giovedì 9 febbraio 2006

Marco Pizzarelli e Sergio Grom segnalano un articolo sul film di Reygadas su "Liberazione" di oggi, pag.3.
(lo si può leggere qui sotto)
Nereo Benussi segnala - sullo stesso quotidiano - la lettera di Mauro
da vedere:
il film "Battaglia nel cielo" è in programmazione a Roma nei cinema Eden, Mignon e Roma, a Firenze al cinema Alfieri Atelier

Anno: 2005
Nazione: Messico / Belgio / Francia / Germania
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 98'

Sceneggiatura e Regia: Carlos Reygadas
Fotografia: Diego Martínez Vignatti
Musiche: John Tavener

al proposito Annalina Ferrante segnala:

da Matteo, tre interviste al regista del film Battaglia nel cielo:

http://www.ilportoritrovato.net/html/reygadas.html

http://www.35mm.it/articoli/articolo.jsp?idArticolo=41805

http://www.35mm.it/articoli/articolo.jsp?idArticolo=41186

ed eccone un'altra, in francese:
http://www.bacfilms.com/presse/batalla/dp.pdf

l'articolo di
Liberazione, giovedì 9 febbraio 2006:
Reygadas e il sesso senza moralismi
di Stefano Jorio

Pare che Battaglia nel cielo del messicano Carlos Reygadas, in concorso all’ultimo festival di Cannes e arrivato ora nelle sale anche in Italia, abbia fatto scandalo per il primo piano di un rapporto orale. Non c’è da fidarsi. Intanto è un primo piano bellissimo, mai visto. E poi nessuno mente tanto come quando si indigna. Battaglia nel cielo rappresenta il sesso senza moralismo né ellissi né stereotipi: ragion per cui non può avere nulla di scandaloso. Del resto è un film che parla d’altro.

Città del Messico. Una giovane donna, bella, ricca, figlia di un generale. Marcos, autista e inserviente del generale: sfigato, scoppiato, casuale, ciccione, imbranato, segaiolo, quattrocchi e che si fa la piscia addosso. Sua moglie, deforme e grottesca. Rapiscono il figlio di un’amica, a scopo di riscatto, nei giorni della festa di Nostra Signora di Guadalupe: il neonato muore. Marcos perde gli occhiali, l’amore, la testa. Si mescola ai pellegrini in processione.

Questa la storia. Ma la telecamera ha la saggezza di essere altrove: trascura la scena del rapimento, dimentica di inquadrare il bimbo. Indugia nei tunnel della metro, segue passanti dalla camminata sbilenca. Si ferma a lungo sul motore di un’auto, aperto dal benzinaio; in sottofondo, un concerto di Bach. La narrazione manca i momenti salienti per guadagnare al senso le immagini più marginali: meno interessata a fotoromanzare che a liberare, in un alternarsi e compenetrarsi di passaggi terragni e scarti visionari, le violenze, la noia, gli atti incompiuti, l’assurdo. La visione si sfoca, poi si riprende; ritorna, si incanta. Un prisma ottico separa tra loro gli elementi del visibile quotidiano, e li riallinea in una prospettiva solo apparentemente incongrua.

Non pensare alla storia, sembra voler suggerire il “raccontare di sbieco” della telecamera. Guarda. Non fermarti alla successione degli episodi. Guarda le cose che si ripetono, guarda nella caserma del generale l’alzabandiera sempre uguale a se stesso, feroce e sordo e insensato in una città definitiva come una condanna a morte. Guarda la processione, il fiume di pellegrini senza volto. Guarda, in un lentissimo giro a 360 gradi, un corpo mostruoso e uno bellissimo, il loro rapporto sessuale, la finestra della stanza in cui si trovano, il balcone adiacente con due operai che sistemano un’antenna, uno scorcio di tetti, la crepa nel muro di un cortile di Città del Messico, circondato da appartamenti, altri tetti, una finestra, e dentro la finestra due corpi, il loro rapporto sessuale.

La crepa nel muro di Reygadas, i fili d’erba di Terrence Malick (è in questi giorni nelle sale il suo The new world), le nuvole di Gus van Sant articolano un nuovo grado zero del cinema, che non vuole raccontare e non vuole far vedere. Vuole guardare, memore dei film di Resnais e dell’école-du-regard. Non propone situazioni, ci si colloca dentro; intende l’essere delle persone e delle cose, prima che come un oggetto da mostrare, come un evento in cui dimorare. Vuole fare esperienza dell’accadere, riformulando la sintassi delle immagini secondo una gerarchia audiovisiva capace di far gridare, stipato nelle omissioni, il fragore di tutto il non detto: gli andirivieni al seguito di una ragazzina conscia del proprio potere, la corsa intorno al circolo cieco di una caserma, un’alzabandiera, una partita di calcio, una processione. La desolazione di una stanza da letto in un sobborgo della capitale, il sesso di due corpi disfatti, gli organi sessuali esibiti nella lentezza di un essere lì che li aliena e smaterializza.

«E’ una cosa irreale» gridano festanti all’intervistatore i calciatori dei Pumas. Hanno appena vinto il campionato. «E’ una cosa irreale» ripete Marcos masturbandosi davanti a quei fantasmi televisivi. Che cosa è davvero irreale, in questa liturgia filmata in cui la dislocazione di una macchina da presa deturpa i corpi, il desiderio, il sangue, le lacrime, i discorsi? Dov’è la realtà, in questo racconto sgraziato come un brutto sogno, che tanto più si incanta quanto più cerca di avanzare? Automi sgangherati portano la mano al petto, si ripetono l’un altro, in una terrificante catena di San’Antonio erotica, frasi allucinate e spurie: «Ti porterò sempre nel mio cuore.» Affondano e riemergono nella catastrofe del traffico cittadino. Accendono la radio, alzano il volume a palla: e restano lì, paralizzati al semaforo, sommersi dagli insulti degli automobilisti in coda. In cima alla cattedrale il batacchio di una campana dondola, lento, enorme. Dondola ancora, prende corsa. Si avvicina alla campana, sta per toccarla. Ma non arriva a suonare. Un rapimento senza inquadrature del rapito. Una processione alla madonna senza inquadrature della madonna. Un autista senza occhiali. Una campana che non suona per nessuno.