mercoledì 17 dicembre 2003

un comunicato
della Libreria AMORE E PSICHE


Vi informiamo che è possibile vedere in libreria la registrazione
dell’incontro con Marco Bellocchio di Mercoledì 10 dicembre
presso la facoltà di Filosofia dell’Università La Sapienza


Precisiamo che la registrazione sarà proiettata, come sempre, a richiesta e senza vincoli di orario ma, per il periodo natalizio, soltanto nei giorni dal lunedì al venerdì. Vi ricordiamo anche che fino al 6 gennaio siamo aperti anche lunedì mattina.
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è possibile anche vedere e scaricare sul proprio hard disk tale registrazione collegandosi al sito di MAWIVIDEO.IT

per farlo clicca
QUI
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inoltre
sempre da AMORE E PSICHE sono disponibili :

la videocassetta n.13
delle Lezioni di Chieti
del professor Massimo Fagioli


il nuovo Calendario per il 2004

le nuove locandine-invito delle Aule Magne 2003-2004

e la nuova edizione di "Amore senza bugie" di
Fulvia Cigala Fulgosi e Dorina Di Sabatino
edito dalle Nuove Edizioni Romane


Vi aspettiamo con le nostre proposte di Natale!

Saluti a tutti
Amore e Psiche


la videocassetta n° 13 e il Calendario 2004 sono disponibili anche a Firenze, come sempre da STRATAGEMMA
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disponibili su MAWIVIDEO.IT

tre interviste al professor Massimo Fagioli

Intervista di Radio Blu a Massimo Fagioli (02/02/1980), 0:36

Intervista di Luca Villoresi (per il Venerdì di Repubblica) a Massimo Fagioli (??/??/1991), 0:46

Intervista di Syhem Latrache a Massimo Fagioli (15/11/1990), 1:28:00

e

l'incontro con Marco Bellocchio a Filosofia del 10/12/2003
 


collegati al sito
http://www.mawivideo.it/

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storie dell'uomo
il giardino persiano, paradiso in terra

La Repubblica ed. di Palermo
LA METAFISICA È NEL GIARDINO
di Marcella Croce


Dal 6° secolo A.C. in poi, il giardino persiano come recinto, come microcosmo, come paradiso (da paradaiza che vuol dire appunto "spazio delimitato"), ha stabilito un modello imitato senza soluzione di continuità in tutto l'Islam, dagli estremi lembi occidentali del Marocco e di El-Andalus, fino ai lontani regni degli imperatori Moghul nel Rajastan indiano e di Tamerlano a Samarcanda, dove pare che la disposizione degli alberi tenesse conto perfino del colore e del profumo delle specie. Un principe o una coppia regale stanno comodamente seduti in un lussureggiante giardino, altre volte un giovane raccoglie frutta o fiori da un albero: immagini in apparenza mondane che in realtà nascondono profondi significati metafisici.
Su questi sfondi incantati fiorì un genere letterario specifico, la "poesia del giardino", il cui più illustre rappresentante, nel 13° secolo, fu Ibn Khafaya de Alzira, detto "il giardiniere". E non sono le uniche espressioni d'arte in cui l'Iran ha espresso il suo amore per i fiori: moltissimi tappeti persiani ne sono cosparsi e riproducono all´infinito un meraviglioso fiabesco giardino. Tuttora numerosissime sono le botteghe dei fiorai in ogni città iraniana, ciascuna in grado di confezionare in un batter d'occhio leggiadre composizioni floreali. Assecondando un profondo bisogno di organizzare la terra secondo un reticolo e di porre l'individuo al centro di quel cosmo concettuale, il giardino persiano chaharbagh (cioè il "tetragiardino") era solitamente diviso in quattro settori, ciascuno con un diverso albero da frutta, ed era previsto che il paesaggio circostante includesse luoghi appositamente rialzati per permettere sia il godimento temporale che la contemplazione mistica: i toponimi takht (trono) o suffe (sufisti) la dicono lunga in proposito. Come in eschimese esistono dozzine di termini per indicare i vari tipi di neve, e in arabo almeno altrettanti per i vari tipi di sabbia, allo stesso modo la lingua persiana si sforza e si sbizzarrisce a designare i vari tipi di giardino. Giardini con pianta a croce esistono sia nell'Alhambra di Granada che nell'Alcazar di Siviglia e a Madinat-al Zahra presso Cordoba e con certezza il chaharbagh non mancò di fare la sua comparsa anche nella Sicilia araba, e di ispirare poi i giardini siciliani di tutte le epoche successive.
Certamente erano circondati da giardini di questo tipo tutti i solatia normanni, la Zisa in particolare, nel Chiostro di Monreale ne esiste ancora uno, ne porta l'impronta perfino un giardino relativamente moderno come Villa Giulia a Palermo, nel quale ciascuno dei quattro quadrati è poi a sua volta tagliato trasversalmente. Se l'influenza più diretta per tutta questa accurata geometria è quella francese, non è però certo un caso che esattamente lo stesso elaborato disegno si possa osservare nelle antiche piante del giardino, non più esistente, di Bagh-i-Guldaste a Isfahan. Le quattro esedre centrali di Villa Giulia possono richiamare alla mente gli eiwan, uno dei più tipici elementi dell´architettura persiana, che qualcuno fa risalire alla cultura zoroastriana, mentre altri vi individuano ascendenze ellenistiche: non solo in natura, ma anche nelle culture umane, nulla si crea e nulla si distrugge.
A Palermo, nel grande parco reale del Genoard, come tutti i re della storia degni di questo nome, i normanni andavano a caccia: nei mosaici della stanza di re Ruggero al Palazzo Reale, e in quelli della creazione degli uccelli a Monreale, siamo ancora in grado di cogliere uno splendido barlume di quei paradisi. La chiesa della Martorana, per la grande abbondanza di elementi vegetali nella sua decorazione musiva, fu definita chiesa-giardino dal grande esperto di arte bizantina Ernst Kietsinger. Ma, certamente in misura molto maggiore degli edifici in pietra, i giardini vengono alterati e distrutti con stupefacente rapidità, e inoltre, nell´ultimo trentennio, proprio nell´area del Genoard sono stati costruiti gli edifici dell´Università di Palermo in viale delle Scienze; per strano parallelismo anche l'Università di Isfahan sorge oggi nella zona dove nel 17° secolo verdeggiavano i giardini dei re safavidi.

storie dell'uomo
i popoli del Libro

La Repubblica 17.12.03
Le fonti e l'attualità dell'ultimo libro di Pietro Citati
da dove vengono
LE SCINTILLE DI DIO
"Le notizie dei Profeti e dei Re" del teologo Muhammad at-Tabari risale a undici secoli fa
di SANDRO VIOLA


Suppongo che il seme da cui è cresciuto l'ultimo libro di Pietro Citati ("Israele e l'Islam - Le scintille di Dio", Mondadori, pagg. 273, euro 17), sia un altro libro: "Notizie dei Profeti e dei Re", scritto undici secoli fa da uno storico e teologo persiano, Muhammad at-Tabari. O per meglio dire, il sunto che il visir Bal'ami ricavò dai centoventi volumi che componevano l'opera monumentale di at-Tabari. La silloge Tabari-Bal'ami è infatti uno dei testi medioevali che meglio illustrano quanto furono spiritualmente vicini, nella costruzione teologica, nell'intarsio delle mistiche, e per il fascino che a lungo esercitarono l'uno sull´altro, ebraismo ed islamismo.
È vero che già sapevamo dal Corano d'una consaguineità religiosa tra i Popoli del Libro, provata con l'adozione da parte dell'Islam di molte figure dell'Antico Testamento, Adamo e Abramo, Giuseppe, Mosè e Salomone. Ma è leggendo at-Tabari, argomenta Citati, che comprendiamo meglio «come le due civiltà religiose che oggi si combattono miseramente, siano sorte l'una sull'altra, avviticchiate come due alberi che uniscano le loro radici».
Che Citati abbia un giorno preso a leggere l'opera d'un teologo sunnita del X secolo, questo non meraviglia certo. La sua diversità, nell´esigua pattuglia della nostra critica letteraria, sta proprio qui: nell'entusiasmo vorace con cui avvicina ogni genere di testi, nell'agio con cui si muove - per fare solo pochi nomi e titoli - da Omero al "Sogno della camera rossa", dall'"Asino d'oro" a Goethe, dai cabalisti a Manzoni e a Tolstoj, dagli autori dei pochi bei romanzi di questi anni (Banville, Sebald o Wescott), a Kafka e a Proust. Niente orti conclusi, dunque, o specializzazioni: niente che possa tarpare le ali della sua inesausta passione per la lettura.
C'è da chiedersi semmai se a spingerlo verso quest'ultima escursione in tempi e testi tanto antichi, sia stata una ragione per così dire contingente. E la risposta mi sembra che affiori già dalla frase riportata più sopra. Come se fosse stata la vista delle «due civiltà religiose che oggi si combattono miseramente» - l'ininterrotta ondata di violenze che scuote la Palestina, l'ossessivo conteggio dei morti che la radio e la televisione recano ogni giorno nelle nostre case, l'apparente irrimediabilità di tutto quel male -, a suscitargli il bisogno di calarsi nella storia dei rapporti tra Israele e l'Islam.
Oggi, scrive Citati, «i cristiani non sanno più niente dell´Islam e del giudaismo; gli ebrei non sanno più niente del cristianesimo e dell'Islam; e l'Islam, come diceva Maometto, vive "esule" nella storia». Scoppiano le bombe, e tra la Gente del Libro crescono il sospetto, l'avversione, l'estraneità. Ma quali furono, dopo la nascita dell'Islam, i rapporti fra i tre monoteismi? Come si videro e trattarono più tardi, per lunghi periodi del Medioevo e all'inizio dell'epoca moderna, ebrei, cristiani e musulmani?
Nel 1454, leggiamo in Israele e l'Islam, un rabbino d'origine francese scrisse una lettera ai suoi correligionari: in essa, dopo aver descritto i dolori che l'Europa cristiana, «il clero e i monaci, questi falsi sacerdoti», infliggevano «all'infelice popolo di Dio», il rabbino Isaak Zarfati esortava gli ebrei a migrare in Turchia. «La Turchia è un paese d'abbondanza dove troverete riposo. Di qui, la strada vi è aperta verso la Terra Santa. Non è meglio vivere sotto il dominio dei musulmani, piuttosto che sotto quello dei cristiani? Qui ogni uomo può vivere un'esistenza pacifica all'ombra della sua vigna e del suo fico... Oh,Israele! Perché dormi? Alzati e lascia finalmente questo paese maledetto!». La maledetta, dunque, Europa dei cristiani.
Di fatto, per molti secoli dopo l'Egira i rapporti tra ebrei e popoli islamici furono rapporti di comprensione e tolleranza. Di reciproca, anche se razionalmente confusa, attrazione. Nelle Notizie dei Profeti e dei Re, at-Tabari riscrive la Bibbia «con tocchi di lievissima grazia araba». La fonde con la lettera coranica, la adatta con «i colori della favola e della leggenda»: ma in sostanza l'assorbe con l'identica devozione che egli riserva alle parole del suo Profeta. E quando rievoca la figura di Salomone, racconta che se egli ha «il dominio dell'universo» è perché tale dominio «gli è garantito dal possesso d'un anello sul quale sta inciso il nome occulto di Allah».
Eccole quindi, avviticchiate come scrive Citati (se non già alla soglia d'un sincretismo), le radici delle due civiltà religiose. Ma questi slanci d'identificazione non vengono soltanto, come nel caso di at-Tabari, dal versante musulmano. Vengono anche dall'ebraismo. Alla fine del XII secolo, l'ebreo Binyamin da Tudela viaggia tra Costantinopoli, Gerusalemme e Baghdad. E se nella Costantinopoli cristiano-greca deve constatare che «gli ebrei vivono oppressi», nelle terre islamiche trova invece gran segni di rispetto per i propri correligionari.
Per prima cosa vede che «nessuno osava offendere i luoghi sacri ebraici»: i quali erano anzi, in molti casi, venerati. E a Bagdad, dove vivevano quarantamila israeliti, Binyamin da Tuleda scopre estasiato che il califfo «tiene il popolo d'Israele in grande favore e si avvale dei servizi di molti ebrei». Poi, come preso da un'infantile euforia, comincia ad esagerare. Inventa che il capo della comunità israelita veniva fatto accomodare dal califfo in trono, «mentre tutti i re musulmani rimanevano in piedi al suo cospetto». Fantasie che scaturivano, probabilmente, dall'aver visto sul Bosforo come i greci detestassero gli ebrei. Ma nelle sue esagerazioni, ecco poi un dettaglio che ci lascia affascinati. Così come nel racconto di at-Tabari Salomone porta infatti al dito un anello con inciso il nome di Allah, nella Baghdad narrata da Binyamin da Tudela il capo della comunità giudaica «indossava un turbante con un velo», e sul velo il sigillo di Maometto.
Fu forse nel Cairo medioevale - Cordoba e Granada a parte - che ebraismo e islamismo convissero con più frutto. Lì gli ebrei, scrive Citati, appartenevano alla «classe suprema: alti funzionari, agenti governativi, medici di corte, dell'esercito e della marina, uomini d'affari di rilievo "connessi al governo e ben noti ad esso"». Al punto che un poeta musulmano se ne irritò profondamente, e scrisse: «Mi raccomando, diventate ebrei, perché il Cielo stesso è diventato ebreo». Frase che mi riporta alla mente quel che sarebbe accaduto sei o sette secoli dopo, nella Budapest inizi Novecento: dove la morchia dell'antisemitismo cominciò a estendersi tra la piccola borghesia urbana e l'aristocrazia di campagna, proprio alla vista dei grandi successi finanziari e mondani degli ebrei ungheresi.
Ma torniamo al Cairo medioevale. L'intensa partecipazione alla vita economica e sociale della grande città egiziana, non impediva agli israeliti di conservare intatti l'identità e il fervore religioso. Come sarebbe stato nei secoli successivi a Kiev o a Norimberga, a Livorno e Ancona, a Parigi o a Salonicco, gli ebrei erano prima d'ogni cosa uomini di preghiera. I loro bambini «imparavano i testi sacri a memoria, perché, come dice lo stupendo passo talmudico: "il mondo esiste soltanto attraverso il fiato degli scolari"».
L'esistenza «sulle rive del Mediterraneo, sotto il dominio arabo, d'una grande civiltà monoteistica che proclamava di discendere da Abramo», il tempo in cui almeno due dei tre Popoli del Libro vissero nel reciproco rispetto, intersecando i loro costumi, devozioni e culture, stanno al centro di Israele e l'Islam. Ma nel libro di Citati c'è altro ancora da segnalare: la leggenda cabalistica, insieme poderosa e incantevole, delle «scintille di Dio», la vicenda - un romanzo - dell'ultimo Messia, e il racconto della caduta di Gerusalemme nel 72 dopo Cristo, che Citati ricava con pagine appassionanti da Giuseppe Flavio.
Dissoltasi l'antica armonia di quella «grande civiltà monoteistica che proclamava di discendere da Abramo», ecco irrompere il Rifiuto, gli odii, l'antisemitismo nelle sue forme contemporanee. L'emergere del fanatismo rivoluzionario wahabita, il suo diffondersi sulla spinta delle ricchezze saudite e nel torpore distratto dell'Occidente, il suo estremo approdo nelle carneficine orchestrate da Osama Bin Laden. Israele e l´Islam si chiude infatti con un capitolo sull´antisemitismo. Di cui Citati tratta con un equilibrio e una chiarezza che fanno dimenticare la confusione, gli eccessi retorici e polemici, la strumentalità in cui sembra avvolto, da qualche tempo, l'argomento.

La nascita del pensiero simbolico

Le Scienze, ed. italiana dello Scientific American 16.12.2003
La nascita del pensiero simbolico
Nuovi ritrovamenti archeologici indicano l'esistenza di antichi rituali funebri


Alcune ossa dipinte di rosso, scoperte in un sito archeologico in Israele, spingono i ricercatori a ipotizzare che il pensiero simbolico sia emerso molto prima di quanto si ritenesse finora. La capacità di rappresentare qualcosa con un'altra cosa ha costituito un gigantesco balzo in avanti nell'evoluzione dell'uomo: si tratta di un'abilità mentale che ha reso possibile un linguaggio sofisticato e l'uso della matematica.
La caverna di Qafzeh, in Israele, contiene molti scheletri di esseri umani vissuti quasi 100.000 anni fa. Nuovi scavi hanno rivelato che nella regione, molto prima di altri esempi di associazioni di colore, durante le sepolture veniva depositato sulle ossa un colore rossiccio fatto di ocra, una forma di ossido di ferro, che probabilmente simbolizzava la morte.
"Abbiamo trovato 71 frammenti di ocra - spiega Erella Hovers della Hebrew University di Gerusalemme - e individuato un chiaro legame fra la pittura e il processo di sepoltura: sembra che facesse parte del rituale". L'associazione del colore rosso con gli scheletri suggerisce l'esistenza di rituali funebri simbolici risalenti a quasi 100.000 anni fa, molto prima dei 50.000 anni che altri scienziati fissano come data della nascita del ragionamento simbolico. Per qualche ragione, tuttavia, sembra che la capacità sia poi stata perduta. Dopo le testimonianze iniziali di Qafzeh, il comportamento simbolico sembra scomparire per riemergere solamente circa 13.000 anni fa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista "Current Anthropology" (http://www.journals.uchicago.edu/CA/).

© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.

una risposta a Raboni sul tema della poesia

Corriere della Sera 17.12.03
Ma la poesia è più regola che sogno
di Cesare De Michelis


«Un sogno fatto in presenza della ragione»: Raboni fa sua (sul «Corriere» di domenica 14) la definizione della poesia di un illustre letterato del Settecento, il gesuita Tommaso Ceva, retrodatando di un paio di secoli la carica eversiva della teoria psicanalitica che separò irrimediabilmente la faticosa pratica della poesia (poiein vuole ben dire fare) dal senso che essa esprime e trasmette. Il Novecento poetico fu sin dall'inizio drammaticamente segnato dalla lacerazione sanguinante provocata dalla psicoanalisi, che mise in moto non solo la deriva surrealista, nella quale il senso rapidamente si smarrirà con grave pregiudizio della poesia stessa, come Raboni stesso lodevolmente riconosce, ma, dall'altra parte, anche l'ostinato inseguimento di un'ideale di purezza poetica - prescindendo, dunque, dalla storia e dall'esperienza - destinato anch'esso a produrre un altrettanto radicale smarrirsi del senso nell'astratta vaghezza dell'indistinto.
Eppure bastava segnalare la sostanziale estraneità del sogno nell'interpretazione del pensiero classico - da Aristotele a Cardano fino a Ceva - da ogni sorta di sogno psicoanalitico, l'uno frutto dell'estro, dell'ingegno e della memoria nel tempo liberato del sonno, l'altro vittima degli oscuri labirinti dell'inconscio, nei quali resistono, al di là di ogni volontà e responsabilità, le più segrete pulsioni dell'individuo, prudentemente rimosse dalla coscienza.
Più semplicemente la poesia consistette nei secoli della tradizione nel dire una cosa per l'altra, secondo le regole logiche della metonimia o piuttosto secondo quelle altre analogiche e imprevedibili della metafora, se non addirittura del mito; il che consente di non predeterminare ogni interpretazione possibile senza abbandonarsi all'irragionevole primato del lapsus. La poesia è davvero una questione di lingua e di forma, perché essa trova e per sempre (für ewig) i modi di dire quel che altrimenti non sapremmo, ed è quindi fare in coscienza, prescindendo rigorosamente dal rimosso.

Giorello, ancora il punto di vista illuministico

La Repubblica 17.12.03
Chi decide della nostra vita
Il corpo tra la scienza, lo stato e la chiesa

Riportare la scelta ai singoli individui
Vietato dire dio non lo vuole o dio lo vuole
Parla il filosofo della scienza Giulio Giorello Quali ragioni sono dietro al dibattito che ha animato la legge sulla procreazione assistita
La contrapposizione tra laici e cattolici, l'uso della tecnica, il ruolo della politica. Che cosa significa, nel mondo di oggi, essere responsabili
di Antonio Gnoli


Il filosofo della scienza Giulio Giorello trova riduttiva la contrapposizione che fra laici e cattolici si è instaurata a proposito di quella variante biopolitica che è la legge sulla procreazione assistita. Dice Giorello: «Ci sono laici che per le proprie paure si possono schierare su posizioni che appartengono alle gerarchie ecclesiastiche, e cattolici che su questi argomenti hanno sviluppato una indiscutibile sensibilità laica. Quanto all'idea che la vita sia sacra è un principio messo in questione dalla scienza molto tempo fa. E trovo particolarmente interessanti le parole di Christian de Duve - uno scienziato che ha studiato nella cattolicissima Lovanio - dove nel suo libro "La vita che evolve" (edito da Cortina) sostiene che proprio il rifiutarsi di intervenire là dove la scienza ci permette di farlo per superare i limiti dovuti alla cattiva sorte, sia un atto di irresponsabilità.
«Naturalmente la responsabilità non consiste nell´utilizzare il famoso principio di precauzione con il quale bloccare qualunque decisione in nome del fatto che questo principio prescrive che si possa intraprendere un intervento tecnologico solo quando si è sicuri che non ci sia rischio alcuno. Pensare che il rischio non si annidi nel nostro mondo, nella nostra vita è una pura e semplice pretesa metafisica. Ed è interessante che questa posizione metafisica la condividano tanto i "soloni" dei comitati bioetici quanto i più estremi leader della contestazione agli Ogm.
«Intendiamoci. Non dico che i timori non debbano essere presi sul serio, soprattutto quando sono timori biopolitici, ossia problemi che riguardano i nostri corpi, che coinvolgono direttamente le nostre vite. Ma mi sembra un errore madornale scolpire degli idoli o dei feticci dentro le nostre paure. Uno di questo feticci è che madre natura non va toccata, l'altro è che le biotecnologie non manipolino ciò che Dio ha voluto non manipolabile. Quest'ultima battuta è stata profferita da quel titano del pensiero che risponde al nome di Carlo d'Inghilterra.
«Certo, non penso che la scienza debba governare il mondo, ma d'altra parte non desidero che il mondo sia guidato da una élite di super esperti bioetici che stabiliscano le regole in base alle quali decidere che cosa è giusto o sbagliato in materia di interventi sul corpo umano. Ciò che ritengo basilare è la scelta che va ricondotta ai singoli individui, donne e uomini, sapendo bene che in molti casi si tratta davvero di scelte dolorose. Perciò la prima cosa che un bioeticista dovrebbe fare è rispettare la sofferenza reale delle persone. Si può davvero credere che una donna che ricorra alla fecondazione eterologa ci vada a cuor leggero? O che un uomo incapace di procreare sia contento del proprio stato? Sono scelte difficili, non lo metto in dubbio, ma in una società che si richiama ai principi liberali, quelle scelte ricadono sull´individuo, gli appartengono.
«Perciò invece di preoccuparsi dello stato psicologico dei nati in provetta - i quali peraltro mi dicono che non stanno né meglio né peggio di quelli nati dalle famiglie normali - perché non provare a capire i bisogni e i desideri che la gente ha e che non sono qualcosa di puramente trasgressivo, ma nascono spesso da una mancanza, da una sofferenza.
«C'è un rispetto dell'esistenza che non coincide con l'idea che la vita sia sacra. E nondimeno quel rispetto è ciò che conta perché nasce dalla libera scelta degli individui. Pur nel dolore e nell'incertezza quella libera scelta va salvaguardata. Ricorrere a forme proibizioniste è insensato. Fra l'altro non hanno mai funzionato. Il filosofo Habermas ha liquidato l'idea di "libera scelta" come qualcosa di riconducibile al liberalismo prima maniera, all'illuminismo settecentesco. A lui e ad altri che usano in maniera sprezzante l'etichetta "illuminismo" replico che ne siamo gli eredi. Eredi di una dottrina, di una visione del mondo, che ha fatto progredire l'Europa. Non possiamo rinunciare all'esortazione di Kant quando dice che occorre avere il coraggio di sapere, ma, aggiungo che bisogna avere anche il coraggio di fare. E ciò non significa l'esaltazione della ragione acritica, né il tentativo di instaurare il governo della scienza sulla città. Ma piuttosto il riconoscimento dei propri limiti per poterci poi lavorare dentro e non accettarli passivamente. Michel Foucault è stato tra i primi a capirlo: parlando dell'importanza del prendersi cura di se stessi e della biopolitica. A questo proposito non mi pare irrilevante ricordare una cosa ovvia, ma fondamentale: non può essere lo Stato a decidere che cosa sia naturale o artificiale. Come pure bisognerebbe fare giustizia delle battute tipo: "Dio lo vuole" o "non lo vuole". Se uno ha un filo diretto con una entità spiritualmente superiore e scambia il proprio autoritarismo per infallibilità, ogni possibilità di confronto o discussione si chiude in partenza. Se lasciamo cadere queste pretese e ridiamo il ruolo che spetta al cittadino, ossia a colui che solo può decidere in materia del suo corpo, allora c´è speranza per una civiltà fatta di individui reali e compiuti.
«Abbiamo imparato che la biopolitica ha due facce. Quella con cui lo Stato vuole prendersi cura a tutti i costi del mio corpo, della mia vita, e della mia morte. E lo trovo aberrante. Non sto parlando della sanità, degli ospedali, dell'assistenza, che sono servizi che ogni civiltà sviluppata deve avere, ma di un´entità astratta che entra nelle tue decisioni più intime e dolorose.
«Il lato positivo della biopolitica è che la scienza deve diventare un'alleata dell'individuo, non un avversaria da temere o da combattere.
«Si invocano i valori comuni. La morale codificata. I valori comuni creano uomini comuni. E la morale codificata la si usa fino a quando fa comodo. È un feticcio da esibire in alcune circostanze. Mi è stato chiesto se la bioetica è in qualche modo l'anticamera dello stato etico. Ho risposto che avendo la bioetica che si pratica in Italia perso i caratteri per cui era sorta, più che l'anticamera dello stato etico è la sua sala da pranzo».

un cattivo uso del binomio "razionale/irrazionale"

La Repubblica 17.12.03
Intervista al premio Nobel per la medicina David Hubel
Fermare la scienza sarebbe irrazionale

di PIERGIORGIO ODIFREDDI


Boston. La Harvard Medical School di Boston è un complesso di cinque enormi edifici disposti attorno a una piazza, e costituisce una cittadella di eccellenza della ricerca medica, al centro di una vera e propria città ospedaliera ultramoderna.
È in questo tempio del sapere clinico che dirige un laboratorio David Hubel, premio Nobel per la medicina nel 1981 per la scoperta dei meccanismi neurologici della visione, e autore del bel libro di divulgazione "Occhio, cervello e visione" (Zanichelli, 1989).
Siamo andati a trovarlo per parlare con lui dei problemi legati alla biotetica e alla biopolitica, umana e animale, prendendo spunto dall'approvazione della legge sulla procreazione assistita approvata dal Senato la settimana scorsa.
«Naturalmente, l'etica non è soggetta alla logica. Ma io non capisco, ad esempio, perché non si debbano usare embrioni di donatori esterni alla coppia. Una mia amica, che non poteva procreare in maniera naturale, ha usato l'ovulo della sorella e il seme di un donatore: ora ha due figli, ed è felice. Che male c'è? Il Cristianesimo è irrazionale, in queste cose».
E le restrizioni riguardano non solo le ricerche sull'uomo, ma anche quelle sugli animali.
«Lasciamo pure da parte i problemi della clonazione: sia quella umana, per la quale io non vedo ragioni logiche, sia quella animale, che non sembra aver prodotto buoni risultati. Ma la sperimentazione animale è utilissima: ad esempio, quella sui cani, per lo sviluppo di tecniche operatorie in cardiologia. Ora, in molti degli Stati Uniti si proibisce l'uso dei cani dei canili per la ricerca, nonostante essi vengano soppressi comunque, ed è di nuovo illogico».
Questa volta il problema è creato dagli animalisti.
«I quali, tra l'altro, si preoccupano quasi esclusivamente degli animali da casa, cioè cani e gatti. Non delle scimmie, ad esempio, che pure sono più simili all'uomo. Adesso i cani e i gatti che si vogliono usare in laboratorio devono essere allevati esplicitamente per questo scopo, e i loro costi sono saliti alle stelle».
E non si può proprio farne a meno, nella ricerca?
«Io credo di no, almeno per una buona parte della medicina. Quando parlo con un animalista, la prima cosa che gli chiedo è se ha vaccinato i suoi figli contro la polio: perchè lo sviluppo di quel vaccino ha richiesto l'uso di molte, molte scimmie! Senza saperlo, molti animalisti sono contrari a una ricerca di cui loro stessi si avvantaggiano. Il che non significa, naturalmente, che si possano liberamente infliggere sofferenze inutili agli animali».
Come si forma l'opinione pubblica, riguardo alla bioetica?
«Troppo spesso, purtroppo, il pubblico viene esposto a una propaganda unilaterale: religiosa, politica, ambientalista, animalista... In Massachussetts abbiamo un'Associazione per la Ricerca Medica, che cerca di smascherare le menzogne e le assurdità, ma i suoi fondi sono minimali rispetto a quelli degli avversari della ricerca. I quali, tra l'altro, hanno facile accesso alle scuole e ai bambini».
Che bisogna fare, per avere opinioni equilibrate?
«Chiedere cosa ne pensano i medici e gli esperti, ad esempio. I quali, però, spesso preferiscono tenere un profilo basso per evitare attacchi, che farebbero perdere loro pazienti e fondi. Io ho tentato di mobilitare la categoria, soprattutto per quanto riguarda la sperimentazione animale, cercando di convincere i medici a mettere opuscoli informativi nelle sale d´aspetto dei loro studi, invece di stupidi rotocalchi».
Quindi, come al solito, il problema è l'educazione scientifica.
«Sí, il riuscire a diffondere il punto di vista razionale a fianco di quello irrazionale, cosí che poi la gente possa decidere da sé. Spero che anche in Italia gli scienziati facciano sentire la loro voce contro quest'ultima legge».
La Montalcini ha immediatamente firmato un appello.
«Meno male. Lei è certamente la persona giusta per combattere questo genere di insensatezze».
E quale ruolo deve giocare la politica, in queste cose?
«Dovrebbe emanare leggi sulla base della ragione, e non della propaganda di gruppi che si prefiggono obiettivi senza senso».
Una "politica razionale" non è forse un ossimoro? Cosí come il fatto che il "diritto alla vita" sia spesso difeso da gente che è, allo stesso tempo, in favore della pena di morte?
«Sí, certo! E le limitazioni all'aborto sono un altro esempio di biopolitica dettata dalle motivazioni irrazionali della Chiesa cattolica e degli ultraconservatori: siamo da capo, cioè da dove eravamo partiti».