domenica 19 giugno 2005

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Loredana Riccio
segnala che l'assemblea post-referendaria che si sta tenendo a Roma in questi giorni già segnalata su blog, è trasmessa in diretta, con tutte le relazioni, su radio radicale che a Roma trasmette sulle frequenze 88.6 e 102.4 Mhz in Fm.
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staminali adulte
"Tempo Medico" contro il prof. Vescovi

Tempomediconline - Tempo Medico n. 797, 19.6.05
Adulte e deludenti
Un caso eclatante di provincialismo scientifico.
Gli esperimenti di transdifferenziazione delle staminali adulte non hanno mantenuto le promesse.

di Anna Piseri

La campagna referendaria è stata segnata dalla contrapposizione fra difensori delle staminali embrionali e crociati delle staminali adulte. Di fatto, oggi in Italia l'orientamento è di sperimentare solo sulle seconde, e i 7,5 milioni di euro destinati dalla Commissione nazionale sulle staminali riguardano essenzialmente le "adulte" e quelle derivate dal cordone ombelicale. Ma quanto è davvero fertile questo terreno di ricerca? E fino a che punto lo studio di queste può evitare il "sacrificio" delle blastocisti?

Il punto d'avvio dell'epopea delle staminali adulte va fatto risalire al 1999, quando viene pubblicato su Science un articolo dal titolo promettente per la ricerca sulle cellule staminali: "Trasformare il cervello in sangue: un destino ematopoietico per le cellule staminali neuronali adulte in vivo". Autore di riferimento: Angelo Vescovi, del San Raffaele di Milano, e testimonial pro astensione nella campagna referendaria.

Il lavoro racconta di un esperimento effettuato sui topi: cellule staminali del cervello trapiantate in un topo irradiato (per ucciderne le cellule del sangue e favorire l'attecchimento di nuove cellule) si trasformano in linfociti B, linfociti T e cellule mieloidi in grande quantità, anche fino al 30%. La capacità di "ripopolare" il tessuto danneggiato è simile a quella ottenuta dopo trapianto con cellule del midollo. Questo risultato suggerisce che cellule staminali adulte (del cervello) hanno la capacità di transdifferenziare, in altre parole di produrre cellule d'altri tessuti (del sangue).

Una notizia rivoluzionaria perché smentisce un dogma fondamentale dell'embriologia: durante lo sviluppo dell'embrione si formano tre foglietti, da ciascuno dei quali poi si produrranno cellule con destini molto diversi. Non era mai accaduto che una cellula prodotta da un foglietto "saltasse" il confine embrionale, per produrne una di un tessuto d'origine diversa. Diversi laboratori tentano, senza successo, di ripetere l'esperimento e nel febbraio 2002 su Nature Medicine il gruppo di Derek van der Kooy lo smentisce sostenendo che la transdifferenziazione, se esiste, è una proprietà assai rara. Infatti nel ripetere gli esperimenti pubblicati su Science non si ottengono i risultati di Vescovi. Le ipotesi sono che il lavoro fosse inficiato da artefatti tecnici, oppure da caratteristiche particolari acquisite dalle cellule usate nel primo esperimento e non presenti in quelle usate dal gruppo di van der Kooy. Infatti i due gruppi, come molti altri, definiscono "cellule staminali del cervello" quella che in realtà è una neurosfera, una massa eterogenea di cellule nella quale non è chiaro se e quante staminali vi siano, né quale sia la loro reale natura.

È chiaro solo che queste cellule sono instabili nel tempo, spesso finiscono con produrre soprattutto glia (le cellule di supporto a quelle nervose) e non neuroni quando sottoposte a protocolli di differenziamento verso il tessuto nervoso. Tra i due gruppi si sviluppa una polemica sulle tecniche, pubblicata su Nature Medicine nel giugno del 2002. Su una cosa alla fine i due gruppi sembrano concordare: il fenomeno della transdifferenziazione, se esiste, è un evento raro, non si presenta con il 30% d'efficienza di conversione. Nel frattempo un altro articolo autorevole (Clarke et al., Science 2000) afferma che le stesse cellule proliferanti, estratte da cervello e trapiantate in una blastocisti di topo, contribuiscono a creare tutti i tessuti, a eccezione di uno: il sangue. Proprio il tessuto che invece sarebbe stato prodotto nell'esperimento del 1999.

Su queste smentite al suo esperimento, Angelo Vescovi risponde sostenendo che vi sono almeno due lavori che lo confermano.

Nel periodo tra il 2000 e il 2002 sono pubblicati altri lavori, in cui si propongono risultati d'impatto ancora maggiore per le potenzialità terapeutiche: da cellule staminali del sangue si sarebbero ottenute cellule del cervello (Mezey et al. , Brazelton et al. Science VOL 290, 2000) e del cuore. Orlic et al. su Nature (VOL 410, 2001) affermano addirittura che cellule del midollo osseo rigenerano l'attività cardiaca e possono quindi riparare un cuore infartuato.

Ma nel 2002 Wagers et al. su Science sferrano il primo colpo contro queste speranze: smentiscono la possibilità di produrre neuroni con cellule staminali del sangue. Nel lavoro si afferma che solo una rara cellula staminale donatrice sarebbe diventata un neurone del cervelletto. Tuttavia questo si dimostrerà poi il risultato di una fusione cellulare e non il prodotto di una transdifferenziazione.

E nel 2004 si concretizzano i dubbi sulla validità degli esperimenti di produzione di cellule cardiache: due gruppi di ricerca pubblicano lavori su Nature in cui si afferma che cellule staminali del sangue impiantate in un cuore infartuato non sono in grado di produrre cellule del muscolo cardiaco, ma solo cellule del sangue (Balsam et al., Murry et al. Nature VOL 428, 2004).

Insomma, un vero ginepraio della scienza che costringe più volte gli esperti mondiali di cellule staminali a prendere carta e penna per fare il punto della situazione. Cosa si deduce leggendo queste review (per esempio Wagers et Weissman, Cell VOL 116, 2004)? Quello che inizialmente era parso una transdifferenziazione si è poi dimostrato alla riprova dei fatti o un artefatto tecnico, o un fenomeno di fusione tra cellule staminali trapiantate e cellule dell'individuo adulto già differenziate o un'incapacità di identificare in modo inequivocabile le cellule donatrici.

In tutti i casi si ammette che le differenziazioni riscontrate sono poco convincenti. Se gli scienziati hanno il diritto di riporre tutte le loro speranze nelle potenzialità della ricerca hanno anche la responsabilità di un controllo più rigoroso sia sulle cellule da trapiantare sia sulle procedure da attuare, prima di promettere sogni clinici remoti, se non irrealizzabili.

Procida: con Curi, Severino, Rosi, De Oliveira...
«il pensiero filmato e il film pensato»

Il Mattino 19.6.05
FRANCESCO ROSI
«In Spagna, a tu per tu con Orson Welles»
Il regista ricorda l’incontro con l’autore americano e presenta a Procida «Il momento della verità»
Alberto Castellano

Cambi di programma, spostamenti di film, pellicole che mancano e altre che si aggiungono al programma. Sono imprevisti che in un festival in progress come «Il vento del cinema» diretto da Enrico Ghezzi a Procida si possono anche tollerare, diventano quasi sfasature volute dal teorico-praticante del «fuori sincrono», variazioni fisiologiche in una rassegna che si configura come una perpetua «jam session», proprio come s'intitolano gli interessanti incontri pomeridiani nei quali cineasti e filosofi discutono del reale/possibile/probabile rapporto tra «il pensiero filmato e il film pensato». Tra un confronto tra due filosofi come Umberto Curi e Emanuele Severino sull'ontologia delle due discipline e un serrato dibattito tra il regista russo Aleksandr Sokurov e il documentarista lettone Herz Frank sulla persistenza della valenza artistica del cinema, c'è spazio anche per un incontro d'altri tempi tra due maestri come Francesco Rosi e Manoel de Oliveira. Il regista portoghese l'altra sera ha assistito alla proiezione al Procida Hall de «Il momento della verità» girato da Rosi nel '65. Spiega l’autore delle «Mani sulla città»: «Rivedo con piacere questo film dopo otto anni in un contesto come questo. Fu il primo film che girai in un contesto non italiano. Angelo Rizzoli voleva fare un film con me a tutti i costi, era un'occasione da non perdere, ma non avevo un progetto e m'ispirò la copertina di un settimanale illustrato sulla fiera di Pamplona. Andai in Spagna con gli operatori Gianni Di Venanzo e Pasqualino De Santis e girammo del materiale che sottoposi a Rizzoli, gli piacque molto e il film partì. Approfondii la mia conoscenza della tauromachia, ma non volevo raccontare una storia che fosse più in linea con il mio cinema di denuncia, volevo distruggere la mitologia della corrida, non m'interessava l'esaltazione epica di toreri alla Dominguin, che mentre matava un toro fu colpito violentemente ai testicoli, ebbe la forza di uccidere l'animale e poi svenne». Rosi sottolinea il carattere realistico del film: «Il protagonista è un giovane di campagna che per far soldi si trasferisce a Barcellona, ma ha difficoltà a inserirsi nel mondo delle corride, poi riesce a diventare un matador. Lo girai con lo stile dell'inchiesta, senza trucchi e artifici, utilizzai tutti toreri veri. Volevo comunicare al pubblico soprattutto lo scontro tra l'intelligenza umana e la bestialità del toro». Il film fu anche l'occasione per Rosi di conoscere un mito del cinema: «Durante i sopralluoghi in Spagna conobbi a Pamplona Orson Welles che stava lavorando al suo progetto su Don Chisciotte e aveva visto "Le mani sulla città". Ricordo che una sera a cena mentre mangiava con una certa voracità mi guardava sott’occhio, era incuriosito e al tempo stesso diffidente verso di me, quasi sembrava chiedersi che cosa facesse in Spagna uno come me che non la conosceva. Sembrava un personaggio di Balzac. In effetti non sapevo niente della Spagna, se non quello che avevo appreso dalla lettura di Hemingway. Tra me e Welles comunque nacque una forte amicizia e per quegli strani percorsi del cinema io il film lo feci e lui no». Ieri notte, intanto, nell’ambito dei suoi «Fuori orario», Ghezzi ha intervistato i registi Abel Ferrara e Herz Frank, autore di un documentario sulla tradizionale processione procidana di Pasqua. Oggi, per la chiusura, dovrebbero arrivare anche Dario Argento, Philippe Garrel e Luciano Emmer.

NoGod
l'8 per mille diamolo alla scienza!

Galileo 19.6.05
8 PER MILLE
"Diamolo alla scienza"

di Giovanna Dall'Ongaro

Inserire tra i possibili destinatari dell'otto per mille del reddito dei cittadini italiani anche gli istituti impegnati nella ricerca scientifica. È un'eventualità di cui si parla da tempo, ma ancora lontana da potersi realizzare. A spingere per una modifica dell'attuale sistema di ripartizione della quota prevista dalla legge 222/85, è scesa in campo l'associazione No God, che da anni porta avanti campagne per la laicità dello Stato. Nell'improba fatica di ostacolare ambigue relazioni tra Cesare e Dio rientra anche questa battaglia: una petizione popolare (sono per ora circa un migliaio le firme raccolte) da presentare ai presidenti di Camera e Senato, per inserire le istituzioni scientifiche tra i destinatari della quota in questione. E oggi più che mai la campagna di No God presenta i toni di un'aperta sfida al Vaticano: la scelta dei beneficiari dell'eventuale finanziamento sarebbero infatti i ricercatori italiani all'estero che studiano le cellule staminali embrionali.

Attualmente, a spartirsi l'otto per mille sono sei confessioni religiose (Chiesa cattolica, Assemblee di Dio in Italia, Chiesa valdese, Chiesa luterana, Chiese avventiste, Unione comunità ebraiche italiane) e lo Stato. La maggior parte di questi soggetti, Stato compreso, utilizza i fondi che riceve per interventi sociali e umanitari. La Chiesa cattolica, invece, insieme a quella luterana, li spende anche e soprattutto per mantenere l'apparato. Nel 2004, per esempio, dei 952 milioni di euro ottenuti, 442 sono stati impiegati per "esigenze di culto e pastorale", 320 per il sostentamento del clero, e 190 per gli interventi caritativi. Eppure, come osservano i Radicali italiani sul sito www.anticlericale.net, gli spot pubblicitari che in queste settimane invitano i contribuenti a optare per la Chiesa cattolica lasciano intendere che la prevalente destinazione sia a opere di carità. E anche, aggiungiamo noi, al restauro di chiese e altri beni culturali ecclesiastici, ai quali in verità va solo una esigua percentuale di quanto incassato dalla Chiesa: 70 milioni circa nel 2004. Per capire l'attuale meccanismo di ripartizione dell'otto per mille e le ragioni di chi lo vorrebbe modificare abbiamo fatto alcune do-mande a Giulio Vellocchia, presidente di No God.

Come funziona la ripartizione dell'otto per mille?
"La legge dell'85 è una conseguenza del nuovo concordato tra Stato e Santa Sede varato un anno prima. Fino ad allora lo Stato italiano versava la cosiddetta congrua alla Chiesa cattolica sotto forma di stipendio ai singoli preti. La legge 222, invece, stabilisce che il finanziamento, mediante il perverso meccanismo dell'otto per mille, è diretto alla Conferenza Episcopale Italiana, la quale decide come distribuirla tra le sue tre principali voci di spesa, scegliendo anche quali sacerdoti stipendiare. A noi è capitato di raccogliere le lamentele di preti, non del tutto allineati con le gerarchie, che sono stati esclusi dai finanziamenti".

Perché si tratterebbe di un meccanismo perverso?
"Perché è un'elargizione estorta, camuffata da libera scelta. Nella dichiarazione dei redditi si può decidere di devolvere la somma dell'otto per mille a una delle sei confessioni religiose oppure allo Stato. Il 60 per cento dei contribuenti non compie nessuna di queste scelte, forse nella speranza che quei soldi in qualche modo gli tornino indietro, ma il loro otto per mille viene per legge (art. 47, comma 3 della L. 222/85. NdR.) ridistribuito tra i diversi soggetti in proporzione alle scelte espresse dagli altri contribuenti. Ovviamente a beneficiarne più di tutti è la Chiesa cattolica con l'87 per cen-to di scelte a suo favore".

Quindi anche se non si indica la Chiesa cattolica come beneficiaria si danno comunque i soldi alla CEI… Di che cifre parliamo?
"I dati del 2003 riferiscono un incasso per quell'anno di un miliardo di euro, una somma già enorme ma destinata ad aumentare anche per il sempre crescente numero di chi non firma (dal 55 per cento del 1996 si è passati all'attuale 64 per cento, NdR.).

A chi devolverete quindi il vostro otto per mille?
"Sembrerà un paradosso, ma, in attesa di future modifiche alla legge, noi di No God invitiamo a scegliere di destinare l'otto per mille alla Chiesa valdese. È un compromesso che ci sentiamo di affrontare senza troppi rimorsi di coscienza perché i valdesi sono gli unici che onestamente rinunciano alla ridistribuzione dei soldi di chi non ha barrato alcuna casella. Ora però gli abbiamo proposto di accettare quella cifra per poi destinarla alla ricerca scientifica in campo biomedico. Così i valdesi potrebbero salvarsi l'anima, non intascando soldi non dovuti, e contemporaneamente salvare delle vite umane".

Quali sono le prossime tappe del "pellegrinaggio laico"?
"Una delle prossime battaglie di laicità riguarderà la depenalizzazione dell'eutanasia. E ancora una volta per fortuna non siamo soli, ci stiamo preparando ad affrontarla insieme ad altre associazioni che hanno partecipato all'Intesa Laica nata in occasione del referendum sulla fecondazione assistita".

paleobotanica
lattuga a go go

Corriere della Sera 19.6.05
Uno studioso italiano ha risolto un enigma archeologico scoprendo le speciali proprietà di un vegetale molto diffuso Lattuga, il viagra naturale degli Egizi
La pianta che dette origine alle nostre insalate contiene una sostanza afrodisiaca


Da oltre un secolo gli archeologi cercavano di spiegare un’associazione apparentemente insensata: negli antichi bassorilievi egiziani, il dio della fertilità Min è sempre raffigurato sessualmente eccitato; davanti a lui i fedeli (maschi) invocano il suo miracoloso aiuto offrendogli cespi di lattuga, una verdura adatta a propiziare sonni tranquilli piuttosto che brillanti prestazioni sessuali. Eppure, quei bassorilievi parlano chiaro: Min è inequivocabilmente «itifallico» e i geroglifici sottolineano che il suo membro si accendeva di visibile desiderio e la sua faccia si illuminava di entusiasmo proprio perché i fedeli gli offrivano della lattuga. Insomma, al dio Min la lattuga faceva un «effetto Viagra» e gli antichi egizi lo sapevano così bene che quando nemmeno la lattuga faceva l’effetto sperato, si rivolgevano al dio per chiedere il suo miracoloso intervento. Naturalmente, portandogli in dono cespi di lattuga.
Già nell’antichità questa preziosa conoscenza andò perduta e nel mondo greco-romano si diffuse l’idea contraria, cioè che la lattuga fosse un ottimo calmante sessuale. Il celebre medico greco Discoride, ad esempio, sosteneva che bere il seme di lattuga domestica evitava le fantasie erotiche notturne «et prohibisce l’uso di Venere» ; il romano Plinio premeva sullo stesso tasto parlando di un tipo di lattuga che già dal nome ( astytis = «non sono in erezione») annunciava desideri blandi e sicuri insuccessi sessuali.
Passarono tanti secoli e la lattuga arrivò ai nostri giorni con la sua fama di leggero sedativo generale adatto persino a calmare bambini insonni. Solo gli egittologi continuavano a interrogarsi sulla strana associazione tra le vistose esuberanze di Min i cespi di lattuga, ma il mistero sembrava destinato a rimanere tale. Ora l’enigma è stato risolto e la vecchia lattuga ha rivelato preziose caratteristiche dimenticate da millenni: assunto a basse dosi, il lattice che affiora dagli steli fioriferi spezzati della Lactuca serriola, una lattuga selvatica «madre di tutte le lattughe», è davvero un blando calmante ma, a dosi maggiori, garantisce un sicuro «effetto Min».
A risolvere l’enigma è stato il paleobotanico italiano Giorgio Samorini, specialista di piante e composti psicoattivi e direttore della rivista «Eleusis», edita dal museo Civico di Rovereto (Trento). Samorini ha affrontato il problema partendo dalle origini, cioè prendendo in esame l’amara lattuga selvatica (Lactuca serriola) che gli egizi coltivavano almeno fin dal IV-III millennio avanti Cristo e con la quale produssero, per selezione, le varie specie di lattughe che noi tutt’oggi mangiamo.
«Quando è raffigurata sulle tavole d’offerta - spiega Samorini - la lattuga è disegnata come singola pianta di colore verde-azzurro e la vediamo adagiata sotto mazzi di "ninfea azzurra", un altro vegetale con proprietà psicoattive. In altri casi è raffigurata verticalmente, alternata a vasi pieni di vino, e ha una forma appuntita, a cipresso, che ne rende più difficile l’identificazione. Considerazioni di carattere etnobotanico mi hanno portato alla convinzione che la lattuga di Min fosse una lattuga selvatica, la Lactuca serriola; appunto quella che ho preso in esame. Con una serie di auto-sperimentazioni ho verificato che assumendo fino a 1 grammo di lattucario, il lattice che affiora dagli steli recisi, prevalgono gli effetti sedativo-analgesici dovuti alla presenza di sostanze come lattucina e lattupicrina; a dosi maggiori, cioè 2 o 3 grammi, prevale invece l’effetto stimolante e allucinogeno indotto dall’alcaloide tropanico, una sostanza presente nelle Solonacee allucinogene quali il giuquiamo, la mandragora e la datura». «Queste differenti reazioni dovute al diverso dosaggio - continua Samorini - possono spiegare perché in Europa, essendo noti solo gli effetti analgesici e simil-oppiacei, prevalse per secoli l’idea che la pianta avesse la capacità di spegnere gli ardori sessuali degli adulti e di favorire il sonno dei più piccoli. In alcune aree della Calabria è rimasta l’usanza, nel giorno della commemorazione dei defunti, di consumare l’amara lattuga selvatica e di bere vino accanto alle tombe dei parenti. Insomma, continua l’impiego della lattuga selvatica come calmante. In Egitto, invece, sembra che Min abbia lasciato qualche ricordo ed è opinione diffusa che chi mangia tanta lattuga avrà tanti figli».
La Lactuca serriola è tutt’oggi la più comune fra le specie selvatiche del bacino del Mediterraneo. Cresce a cespi isolati nei prati, ma anche in città, lungo i muri o a ridosso dei marciapiedi, ma per i non esperti è difficile riconoscerla come una lattuga. Ha foglie allungate dal contorno frastagliato e un colore azzurrognolo che permette di distinguerla dalle altre specie selvatiche.
Da millenni è sotto gli occhi di tutti, ma da tempo avevamo dimenticato il tesoro nascosto nel suo lattice bianco. Tesoro che ora Samorini ha riportato alla luce. «Credo che il mio studio abbia risolto un enigma etnobotanico e dato una spiegazione convincente dell’associazione tra il dio Min e la lattuga - conclude il paleobotanico -, ma non credo affatto che la scoperta del potere afrodisiaco del lattucario possa avere qualche ricaduta pratica. Oggi in farmacia si possono trovare soluzioni decisamente più pratiche dell’andare per prati in cerca di Lactuca serriola».

Albert Einstein

Corriere della Sera 19.6.05
PASSIONI Nel tempo libero il genio si divertiva

«Cos’è lo spazio?», «Perché gli uomini sono classificati come animali?», «Cos’è l’anima?»: sono solo alcune delle domande scritte tra il 1928 e il 1955 dai bambini di tutto il mondo ad Albert Einstein. Sessanta lettere, appartenenti alla Hebrew University of Jerusalem e alla Princeton University Press, raccolte da Alice Calaprice in «Caro professor Einstein» (Archinto, pp. 179, 15) e ora edite in Italia. Sessanta lettere che testimoniano l’enorme popolarità di cui godeva lo scienziato anche tra i più piccoli. E proprio a una bambina che lo definisce un «idolo» e che lamenta problemi coi numeri, Einstein replica con il celebre aforisma: «Non preoccuparti della tue difficoltà in matematica; ti posso assicurare che le mie sono ancora più grandi». Risposte acute e brucianti anche su temi ostici - dalla fede in Dio alla fine del mondo, liquidata con uno «Stiamo a vedere!» - che rivelano, come scrive nella prefazione la nipote Evelyn Einstein, «la stima dei bambini per mio nonno e la sua disponibilità verso di loro». (e. b.)

Corriere della Sera 19.6.05
Interviste e documenti inediti rivelano il lato umano dello scienziato:
un inguaribile individualista Einstein, il pacifista che non capiva la politica

Arturo Colombo

Inguaribile individualista, Albert Einstein - con molto sense of humour - confessava di possedere «la cocciutaggine di un mulo e il fiuto di un buon segugio»; eppure, non è mai stato uno di quegli intellettuali «isolati», che preferiscono la solitudine, quasi avessero - per dirla con Dante - «il mondo in gran dispitto». Al contrario: a leggere il brillante autoritratto involontario, che emerge dal collage di lettere, interviste e documenti nel volume Il lato umano, a cura di Helen Dukas e Banesh Haffmann (Einaudi, pp. 212, 8,80), si capisce benissimo perché Einstein ripetesse spesso il suo «amore per la giustizia e la lotta per contribuire a migliorare la condizione umana». Del resto, per lui la bestia nera è stata da subito il servizio militare obbligatorio, che considerava «il sintomo più vergognoso della mancanza di dignità personale, di cui soffre la nostra umanità civilizzata». Anzi, rincarava la dose, spiegando: «L’eroismo comandato, gli stupidi corpo a corpo, il nefasto spirito nazionalistico, come odio tutto questo!». Fin da giovane, si era convinto che ciascuno di noi non deve scegliere l’arroganza, l’egoismo, il ricorso alla violenza. Al contrario, «siamo qui per gli altri» ripeteva, sicuro che l’eredità ricevuta da chi è vissuto prima di noi andava conservata e arricchita, così da «soddisfare per quanto è possibile le aspirazioni e i bisogni di tutti».
Ecco perché, già nei primi anni Trenta, aveva scritto «la guerra mi appare ignobile e spregevole; sarei disposto a farmi tagliare a pezzi piuttosto che partecipare a un’azione così miserevole»: lo si legge in uno dei suoi testi più famosi, Come io vedo il mondo (Newton Compton, pp. 210, 5).
A convincere Einstein che l’antimilitarismo e il pacifismo rappresentano per ciascuno un imperativo categorico erano stati soprattutto tre grandi - lo scrittore Tolstoj, il Mahatma Gandhi e il filantropo Albert Schweitzer -, che Einstein considerava i suoi maestri, i suoi «uomini-faro» (per usare l’immagine di Thomas Carlyle).
A New York, nel dicembre del 1930, era intervenuto a un convegno a favore dell’obiezione di coscienza, pronunciando «il discorso del due per cento». I pacifisti - aveva detto nel solito stile immaginoso - non sono «pecore ammassate, mentre i lupi fuori le aspettano». E aveva spiegato: «Se anche solo il due per cento di quelli che devono compiere il servizio militare annunciasse il rifiuto di combattere, e nel contempo premesse perché si trovassero mezzi diversi dalla guerra per sistemare le controversie internazionali, allora i governi sarebbero impotenti e non oserebbero mandare in galera un numero così grande di giovani».
Poi, di lì a poco, Hitler andrà al potere, e il nazismo - con lo spettro del famigerato «Nuovo ordine» e le persecuzioni contro gli ebrei - impone anche a Einstein di riconoscere che occorre reagire. Rimane un pacifista, ma non «un pacifista assoluto», e lo ammette: «Dentro di me provo lo stesso disgusto di sempre per la violenza e il militarismo, ma non posso chiudere gli occhi di fronte alla realtà». Tale rimarrà il suo atteggiamento durante tutta la Seconda guerra mondiale, fin quando non si concluderà «il crimine più abominevole mai registrato nella storia», come confessa nell’antologia di aneddoti e riflessioni, Pensieri di un curioso, a cura di Alice Calaprice (Oscar Mondadori, pp. 231, 8,40).
Eppure, finito il conflitto, Einstein torna a reclamare una «politica per la pace», non più solo in termini di antimilitarismo ma come appassionata ricerca di un governo mondiale. Lo dice già nel settembre del ’45: «L’unica salvezza per la nostra civiltà e per la razza umana sta nel creare un unico governo mondiale, che fondi sul diritto la salvezza di tutte le nazioni». Lo ripeterà fino al giorno della morte, avvenuta mezzo secolo fa, il 18 aprile 1955. Nell’ultima intervista sul New York Times, a chi gli chiedeva come mai si era riusciti a scoprire l’atomo ma non ancora i mezzi per controllarlo, Einstein aveva risposto, ironico: «È semplice, amico mio, perché la politica è più difficile della fisica».

un libro
"Futuro del «classico»"

Corriere della Sera 19.6.06
Ma, davvero, il «classico» ha un senso nella nostra cultura? ...

Ma, davvero, il «classico» ha un senso nella nostra cultura? Se lo chiede Salvatore Settis in un libro denso e stimolante (Futuro del «classico», Einaudi, pagine 128, 7) che pone un problema: come è stato considerato l’antico e che valore ha oggi proporre questa aspirazione a un modello nel tempo della comunicazione globale e dell’intreccio di tante civiltà? Mentre le lingue classiche, il greco e il latino, sono sempre più ai margini degli studi, il mondo dei beni culturali, un settore che identifica anche precise professioni, rappresenta un modo diverso per riflettere sulla durata e fa scoprire ai giovani le culture del passato, anche ma non solo quelle che studia l’archeologia. Così resta aperto il problema se quel mondo classico, quella civiltà che identificherebbe proprio l’Occidente nei confronti di culture diverse, ad esempio il mondo islamico, ma anche le culture postoccidentali come quelle statunitensi e sudamericane che il mondo antico lo hanno vissuto solo indirettamente o per via dei colonizzatori, quel mondo classico abbia ancora oggi un senso e una efficacia, se sia insomma un progetto.
Dopo una lunga analisi del dibattito storico sul mondo classico greco e romano, Settis ritrova le ragioni di un’attualità del classico seguendo un’acuta affermazione di Claude Levi Strauss che propone il rapporto col mondo antico come struttura per ogni dialogo con ogni passato, sia questo delle civiltà medio o estremo-orientali che centroamericane, ma anche con le altre, quelle predilette dall’antropologo, le primitive. Ecco dunque una possibile risposta, ma una risposta che pone anche dei problemi. Certo, il mondo classico ha avuto molti revival, molte riprese, e dunque è al mondo classico che abbiamo spesso fatto riferimento in Occidente, del resto qualche sparso frammento di tradizione classica si infiltra un poco ovunque; eppure forse noi non ci rendiamo conto che ogni ripresa dell’antico non è copia o calco come nella cultura accademica, ma, semmai, invenzione e progetto di senso.
Leggere un passato per recuperarlo è, prima di tutto, un programma legato a una ideologia: infatti facciamo molta fatica a considerare sullo stesso piano, ad esempio, le riprese augustee o adrianee della classicità dell’epoca fidiaca e la evocazione dell’antico che si propone in epoche diverse, come nel Medioevo, sia in Occidente che in Oriente.
Dunque che cosa ha in comune la ripresa dell’antico della Rinascita Macedone, oppure Comnena, che sono anche esaltazione della figura dopo l’iconoclasmo del secolo VIII a Bisanzio, con la ripresa del mondo antico e la sua trasformazione nell’Occidente cristiano dal IV secolo in avanti? In apparenza le stesse forme, le stesse immagini durano nei secoli, ma siamo di fronte a un sistema di idee, e dunque a ideologie dell’antico, che ne trasformano il senso, anche se singoli elementi iconografici e compositivi sono accolti. E che dire poi, per saltare qualche secolo, del «classico» ritenuto romano-repubblicano, dunque rivoluzionario, dopo la fine della monarchia di Luigi XVI in Francia, oppure del classico inteso come evocazione di un divinizzato paesaggio all’antica nella Roma secentesca dipinta da Poussin e dai suoi? Che cosa ha in comune tutto questo?
L’idea del classico non può legarsi a un sistema di immagini e di citazioni, ma si deve collegare a un insieme di strutture narrative e di senso sempre diverse; forse proprio qui, nelle connessioni fra immagini e funzioni, si trova più evidente il senso del mondo classico, la sua eredità, ben più delle copie, delle citazioni, delle evocazioni per frammenti di architetture o sculture.
Lo avevano scritto Max Horkheimer e Theodor Adorno, il grande mito salvifico dell’Occidente è quello di Odisseo, certo, un mito laico, quello della conoscenza; l’altra struttura narrativa portante della nostra cultura, questa volta cristiana, muove dal Vangelo e quasi millenovecento anni dopo culmina in Delitto e castigo . Insomma, le ideologie trasformano il senso delle forme, non vi sono infatti forme se non portatrici di ideologie, dunque non vi è un antico, ma molti antichi, difficili da confrontare perché inconfrontabili.
Il futuro dell’antico è nelle sue trasformazioni, e, oggi, si sa, la parte di antico che identifica l’Occidente è quello cristiano, non diverso però da un altro antico, che caratterizza il mondo islamico, la cui matrice è sempre nella struttura salvifica del Racconto, biblico o evangelico che sia, ma certo non nell’immagine figurata, proprio come nella Bisanzio dell’iconoclasma.

da Repubblica del 17.6
«La donna è l'avvenire dell'uomo»

una segnalazione di Andrea Ventura

Repubblica VENERDÌ, 17 GIUGNO 2005

IL VIAGGIO
Le norme degli ayatollah condizionano ancora i comportamenti, ma i dettami del 1979 sono ormai superati
Nei boulevard di Teheran nessuno pensa più alla rivoluzione
KHALED FOUAD ALLAM

TEHERAN - Per me musulmano arabo, sunnita, è una strana sensazione arrivare un giorno a Teheran, a oltre 25 anni dalla sua rivoluzione. A noi sunniti hanno insegnato che lo sciismo è il lato irrazionale dell´islam; che loro sono nell´errore, noi nella verità. Da questa divisione l´islam non si è mai liberato.
Una strana inquietudine mi invadeva mentre passavo dinanzi all´ex ambasciata americana, trasformata in caserma dei pasdaran. Mi tornava alla memoria la crisi degli ostaggi americani, crisi durata mesi, e il negoziato con l´intermediazione algerina. Teheran allora fece tremare l´intero mondo musulmano.
Mi ricordo ancora in televisione le folle della capitale sfilare nei boulevard, gridando: «Dio è grande!». Erano slogan religiosi che l´Occidente non aveva mai udito, abituato in quegli anni a scandire parole oggi desuete: «rivoluzione», «dittatura del proletariato»: la parola «Dio» allora veniva scandita solo nelle chiese e negli altri luoghi di culto.
L´Occidente guardava sbalordito all´Iran, non capiva. Sulle pagine dei giornali occidentali pochi avevano intuito ciò che stava per accadere: uno solo, Michel Foucault, capì quello strano amalgama fra mistica, religione e politica, e ne parlò nel 1979 in un celebre articolo dal titolo: "Che cosa sognano gli iraniani".
Non si può arrivare a Teheran senza chiedersi che cosa accadde veramente allora, e che cosa accadrà oggi, venticinque anni dopo. Il mondo è cambiato, e anche gli esseri umani. Essere in Iran ci fa sentire che le cose in realtà corrono sempre su un doppio binario, seguono un doppio filo conduttore, si sdoppiano in opposte polarità: nello stesso periodo in cui in Iran si avviava la rivoluzione khomeinista, in Europa i regimi marxisti iniziavano la loro lenta agonia. I nouveaux philosophes di André Glucksmann e la dissidenza russa avevano capito che il totalitarismo aveva ormai i giorni contati. E un nuovo vento della storia soffiava attraverso la religione: quell´universo totalitario in lenta decomposizione avrebbe ricevuto il colpo di grazia ad opera di un uomo venuto dall´Est, papa Giovanni Paolo II, e dall´allora presidente dell´Urss, Mikhail Gorbaciov. Dieci anni dopo, nel 1989, a Berlino, esso sarebbe definitivamente crollato.
A Oriente, in quell´oriente persiano, un celebre intellettuale e ideologo, Ali Shariati, aveva tentato una inedita lettura in chiave marxista dell´islam sciita; ma morì in esilio, a Londra, nel 1977, due anni prima della rivoluzione iraniana. Con la scomparsa di Shariati molti marxisti musulmani ritennero che anche a Oriente quell´ideologia stava morendo. Così il marxismo era morto due volte, a Oriente e a Occidente. Ma mentre a Occidente la religione spingeva i popoli verso la libertà, in Iran essa ebbe tutt´altra funzione, perché divenne strumento della rivoluzione.
Più volte, passeggiando nelle strade della capitale, mi sono chiesto quale dei due elementi - la religione o la rivoluzione - fosse infine prevalso in Iran nella dialettica socioculturale. Che ne è di una rivoluzione quando il suo linguaggio è la religione? Diventa come tutte le altre rivoluzioni, come quella francese del 1789, come quella bolscevica del 1917. Esse hanno tutte inventato un proprio culto, tutte si sono impadronite della storia, tutte hanno voluto rappresentare la storia stessa. Hanno distrutto un ordine per imporne un altro: hanno giudicato impuro il mondo che le ha precedute e hanno voluto identificarsi con la purezza di un tempo inaugurale. Ma tutto questo costa - in ogni rivoluzione - tragedie, guerre, sofferenze, sconfitte. E le bocche si chiudono. Può fare anche un gran freddo anche all´ombra dei platani orientali.
Ma ogni rivoluzione prima o poi finisce; e raramente i popoli possono fare più di una rivoluzione in un secolo. Come i nostri corpi non conserveranno la bellezza della gioventù, nessuna rivoluzione può mantenere la promessa delle sue utopie. In Iran la rivoluzione è finita, nei suoi manifesti, nella sua iconografia e nella sua ritualità. Anche se recentemente in una delle grandi arterie della capitale è stato affisso un enorme e sconcertante manifesto che raffigura una donna con bambino, e la frase (in farsi e in inglese) «Amo mio figlio, ma il martirio è meglio», la popolazione non ci bada: semplicemente perché sa che la vita è più forte di qualunque rivoluzione, e che si deve vivere, sopravvivere.
Tutto ciò in Iran si può misurare. Ad esempio, ho contato fino a ventisette modi di portare il velo: dal velo usato nel modo più ideologico, a quello più tradizionale, fino al velo che sembra più un ornamento di volti bellissimi piuttosto che qualcosa fatto per coprire.
L´Iran non è ciò che comunemente si crede in Occidente. E gli iraniani amano il loro Paese. Ho visto molti sorrisi, sono rare le persone dallo sguardo cupo. Si vuole vivere normalmente, semplicemente; anche se la ritualità rivoluzionaria condiziona ancora per alcuni versi i comportamenti, si cerca di inventare una normalità. Ho visto ragazze e ragazzi lanciarsi sguardi dolci, ed è commovente vederli nelle strade o nelle tea-room non abbracciarsi o tenersi per mano come si fa in Occidente - ciò che la morale rivoluzionaria impedisce - ma limitarsi a sfiorare delicatamente le dita della mano dell´innamorato.
Teheran, con i suoi oltre 14 milioni di abitanti, non è quel che si dice una bella città, anche se i suoi splendidi giardini cercano di far dimenticare uno sviluppo urbano disordinato. La città è circondata da montagne che, elevandosi sopra distese di terra friabile e polverosa, somigliano a quei giganteschi sorbetti alla cannella che gli iraniani preparano con maestria insuperabile; e mentre sulle cime si scorgevano ancora le ultime nevi, Teheran era immersa in un caldo afoso degno del mio deserto d´Algeria.
Spesso i passanti mi fermavano per chiedermi dove si trovasse una via, una piazza, un negozio: io rispondevo in arabo che non ero di lì. Durante tutti quei giorni una domanda mi assillava, rifiutava di abbandonarmi: mi chiedevo quale fosse stato per questa rivoluzione l´archetipo di riferimento, l´elemento intorno al quale gravita e si concentra ogni principio rivoluzionario.
Per la rivoluzione francese quell´elemento era la borghesia, per la rivoluzione russa il proletariato; ma quale era quel fulcro per la rivoluzione iraniana, per quell´islam in costante fibrillazione? Cercavo di capirlo osservando la gente: percepivo irrazionalmente che la risposta era a portata di mano, era presente, ma io non la vedevo mentre avevo la sensazione che lei vedesse me; era come se attendesse per rivelarsi. Con il passare dei giorni, capii che quell´archetipo era qualcosa di semplice, era un´icona degli anni ´90: quell´elemento era la donna, la donna nell´islam, figura altamente simbolica in ogni rapporto fra tradizione e modernità. Il velo che la rivoluzione iraniana l´ha costretta a portare, diventava paravento delle frontiere della libertà.
E c´era qualcosa di più in questa rivoluzione, rispetto alle altre: in Iran le donne possono essere intellettuali o artiste, guidare gli autobus, fare le parlamentari o le insegnanti, ma - ciò che rende quella iraniana diversa da tutte le altre rivoluzioni - si è richiesta loro una missione: incarnare l´immagine dell´islam che usciva dal XX secolo.
Osservando la folla di Teheran mi tornavano alla mente i versi che Louis Aragon dedicò a sua moglie Elsa: «La donna è l´avvenire dell´uomo». Qui i termini erano altri: qui la donna rappresentava l´avvenire dell´islam.

da Repubblica del 17.6
incredibile: «i doveri dell'embrione»...

una segnalazione di Andrea Ventura

Repubblica VENERDÌ, 17 GIUGNO 2005
Ma dopo il referendum miglioriamo la legge
Lo statuto dell'embrione deve iniziare dalla fecondazione: deve avere diritti, ma anche doveri
VITTORIO SGARAMELLA

La schiacciante vittoria degli astensionisti mortifica sia l´istituto referendario, sia le speranze d´una riproduzione assistita e non sorvegliata. Passata l´amarezza, è tempo di riflessioni e proposte. Nelle sedi opportune s´intervenga perché i referendum non finiscano sepolti da una slavina di disinteresse, qualunquismo, sfiducia: nella vicina Svizzera funzionano, come orologi e treni.
Vorrei portare un modesto contributo per migliorare la 40, sempre che non sia blindata.
Lo statuto dell´embrione inizi alla fecondazione: gli è dovuto per la sua debolezza, ma soprattutto per la ricchezza di cui ha avviato l´acquisizione. Preveda il diritto primario alla sopravvivenza ma lo coniughi col delinearsi di un dovere: una solidarietà umana espressa come disponibilità dei genitori a donarlo alla ricerca. Per questo non era, né è, necessario rivedere la 40: l´art. 1 ("la presente legge assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito") va letto in un senso quasi obbligato. Sancisce l´esistenza, non l´eguaglianza, dei diritti, ovviamente e significativamente anche dei medici. Se oggetto del referendum fosse stato lo statuto dell´embrione e della madre, forse sarebbe passato.
Sul limite dei tre embrioni, come i pazienti per i quali la medicina è impotente, si considerino "terminali" quegli embrioni ai quali analisi preimpianto non invasive (microscopiche, citogenetiche, molecolari) predicono una vita breve e infelice, se non un aborto. Per loro resta solo l´uso sperimentale o un´attesa a –196°C. Come è noto, la norma prevede un primo tentativo con un numero minimo di embrioni, possibilmente uno, a discrezione del medico. Se questo fallisce si procede ad un nuovo impianto di embrioni eventualmente disponibili; o alla fecondazione di altri ovuli già indotti, ove la loro crioconservazione risultasse praticabile. Tutto ciò consegue al fatto che gameti spesso difettosi producono embrioni ancor più spesso difettosi, non impiantabili se non con coercizioni incostituzionali per principio e inattuabili di fatto: le linee guida vi accennano, ma vanno rafforzate. Nel caso di embrioni sani in soprannumero, se ne faciliti l´adozione a coppie desiderose di genitorialità biologica: quelle che lo fanno, in più salvano un embrione. Sono migliaia e paiono felici non meno di chi opta per l´adozione di bambini, pure da incoraggiare ma in un contesto diverso: qui lo scopo è assistere la riproduzione e evitare accanimenti riproduttivi. Trascorsi 5-10 anni, gli embrioni diventano terminali e possono venire donati alla ricerca. È chiaro che non si creano apposta e che si donano solo i terminali, non impiantabili all´inizio o diventati tali col tempo e comunque destinati ad una morte precoce. È immorale che finiscano in un congelatore, per irresponsabilità o interessi professionali. Ancor di più in un utero, per una forma assurda di accanimento riproduttivo.
Le analisi preimpianto richiedono il prelievo di 1-2 cellule da embrioni precoci e comportano pericoli non superiori alle prenatali: sono quindi accettabili forme d´assistenza a procreazioni difficili, comprese quelle a rischio genetico. In questo modo si possono evitare aborti che la 194 regola ma certo non allevia. In più, anche se oggi si può far poco per curare embrioni "malati", si apre la strada a future terapie, mediate da staminali o altro, comunque più probabili a favore di terzi che dell´embrione.
L´embriologia umana va studiata su embrioni umani: è indispensabile per una maggiore comprensione di fecondazione, differenziamento, sviluppo e quindi per una migliore protezione della salute di tutti, dalle fasi più precoci a quelle più avanzate della vita. Non si può non concordare con quanto scritto in queste pagine dal Nobel D. Baltimore: il paese che li bandisce rischia la retrocessione scientifica e sanitaria. Non possiamo competere con Inghilterra e Corea in settori ad elevato rischio scientifico e a dubbia accettabilità etica, come la clonazione, ma dobbiamo metterci in grado di valutarli criticamente e decidere responsabilmente il nostro impegno.

sinistra
c'è del nuovo in Germania

Corriere della Sera 19.6.05
GERMANIA
Lafontaine eletto capolista del nuovo partito di sinistra


BERLINO - Oskar Lafontaine sarà il capolista del neonato partito di sinistra tedesco Wasg («Iniziativa elettorale per il lavoro e la giustizia sociale»). Ieri, al congresso del partito a Colonia, in Germania, l’ex leader della Spd è stato eletto al primo posto della lista elettorale nel Nord-Reno-Westfalia. Per Oskar «il rosso» hanno votato 124 dei 162 delegati. Alle prossime legislative, la Wasg e i postcomunisti della Pds dovrebbero presentarsi assieme e un nuovo sondaggio ieri accreditava la formazione al 9%, ovvero sarebbe il terzo partito a livello nazionale dopo l’Unione Cdu-Csu e la Spd, davanti ai verdi e ai liberali (Fdp).

sinistra
Rifondazione: la sinistra dal basso

Aprileonline.info
Rifondazione non vuole la Fed rossa, ma unire la sinistra dal basso
Radicals. Franco Giordano (PRC) replica a Diliberto che aveva rilanciato la lista unitaria della sinistra radicale: costruiamo un nuovo soggetto a partire dalla società, non dal ceto politico
Guido Iodice

Mentre la Federazione riformista viene accantonata in nome del realismo dallo stesso Romano Prodi, dall’altro lato della coalizione, quello radicale, molti si muovono. A battere un colpo è stato l'altro ieri Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, che sul “Corriere della Sera” apriva a Bertinotti come possibile leader della sinistra radicale, ma contemporaneamente lanciava una sfida: facciamo una lista Prc, Pdci, Verdi, movimenti e sindacato. Da questo orecchio, però, Rifondazione non ci sente: “Diliberto ripropone un’idea stanca” – spiega ad Aprileonline Franco Giordano, capogruppo di Rifondazione Comunista alla Camera – “un’idea che parte dalla sommatoria di ceti politici, per arrivare a definire altro partito”. Giordano è netto: “Con questa logica non si costruisce nulla” – dice – “perché mettere insieme il ceto politico non riscalda i cuori dei nostri elettori e dei nostri militanti”.
Giordano guarda a quanto accaduto nella della Fed riformista: “Un partito non si può inventare, come dimostra la vicenda dell’Ulivo. Siamo arrivati alle convulsioni di questi mesi perché si è avuta l’illusione autoreferenziale di costruire un soggetto politico, la Fed o il partito riformista, senza nessuna piattaforma, senza una cultura politica, senza cioè affrontare la domanda principale: cos’è il riformismo?”. Certo, rispondiamo, bella domanda. Forse non lo sanno neppure loro.
“Allora – dice il capogruppo di Rifondazione – bisogna rovesciare lo schema”. Cioè partire dal basso. In questa logica la leadership di Bertinotti assumerebbe un altro segno, spiega Giordano: “Bertinotti, la sua candidatura alle primarie, può essere un punto di riferimento sull’idea di una alternativa radicale, sulla quale costruire la sintesi, senza determinare scorciatoie organizzativistiche”. Insomma, “niente più guerre dentro la sinistra dell’Unione”, ma un confronto su ipotesi diverse per arrivare all’unità. Perché, chiediamo, c’è una domanda forte che viene dalla “base” affinché si trovino nuove forme politiche per la sinistra radicale. “La domanda forte di unità della sinistra c’è ed è ricca. C’è una domanda di nuova soggettività” – sottolinea Giordano – che è fatta di confronto programmatico, come quello avviato nei due forum delle riviste di sinistra, che è presente nel mondo sindacale, nei movimenti, nel territorio. E con questa domanda bisogna mettersi in relazione”. Sì, ma come? Il capogruppo comunista pensa ad uno schema rovesciato rispetto a quello di Diliberto: “Dobbiamo definire modalità una rete e su questa base può nascere soggettività nuova. Occorre partire dalla pratica sociale, dal confronto di merito, dalle culture, e su questo costruire una soggettività a rete”.
“Bisogna rompere le logiche vecchie che portano a riprodurre i ceti politici e a separare la sfera della politica dalla società” - continua il dirigente del Prc –, “frare irrompere nella politica la domanda di soggettività nuova che c’è nella sinistra”. E quindi, “su un percorso dal basso, dall’iniziativa comune, creare un nuovo soggetto”. A chi guarda Rifondazione? “A ciò che si muove nella società: associazionismo, sindacato, movimenti. Con questi soggetti bisogna innovare la politica”.
Insomma, Rifondazione rilancia con una contro-sfida, che dice in sostanza no ad una Fed rossa, sì ad una nuova sinistra che parta dal sindacato e dai movimenti della società civile, piuttosto che dalla mera giustapposizione dei gruppi dirigenti.
In questo schema, si inseriscono le primarie sulla leadership del centrosinistra: “Credo che sia importante e positivo che si facciano” – dice Giordano – “in questo modo si esce da uno schema astruso e organizzativistico, basato solo sulle logiche di potere. Con le primarie si apre una riflessione sui contenuti: pace, guerra, salari, sanità”. E sulle primarie Rifondazione si spenderà non solo per portare avanti un candidato, Bertinotti, ma appunto per costruire dal basso la nuova soggettività di cui parla Giordano. Una candidatura che Rifondazione mette al servizio non solo del proprio progetto, rivolto alla sinistra dell’Unione, ma a tutta la coalizione: “Le primarie fanno bene anche a Prodi, a tutta l’Unione, perché in questo modo si può costruire un confronto serrato, come si è visto in Puglia: quando si coinvolge il popolo si crea motivazione, che poi porta alla vittoria. Il coinvolgimento popolare darà maggiore coscienza a tutta la coalizione di una chiara alternativa al berlusconismo: è davvero finita l’era della logica emendativi delle politiche della destra”. E poi “la presenza di un secondo candidato legittima la sfida. Altrimenti il rischio è che primarie risultino solo un fatto formale”.
Prodi si legittima come leader solo se qualcuno lo sfida. E Bertinotti intende sfidarlo e così, quasi paradossalmente, eleggerlo vero leader dell’Unione. “Nella mediazione di ieri – conclude Giordano – non c’è un vincitore”. Ma, questo lo aggiungiamo noi, un vincitore in realtà c’è ed è proprio quel Bertinotti che inaspettatamente ha riavuto la possibilità di confrontarsi nelle primarie e costruire, a partire da queste, il suo progetto.

la visione

Yahoo! Salute 17 giugno 2005
Italiani svelano gli ultimi segreti della visione
Il Pensiero Scientifico Editore
Paola Mariano


Prende corpo l’idea dell’occhio bionico o della retina artificiale ora che un gruppo di scienziati italiani che fa capo agli atenei bolognese e senese ha sciolto gli ultimi interrogativi sul processo molecolare responsabile della visione. Il protagonista del loro studio durato anni è il “retinale”, il pigmento visivo localizzato nella proteina della retina rodopsina. A condurre la ricerca, raccontata in una nota dell'Ateneo senese, Massimo Olivucci, del gruppo di chimica e fotochimica computazionale del dipartimento di Chimica dell'Università di Siena e Marco Garavelli, Alessandro Cembran e Fernando Bernardi del dipartimento G. Ciamician dell’Università di Bologna. La ricerca, ha dichiarato Olivucci, apre la strada alla progettazione di occhi artificiali di grande precisione.

Lo studio, che ha valso agli italiani la pubblicazione del lavoro sulla copertina dell'autorevole rivista scientifica Proceeding of the National Accademy of Sciences of the United States of America, rivela i dettagli del meccanismo molecolare responsabile della visione negli animali superiori, compreso l'uomo, e porta alla comprensione di un processo tra più veloci osservati in natura: la trasformazione fotochimica del retinale.

La retina (la parte dell’occhio che trasforma gli stimoli visivi in segnali elettrici il linguaggio dei neuroni) che passano alla corteccia visiva (occipitale) tramite il nervo ottico. La retina è composta di due tipi di cellule, i coni e i bastoncelli. Queste sono tappezzate in superficie da proteine fotosensibili, che si eccitano cioè sotto uno stimolo luminoso. L’eccitazione determina la modifica chimica di un frammento di queste proteine, il retinale appunto. La trasformazione fotochimica del retinale, studiata a fondo dagli italiani, si completa in tempi inferiori al milionesimo di milionesimo di secondo, ha svelato Olivucci.

Ora che il retinale non ha più segreti si apre la strada alla progettazione di molecole artificiali che riproducono in modo preciso il comportamento del pigmento visivo e che potranno essere utilizzate per la costruzione di retine artificiali, memorie ottiche per computer o di macchine molecolari alimentate dalla luce, ha ribadito il chimico. “Il meccanismo della visione, di cui è responsabile la proteina rodopsina che si trova sul fondo dell'occhio, non era mai stato compreso in modo così preciso”, ha detto Olivucci.

I gruppi bolognese e senese sono entrambi all'avanguardia in campo internazionale nello sviluppo della teoria delle reazioni fotochimiche e questo è solo l'ultimo di una serie di risultati nell'ambito di una linea di ricerca avviata da Olivucci e Garavelli oltre dieci anni fa. La ricerca segue a brevissima distanza uno studio precedente pubblicato dal gruppo di Siena (da Andruniow e Ferré e dallo stesso Olivucci) sulla stessa rivista Pnas, in cui si riportava una simulazione al computer della trasformazione fotochimica dell'intera proteina rodopsina.

Fonte: Garavelli M et al. The retinal chromophore/chloride ion pair: Structure of the photoisomerization path and interplay of charge transfer and covalent states
PNAS 2005 102: 6255-6260

Olivucci M et al. Structure, initial excited-state relaxation, and energy storage of rhodopsin resolved at the multiconfigurational perturbation theory level
PNAS 2004 101: 17908-17913