una segnalazione di Andrea Ventura
Repubblica VENERDÌ, 17 GIUGNO 2005 IL VIAGGIOLe norme degli ayatollah condizionano ancora i comportamenti, ma i dettami del 1979 sono ormai superati Nei boulevard di Teheran nessuno pensa più alla rivoluzione KHALED FOUAD ALLAMTEHERAN - Per me musulmano arabo, sunnita, è una strana sensazione arrivare un giorno a Teheran, a oltre 25 anni dalla sua rivoluzione. A noi sunniti hanno insegnato che lo sciismo è il lato irrazionale dell´islam; che loro sono nell´errore, noi nella verità. Da questa divisione l´islam non si è mai liberato.
Una strana inquietudine mi invadeva mentre passavo dinanzi all´ex ambasciata americana, trasformata in caserma dei pasdaran. Mi tornava alla memoria la crisi degli ostaggi americani, crisi durata mesi, e il negoziato con l´intermediazione algerina. Teheran allora fece tremare l´intero mondo musulmano.
Mi ricordo ancora in televisione le folle della capitale sfilare nei boulevard, gridando: «Dio è grande!». Erano slogan religiosi che l´Occidente non aveva mai udito, abituato in quegli anni a scandire parole oggi desuete: «rivoluzione», «dittatura del proletariato»: la parola «Dio» allora veniva scandita solo nelle chiese e negli altri luoghi di culto.
L´Occidente guardava sbalordito all´Iran, non capiva. Sulle pagine dei giornali occidentali pochi avevano intuito ciò che stava per accadere: uno solo, Michel Foucault, capì quello strano amalgama fra mistica, religione e politica, e ne parlò nel 1979 in un celebre articolo dal titolo: "Che cosa sognano gli iraniani".
Non si può arrivare a Teheran senza chiedersi che cosa accadde veramente allora, e che cosa accadrà oggi, venticinque anni dopo. Il mondo è cambiato, e anche gli esseri umani. Essere in Iran ci fa sentire che le cose in realtà corrono sempre su un doppio binario, seguono un doppio filo conduttore, si sdoppiano in opposte polarità: nello stesso periodo in cui in Iran si avviava la rivoluzione khomeinista, in Europa i regimi marxisti iniziavano la loro lenta agonia. I nouveaux philosophes di André Glucksmann e la dissidenza russa avevano capito che il totalitarismo aveva ormai i giorni contati. E un nuovo vento della storia soffiava attraverso la religione: quell´universo totalitario in lenta decomposizione avrebbe ricevuto il colpo di grazia ad opera di un uomo venuto dall´Est, papa Giovanni Paolo II, e dall´allora presidente dell´Urss, Mikhail Gorbaciov. Dieci anni dopo, nel 1989, a Berlino, esso sarebbe definitivamente crollato.
A Oriente, in quell´oriente persiano, un celebre intellettuale e ideologo, Ali Shariati, aveva tentato una inedita lettura in chiave marxista dell´islam sciita; ma morì in esilio, a Londra, nel 1977, due anni prima della rivoluzione iraniana. Con la scomparsa di Shariati molti marxisti musulmani ritennero che anche a Oriente quell´ideologia stava morendo. Così il marxismo era morto due volte, a Oriente e a Occidente. Ma mentre a Occidente la religione spingeva i popoli verso la libertà, in Iran essa ebbe tutt´altra funzione, perché divenne strumento della rivoluzione.
Più volte, passeggiando nelle strade della capitale, mi sono chiesto quale dei due elementi - la religione o la rivoluzione - fosse infine prevalso in Iran nella dialettica socioculturale. Che ne è di una rivoluzione quando il suo linguaggio è la religione? Diventa come tutte le altre rivoluzioni, come quella francese del 1789, come quella bolscevica del 1917. Esse hanno tutte inventato un proprio culto, tutte si sono impadronite della storia, tutte hanno voluto rappresentare la storia stessa. Hanno distrutto un ordine per imporne un altro: hanno giudicato impuro il mondo che le ha precedute e hanno voluto identificarsi con la purezza di un tempo inaugurale. Ma tutto questo costa - in ogni rivoluzione - tragedie, guerre, sofferenze, sconfitte. E le bocche si chiudono. Può fare anche un gran freddo anche all´ombra dei platani orientali.
Ma ogni rivoluzione prima o poi finisce; e raramente i popoli possono fare più di una rivoluzione in un secolo. Come i nostri corpi non conserveranno la bellezza della gioventù, nessuna rivoluzione può mantenere la promessa delle sue utopie. In Iran la rivoluzione è finita, nei suoi manifesti, nella sua iconografia e nella sua ritualità. Anche se recentemente in una delle grandi arterie della capitale è stato affisso un enorme e sconcertante manifesto che raffigura una donna con bambino, e la frase (in farsi e in inglese) «Amo mio figlio, ma il martirio è meglio», la popolazione non ci bada: semplicemente perché sa che la vita è più forte di qualunque rivoluzione, e che si deve vivere, sopravvivere.
Tutto ciò in Iran si può misurare. Ad esempio, ho contato fino a ventisette modi di portare il velo: dal velo usato nel modo più ideologico, a quello più tradizionale, fino al velo che sembra più un ornamento di volti bellissimi piuttosto che qualcosa fatto per coprire.
L´Iran non è ciò che comunemente si crede in Occidente. E gli iraniani amano il loro Paese. Ho visto molti sorrisi, sono rare le persone dallo sguardo cupo. Si vuole vivere normalmente, semplicemente; anche se la ritualità rivoluzionaria condiziona ancora per alcuni versi i comportamenti, si cerca di inventare una normalità. Ho visto ragazze e ragazzi lanciarsi sguardi dolci, ed è commovente vederli nelle strade o nelle tea-room non abbracciarsi o tenersi per mano come si fa in Occidente - ciò che la morale rivoluzionaria impedisce - ma limitarsi a sfiorare delicatamente le dita della mano dell´innamorato.
Teheran, con i suoi oltre 14 milioni di abitanti, non è quel che si dice una bella città, anche se i suoi splendidi giardini cercano di far dimenticare uno sviluppo urbano disordinato. La città è circondata da montagne che, elevandosi sopra distese di terra friabile e polverosa, somigliano a quei giganteschi sorbetti alla cannella che gli iraniani preparano con maestria insuperabile; e mentre sulle cime si scorgevano ancora le ultime nevi, Teheran era immersa in un caldo afoso degno del mio deserto d´Algeria.
Spesso i passanti mi fermavano per chiedermi dove si trovasse una via, una piazza, un negozio: io rispondevo in arabo che non ero di lì. Durante tutti quei giorni una domanda mi assillava, rifiutava di abbandonarmi: mi chiedevo quale fosse stato per questa rivoluzione l´archetipo di riferimento, l´elemento intorno al quale gravita e si concentra ogni principio rivoluzionario.
Per la rivoluzione francese quell´elemento era la borghesia, per la rivoluzione russa il proletariato; ma quale era quel fulcro per la rivoluzione iraniana, per quell´islam in costante fibrillazione? Cercavo di capirlo osservando la gente: percepivo irrazionalmente che la risposta era a portata di mano, era presente, ma io non la vedevo mentre avevo la sensazione che lei vedesse me; era come se attendesse per rivelarsi. Con il passare dei giorni, capii che quell´archetipo era qualcosa di semplice, era un´icona degli anni ´90: quell´elemento era la donna, la donna nell´islam, figura altamente simbolica in ogni rapporto fra tradizione e modernità. Il velo che la rivoluzione iraniana l´ha costretta a portare, diventava paravento delle frontiere della libertà.
E c´era qualcosa di più in questa rivoluzione, rispetto alle altre: in Iran le donne possono essere intellettuali o artiste, guidare gli autobus, fare le parlamentari o le insegnanti, ma - ciò che rende quella iraniana diversa da tutte le altre rivoluzioni - si è richiesta loro una missione: incarnare l´immagine dell´islam che usciva dal XX secolo.
Osservando la folla di Teheran mi tornavano alla mente i versi che Louis Aragon dedicò a sua moglie Elsa: «La donna è l´avvenire dell´uomo». Qui i termini erano altri: qui la donna rappresentava l´avvenire dell´islam.