(ricevuto da Francesca Caddeo)
MICROMEGA ottobre 2003, pp 187-192
LA SETTIMA ARTE
LA TRAGEDIA MORO, ALLA LETTERA
Buongiorno, notte di Bellocchio non è una ricostruzione storica (come ottusi interpreti hanno sostenuto) né ancor meno un'analisi ideologica-politica del terrorismo, ma una vera e propria meditatio mortis, erede di una tradizione che attraversa fin dalle origini la storia della cultura occidentale
di UMBERTO CURI
C'è un passaggio, nell'Antigone di Sofocle, che da sempre ha procurato seri grattacapi agli interpreti, in difficoltà nel chiarire il nesso logico fra lo svolgimento pregresso degli avvenimenti e quanto sta per verificarsi sulla scena. La sentinella posta a guardia della salma di Polinice, affinché nessuno osasse violare l'editto del re che ne impediva la sepoltura, ha appena finito di raccontare al sovrano che qualcuno è riuscito ad eludere la sorveglianza. ricoprendo di terra il cadavere. A questo punto, l'azione drammatica, l'agire (
dran, appunto) degli attori si interrompe. Il coro, da fermo (si tratta. infatti, di uno
stasimos, di una parte recitata in
stasis, in quiete) prorompe in una orazione destinata a diventare celeberrima: «Molte sono le cose terribili, ma la cosa più terribile è l'uomo». All'uomo, prosegue il coro, nulla è precluso: la padronanza della conoscenza e del pensiero, il dominio delle tecniche, la capacità di solcare il mare e di estrarre nutrimento dai campi, la cattura delle fiere e il soggiogamento degli animali. la costruzione della società e la difesa dalle intemperie. In una parola, egli è panto-poros, in ogni situazione è capace di trovare una strada per venirne a capo. Ma insieme, egli resta irriducibilmente
a-poros, privo di ogni via d'uscita, e quindi destinato a soccombere, di fronte alla morte.
"Buongiorno, notte" si presenta come ripresa diretta dello stasimo sofocleo, come una vera e propria
meditatio mortis, erede di una lunga tradizione, che attraversa fin dalle origini la storia della cultura occidentale, da Platone fino a Heidegger. Nel misurarsi col tema del rapimento di Aldo Moro, la scelta compiuta da Bellocchio è evidente, già dalle primissime inquadrature. Non si tratterà affatto di una ricostruzione di carattere storico (come invece molti ottusi interpreti hanno sostenuto), né ancor meno di un'analisi in chiave ideologico-politica del terrorismo. Nulla a che vedere, dunque, con film come quelli di Giuseppe Ferrara ("Il caso Moro") o di Renzo Martinelli ("Via delle cinque Lune"), accodati alla lettura dietrologica della lotta armata, così a lungo sciaguratamente in voga in campo sociologico e politologíco. Bellocchio non concepisce il cinema - certamente non in questo film - come un luogo nel quale scimmiottare gli scienziati della politica o gli indagatori di fenomeni sociali. Non ritiene che un'opera cinematografica debba allinearsi, o sostituirsi, a una saggistica che, tra l'altro, già ha dato pessima prova di sé nell'analisi di una realtà così controversa, quale è stata l'esperienza delle formazioni combattenti lungo gli anni Settanta. Con buona pace di coloro che hanno osannato il film per averci «detto la verità» sul caso Moro, tutto ciò resta estraneo al progetto e alla concreta realizzazione di "Buongiorno, notte".
Piuttosto, rimanendo fedele al registro delle sue opere più recenti, dal "Principe di Homburg" fino a "L'ora di religione", l'autore si tiene alla larga dalla scomposta e spesso indecente mischia di coloro che, da trent'anni a questa parte, ci hanno «spiegato» non solo che cos'è stato, ma che cos'è nella sua «essenza», il fenomeno impropriamente chiamato terrorismo. Cercare nel film un'ennesima interpretazione degli «anni di piombo», sostenere, come viceversa ci si ostina a fare, perfino a dispetto di ogni evidenza, che il regista piacentino abbia inteso proporre una visione più o meno innovativa delle «ragioni» che sono state all'origine di quella stagione, e più specificamente del rapimento e dell'omicidio di Aldo Moro, vorrebbe dire precludersi la possibilità di comprendere su quale piano, con quali specifici strumenti, e soprattutto. assecondando quali interrogativi, Bellocchio si sia accostato alla vicenda del presidente della Democrazia cristiana.
Al contrario, questa intensa opera recente si propone davvero come uno stasimo, come una pausa nella frenetica consecuzione degli eventi, in cui si articola il
drama, per sostare a riflettere non già su un evento certo importante, ma pur sempre circoscritto, della storia politica italiana, quanto piuttosto su tutto ciò che fa di quell'evento una fra le molte espressioni dell'autentico mistero rappresentato dalla morte, soprattutto quando essa intervenga come conseguenza di una decisione che alcuni uomini assumono a scapito di un loro simile. Di qui il fatto che, sotto il profilo tipologico, il film non si presenti affatto come un saggio o un'indagine storico-politica, ma abbia piuttosto il tono, l'austerità, il timbro inconfondibile della grande tragedia classica.
Tutto ciò risulta evidente sulla base di una molteplicità di aspetti, che resterebbero viceversa incomprensibili ove l'opera intendesse inserirsi nel filone dei numerosi prodotti di documentazione o di denuncia sociologica. Anzitutto, il riferimento speculare (con un uso molto sofisticato della tecnica di
mise en abyme) alla sceneggiatura del film, unico documento fra quelli estratti dalle borse dello statista rapito, sul quale indugi la camera, proprio mentre tutti gli altri vengono ostentatamente gettati via dal capo dei brigatisti. Quasi a dire, con evidenza perfino didattica, che del «caso Moro» ciò che davvero interessa - o sul quale, in ogni caso, interessa al regista soffermarsi - non sono affatto le carte dalle quali le Br si attendevano di conoscere gli
arcana del potere democristiano, quelle carte a lungo contese che daranno adito successivamente a torbide manovre e misteriose manomissioni, bensì semplicemente la sceneggiatura di un film. il cui titolo, tra l'altro, riproduce un enigmatico verso di Emily Dickinson. Sul piano della ricostruzione storica, tutto ciò non potrebbe che essere considerato un falso. Sul piano drammaturgico, questo dettaglio apparentemente insignificante ci offre la chiave per capire fin dall'inizio su quale piano intenda disporsi la ricerca che Bellocchio svolge, prendendo semplicemente spunto da quella dolorosa vicenda.
Ancora più importante, perché attinente al principio di individuazione dell'opera cinematografica in quanto tale, è poi un secondo ordine di considerazioni, riguardanti le opzioni compiute sul piano del linguaggio. Quanto di meno «realistico» si possa immaginare, quanto di più inadatto a funzionare come linguaggio adatto al saggio o alla ricostruzione documentaristica. Ciò a cui si assiste, al contrario, è il funzionamento di uno stile espressivo che procede sempre deliberatamente oltre la nuda «datità» degli eventi, che perfora i personaggi e li scopre come persone, che si addentra nei meandri oscuri delle loro intelligenze e della loro anima, senza minimamente attardarsi a descriverne semplicemente le
gesta - le «cose fatte». Di qui la mancanza di qualsiasi intonazione anche solo vagamente eroica nella rappresentazione dei protagonisti della vicenda - non dei brigatisti, certo, ma neppure dello stesso Moro - tutti accomunati dal condividere una condizione umana fragile ed esposta, perennemente sospesa sull`abisso incombente della morte. Tutti, lo statista e i brigatisti, il prigioniero e i suoi carcerieri, nonostante i «ruoli» diversi, obbligati a collaudare su se stessi quell'impossibilità di «trovare strade» di fronte alla morte, a cui si riferisce il coro dell'Antigone.
Di qui il ricorso sistematico, non episodico, né incidentale, ma strutturale, ad una pluralità di inserti che intenzionalmente scompaginano la trama «ordinata» dell'opera, che agiscono come manomissione della linearità del tempo e dell'unità dello spazio, evocando eventi, luoghi, circostanze, volti, altri e lontani, rispetto al
kosmos dell'Italia anni Settanta. Gli eccidi perpetrati dai nazifascisti ai danni dei partigiani, ma insieme anche i crimini compiuti all'ombra delle bandiere rosse dello stalinismo. Non già per sostenere una tesi, di per sé al tempo stesso banale e storicamente fuorviante, quale è quella dell'identità degli opposti totalitarismi, quanto piuttosto per far letteralmente lampeggiare, con l'uso di un bianco e nero funebre e insieme abbagliante, una molteplicità di altre tragedie, una miriade di altri «casi», dai quali far risaltare il tema davvero centrale, se non esclusivo, del film: l'insondabile e angosciante situazione che si crea quando alcuni uomini giungono a decretare la morte di un proprio simile.
A questa opzione linguistica, realizzata con una coerenza e un rigore davvero ammirevoli, per la quale nessuna concessione è fatta ad uno stile anche solo lontanamente assimilabile a quello della ricostruzione storica, corrispondono poi una serie di altre scelte di dettaglio, univocamente orientate a spostare totalmente il fuoco della ricerca dal piano della documentazione a quello della
meditatío mortis. La meticolosa cancellazione di tutti i più importanti «fatti» che hanno accompagnato la prigionia dello statista: il lago della Duchessa, la scoperta del primo covo nel quale egli fu detenuto, le polemiche fra il fronte della fermezza e quello della trattativa, le discussioni sul rilascio unilaterale di alcuni prigionieri politici, i numerosi tentativi di stabilire contatti con i sequestratori, il contemporaneo svolgersi di altre imprese armate, il varo di alcune durissime misure di legislazione d'emergenza, le manovre di servizi stranieri interessati a interferire nella vicenda - tutto ciò, vale a dire proprio i «fatti», dai quali una ricostruzione. storica non potrebbe in alcun modo prescindere, e più in generale tutto ciò che accade al di fuori del luogo in cui si svolge il periodico faccia a faccia fra Moro e i suoi carcerieri, o nell'ufficio in cui lavora la «vivandiera» del covo, tutto ciò entra nel film solo ed esclusivamente attraverso la televisione.
In questa stessa prospettiva, obbedendo alla. stessa rigorosissima clausola di stile, vanno interpretati inoltre anche altri aspetti, concorrenti nella sistematica destoricizzazione della vicenda il ricorso alla figura di un attore, e ad una forma di recitazione, come quella di Roberto Herlitzka, raramente comparso sugli schernii, e invece più abitualmente a suo agio come protagonista teatrale, soprattutto nei panni di un personaggio come Edipo nell'omonima tragedia di Sofocle. La rinuncia a cercare la verosimiglianza, «truccando» gli attori, col rischio di scadere nella caricatura. La cancellazione (di per sé non necessaria, e anzi controindicata, in un film che volesse restare aderente alla realtà storica) dei nomi originali. E, infine, la stessa conclusione dell'opera, lasciata aperta, a dispetto di ogni «verità» storica, fra i preliminari dell'esecuzione e il conseguimento della libertà del prigioniero, al punto che, restando all'interno del film (come dovrebbe essere doveroso fare), è impossíbile stabilire quale sia stato il destino del leader democristiano. Unica eccezione, una sorta di innocuo divertissement, che tuttavia coincide con una fra le pochissime sbavature riscontrabili, lo sberleffo della seduta spiritica, la quale tuttavia, inserita in una trama così fortemente derealizzata, finisce per accrescere, col ricorso al sarcasmo, la distanza dell'opera da ogni intento di mera ricostruzione cronachistica, di cui invece riferisce pressoché ininterrottamente (sigle di inizio e di fine delle trasmissioni incluse) la televisione.
È, questo, uno degli aspetti più caratteristici, e complessivamente più riusciti, del film. La storia, intendendo per essa la descrizione degli avvenimenti che si sono effettivamente verificati in quei terribili giorni di marzo, è raccontata non dal film, ma dalla televisione. Nulla di ciò che allora accadde, dal sequestro fino alla cerimonia funebre per onorare lo statista assassinato, è «girato» da Bellocchio, il quale invece affida ad un altro
medium, ad un altro Iinguaggio, quello della televisione appunto, il compito di riferirci «come sono andate le cose». Mentre l'occhio della camera. l'attenzione dell'autore, sono interamente concentrati su quanto accade al'interno deIl'appartamento, e più ancora nel cuore e nella testa di coloro che in esso trascorrono 55 giorni. I due piani - quello della vicenda cinematografica e quello della cronaca televisiva - scorrono in parallelo senza mai né coincidere né incontrarsi. Al contrario, ciò che peculiarmente ne caratterizza il rapporto è la radicale e irrimediabile alterità dell'uno rispetto all'altro, l'incommensurabilità fra la descrizione del sequestro Moro raccontata dalla televisione, e ciò a cui il film è rivolto, nel momento in cui cerca di penetrare nelle emozioni, nelle intelligenze, e nei sogni di quegli esseri umani che hanno vissuto davvero quella inquietante esperienza.
Da questo punto di vista, l'accostamento più appropriato per "Buongiorno, notte" non è affatto, come già si è detto, con film solo apparentemente omologhi, quali i tanti esempi di cinema di denuncia o di impegno civile (pochi apprezzabili, molti insopportabili), ma semmai con altre opere intensivamente tragiche, altre esplorazioni ai confini di quell'insondabile mistero che è rappresentato dall'animo umano. A parte l'ineguagliabile paradigma della tragedia greca, fra le opere cinematografiche degli ultimi decenni quella che, per molti aspetti, potrebbe essere avvicinata a questa matura prova di Beflocchio è certamente "Apocalypse now". Anche qui, non un generico film «sul Vietnam», né tanto meno un film «di guerra», o una condanna di atrocità commesse. Ma un viaggio alla scoperta del «cuore di tenebra» (come, notoriamente suona il titolo del romanzo di Conrad al quale il film si ispira), una amara e dolente meditazione sugli abissi imperscrutabili che si trovano in ciascuno di noi, una riflessione ai limiti del mistero, non già con l'intento di «spiegarlo», ma esattamente all'opposto per restituircene tutta l'inesplicabile e angosciosa persistenza.
La «notte» a cui, riprendendo la Dickinson, Bellocchio dà il benvenuto, è per l'appunto la notte nella quale ci imbattiamo ogni volta che, di fronte ad autentiche tragedie, come quella del cosiddetto «caso Moro», cerchiamo di capire, di ricondurre a razionalità, di spiegare compiutamente. È la notte della ragione, nella quale compaiono quegli stessi fantasmi che abitano in ciascuno di noi, e che nessun esorcismo potrà mai definitivamente far dileguare. È la notte senza luce, ma anche senza
logos, senza parola e senza ragione, nella quale ci muoviamo quando ci sforziamo inutilmente di capire che cosa mai possa spingere un uomo, vale a dire colui il cui destino e la cui stessa essenza è quella di essere mortale, a decretare la morte di un altro uomo.
Su questa essenza intimamente tragica, sull'enigma lacerante che è rappresentato dall'assistere alla vicenda di uomini che si fanno artefici della morte altrui, anziché agire almeno per ritardare quell'evento fatale; sul paradosso di una prigionia di uno realizzata in nome della liberazione di tutti, di una pace costruita sulla generalizzazione della guerra, di una filantropia che si esprime attraverso l'odio, dì una democrazia annunciata dal dispotismo; su questo groviglio inestrìcabile, per il quale tante vite umane sono state immolate - su questa autentica tragedia, senza la luciferina pretesa di spíegare, senza l'ambizione di capire, si ferma, indugia, medita, con sobria compostezza, il film di Bellocchio.
Di fronte a queste tenebre, all'impossibilità di squarciarle con la luce di una razionalità che pretenda di tutto comprendere e tutto spiegare, le uniche parole possibili - da proferire sostando, consapevoli dell'enunciazione di una verità che non redime una volta per tutte, di una salvezza che cade - sono quelle di Sofocle: «Molte sono le cose terribili, ma la cosa più tremenda è l'uomo».