni, perché c´è da studiare, costruire una carriera, sistemarsi; poi c´è un periodo di stabilizzazione necessaria per la nuova famiglia» spiega Nicola Ragni, primario di Ginecologia e Ostetricia al San Martino di Genova e co-presidente con il professor Emilio Imparato dell´80° congresso della Società di Ginecologia e Ostetricia che si apre oggi a Genova con una "lectio magistralis" del professor Umberto Veronesi sul tumore al seno davanti a 2000 ginecologi. «Ma a 35 anni l´ovocita mostra già i primi elementi di menopausa; e intanto ne appare uno dei primi segni, il calo del desiderio - prosegue Ragni - I rapporti sono sempre più spesso a livello meccanico, manca l´aspetto legato ai sentimenti, all´emotività; si sa che si deve fare l´amore perché certe spinte ogni tanto arrivano. Ma, rispetto agli uomini, per la donna il problema è sempre più forte». Meno rapporti sessuali, meno nascite: colpa anche delle pressioni sociali, delle incertezze del momento storico attuale? «Mi sembra una sciocchezza: le nascite raggiungono il massimo nei paesi dove peggiori sono le condizioni di vita, non penso che in Italia si fanno meno figli perché si pensa che ci sia un cattivo governo - puntualizza Romolo Rossi, ordinario di psichiatria a Genova e psicanalista, tra i partecipanti alla tavola rotonda sulla nascita, in programma domani al congresso - Sono crisi cicliche, già accadute nell´impero romano, andamenti circolari delle società. Se mai, dalla mia esperienza clinica vedo che non c'è dramma più grosso per le donne che non avere figli, al punto da diventare una causa fortissima di depressione. La paziente può magari aver raggiunto grossi risultati sul lavoro, ma si sente fallita per la mancata maternità, perché questo la società le imputa; e si è resa conto di aver perso il grande, intoccabile vantaggio che aveva sull´uomo: dare una vita. Il che non toglie che manchi la spinta affettiva a questa maternità: si mangia anche se non si ha fame, quando si ha tempo. Così è per l´amore, che non si sa più fare. E maternità e affettività vanno sempre insieme».
Molto spesso, le donne che non riescono ad avere figli passano alla procreazione assistita; fare l´amore, come nel "Mondo Nuovo" di Huxley, non serve più. «Ma il desiderio di maternità è il motore della nostra vita, è ovvio che si cerchino strade alternative - spiega Nicola Ragni - ma se la maternità è frutto di tecniche che tolgono poesia e coinvolgimento, spesso la vita sessuale continua a restare un elemento casuale, secondario. C´è da considerare che sempre più spesso le donne pensano alla maternità come realizzazione del "prodotto perfetto": il bambino roseo, biondo e bello, quello che nasce dal cesareo senza correre rischi. Anche perché, come diceva Ivan Illich, la nostra capacità di far fronte alla sofferenza è ormai finita». I cesarei crescono non solo in Italia, ma qui la media viaggia ormai sul 33%, mentre secondo i ginecologi sarebbe giustificata nel 15-20% dei casi; e se il numero cresce nelle strutture private (considerando quindi anche una responsabilità dei sanitari, oltre che la scelta della donna), ci sono regioni come la Campania dove si arriva al 53% dei parti eseguiti chirurgicamente.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 27 giugno 2004
cultura tolemaica:
gli adolescenti secondo le neuroscienze
La Stampa 27 Giugno 2004
NUOVI STUDI SUL CERVELLO DEI GIOVANISSIMI, UNA REALTÀ ANCORA MISTERIOSA
«Passione e forza, ma niente freni»
Neurologi e scienziati al lavoro per «capire» gli adolescenti
di Raffaella Silipo
Capire un adolescente? Non si può, direbbe qualsiasi genitore di fronte agli inquietanti alieni che hanno preso il posto dei suoi deliziosi bambini. Qualcosa si può fare, sostiene invece Barbara Strauch, esperta americana che abborda la «questione teenager» dal punto di vista delle neuroscienze: la sfida del suo libro «Capire un adolescente» (Mondadori) è «vedere come cambia il cervello dei ragazzi tra i 13 e i 18 anni» attraverso i più recenti studi dei neurologi.
Cervello e adolescenza normalmente vengono collegati solo «a contrario», come due entità che si sfiorano appena. «Un libro sul cervello degli adolescenti? Sarà breve» era la battuta che si sentiva inevitabilmente fare l’autrice agli inizi delle sue fatiche. D’altronde non è da ieri che i teen agers sconcertano il mondo. Già Aristotele sosteneva che a questa età si hanno «desideri volubili» «tanto passeggeri quanto impetuosi» e Shakespeare liquidava il loro cervello definendolo «in bollore». Eppure i neuroscienziati per la prima volta stanno studiando l’adolescenza: la loro è una scienza in divenire che, al pari dei ragazzi che ne sono l’oggetto, sfugge a qualsiasi regola. «E’ possibile - si chiede la Strauch - che ci conducano in territori ancora inesplorati? Che ci aiutino a capire perchè un teenager può essere così simpatico e allo stesso tempo così insopportabile?»
Quel che è certo è che nell’adolescenza non soltanto il corpo è sottoposto a cambiamenti radicali, ma anche la mente: cambiamenti paragonabili per entità a quelli che avvengono nella prima infanzia. In particolare «sembra che le funzioni più complesse come il ragionamento, la motivazione e la capacità di giudizio, si sviluppino gradatamente durante l’infanzia e l’adolescenza grazie alla ricchezza delle sinapsi». Per cui se da un lato è lecito aspettarsi che i ragazzi inizino a dimostrarsi capaci di ragionamenti sempre più articolati, dall’altro «non dovremmo sorprenderci se hanno difficoltà a prendere decisioni». Col passare del tempo il cervello selezionerà le sinapsi, manterrà solo quelle utili e «poterà» le altre.
Un’altra trasformazione neurologica fondamentale negli adolescenti è il rimodellamento dei lobi frontali, quella parte di cervello che ci consente di resistere agli impulsi. Ecco perchè «molti ragazzi di quell’età non riescono semplicemente a prevedere le conseguenze delle loro azioni. Possiedono passione e forza ma nessun freno inibitorio». Collegata a questa caratteristica ce n’è un’altra che discende dal fatto che in un cervello adolescente il processo di «mielinizzazione» , cioè grosso modo di isolamento degli impulsi cerebrali, è ancora in atto. «Le emozioni che percepiamo - spiega uno scienziato - hanno due componenti, una viscerale e una concettuale. Nell’infanzia e adolescenza le esperienze emotive non sono perfettamente integrate con i processi cognitivi».
Gli esempi e le teorie sul cervello dell’adolescente sono moltissimi: è un filone di studi molto vivace («Time» vi ha persino dedicato la copertina), tanto quanto è vivace lo sviluppo delle menti dei teenager, finchè non incomincia a rallentare, a tranquillizzarsi, a ridursi e specializzarsi: da giungla incolta si trasforma in bonsai. Un sollievo per tutti, ma anche un peccato per quelle potenzialità che mai troveranno realizzazione. Perchè è vero, conclude la Strauch, «gli adolescenti sono un po’ strampalati. Ma lo sono sulla base di un progetto ben preciso. Non sono mai strampalati per caso».
NUOVI STUDI SUL CERVELLO DEI GIOVANISSIMI, UNA REALTÀ ANCORA MISTERIOSA
«Passione e forza, ma niente freni»
Neurologi e scienziati al lavoro per «capire» gli adolescenti
di Raffaella Silipo
Capire un adolescente? Non si può, direbbe qualsiasi genitore di fronte agli inquietanti alieni che hanno preso il posto dei suoi deliziosi bambini. Qualcosa si può fare, sostiene invece Barbara Strauch, esperta americana che abborda la «questione teenager» dal punto di vista delle neuroscienze: la sfida del suo libro «Capire un adolescente» (Mondadori) è «vedere come cambia il cervello dei ragazzi tra i 13 e i 18 anni» attraverso i più recenti studi dei neurologi.
Cervello e adolescenza normalmente vengono collegati solo «a contrario», come due entità che si sfiorano appena. «Un libro sul cervello degli adolescenti? Sarà breve» era la battuta che si sentiva inevitabilmente fare l’autrice agli inizi delle sue fatiche. D’altronde non è da ieri che i teen agers sconcertano il mondo. Già Aristotele sosteneva che a questa età si hanno «desideri volubili» «tanto passeggeri quanto impetuosi» e Shakespeare liquidava il loro cervello definendolo «in bollore». Eppure i neuroscienziati per la prima volta stanno studiando l’adolescenza: la loro è una scienza in divenire che, al pari dei ragazzi che ne sono l’oggetto, sfugge a qualsiasi regola. «E’ possibile - si chiede la Strauch - che ci conducano in territori ancora inesplorati? Che ci aiutino a capire perchè un teenager può essere così simpatico e allo stesso tempo così insopportabile?»
Quel che è certo è che nell’adolescenza non soltanto il corpo è sottoposto a cambiamenti radicali, ma anche la mente: cambiamenti paragonabili per entità a quelli che avvengono nella prima infanzia. In particolare «sembra che le funzioni più complesse come il ragionamento, la motivazione e la capacità di giudizio, si sviluppino gradatamente durante l’infanzia e l’adolescenza grazie alla ricchezza delle sinapsi». Per cui se da un lato è lecito aspettarsi che i ragazzi inizino a dimostrarsi capaci di ragionamenti sempre più articolati, dall’altro «non dovremmo sorprenderci se hanno difficoltà a prendere decisioni». Col passare del tempo il cervello selezionerà le sinapsi, manterrà solo quelle utili e «poterà» le altre.
Un’altra trasformazione neurologica fondamentale negli adolescenti è il rimodellamento dei lobi frontali, quella parte di cervello che ci consente di resistere agli impulsi. Ecco perchè «molti ragazzi di quell’età non riescono semplicemente a prevedere le conseguenze delle loro azioni. Possiedono passione e forza ma nessun freno inibitorio». Collegata a questa caratteristica ce n’è un’altra che discende dal fatto che in un cervello adolescente il processo di «mielinizzazione» , cioè grosso modo di isolamento degli impulsi cerebrali, è ancora in atto. «Le emozioni che percepiamo - spiega uno scienziato - hanno due componenti, una viscerale e una concettuale. Nell’infanzia e adolescenza le esperienze emotive non sono perfettamente integrate con i processi cognitivi».
Gli esempi e le teorie sul cervello dell’adolescente sono moltissimi: è un filone di studi molto vivace («Time» vi ha persino dedicato la copertina), tanto quanto è vivace lo sviluppo delle menti dei teenager, finchè non incomincia a rallentare, a tranquillizzarsi, a ridursi e specializzarsi: da giungla incolta si trasforma in bonsai. Un sollievo per tutti, ma anche un peccato per quelle potenzialità che mai troveranno realizzazione. Perchè è vero, conclude la Strauch, «gli adolescenti sono un po’ strampalati. Ma lo sono sulla base di un progetto ben preciso. Non sono mai strampalati per caso».
Milano
cresce l'abuso di psicofarmaci
Corriere della Sera 24.6.04
«Giovani e sballo, medicine usate come droga»
Cresce l' abuso di psicofarmaci, oltre 100 morti in incidenti. Campagna contro gli stupefacenti ispirata al film di Tarantino
di Paolo Foschini
MILANO - Siamo lì ormai da anni e la tendenza è confermata sempre più: i più giovani lo fanno soprattutto alla ricerca dello sballo, gli adulti perché stressati dall’ansia di prestazione, efficienza, produttività, successo, insomma il mercato di ecstasy non sembra conosce crisi e quello di cocaina tira più che mai anche sui luoghi di lavoro.
La novità che si profila come sempre più allarmante invece è un’altra: ed è il consumo in crescita costante, specie fra i giovani ma non solo, di tutte quelle cose come sonniferi, antidepressivi, stimolanti, amfetaminici o al contrario tranquillanti, insomma tutto il repertorio di pastiglie che il parlar comune non definisce propriamente «droghe» ma che in caso di abuso possono diventare un pericolo assai simile.
Pericolo di cui - e questo è il punto - spesso manca un’esatta percezione. Sono queste alcune tra le conclusioni della ricerca annuale presentata ieri dal Comune a sostegno dalla sua campagna 2004 antidroga: che culminerà sabato, giornata mondiale della lotta agli stupefacenti, con una festa gratuita alla discoteca «Shocking» accompagnata da un manifesto destinato a tappezzare Milano e ispirato al Quentin Tarantino più recente. Anziché «Kill Bill» la scritta recita «Kill Drug», seguono droghe cancellate con un tratto di penna come nella locandina del film.
«Questa campagna rivolta ai ragazzi - spiega l’assessore ai Servizi sociali, Tiziana Maiolo - non vuole essere né paternalistica né terroristica. Vogliamo fare solo informazione, e quindi prevenzione, andando a cercare i giovani là dove sono». Cioè in discoteca, ma anche in una serie di iniziative e incontri organizzati in città al fino al 27 giugno, e naturalmente su Internet: dove il primo luglio sarà inaugurato il portale www.progettodipendenze.it, nato da una collaborazione fra il Comune e i privati, con un elenco di tutte le strutture accreditate per la disintossicazione e un forum per contattare esperti.
L’indagine di quest’anno, su un campione di duemila ragazzi tra 18 e 24 anni, mostra appunto che se i ragazzi conoscono i rischi della cocaina non si può dire altrettanto per gli psicofarmaci in genere: 28 su cento li hanno usati almeno una volta, e oltre la metà di questi 28 li riprova. Complesso il problema della mortalità. L’anno scorso i morti da overdose in senso stretto, a Milano, sono stati 18: ma gli incidenti mortali provocati da abuso di stupefacenti sono stati 126, e ad essi si potrebbero anche aggiungere i 122 suicidi compiuti con sonniferi e affini.
Il problema, conclude l’assessore Maiolo, è la percezione sempre più «normale» dell’uso delle sostanze: sempre più diffuse anche nei luoghi di lavoro. Ed è per raggiungere questo «target», fatto di manager e gente di spettacolo ma anche di funzionari di banca, impiegati e così via, che il Comune ha programmato per il prossimo settembre una serie di incontri e seminari direttamente negli uffici: diverse banche sono già state contattate e hanno risposto di sì.
«Giovani e sballo, medicine usate come droga»
Cresce l' abuso di psicofarmaci, oltre 100 morti in incidenti. Campagna contro gli stupefacenti ispirata al film di Tarantino
di Paolo Foschini
MILANO - Siamo lì ormai da anni e la tendenza è confermata sempre più: i più giovani lo fanno soprattutto alla ricerca dello sballo, gli adulti perché stressati dall’ansia di prestazione, efficienza, produttività, successo, insomma il mercato di ecstasy non sembra conosce crisi e quello di cocaina tira più che mai anche sui luoghi di lavoro.
La novità che si profila come sempre più allarmante invece è un’altra: ed è il consumo in crescita costante, specie fra i giovani ma non solo, di tutte quelle cose come sonniferi, antidepressivi, stimolanti, amfetaminici o al contrario tranquillanti, insomma tutto il repertorio di pastiglie che il parlar comune non definisce propriamente «droghe» ma che in caso di abuso possono diventare un pericolo assai simile.
Pericolo di cui - e questo è il punto - spesso manca un’esatta percezione. Sono queste alcune tra le conclusioni della ricerca annuale presentata ieri dal Comune a sostegno dalla sua campagna 2004 antidroga: che culminerà sabato, giornata mondiale della lotta agli stupefacenti, con una festa gratuita alla discoteca «Shocking» accompagnata da un manifesto destinato a tappezzare Milano e ispirato al Quentin Tarantino più recente. Anziché «Kill Bill» la scritta recita «Kill Drug», seguono droghe cancellate con un tratto di penna come nella locandina del film.
«Questa campagna rivolta ai ragazzi - spiega l’assessore ai Servizi sociali, Tiziana Maiolo - non vuole essere né paternalistica né terroristica. Vogliamo fare solo informazione, e quindi prevenzione, andando a cercare i giovani là dove sono». Cioè in discoteca, ma anche in una serie di iniziative e incontri organizzati in città al fino al 27 giugno, e naturalmente su Internet: dove il primo luglio sarà inaugurato il portale www.progettodipendenze.it, nato da una collaborazione fra il Comune e i privati, con un elenco di tutte le strutture accreditate per la disintossicazione e un forum per contattare esperti.
L’indagine di quest’anno, su un campione di duemila ragazzi tra 18 e 24 anni, mostra appunto che se i ragazzi conoscono i rischi della cocaina non si può dire altrettanto per gli psicofarmaci in genere: 28 su cento li hanno usati almeno una volta, e oltre la metà di questi 28 li riprova. Complesso il problema della mortalità. L’anno scorso i morti da overdose in senso stretto, a Milano, sono stati 18: ma gli incidenti mortali provocati da abuso di stupefacenti sono stati 126, e ad essi si potrebbero anche aggiungere i 122 suicidi compiuti con sonniferi e affini.
Il problema, conclude l’assessore Maiolo, è la percezione sempre più «normale» dell’uso delle sostanze: sempre più diffuse anche nei luoghi di lavoro. Ed è per raggiungere questo «target», fatto di manager e gente di spettacolo ma anche di funzionari di banca, impiegati e così via, che il Comune ha programmato per il prossimo settembre una serie di incontri e seminari direttamente negli uffici: diverse banche sono già state contattate e hanno risposto di sì.
lo stile americano
è ufficiale: l'uso della bomba su Hiroshima e Nagasaki non era necessario
nel centenario della nascita di Julius Oppenheimer
LA STAMPA TST 23 Giugno 2004
Hiroshima e Nagasaki
Di chi fu la vera colpa
I FISICI CHE CONSIGLIARONO IL RICORSO ALL’ATOMICA
ERANO TENUTI ALL’OSCURO DELLE ALTRE POSSIBILITA’
di Stefania Maurizi
OCCHI azzurri, sorriso nervoso, personalità complessa ed enigmatica. Nasceva cento anni fa, Robert Oppenheimer, il grande fisico americano che diresse la costruzione della prima bomba atomica. Costruita dagli angloamericani nel terrore che la potesse ottenere prima un dittatore contro il quale ogni avversario poté sentirsi tranquillamente dalla parte della ragione, la bomba tuttavia non fu usata contro Hitler.
Era la sera del 6 agosto 1945 quando la BBC annunciò che una bomba atomica era stata sganciata su una «base militare giapponese». La «base» in realtà era Hiroshima, una città in cui vivevano 290.000 civili e 43.000 soldati. Tre giorni dopo, anche la città Nagasaki fu distrutta da una bomba atomica, che utlizzava plutonio anziché uranio arricchito come quella di Hiroshima. Le due bombe complessivamente uccisero 300 mila persone e, quanto ai sopravvissuti, Oppenheimer arrivò a chiedersi se non fossero stati addirittura più disgraziati dei morti.
Si è detto che la decisione del presidente americano Truman di usare ordigni nucleari contro le popolazioni civili delle due città giapponesi fosse l'unico modo per chiudere con il minor numero di vittime possibile una guerra che altrimenti avrebbe richiesto una sanguinosa invasione del Giappone ma grazie alla desecretazione di documenti cruciali rilasciati nel corso degli ultimi cinquant'anni è emerso che l'uso della bomba non era necessario per chiudere la guerra in breve tempo e senza l'invasione: esistevano alternative, Truman e i suoi più stretti consiglieri le conoscevano.
Non le conoscevano, invece, i quattro scienziati chiamati a consigliare il governo americano sull'uso dell'atomica, cioè Oppenheimer, Fermi, Compton e Lawrence. «Non sapevamo assolutamente nulla della situazione militare in Giappone. Non sapevamo se fosse possibile convincerli ad arrendersi usando altri mezzi, oppure se l'invasione fosse un passo obbligato».
«Avevamo in testa l'idea che l'invasione fosse inevitabile, perché così ci era stato detto», avrebbe affermato in seguito Oppenheimer. Con il "cuore pesante" e con quel mucchio di dati, Oppenheimer e gli altri consigliarono l'uso delle due bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki.
LA STAMPA TST 23 Giugno 2004
Hiroshima e Nagasaki
Di chi fu la vera colpa
I FISICI CHE CONSIGLIARONO IL RICORSO ALL’ATOMICA
ERANO TENUTI ALL’OSCURO DELLE ALTRE POSSIBILITA’
di Stefania Maurizi
OCCHI azzurri, sorriso nervoso, personalità complessa ed enigmatica. Nasceva cento anni fa, Robert Oppenheimer, il grande fisico americano che diresse la costruzione della prima bomba atomica. Costruita dagli angloamericani nel terrore che la potesse ottenere prima un dittatore contro il quale ogni avversario poté sentirsi tranquillamente dalla parte della ragione, la bomba tuttavia non fu usata contro Hitler.
Era la sera del 6 agosto 1945 quando la BBC annunciò che una bomba atomica era stata sganciata su una «base militare giapponese». La «base» in realtà era Hiroshima, una città in cui vivevano 290.000 civili e 43.000 soldati. Tre giorni dopo, anche la città Nagasaki fu distrutta da una bomba atomica, che utlizzava plutonio anziché uranio arricchito come quella di Hiroshima. Le due bombe complessivamente uccisero 300 mila persone e, quanto ai sopravvissuti, Oppenheimer arrivò a chiedersi se non fossero stati addirittura più disgraziati dei morti.
Si è detto che la decisione del presidente americano Truman di usare ordigni nucleari contro le popolazioni civili delle due città giapponesi fosse l'unico modo per chiudere con il minor numero di vittime possibile una guerra che altrimenti avrebbe richiesto una sanguinosa invasione del Giappone ma grazie alla desecretazione di documenti cruciali rilasciati nel corso degli ultimi cinquant'anni è emerso che l'uso della bomba non era necessario per chiudere la guerra in breve tempo e senza l'invasione: esistevano alternative, Truman e i suoi più stretti consiglieri le conoscevano.
Non le conoscevano, invece, i quattro scienziati chiamati a consigliare il governo americano sull'uso dell'atomica, cioè Oppenheimer, Fermi, Compton e Lawrence. «Non sapevamo assolutamente nulla della situazione militare in Giappone. Non sapevamo se fosse possibile convincerli ad arrendersi usando altri mezzi, oppure se l'invasione fosse un passo obbligato».
«Avevamo in testa l'idea che l'invasione fosse inevitabile, perché così ci era stato detto», avrebbe affermato in seguito Oppenheimer. Con il "cuore pesante" e con quel mucchio di dati, Oppenheimer e gli altri consigliarono l'uso delle due bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki.
alcuni altri articoli disponibili
(specificando, per cortesia, quale/i vuole ricevere)
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Neruda, I cent’anni della farfalla nera, di Mario Vargas Llosa
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Corriere della Sera 27.6.04
Le arti fra l'inizio e la fine del primo conflitto mondiale, si affermano nuovi stili e tramontano i valori ottocenteschi, Tamburi di guerra, il lampo dell’espressionismo, di Gillo Dorfles
La Stampa Tuttolibri, 26.6.04
Rimbaud in Africa, Bell'Abissinia così ti illumino, di Giuseppe Marcenaro
La Stampa TTS, 26.6.04
«Il mio Oppenheimer», controverso protagonista dell'era nucleare era un raffinato equilibrista della parola, un collezionista di quadri dal valore astronomico ed uno «snob» geniale, di Tullio Regge
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