Da il quotidiano Europa
Berlino, Londra. Parigi, Italia
Mostre d’autunno,
caldo dell’arte
di Simona Maggiorelli
Dall’alba e anche prima. C’è chi aspetta dalle cinque di mattina e chi addirittura ha dormito fuori dalla Neuen Nationalgalerie di Berlino con il sacco a pelo. All’apertura dei portoni della mostra "Das MoMa in Berlin", alle 8, la fila di persone fa due volte il giro del palazzo. Non tutti specialisti e conoscitori, ma un pubblico vario di studenti, famiglie con bambini, turisti, attratti dai capolavori di Picasso, Matisse, Kandinskij, ma anche dal modernismo futurista di Balla e Boccioni, alla scoperta di tutto quel territorio fertile di produzione artistica che, purtroppo, poi precipita e si spegne nella prima guerra mondiale. La versione inglese del catalogo è esaurita da tempo e anche quella in tedesco va a ruba. Un’operazione questa dell’esposizione di 250 opere del MoMa di New York che è costata otto milioni e mezzo di euro e che ha già portato, prima della chiusura il 19 settembre, più di 80mila visitatori. Mossa intelligente da parte dell’amministrazione berlinese che ha scelto di investire nella cultura (Berlino in questi mesi pullula di iniziative) per il rilancio della città. Un’amministrazione pubblica che investe e fa centro, dall’altra la Fondazione MoMa, in grave crisi, tanto da essere costretta a prestare le proprie opere per fare cassa. Fatto da annotare contro le sirene, sempre più stonate, di chi vorrebbe, da noi, privatizzazioni all’americana, di musei e gallerie pubbliche. Ma tant’è. Dopo il varo di un Codice per l’arte che non rafforza la tutela, e in drammatica attesa che la prossima finanziaria tagli ulteriormente i già esigui fondi del ministero dei Beni culturali, il ministro Urbani non ha trovato di meglio che battere i piedi minacciando di dover chiudere gli Uffizi. Nel frattempo si squaderna già quella che sarà la stagione autunnale delle mostre, sempre più giocata a livello europeo, piuttosto che all’interno dei singoli confini nazionali, dacché l’Europa si è fatta davvero più unita anche grazie a voli a prezzi stracciati che permettono di fare un fine settimana a Amsterdam o a Londra, spendendo meno che per un viaggio in Sicilia. La scelta delle segnalazioni, allora, non può che partire dall’importante mostra che la National Gallery londinese dedica dal 20 ottobre a Raffaello e da febbraio all’ultimo Caravaggio. Questo per ciò che riguarda l’arte moderna. Sul versante del contemporaneo, invece, svetta la sorprendente finestra sul sud del mondo di Africa remix, al Kunst Palast di Düsseldorf fino al 7 novembre e poi a Parigi, con le opere di 80 giovani artisti che, sperimentando generi diversi, raccontano di un’arte africana che consapevolmente gioca con gli stereotipi occidentali, mandandoli a gambe all’aria. Evento atteso della prossima settimana, a Venezia apre i battenti la Biennale Architettura. Il tema è quello delle metamorfosi, per raccontare il salto culturale che la cultura dell’abitare sta vivendo, e che si traduce con l’uso sempre più raffinato di materie come il vetro, che fanno della luce un elemento vivo e cangiante della costruzione. Un’edizione con molte promesse questa che si apre oggi, 12 settembre. Alcune purtroppo già deluse, come quella di non essere solo una vetrina di progetti, ma anche un terreno vitale e concreto di workshop per studenti e giovani architetti. Occasione perduta, denuncia lo stesso direttore Kurt W. Forster, che ha lasciato per qualche tempo la cattedra che fu di Gropius al Bauhaus di Weimar, per organizzare la sua Biennale e si è ritrovato a fare i conti con pesanti tagli di finanziamento decisi dalla nuova direzione di David Groff in corso d’opera. In questa stagione, più coraggiosi e sensibili si dimostrano i comuni. Nonostante i pesanti tagli ai trasferimenti, le città d’arte con amministrazioni attente si presentano all’appuntamento di autunno con un carnet pieno di eventi. A cominciare da Ferrara che, dal 3 ottobre, propone in Palazzo dei Diamanti un’interessante mostra, curata da Marilyn McCully, sulla radicale messa in discussione della pittura come mimesis operata Cubismo, con i primi esperimenti di scomposizione delle forme di Picasso e Braque, ma anche di Léger e Gris, e poi con le opere di altri artisti del Novecento che si affiancarono a questa rivoluzione artistica, come Mondrian, Gleizes, Metzinger, Laurens, Lipchitz, Derain. Ma una bella stagione di mostre si apre anche a Brescia, affidata alla cura di Marco Goldin, transfugo da Treviso. I quattro anni di programmazione che culmineranno in rassegne dedicate al rapporto fra Van Gogh e Gauguin e all’astrattismo di Mondrian, s’inaugurano il 23 ottobre con “Monet, la Senna e le ninfee” nel Museo di Santa Giulia, per ripercorrere il cammino che portò Monet da una pittura descrittiva, naturalistica a una visione più interiore, fino alla dissoluzione del dato di natura, nel dipingere la Senna. In contemporanea, in un’altra ala del Santa Giulia, “Tiziano e la pittura del ‘500 a Venezia”, dieci capolavori di pittura italiana dal Louvre (fra i quali lo splendido, enigmatico, autoritratto di Tintoretto) curata da Vincent Pomarède e Jean Habert. E ancora, sul versante delle proposte inedite e, sulla carta, assai suggestive, dal 2 ottobre alle Scuderie del Quirinale, a Roma, Da Giotto a Malevic, la reciproca meraviglia, un confronto lungo otto secoli fra l’arte russa e italiana, tra Giotto e le icone russe, ma anche Chagall, Kandinskij e Malevic, a confronto con Modigliani, De Chirico e Morandi. Esplora in maniera nuova i rapporti fra arte e psichiatria - con una importante messe di lavori saggistici e originali opere pittoriche, sculture e installazioni - la mostra dello psichiatra Domenico Fargnoli che si apre questo fine settimana nel complesso dei Magazzini del Sale, nel Palazzo Pubblico di Siena. Annunciata da una scultura nella scenografica piazza del mercato senese. E per finire, una segnalazione a Mantova dove in questi giorni è di scena Festivaletteratura: in Palazzo Te, "Le ceneri violette di Giorgione. Natura e maniera tra Tiziano e Caravaggio": 130 opere per indagare l’eredità della pittura di Giorgione. Da una frase dello storico dell’arte, Roberto Longhi.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 14 settembre 2004
Pietro Ingrao
Repubblica 14.9.04
Esce la biografia del leader politico scritta da Antonio Galdo
"I miei errori"
Le rappresaglie che si scatenarono nel partito dopo la sua sconfitta nel confronto con Giorgio Amendola
NELLO AJELLO
Pietro Ingrao, l´ultimo esponente di spicco d´un comunismo italiano postumo ma non rinnegato, è insieme rispettabile e disarmante come un augure o uno sciamano. Non c´è un poro della sua faccia, non una sillaba della sua cadenza ciociara che non esprima buona fede. Ancora oggi, che ha quasi novant´anni - li compirà la prossima primavera, essendo nato a Lenola il 30 marzo 1915 - quando lo si sente parlare sembra che intorno a lui aleggi, se non lo spirito del mondo, almeno la coscienza della sinistra, e sia pure di una sinistra "datata". Se ne coglie una riprova nella biografia, sotto forma di intervista, che gli dedica Antonio Galdo, con il titolo Pietro Ingrao, il compagno disarmato (Sperling & Kupfer, pagg. 198, euro 12). Può sembrare strano che un libro in cui si rievocano episodi, personaggi e dibattiti della vita pubblica lasci nel lettore un´impressione, più che pragmatica, poetica. Ma è proprio questo il caso.
Il lettore che intenda valutare un percorso politico con il metro dell´efficacia, si sentirà presto scoraggiato, trovandosi di fronte a un piccolo monumento eretto al diritto di sbagliare. E infatti le parole che ricorrono con insistenza in questo libro sono «errore» e «sconfitta», e si riferiscono sia alla vita del suo protagonista che al comunismo in generale. «Errore», «errore grave», «fondamentale e decisivo»; «è stato l´Errore, con la E maiuscola, della mia vita»; «sbagliai», «purtroppo sbagliavo», «avevo torto», «non avevo capito». E, accanto, si rievocano tutte le possibili accezioni della disfatta politica. La sconfitta può essere «amara», «storica», «inesorabile», «epocale», «definitiva». Non si tratta di ammissioni di poco conto, perché nell´indice ideale di questo volume trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dai fatti d´Ungheria - quando Ingrao, direttore dell´Unità, assunse le difese degli invasori sovietici - alla valutazione della ventata terroristica che sconvolse l´Italia negli anni Settanta e primi Ottanta; alla caduta, non prevista, dei Muri. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Partito, nel 1969, degli eretici del Manifesto, quasi tutti di fede ingraiana. In un comitato centrale, il loro mentore votò a favore del provvedimento repressivo: «Mi mancarono», oggi dichiara, «il coraggio e l´immaginazione» per una condotta diversa.
Collocandosi d´istinto nei punti ideologicamente più temerari, Ingrao ha corso rischi continui e ha raccolto smentite brucianti. Non gli resta che un antidoto, sia pure in confezione «retard»: ed è l´autocritica, una pratica desunta - come si sa - dalla tradizione comunista. «L´autocritica mi rafforza», egli spiega a un certo punto. «Dagli errori si può imparare».
Sulla storia che qui si racconta aleggia qualcosa che rasenta il mistero: ed è il seguito di cui ha goduto il suo protagonista all´interno del Pci, soprattutto presso la base giovanile emarginata e protestataria. Antonio Galdo, militante nei tardi anni Settanta d´un collettivo universitario, ricorda che, «quando si discuteva del Partito comunista, sempre criticamente, un solo nome riusciva a metterci tutti d´accordo. Era quello di Ingrao». E altrove lo stesso biografo dichiara che «volendosi ricostruire, con nomi e cognomi, l´universo» dei seguaci del politico di Lenola, occorrerebbe «lo spazio di un elenco telefonico». L´enigma si rafforza di fronte a un´ennesima ammissione autocritica di Ingrao («Come capo di corrente valgo un fico secco») e assume le tinte del martirologio se si pensa alle rappresaglie che nel Pci si scatenarono contro gli ingraiani dopo la sconfitta subìta dal loro capo all´XI congresso del Pci (1966), quando le sue tesi «di sinistra» furono sopravanzate - per ricordarlo in sintesi - da quelle, opposte, di Giorgio Amendola. È un ex ingraiano perfino quell´Achille Occhetto che, cambiando fra l´´89 e il ´90 il nome e la collocazione del partito di cui è segretario, induce Ingrao ad abbandonare la casa politica che lo ha accolto per più di mezzo secolo.
Il ritratto che emerge da queste pagine, si sarà capito, è tutt´altro che sbiadito e convenzionale. Ne emerge una figura animata da pulsioni autentiche, l´ultima delle quali è quel pacifismo integrale che ancora una volta lo fa sentire in consonanza con gli umori medi della sinistra. Lealtà a tutta prova, dignità intellettuale da vendere, pluralità di interessi (dal cinema alla poesia, nella quale ultima Ingrao si è cimentato in prima persona), un gusto retrospettivo per la verità che sfiora l´olocausto. Soprattutto, una tenace vocazione all´utopia. Non a caso, una sua precedente intervista autobiografica, nata conversando con Nicola Tranfaglia e pubblicata nel 1990 dagli Editori Riuniti, s´intitolava Le cose impossibili. Oggi si ha la conferma che questa richiesta della luna è diventata per Pietro Ingrao una seconda natura. Egli la registra e la impone - si direbbe - con civetteria. È la sua maniera di sfidare il prossimo, misurando forse sulla sua stessa vita la fatale crudeltà della Storia.
Corriere della Sera 14.9.04
In un libro scritto con Antonio Galdo l’ex dirigente del Pci si dissocia dall’ideologia leninista
Ingrao, l’utopia del comunismo gandhiano
ERRORI
Paolo Franchi
Sul perché del fascino esercitato da Pietro Ingrao, in stagioni diverse, su tanta parte della sinistra italiana, si sono interrogati in parecchi, anche molto lontani dalla sua parte. Gli estimatori hanno posto l'accento soprattutto sulla passione politica, sulla tensione intellettuale, sulla fibra morale: tutte qualità incontestabili dell'uomo. Gli avversari, sulla fumosità dell'analisi, della proposta e, conseguentemente, del linguaggio; sull'astrattezza, sulla vocazione alla sconfitta: tutti vizi ben radicati nella sinistra. Ingrao, magari, non ne sarà tanto lieto. Ma forse la spiegazione più azzeccata è quella che diede Indro Montanelli, quando il vecchio Pietro (novanta, densissimi anni nel 2005) si oppose alla «svolta» di Achille Occhetto e diede battaglia in nome di un comunismo che per lui restava al tempo stesso un «grumo di vissuto» di tutta una comunità e un insopprimibile «orizzonte». Scriveva Montanelli: «Ha un volto rincagnito e parla con un plumbeo accento ciociaro. Eppure non si può guardare senza provare per lui un profondo rispetto. Ciò che dice può essere sbagliato, ma il suo è un dramma autentico, senza nulla di recitato, anzi contenuto nei toni più sommessi: il dramma di un uomo che, messo alla scelta tra una carriera e una bandiera, sta con la bandiera, pur ridotta a un brandello».
Compare, questo giudizio, assieme ad altri, più o meno felici, nelle prime pagine di un bel libro di Antonio Galdo, Ingrao, il compagno disarmato , in libreria in questi giorni per i tipi di Sperling & Kupfer (pagine 192, 16). Non un libro intervista, ma piuttosto il rendiconto pubblico e privato (e il privato è ricco almeno quanto il pubblico) di un appassionato viaggio nel Novecento, in forma di dialogo indiretto tra l'autore e il viaggiatore. E si conferma centrato. Purché, naturalmente, ci si intenda su qual è la bandiera che Ingrao continua a difendere; e su cosa vuol dire, per Ingrao, continuare a difenderla. Non è così semplice.
Il comunismo cui Ingrao non intende proprio rinunciare è, né più né meno, lo «stare dalle parte degli sfruttati». Non c'è «dura replica della storia», non c'è fallimento, non c'è gulag che lo smuova da questo schierarsi. Un tetragono, inciprignito conservatore, allora? A giudicare dalla sua vita e, ancor più nettamente, da molte delle riflessioni che fa in questo libro, la risposta è un perentorio no. Il bisturi della riflessione autocritica affonda fin nell'atto di nascita dell'Urss e di quello che un tempo si chiamava «il secolo delle rivoluzioni». Chiama in causa cioè (e la cosa non è davvero ovvia) non solo Stalin e lo stalinismo, ma Lenin e il leninismo e, insomma, la Rivoluzione d'ottobre. «Già Lenin affermava la costruzione violenta dello Stato e del potere politico e non si trattava soltanto di una risposta rivoluzionaria al sangue del capitalismo» scrive: «Era un’idea sbagliata, sbagliatissima di sopraffazione e di schiacciamento, che avrebbe colpito, prima o poi, anche una parte del movimento operaio (…). Consideravamo Stalin il traditore degli ideali di Lenin. Non era vero».
C'è stato un momento, secondo Ingrao, in cui il Pci avrebbe dovuto e potuto emanciparsi dall'errore tragico che era nel suo stesso atto di nascita: il 1956, la rivoluzione ungherese, il tormento e il distacco dal partito di tanti militanti, soprattutto, ma non solo, intellettuali. All'epoca, direttore dell' Unità , si schierò, pieno d'angoscia ma anche con dura determinazione politica, dalla parte dei carri armati: Da una parte della barricata . Prima di scrivere, aveva telefonato a Togliatti: «Mi disse che non bisognava avere dubbi e per tagliare la conversazione usò questa frase: "Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più". Non ebbi la forza di reagire». Scrisse, più tardi amaramente se ne pentì. Oggi dice di quel suo editoriale: «E' stato l'Errore, con la E maiuscola, della mia vita. Perché getta una luce su tutti i ritardi, le incomprensioni, gli sbagli (…) sullo specifico dramma ungherese, ma in generale sul leninismo e sullo stalinismo e cioè sulle due figure centrali della storia del comunismo».
Riconoscere tutto questo, e anche pentirsene (anche se, per Ingrao, la parola pentimento «sa di sacrestia»), è, ai suoi occhi, un modo, forse l'unico possibile, per continuare a essere orgogliosamente comunista. Per sottolineare i meriti del passato suo e del suo partito, quel Pci in cui nel lontano 1966 rivendicò (avendosene in cambio una pesante emarginazione sua e dei suoi sostenitori) il diritto al dissenso. Nonché per continuare a ricercare, a quasi novant'anni, da compagno disarmato, i sentieri inesplorati che, a dire dei suoi tanti avversari, anche nel Pci, sono stati la fissazione di tutta una vita. E il più inesplorato di tutti è quello, così nascosto da far sospettare ai più che sia del tutto inesistente, che dovrebbe collegare il suo comunismo a un pacifismo e a una non violenza assoluti, quasi gandhiani, che con il comunismo così come lo abbiamo conosciuto poco davvero hanno da spartire. Tutto sembrerebbe star lì a dire che questa è l'ennesima fuga di Ingrao verso l'ignoto. E' probabile. Ma nessuno può pensare che il vecchio comunista, che nel 1979 lasciò la presidenza della Camera per mettersi «a studiare», smetta di arrovellarsi. E di cercare. Sta qui, oltre che nella fedeltà a una bandiera, il motivo più profondo del suo fascino.
Esce la biografia del leader politico scritta da Antonio Galdo
"I miei errori"
Le rappresaglie che si scatenarono nel partito dopo la sua sconfitta nel confronto con Giorgio Amendola
NELLO AJELLO
Pietro Ingrao, l´ultimo esponente di spicco d´un comunismo italiano postumo ma non rinnegato, è insieme rispettabile e disarmante come un augure o uno sciamano. Non c´è un poro della sua faccia, non una sillaba della sua cadenza ciociara che non esprima buona fede. Ancora oggi, che ha quasi novant´anni - li compirà la prossima primavera, essendo nato a Lenola il 30 marzo 1915 - quando lo si sente parlare sembra che intorno a lui aleggi, se non lo spirito del mondo, almeno la coscienza della sinistra, e sia pure di una sinistra "datata". Se ne coglie una riprova nella biografia, sotto forma di intervista, che gli dedica Antonio Galdo, con il titolo Pietro Ingrao, il compagno disarmato (Sperling & Kupfer, pagg. 198, euro 12). Può sembrare strano che un libro in cui si rievocano episodi, personaggi e dibattiti della vita pubblica lasci nel lettore un´impressione, più che pragmatica, poetica. Ma è proprio questo il caso.
Il lettore che intenda valutare un percorso politico con il metro dell´efficacia, si sentirà presto scoraggiato, trovandosi di fronte a un piccolo monumento eretto al diritto di sbagliare. E infatti le parole che ricorrono con insistenza in questo libro sono «errore» e «sconfitta», e si riferiscono sia alla vita del suo protagonista che al comunismo in generale. «Errore», «errore grave», «fondamentale e decisivo»; «è stato l´Errore, con la E maiuscola, della mia vita»; «sbagliai», «purtroppo sbagliavo», «avevo torto», «non avevo capito». E, accanto, si rievocano tutte le possibili accezioni della disfatta politica. La sconfitta può essere «amara», «storica», «inesorabile», «epocale», «definitiva». Non si tratta di ammissioni di poco conto, perché nell´indice ideale di questo volume trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dai fatti d´Ungheria - quando Ingrao, direttore dell´Unità, assunse le difese degli invasori sovietici - alla valutazione della ventata terroristica che sconvolse l´Italia negli anni Settanta e primi Ottanta; alla caduta, non prevista, dei Muri. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Partito, nel 1969, degli eretici del Manifesto, quasi tutti di fede ingraiana. In un comitato centrale, il loro mentore votò a favore del provvedimento repressivo: «Mi mancarono», oggi dichiara, «il coraggio e l´immaginazione» per una condotta diversa.
Collocandosi d´istinto nei punti ideologicamente più temerari, Ingrao ha corso rischi continui e ha raccolto smentite brucianti. Non gli resta che un antidoto, sia pure in confezione «retard»: ed è l´autocritica, una pratica desunta - come si sa - dalla tradizione comunista. «L´autocritica mi rafforza», egli spiega a un certo punto. «Dagli errori si può imparare».
Sulla storia che qui si racconta aleggia qualcosa che rasenta il mistero: ed è il seguito di cui ha goduto il suo protagonista all´interno del Pci, soprattutto presso la base giovanile emarginata e protestataria. Antonio Galdo, militante nei tardi anni Settanta d´un collettivo universitario, ricorda che, «quando si discuteva del Partito comunista, sempre criticamente, un solo nome riusciva a metterci tutti d´accordo. Era quello di Ingrao». E altrove lo stesso biografo dichiara che «volendosi ricostruire, con nomi e cognomi, l´universo» dei seguaci del politico di Lenola, occorrerebbe «lo spazio di un elenco telefonico». L´enigma si rafforza di fronte a un´ennesima ammissione autocritica di Ingrao («Come capo di corrente valgo un fico secco») e assume le tinte del martirologio se si pensa alle rappresaglie che nel Pci si scatenarono contro gli ingraiani dopo la sconfitta subìta dal loro capo all´XI congresso del Pci (1966), quando le sue tesi «di sinistra» furono sopravanzate - per ricordarlo in sintesi - da quelle, opposte, di Giorgio Amendola. È un ex ingraiano perfino quell´Achille Occhetto che, cambiando fra l´´89 e il ´90 il nome e la collocazione del partito di cui è segretario, induce Ingrao ad abbandonare la casa politica che lo ha accolto per più di mezzo secolo.
Il ritratto che emerge da queste pagine, si sarà capito, è tutt´altro che sbiadito e convenzionale. Ne emerge una figura animata da pulsioni autentiche, l´ultima delle quali è quel pacifismo integrale che ancora una volta lo fa sentire in consonanza con gli umori medi della sinistra. Lealtà a tutta prova, dignità intellettuale da vendere, pluralità di interessi (dal cinema alla poesia, nella quale ultima Ingrao si è cimentato in prima persona), un gusto retrospettivo per la verità che sfiora l´olocausto. Soprattutto, una tenace vocazione all´utopia. Non a caso, una sua precedente intervista autobiografica, nata conversando con Nicola Tranfaglia e pubblicata nel 1990 dagli Editori Riuniti, s´intitolava Le cose impossibili. Oggi si ha la conferma che questa richiesta della luna è diventata per Pietro Ingrao una seconda natura. Egli la registra e la impone - si direbbe - con civetteria. È la sua maniera di sfidare il prossimo, misurando forse sulla sua stessa vita la fatale crudeltà della Storia.
Corriere della Sera 14.9.04
In un libro scritto con Antonio Galdo l’ex dirigente del Pci si dissocia dall’ideologia leninista
Ingrao, l’utopia del comunismo gandhiano
ERRORI
Paolo Franchi
Sul perché del fascino esercitato da Pietro Ingrao, in stagioni diverse, su tanta parte della sinistra italiana, si sono interrogati in parecchi, anche molto lontani dalla sua parte. Gli estimatori hanno posto l'accento soprattutto sulla passione politica, sulla tensione intellettuale, sulla fibra morale: tutte qualità incontestabili dell'uomo. Gli avversari, sulla fumosità dell'analisi, della proposta e, conseguentemente, del linguaggio; sull'astrattezza, sulla vocazione alla sconfitta: tutti vizi ben radicati nella sinistra. Ingrao, magari, non ne sarà tanto lieto. Ma forse la spiegazione più azzeccata è quella che diede Indro Montanelli, quando il vecchio Pietro (novanta, densissimi anni nel 2005) si oppose alla «svolta» di Achille Occhetto e diede battaglia in nome di un comunismo che per lui restava al tempo stesso un «grumo di vissuto» di tutta una comunità e un insopprimibile «orizzonte». Scriveva Montanelli: «Ha un volto rincagnito e parla con un plumbeo accento ciociaro. Eppure non si può guardare senza provare per lui un profondo rispetto. Ciò che dice può essere sbagliato, ma il suo è un dramma autentico, senza nulla di recitato, anzi contenuto nei toni più sommessi: il dramma di un uomo che, messo alla scelta tra una carriera e una bandiera, sta con la bandiera, pur ridotta a un brandello».
Compare, questo giudizio, assieme ad altri, più o meno felici, nelle prime pagine di un bel libro di Antonio Galdo, Ingrao, il compagno disarmato , in libreria in questi giorni per i tipi di Sperling & Kupfer (pagine 192, 16). Non un libro intervista, ma piuttosto il rendiconto pubblico e privato (e il privato è ricco almeno quanto il pubblico) di un appassionato viaggio nel Novecento, in forma di dialogo indiretto tra l'autore e il viaggiatore. E si conferma centrato. Purché, naturalmente, ci si intenda su qual è la bandiera che Ingrao continua a difendere; e su cosa vuol dire, per Ingrao, continuare a difenderla. Non è così semplice.
Il comunismo cui Ingrao non intende proprio rinunciare è, né più né meno, lo «stare dalle parte degli sfruttati». Non c'è «dura replica della storia», non c'è fallimento, non c'è gulag che lo smuova da questo schierarsi. Un tetragono, inciprignito conservatore, allora? A giudicare dalla sua vita e, ancor più nettamente, da molte delle riflessioni che fa in questo libro, la risposta è un perentorio no. Il bisturi della riflessione autocritica affonda fin nell'atto di nascita dell'Urss e di quello che un tempo si chiamava «il secolo delle rivoluzioni». Chiama in causa cioè (e la cosa non è davvero ovvia) non solo Stalin e lo stalinismo, ma Lenin e il leninismo e, insomma, la Rivoluzione d'ottobre. «Già Lenin affermava la costruzione violenta dello Stato e del potere politico e non si trattava soltanto di una risposta rivoluzionaria al sangue del capitalismo» scrive: «Era un’idea sbagliata, sbagliatissima di sopraffazione e di schiacciamento, che avrebbe colpito, prima o poi, anche una parte del movimento operaio (…). Consideravamo Stalin il traditore degli ideali di Lenin. Non era vero».
C'è stato un momento, secondo Ingrao, in cui il Pci avrebbe dovuto e potuto emanciparsi dall'errore tragico che era nel suo stesso atto di nascita: il 1956, la rivoluzione ungherese, il tormento e il distacco dal partito di tanti militanti, soprattutto, ma non solo, intellettuali. All'epoca, direttore dell' Unità , si schierò, pieno d'angoscia ma anche con dura determinazione politica, dalla parte dei carri armati: Da una parte della barricata . Prima di scrivere, aveva telefonato a Togliatti: «Mi disse che non bisognava avere dubbi e per tagliare la conversazione usò questa frase: "Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più". Non ebbi la forza di reagire». Scrisse, più tardi amaramente se ne pentì. Oggi dice di quel suo editoriale: «E' stato l'Errore, con la E maiuscola, della mia vita. Perché getta una luce su tutti i ritardi, le incomprensioni, gli sbagli (…) sullo specifico dramma ungherese, ma in generale sul leninismo e sullo stalinismo e cioè sulle due figure centrali della storia del comunismo».
Riconoscere tutto questo, e anche pentirsene (anche se, per Ingrao, la parola pentimento «sa di sacrestia»), è, ai suoi occhi, un modo, forse l'unico possibile, per continuare a essere orgogliosamente comunista. Per sottolineare i meriti del passato suo e del suo partito, quel Pci in cui nel lontano 1966 rivendicò (avendosene in cambio una pesante emarginazione sua e dei suoi sostenitori) il diritto al dissenso. Nonché per continuare a ricercare, a quasi novant'anni, da compagno disarmato, i sentieri inesplorati che, a dire dei suoi tanti avversari, anche nel Pci, sono stati la fissazione di tutta una vita. E il più inesplorato di tutti è quello, così nascosto da far sospettare ai più che sia del tutto inesistente, che dovrebbe collegare il suo comunismo a un pacifismo e a una non violenza assoluti, quasi gandhiani, che con il comunismo così come lo abbiamo conosciuto poco davvero hanno da spartire. Tutto sembrerebbe star lì a dire che questa è l'ennesima fuga di Ingrao verso l'ignoto. E' probabile. Ma nessuno può pensare che il vecchio comunista, che nel 1979 lasciò la presidenza della Camera per mettersi «a studiare», smetta di arrovellarsi. E di cercare. Sta qui, oltre che nella fedeltà a una bandiera, il motivo più profondo del suo fascino.
citato al Lunedì
il ministro e Marco Müller
Repubblica 13.9.04
il bilancio
Urbani: e la Mostra va una Ferrari da registrare
VENEZIA - Non si cambia un motore Ferrari, sarà la carrozzeria Topolino a doversi adeguare. Parola del ministro Urbani, così affezionato al paragone automobilistico da ribadirlo sabato notte: Davide Croff e Marco Muller non si toccano e la speranza è che non si trovino facili capri espiatori. Il presidente Croff scivola con eleganza sulle mancanze della 61ma edizione - «Che ci siano stati disagi è fuori discussione, ma vanno ridimensionati» - sottolinea la ricchezza dei contenuti pur accettando «la necessità di adeguare i contenuti al contenitore», vanta gli eventi a piazza san Marco e alla Fenice come «segnale d' appartenenza della Biennale a Venezia». Soddisfacente il bilancio per Marco Muller, in particolare per «capacità di cogliere le correnti in arrivo, il film di Kim Ki-duk l' ho preso quando lui cominciava a girare». Accetta un voto negativo «sul funzionamento della macchina dell' organizzazione e finalmente ammette che i film erano troppi. Lamentele dei produttori internazionali? Disagio di De Oliveira, leone d' oro di serie B (assegnato in Sala Grande) contro il Leone a Stanley Donen alla Fenice? «Ho mandato lettere di scuse a chi aveva subito disagi, non ci saranno conseguenze per l' anno prossimo. Tutto è bene quel che finisce bene. Anche se secondo il ministro Urbani la Mostra avrebbe dovuto tutelare di più il cinema italiano, il verdetto della giuria è indiscutibile, e in futuro un nuovo regolamento eviterà il raddoppio dei premi. E sulla presenza di ministri e dintorni, mai così folta, Muller sospira: «L' ho dovuta subire». (m.p.f.)
il bilancio
Urbani: e la Mostra va una Ferrari da registrare
VENEZIA - Non si cambia un motore Ferrari, sarà la carrozzeria Topolino a doversi adeguare. Parola del ministro Urbani, così affezionato al paragone automobilistico da ribadirlo sabato notte: Davide Croff e Marco Muller non si toccano e la speranza è che non si trovino facili capri espiatori. Il presidente Croff scivola con eleganza sulle mancanze della 61ma edizione - «Che ci siano stati disagi è fuori discussione, ma vanno ridimensionati» - sottolinea la ricchezza dei contenuti pur accettando «la necessità di adeguare i contenuti al contenitore», vanta gli eventi a piazza san Marco e alla Fenice come «segnale d' appartenenza della Biennale a Venezia». Soddisfacente il bilancio per Marco Muller, in particolare per «capacità di cogliere le correnti in arrivo, il film di Kim Ki-duk l' ho preso quando lui cominciava a girare». Accetta un voto negativo «sul funzionamento della macchina dell' organizzazione e finalmente ammette che i film erano troppi. Lamentele dei produttori internazionali? Disagio di De Oliveira, leone d' oro di serie B (assegnato in Sala Grande) contro il Leone a Stanley Donen alla Fenice? «Ho mandato lettere di scuse a chi aveva subito disagi, non ci saranno conseguenze per l' anno prossimo. Tutto è bene quel che finisce bene. Anche se secondo il ministro Urbani la Mostra avrebbe dovuto tutelare di più il cinema italiano, il verdetto della giuria è indiscutibile, e in futuro un nuovo regolamento eviterà il raddoppio dei premi. E sulla presenza di ministri e dintorni, mai così folta, Muller sospira: «L' ho dovuta subire». (m.p.f.)
citato al Lunedì
Umberto Eco!
Repubblica 12.9.04
Così la bellezza si è trasformata
Una fila lunga quattrocento metri di persone in attesa di asssistere Dopo la Bardot sullo schermo appare Berlusconi: il pubblico si diverte Grande erudizione e gioco intellettuale per girovagare attorno al concetto del bello Il gusto preromantico che predilige la tempesta, le rovine, il 'tremendo' Ieri lo scrittore ha tenuto a Mantova un' affollatissima lezione
FRANCESCO ERBANI
MANTOVA. Una fila lunga trecento, forse quattrocento metri, si allunga sul fondo di Piazza Sordello. Aspettano di entrare nel grande cortile del Castello. Umberto Eco parla di storia e teoria della bellezza davanti a 1500 persone, ma probabilmente di più, sotto un cielo coperto da nuvole azzurre. Parla e dietro di lui si proiettano immagini. E' , finora, l' incontro più affollato di questo festival che oggi spegne i suoi riflettori dopo quattro giorni in cui si sono alternati duecentoventi appuntamenti. Oggi sono di scena Norman Manea e Antonio Tabucchi (che ieri ha letto brani dal suo Tristano muore, edito da Feltrinelli, e dialogato con un pubblico foltissimo), e i reading di J. M. Coetzee e Doris Lessing. E' la seconda volta di Eco a Mantova. Quattro anni fa venne ed annunciò che stava scrivendo un nuovo romanzo, intitolato Baudolino. La lezione sulla bellezza, invece, è l' assaggio di una Storia della bellezza che dal 6 ottobre sarà in libreria edito da Bompiani. Un libro a più voci, che Eco ha curato, anticipandolo in parte con un Cd-Rom venduto tempo fa con l' Espresso. Folla grande in platea e arrampicata fin sugli scalini degli spalti ai due lati e di fronte al vasto palco dove campeggiano solo un tavolino di legno, pieghevole, come quelli da giardino, un microfono, un computer portatile e una bottiglia d' acqua. «Avrei preferito parlare al coperto», dice lo scrittore prima di salire sulla pedana, mentre firma qualche centinaio di copie a chi dopo la prima si mette in fila anche una seconda volta. «Temo che all' aperto le immagini si vedano sbiadite», esordisce dopo un lungo applauso. «E' come se invitassero un tuffatore in una piscina e poi gli dicessero, be' non c' è posto vai a tuffarti in una piazza». 1500 persone, o quante erano in effetti, però, non sarebbero mai entrate nel Teatro Sociale, dove l' incontro era previsto. E allora tutti qui, come in un raduno rock (prima di Eco su questo palco sono saliti Patti Smith, Vinicio Capossela ed Elio e le Storie Tese). «Chi vuole può andare al cinema», scherza Eco, «oppure torni più tardi per sentire Ken Follett, che è tutto sonoro». Parole e immagini sono il tracciato che segna la lunga cavalcata di Eco nell' idea di bellezza così come l' hanno concepita dal mondo classico ad oggi. Questa Storia della bellezza fu pensata quarant' anni fa, dice il professore, poi è rimasta negli armadi e ora ritorna. Ma la teoria del bello sfuma dai trattati di estetica alla parlata quotidiana, per cui «noi diciamo una bella bistecca o un bel bambino, quasi che per muoverci nel mondo d' oggi preferissimo accorpare sotto le parole bello, brutto, buono e cattivo, tanti concetti che una volta si esprimevano diversamente». Eco inchioda il suo pubblico girovagando con sapienza fra le citazioni, assimilandole o facendole stridere con effetto comico, ma anche come gioco della mente. Il suo funambolico tragitto si alimenta di erudizione che sconcerterebbe chiunque in un contesto diverso. Ma qui è sciolto in un labirinto di rimandi, di assonanze e di attriti, di cultura alta e di consumo, di linguaggi pittorici e pubblicitari. Si comincia con Guido Guinizelli (sullo sfondo sfilano statue di giovani donne d' età gotica) e si scivola fino a Marinetti e a Piet Mondrian. «La storia della bellezza non è una storia dell' arte, lo è solo dall' idealismo in poi, prima il bello era prevalentemente il bello della natura». Un ideale di bellezza? Questione antica e irrisolvibile e nella quale Eco neanche ci si infila, preferendo le versioni relative del bello, così come i secoli le hanno codificate. Sullo schermo compare Brigitte Bardot e dopo di lei un Silvio Berlusconi in assetto teatrale, un sorriso sfolgorante, la mano che sfiora il nodo della cravatta. Risate, qualche brusio e un sonoro fischio. Per i teorici medievali il bello si identificava nella proporzione. Tommaso indicava tre elementi: la proporzione, appunto, l' integrità e la claritas, la lucentezza. Ma già Pitagora additava come bello l' intervallo regolare delle colonne. E a qualcosa di analogo pensava Platone nel Timeo. Fra Umanesimo e Rinascimento ecco le teorie di Luca Pacioli sulla sezione aurea: dietro Eco appare la Flagellazione di Piero della Francesca. Più fascinosa la navigazione fra i flutti della claritas. Qui Eco maneggia teorici e scrittori medievali con la sicurezza di un prestigiatore: la luminosità che emana dalle figure di Giotto e di qui fino alle vetrate di una cattedrale gotica; l' immagine di luce di santa Ildegarda di Bingen; la luce che mandano gli occhi di Beatrice nel Paradiso dantesco; e poi Bonaventura e altri ancora. Di contro si sviluppava la teoria del brutto: ed ecco bestiari, cinocefali, grifoni, dragoni, fenici e tutto l' universo delle mostruosità. I secoli trascorrono e la proporzione resta un riferimento certo (Giorgione, Rubens, Rembrandt). L' idea del bello si rovescia sul finire del Settecento, quando compare l' estetica del sublime, dell' informe, del tremendo, dello stupefacente. E' il gusto preromantico delle rovine, della tempesta che è, appunto, sublime, scrive Kant nella Critica del giudizio, se la si guarda da lontano, stando al riparo e confrontandola con la nostra forza morale. Il finale è sul '900, sul suo stralunato accumularsi di oggetti e di modelli contraddittori. Il buio cala su Piazza Castello. Si illuminano il campanile e una torre. La voce di Eco sfuma. E nel frattempo il grande schermo proietta le immagini di un secolo diviso fra le avanguardie e la produzione da mass media. Conclude Eco: «Lo spazio fra arte di provocazione e quella di consumo si assottiglia sempre di più».
Così la bellezza si è trasformata
Una fila lunga quattrocento metri di persone in attesa di asssistere Dopo la Bardot sullo schermo appare Berlusconi: il pubblico si diverte Grande erudizione e gioco intellettuale per girovagare attorno al concetto del bello Il gusto preromantico che predilige la tempesta, le rovine, il 'tremendo' Ieri lo scrittore ha tenuto a Mantova un' affollatissima lezione
FRANCESCO ERBANI
MANTOVA. Una fila lunga trecento, forse quattrocento metri, si allunga sul fondo di Piazza Sordello. Aspettano di entrare nel grande cortile del Castello. Umberto Eco parla di storia e teoria della bellezza davanti a 1500 persone, ma probabilmente di più, sotto un cielo coperto da nuvole azzurre. Parla e dietro di lui si proiettano immagini. E' , finora, l' incontro più affollato di questo festival che oggi spegne i suoi riflettori dopo quattro giorni in cui si sono alternati duecentoventi appuntamenti. Oggi sono di scena Norman Manea e Antonio Tabucchi (che ieri ha letto brani dal suo Tristano muore, edito da Feltrinelli, e dialogato con un pubblico foltissimo), e i reading di J. M. Coetzee e Doris Lessing. E' la seconda volta di Eco a Mantova. Quattro anni fa venne ed annunciò che stava scrivendo un nuovo romanzo, intitolato Baudolino. La lezione sulla bellezza, invece, è l' assaggio di una Storia della bellezza che dal 6 ottobre sarà in libreria edito da Bompiani. Un libro a più voci, che Eco ha curato, anticipandolo in parte con un Cd-Rom venduto tempo fa con l' Espresso. Folla grande in platea e arrampicata fin sugli scalini degli spalti ai due lati e di fronte al vasto palco dove campeggiano solo un tavolino di legno, pieghevole, come quelli da giardino, un microfono, un computer portatile e una bottiglia d' acqua. «Avrei preferito parlare al coperto», dice lo scrittore prima di salire sulla pedana, mentre firma qualche centinaio di copie a chi dopo la prima si mette in fila anche una seconda volta. «Temo che all' aperto le immagini si vedano sbiadite», esordisce dopo un lungo applauso. «E' come se invitassero un tuffatore in una piscina e poi gli dicessero, be' non c' è posto vai a tuffarti in una piazza». 1500 persone, o quante erano in effetti, però, non sarebbero mai entrate nel Teatro Sociale, dove l' incontro era previsto. E allora tutti qui, come in un raduno rock (prima di Eco su questo palco sono saliti Patti Smith, Vinicio Capossela ed Elio e le Storie Tese). «Chi vuole può andare al cinema», scherza Eco, «oppure torni più tardi per sentire Ken Follett, che è tutto sonoro». Parole e immagini sono il tracciato che segna la lunga cavalcata di Eco nell' idea di bellezza così come l' hanno concepita dal mondo classico ad oggi. Questa Storia della bellezza fu pensata quarant' anni fa, dice il professore, poi è rimasta negli armadi e ora ritorna. Ma la teoria del bello sfuma dai trattati di estetica alla parlata quotidiana, per cui «noi diciamo una bella bistecca o un bel bambino, quasi che per muoverci nel mondo d' oggi preferissimo accorpare sotto le parole bello, brutto, buono e cattivo, tanti concetti che una volta si esprimevano diversamente». Eco inchioda il suo pubblico girovagando con sapienza fra le citazioni, assimilandole o facendole stridere con effetto comico, ma anche come gioco della mente. Il suo funambolico tragitto si alimenta di erudizione che sconcerterebbe chiunque in un contesto diverso. Ma qui è sciolto in un labirinto di rimandi, di assonanze e di attriti, di cultura alta e di consumo, di linguaggi pittorici e pubblicitari. Si comincia con Guido Guinizelli (sullo sfondo sfilano statue di giovani donne d' età gotica) e si scivola fino a Marinetti e a Piet Mondrian. «La storia della bellezza non è una storia dell' arte, lo è solo dall' idealismo in poi, prima il bello era prevalentemente il bello della natura». Un ideale di bellezza? Questione antica e irrisolvibile e nella quale Eco neanche ci si infila, preferendo le versioni relative del bello, così come i secoli le hanno codificate. Sullo schermo compare Brigitte Bardot e dopo di lei un Silvio Berlusconi in assetto teatrale, un sorriso sfolgorante, la mano che sfiora il nodo della cravatta. Risate, qualche brusio e un sonoro fischio. Per i teorici medievali il bello si identificava nella proporzione. Tommaso indicava tre elementi: la proporzione, appunto, l' integrità e la claritas, la lucentezza. Ma già Pitagora additava come bello l' intervallo regolare delle colonne. E a qualcosa di analogo pensava Platone nel Timeo. Fra Umanesimo e Rinascimento ecco le teorie di Luca Pacioli sulla sezione aurea: dietro Eco appare la Flagellazione di Piero della Francesca. Più fascinosa la navigazione fra i flutti della claritas. Qui Eco maneggia teorici e scrittori medievali con la sicurezza di un prestigiatore: la luminosità che emana dalle figure di Giotto e di qui fino alle vetrate di una cattedrale gotica; l' immagine di luce di santa Ildegarda di Bingen; la luce che mandano gli occhi di Beatrice nel Paradiso dantesco; e poi Bonaventura e altri ancora. Di contro si sviluppava la teoria del brutto: ed ecco bestiari, cinocefali, grifoni, dragoni, fenici e tutto l' universo delle mostruosità. I secoli trascorrono e la proporzione resta un riferimento certo (Giorgione, Rubens, Rembrandt). L' idea del bello si rovescia sul finire del Settecento, quando compare l' estetica del sublime, dell' informe, del tremendo, dello stupefacente. E' il gusto preromantico delle rovine, della tempesta che è, appunto, sublime, scrive Kant nella Critica del giudizio, se la si guarda da lontano, stando al riparo e confrontandola con la nostra forza morale. Il finale è sul '900, sul suo stralunato accumularsi di oggetti e di modelli contraddittori. Il buio cala su Piazza Castello. Si illuminano il campanile e una torre. La voce di Eco sfuma. E nel frattempo il grande schermo proietta le immagini di un secolo diviso fra le avanguardie e la produzione da mass media. Conclude Eco: «Lo spazio fra arte di provocazione e quella di consumo si assottiglia sempre di più».
citato al Lunedì
Umberto Galimberti!
Repubblica 11.9.04
IL CASO
Perché è un errore non insegnare la filosofia fin dai primi anni della scuola elementare
Se i bimbi studiassero Platone
IL GIOCO DEI PERCHÉ INSEGNA A PENSARE
UMBERTO GALIMBERTI
PERCHÉ, oltre l´inglese, non si introduce anche la filosofia nelle scuole elementari? I bambini si pongono domande filosofiche intorno ai 4 anni, età che gli psicologi definiscono dei "perché". Sono dei perché a cui di solito gli adulti non sanno rispondere o liquidano nel repertorio delle ingenuità. Ma non è così, perché a 4 anni, quindi con 2 anni d´anticipo sull´età scolare, i bambini s´aprono allo stupore del mondo e, come Aristotele insegna: «La filosofia nasce dalla meraviglia» e perciò pone domande e interrogativi.
A scuola si trasmette un sapere strutturato che non sempre corrisponde all´interrogazione che ha sollecitato la curiosità del bambino, per cui tra il sapere impartito e la domanda iniziale inevasa si produce quella distanza che genera disinteresse. Infatti non si può avere una vera partecipazione a risposte che evadono le domande con cui il bambino cerca di orientarsi nel mondo, chiedendo chi l´ha fatto, e perché è così malvagio, e che necessità c´è di morire, e perché non tutti i bambini sono bianchi, e non tutte le parole si capiscono.
Queste domande non sono ingenue, sono radicali; offrono pochi giri di parole alle risposte e vanno evase non con un discorso che dice: «Le cose stanno così», come di solito fanno i saperi che si impartiscono a scuola, ma con un discorso, come quello filosofico, che insinua il sospetto che potrebbero anche essere diversamente. Questo sospetto, che non sigilla la domanda in una risposta, ma la tiene aperta a un ventaglio di possibili risposte, tutte giustificate dalle rispettive argomentazioni, apre il campo alla pluralità delle opinioni, quindi alla tolleranza, quindi alla democrazia, figlia della tolleranza. Il sospetto, inoltre, consente alla mente di ospitare il dubbio, che evita il dogmatismo e dispone alla ricerca, che non è un corto circuito di domanda e risposta, come la televisione ogni sera diseducativamente insegna con i suoi quiz, ma è un saper stare nella domanda, finché una risposta non si presenta come plausibile e, nella sua provvisorietà, superabile.
La scuola insegna risposte, spesso a domande che non ci siamo mai poste, ma è la domanda e non la risposta il vero motore della ricerca e della costruzione del sapere. Amiche della domanda sono sia la curiosità infantile, sia la condotta filosofica. E se l´infanzia genera l´interrogazione nella sua radicalità, la filosofia insegna a mantenersi nell´interrogazione, per non seppellire il cervello tra le opinioni diffuse, che rispondono non tanto alle nostre domande, quanto al desiderio di evitare il più possibile la fatica del pensiero.
Quest´anno il Festival della filosofia di Modena promuove la filosofia tra i bambini, con l´intenzione non tanto di fornire risposte, quanto di insegnar loro l´atteggiamento filosofico, che è poi quello di non accontentarsi mai della risposta. Quando questo atteggiamento entrerà nelle nostre scuole? Se ciò non dovesse accadere dovremo dire che nelle nostre scuole, quando va bene, si impartisce solo istruzione, e non educazione della mente, con tutte le conseguenze disastrose in età adulta, come ogni giorno ci è dato constatate.
IL CASO
Perché è un errore non insegnare la filosofia fin dai primi anni della scuola elementare
Se i bimbi studiassero Platone
IL GIOCO DEI PERCHÉ INSEGNA A PENSARE
UMBERTO GALIMBERTI
PERCHÉ, oltre l´inglese, non si introduce anche la filosofia nelle scuole elementari? I bambini si pongono domande filosofiche intorno ai 4 anni, età che gli psicologi definiscono dei "perché". Sono dei perché a cui di solito gli adulti non sanno rispondere o liquidano nel repertorio delle ingenuità. Ma non è così, perché a 4 anni, quindi con 2 anni d´anticipo sull´età scolare, i bambini s´aprono allo stupore del mondo e, come Aristotele insegna: «La filosofia nasce dalla meraviglia» e perciò pone domande e interrogativi.
A scuola si trasmette un sapere strutturato che non sempre corrisponde all´interrogazione che ha sollecitato la curiosità del bambino, per cui tra il sapere impartito e la domanda iniziale inevasa si produce quella distanza che genera disinteresse. Infatti non si può avere una vera partecipazione a risposte che evadono le domande con cui il bambino cerca di orientarsi nel mondo, chiedendo chi l´ha fatto, e perché è così malvagio, e che necessità c´è di morire, e perché non tutti i bambini sono bianchi, e non tutte le parole si capiscono.
Queste domande non sono ingenue, sono radicali; offrono pochi giri di parole alle risposte e vanno evase non con un discorso che dice: «Le cose stanno così», come di solito fanno i saperi che si impartiscono a scuola, ma con un discorso, come quello filosofico, che insinua il sospetto che potrebbero anche essere diversamente. Questo sospetto, che non sigilla la domanda in una risposta, ma la tiene aperta a un ventaglio di possibili risposte, tutte giustificate dalle rispettive argomentazioni, apre il campo alla pluralità delle opinioni, quindi alla tolleranza, quindi alla democrazia, figlia della tolleranza. Il sospetto, inoltre, consente alla mente di ospitare il dubbio, che evita il dogmatismo e dispone alla ricerca, che non è un corto circuito di domanda e risposta, come la televisione ogni sera diseducativamente insegna con i suoi quiz, ma è un saper stare nella domanda, finché una risposta non si presenta come plausibile e, nella sua provvisorietà, superabile.
La scuola insegna risposte, spesso a domande che non ci siamo mai poste, ma è la domanda e non la risposta il vero motore della ricerca e della costruzione del sapere. Amiche della domanda sono sia la curiosità infantile, sia la condotta filosofica. E se l´infanzia genera l´interrogazione nella sua radicalità, la filosofia insegna a mantenersi nell´interrogazione, per non seppellire il cervello tra le opinioni diffuse, che rispondono non tanto alle nostre domande, quanto al desiderio di evitare il più possibile la fatica del pensiero.
Quest´anno il Festival della filosofia di Modena promuove la filosofia tra i bambini, con l´intenzione non tanto di fornire risposte, quanto di insegnar loro l´atteggiamento filosofico, che è poi quello di non accontentarsi mai della risposta. Quando questo atteggiamento entrerà nelle nostre scuole? Se ciò non dovesse accadere dovremo dire che nelle nostre scuole, quando va bene, si impartisce solo istruzione, e non educazione della mente, con tutte le conseguenze disastrose in età adulta, come ogni giorno ci è dato constatate.
a proposito di Venezia:
tutti parlano di Marco Bellocchio
questi sono solo alcuni esempi:
TG Com 14.9.04
Amelio: "Ha vinto un gran film"
Venezia, il regista spegne le polemiche
[...]Il regista, mentre a Genova presenta il film alla Festa Nazionale de l'Unità, riceve in continuazione aggiornamenti da parenti e amici sui "tutto esaurito" che il suo film sta registrando in diverse sale italiane. Dice Amelio: "Difficile dire già ora se andrà come l' anno scorso a Bellocchio con "Buongiorno Notte", ma i primi risultati sono incoraggianti. Certo neanche il pubblico, poi, è un arbitro assoluto: anche se adesso ci riempiamo tutti la bocca di Neorealismo quanto uscirono i film di Visconti, Rossellini e De Sica non ebbero il trionfo che meritavano".
Il Giornale di Vicenza 14.9.04
LE CHIAVI DI CASA
[...]
Il mancato riconoscimento a Gianni Amelio, con Le chiavi di casa , al Festival di Venezia appena concluso schiude le geremiadi. Si lamenta la vittoria mutilata (come l'anno scorso, vittima Bellocchio)
[...]
Panorama.it 14.9.04
DELUSIONE DA LEONE
[...]
Se Leigh era raggiante, Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema, conteneva diplomaticamente la delusione. E‚ il secondo anno che la casa di produzione si presenta al Lido con un film di grande qualità e torna a casa a bocca asciutta. L’anno scorso «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio, sul caso Moro; quest’anno «Le chiavi di casa» di Gianni Amelio
[...]
il nuovo libro di Gianrico Carofiglio
in vendita alla Libreria Amore e Psiche
Gazzetta del Sud 14.9.04
Suspense psicologica di Gianrico Carofiglio La verità si allontana e il mistero è più vicino
Giuseppe Amoroso
GIANRICO CAROFIGLIO Il passato è una terra straniera Rizzoli pagine 266 - euro 15,00
Siamo a Bari. Un giovane sta per affrontare una comune giornata quando la comparsa di una donna lo proietta in un «vortice», lontano, in un «posto misterioso, straniero». Condizionato da questa ipoteca di sgomento l'io narrante di Il passato è una terra straniera di Gianrico Carofiglio si appresta a reggere i fili di un thriller compatto, dinamico in ogni segmento, teso ma non misurato interamente sull'esigenza della sorpresa immediata, della svolta tanto intrigante quanto, talvolta, meccanica. Qui si punta con decisione sulla strategia dei tempi, delle azioni, del taglio dei personaggi: però si concede pure lo spazio opportuno alla scheda psicologica, al dettaglio imperioso e determinante, al supporto descrittivo utile al giusto funzionamento dell'intreccio. Non v'è, certo, la corsa al superfluo per impiantarvi un esercizio di stile. La prosa scarna, tutta oggetti e cose, si mostra come un meccanismo adottato per la sua funzionalità: duttile, al limite della relazione clinica, ma non grigia, banale. Semplicemente secca, sollecitata dal suo bisogno di comunicazione. L'ordine, con un'ombra di perplessità, guida lo sviluppo di un'avventura incentrata intorno al personaggio di Giorgio, ventiduenne studente di Giurisprudenza, di famiglia intellettuale, che, incontrato il quasi coetaneo Francesco, avverte subito la sensazione di «essere sul punto di attraversare una soglia». Animato da un senso un po' snobistico di tenersi discosto dalla società borghese opulenta alla quale appartiene la fidanzata Giulia, il giovane prova tuttavia anche un po' di curiosità per quel mondo diverso, e, insieme, una specie di invidia. Baro («La fortuna è un'entità mutevole. È elastica. Accetta di fare anche dei favoritismi, se sai come chiedere»), affascinante, Francesco vive un'esistenza disordinata, passando da un tavolo da gioco all'altro di una città ritratta tra splendori e miserie in una teoria di flash dagli stridenti contrasti: i paesaggi si alternano con l'analisi dei costumi, con le vistose crepe di una società affacciata sulla propria angosciosa degradazione. A volte «la crosta della finzione va in frantumi», rivelando debolezze e sconfitte e risentimenti. Coinvolto nel gioco da Francesco, Giorgio si imbatte in un campionario umano molto variegato, che finisce per condizionarlo riducendone le difese e ponendolo di fronte a un'immagine di se stesso stravolta, irriconoscibile, che può prendere una «specie di esultanza ottusa». È l'inizio di uno sdoppiamento, la scoperta di un nuovo modo di entrare nella realtà, nei suoi trucchi («I giochi di prestigio – o il barare alle carte – sono una metafora della realtà quotidiana, dei rapporti fra le persone») e anche del gelo della solitudine e della paura. Carico di noia e di vuoto, il giovane si sente come «programmato». È sopraffatto da eventi accelerati e ha l'impressione di essere vicino a un «punto di non ritorno». Diversa da ciò che ha dentro, ma secondo un'altra vicenda, è pure la figura che il tenente dei carabinieri Chiti vede guardandosi allo specchio: «Schegge, frammenti, vapori, lapilli incandescenti, ombre, bagliori. Urla improvvise. Abissi dove non si poteva nemmeno guardare». Segnato dalla malattia mentale della madre, morta suicida, introverso, amante della musica e della pittura, l'ufficiale ama disegnare a memoria le facce della gente innestandovi la sua inquietudine, i suoi turbamenti. Incaricato di scoprire il colpevole di una catena di stupri, avvia la caccia a un fantasma sfuggente, «un maledetto filo di fumo». Il suo profilo, costruito con un chiaroscuro di indubbia efficacia, si colloca in una posizione di rilievo e garantisce al corso della storia una spinta che finisce per accentrare l'interesse del lettore lungo un percorso di sottolineature stilistiche e scelte lessicali idonee a determinare il rialzo creativo della scrittura. In prevalenza portato alla nudità essenziale del racconto, Carofiglio enuclea, in una cadenza che diviene uno stilema, alcuni scarti espressivi, isole nelle quali il realismo di fondo si arroventa in stravolgimenti linguistici arditi, paragoni spiazzanti, sintesi fulminee. Si spalanca un territorio percosso da una fantasia affilata: appare una Valencia torrida, surreale, leggermente incantata; v'è la malinconia breve dell'estate che sta finendo; e una partenza, al mattino, significa «andare incontro alla gioia sconosciuta dell'universo». Qualcosa perfora la barriera uniforme della cronaca e fa scattare un indizio di perplessità. Una frase rimbalza letteralmente «come un oggetto fisico consistente»; un episodio di violenza è «il film di un pazzo, girato con una vecchia cinepresa superotto»; e «l'angoscia della pazzia ringhia con gli occhi arrossati e paurosi del mastino dei Baskerville». Racconto amaro sulla manipolazione e sul senso della fine che aggredisce l'esistenza, il libro di Carofiglio vuole mettere a nudo le ipocrisie, gli inganni, l'imprevedibilità del destino, l' «ottusa brutalità del caso». E si affida a un arpeggio di ambienti e di personaggi, di sconcertanti enigmi dell'inconscio e di anestesia dell'anima. Sonda l'immenso serbatoio dei ricordi, ora con fotogrammi/nitidi, ora con sbiadite emersioni di echi. Un giallo che elegge la suspense non tanto come strumento di seduzione narrativa, quanto di cattura dei più reconditi impulsi interiori. Verità svelate si allontanano, mentre i misteri più fitti sembrano, a un tratto, a portata di mano.
Suspense psicologica di Gianrico Carofiglio La verità si allontana e il mistero è più vicino
Giuseppe Amoroso
GIANRICO CAROFIGLIO Il passato è una terra straniera Rizzoli pagine 266 - euro 15,00
Siamo a Bari. Un giovane sta per affrontare una comune giornata quando la comparsa di una donna lo proietta in un «vortice», lontano, in un «posto misterioso, straniero». Condizionato da questa ipoteca di sgomento l'io narrante di Il passato è una terra straniera di Gianrico Carofiglio si appresta a reggere i fili di un thriller compatto, dinamico in ogni segmento, teso ma non misurato interamente sull'esigenza della sorpresa immediata, della svolta tanto intrigante quanto, talvolta, meccanica. Qui si punta con decisione sulla strategia dei tempi, delle azioni, del taglio dei personaggi: però si concede pure lo spazio opportuno alla scheda psicologica, al dettaglio imperioso e determinante, al supporto descrittivo utile al giusto funzionamento dell'intreccio. Non v'è, certo, la corsa al superfluo per impiantarvi un esercizio di stile. La prosa scarna, tutta oggetti e cose, si mostra come un meccanismo adottato per la sua funzionalità: duttile, al limite della relazione clinica, ma non grigia, banale. Semplicemente secca, sollecitata dal suo bisogno di comunicazione. L'ordine, con un'ombra di perplessità, guida lo sviluppo di un'avventura incentrata intorno al personaggio di Giorgio, ventiduenne studente di Giurisprudenza, di famiglia intellettuale, che, incontrato il quasi coetaneo Francesco, avverte subito la sensazione di «essere sul punto di attraversare una soglia». Animato da un senso un po' snobistico di tenersi discosto dalla società borghese opulenta alla quale appartiene la fidanzata Giulia, il giovane prova tuttavia anche un po' di curiosità per quel mondo diverso, e, insieme, una specie di invidia. Baro («La fortuna è un'entità mutevole. È elastica. Accetta di fare anche dei favoritismi, se sai come chiedere»), affascinante, Francesco vive un'esistenza disordinata, passando da un tavolo da gioco all'altro di una città ritratta tra splendori e miserie in una teoria di flash dagli stridenti contrasti: i paesaggi si alternano con l'analisi dei costumi, con le vistose crepe di una società affacciata sulla propria angosciosa degradazione. A volte «la crosta della finzione va in frantumi», rivelando debolezze e sconfitte e risentimenti. Coinvolto nel gioco da Francesco, Giorgio si imbatte in un campionario umano molto variegato, che finisce per condizionarlo riducendone le difese e ponendolo di fronte a un'immagine di se stesso stravolta, irriconoscibile, che può prendere una «specie di esultanza ottusa». È l'inizio di uno sdoppiamento, la scoperta di un nuovo modo di entrare nella realtà, nei suoi trucchi («I giochi di prestigio – o il barare alle carte – sono una metafora della realtà quotidiana, dei rapporti fra le persone») e anche del gelo della solitudine e della paura. Carico di noia e di vuoto, il giovane si sente come «programmato». È sopraffatto da eventi accelerati e ha l'impressione di essere vicino a un «punto di non ritorno». Diversa da ciò che ha dentro, ma secondo un'altra vicenda, è pure la figura che il tenente dei carabinieri Chiti vede guardandosi allo specchio: «Schegge, frammenti, vapori, lapilli incandescenti, ombre, bagliori. Urla improvvise. Abissi dove non si poteva nemmeno guardare». Segnato dalla malattia mentale della madre, morta suicida, introverso, amante della musica e della pittura, l'ufficiale ama disegnare a memoria le facce della gente innestandovi la sua inquietudine, i suoi turbamenti. Incaricato di scoprire il colpevole di una catena di stupri, avvia la caccia a un fantasma sfuggente, «un maledetto filo di fumo». Il suo profilo, costruito con un chiaroscuro di indubbia efficacia, si colloca in una posizione di rilievo e garantisce al corso della storia una spinta che finisce per accentrare l'interesse del lettore lungo un percorso di sottolineature stilistiche e scelte lessicali idonee a determinare il rialzo creativo della scrittura. In prevalenza portato alla nudità essenziale del racconto, Carofiglio enuclea, in una cadenza che diviene uno stilema, alcuni scarti espressivi, isole nelle quali il realismo di fondo si arroventa in stravolgimenti linguistici arditi, paragoni spiazzanti, sintesi fulminee. Si spalanca un territorio percosso da una fantasia affilata: appare una Valencia torrida, surreale, leggermente incantata; v'è la malinconia breve dell'estate che sta finendo; e una partenza, al mattino, significa «andare incontro alla gioia sconosciuta dell'universo». Qualcosa perfora la barriera uniforme della cronaca e fa scattare un indizio di perplessità. Una frase rimbalza letteralmente «come un oggetto fisico consistente»; un episodio di violenza è «il film di un pazzo, girato con una vecchia cinepresa superotto»; e «l'angoscia della pazzia ringhia con gli occhi arrossati e paurosi del mastino dei Baskerville». Racconto amaro sulla manipolazione e sul senso della fine che aggredisce l'esistenza, il libro di Carofiglio vuole mettere a nudo le ipocrisie, gli inganni, l'imprevedibilità del destino, l' «ottusa brutalità del caso». E si affida a un arpeggio di ambienti e di personaggi, di sconcertanti enigmi dell'inconscio e di anestesia dell'anima. Sonda l'immenso serbatoio dei ricordi, ora con fotogrammi/nitidi, ora con sbiadite emersioni di echi. Un giallo che elegge la suspense non tanto come strumento di seduzione narrativa, quanto di cattura dei più reconditi impulsi interiori. Verità svelate si allontanano, mentre i misteri più fitti sembrano, a un tratto, a portata di mano.
madri assassine
Repubblica, edizione di Bologna 14.9.04
Un libro ispirato dai dibattiti tv sulla morte del piccolo Samuele
Grazia Verasani, l'autrice, ha fatto ricerche negli archivi dei manicomi
La tragedia di quattro madri tra Medea e il delitto di Cogne
Esce la pièce dell´omonimo spettacolo teatrale che raccoglie monologhi su un dramma eterno
AMELIA ESPOSITO
Quattro donne in una stanza, all´interno di un carcere psichiatrico giudiziario. Marga, Vincenza, Rina ed Eloisa - età e vissuti diversi -, fanno i conti con la loro comune, terribile colpa: l´assassinio del proprio figlio. L´infanticidio, il più inquietante e oscuro dei delitti. Queste donne sono le protagoniste dell´ultimo libro di Grazia Verasani, quarantenne scrittrice bolognese, già autrice di tre romanzi, una raccolta di racconti e diverse sceneggiature.
Grazia Verasani ha scelto di misurarsi con questo delicatissimo tema in seguito al delitto di Cogne. Ha sentito la necessità di affrontarlo nella sua complessità, nel tentativo di superare le letture semplicistiche fatte sull´onda emotiva del momento. Da questo bisogno, e da un intenso lavoro di documentazione, è nata una piece teatrale, ?From Medea´, dal nome del personaggio della tragedia classica, madre infanticida per antonomasia. La pièce, pubblicata da Sironi Editore, uscirà nelle librerie il 23 settembre.
Molti lettori potrebbero restare spiazzati da questo libro. Sorpresi da come si possa provare empatia e persino tenerezza per queste madri assassine. La stessa reazione che ha suscitato "From Medea" quando è andato in scena, a Roma, nell´autunno del 2002, per la regia di Pietro Bontempo. «Calandosi nelle vite dolorose o estremamente grigie delle protagoniste non si può non sentire per loro pietà», spiega l´autrice. Una pietà laica per Grazia Verasani, quella che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si inizia a cercare di comprendere. In effetti, in "From Medea" non c´è traccia di giudizio nei confronti delle quattro donne, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C´è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dal luogo dove stanno scontando la pena e, contemporaneamente, cercando di «curarsi» con il supporto di psichiatri.
«Conoscere la storia pregressa delle infanticide - prosegue l´autrice - aiuta a capire come l´istinto materno non sia obbligatorio, come la maternità sia qualcosa di estremamente complesso e come la depressione post partum, se non compresa, possa sfociare anche nell´assassinio del proprio figlio, che, poi, altro non è che un suicidio». Durante la stesura del libro la scrittrice bolognese si è ampiamente documentata su depressione post partum e maternity blues, sindromi legate alla maternità studiate soprattutto negli Stati Uniti, dove i casi di infanticidio sono numerosi. «Ho letto molti libri e saggi - spiega - e mi è stato molto utile il supporto di un amico psichiatra che si occupa di questi temi. Poi, naturalmente ho letto centinaia di articoli di giornale e visto i programmi televisivi nei quali andavano in scena i casi di infanticidio». Come il caso Franzoni: «Mi hanno indignato la facilità di giudizio e le valutazioni approssimative di tutti, colpevolisti e innocentisti. Mi ha colpito come l´attenzione non fosse rivolta al bambino o agli altri bimbi che, se Annamaria Franzoni è davvero colpevole, devono essere protetti, quanto piuttosto alla ricerca del "mostro". Alla sua individuazione attraverso primi piani ed espressioni del viso».
«Ma la mente umana è un pozzo profondo», dice la scrittrice. Spesso insondabile. Figuriamoci con una telecamera. La depressione post partum esiste. Sta lì, minacciosa. Lo dimostra una vasta letteratura in materia. Lo dimostrano le storie vere delle donne detenute nel carcere psichiatrico giudiziario di Castiglione dello Stiviere, nel mantovano, e le storie immaginate di Marga, Vincenza, Rina ed Eloisa. Allora meglio guardarla in faccia. Pensare che si può provare a fare almeno un piccolo sforzo di comprensione.
Un libro ispirato dai dibattiti tv sulla morte del piccolo Samuele
Grazia Verasani, l'autrice, ha fatto ricerche negli archivi dei manicomi
La tragedia di quattro madri tra Medea e il delitto di Cogne
Esce la pièce dell´omonimo spettacolo teatrale che raccoglie monologhi su un dramma eterno
AMELIA ESPOSITO
Quattro donne in una stanza, all´interno di un carcere psichiatrico giudiziario. Marga, Vincenza, Rina ed Eloisa - età e vissuti diversi -, fanno i conti con la loro comune, terribile colpa: l´assassinio del proprio figlio. L´infanticidio, il più inquietante e oscuro dei delitti. Queste donne sono le protagoniste dell´ultimo libro di Grazia Verasani, quarantenne scrittrice bolognese, già autrice di tre romanzi, una raccolta di racconti e diverse sceneggiature.
Grazia Verasani ha scelto di misurarsi con questo delicatissimo tema in seguito al delitto di Cogne. Ha sentito la necessità di affrontarlo nella sua complessità, nel tentativo di superare le letture semplicistiche fatte sull´onda emotiva del momento. Da questo bisogno, e da un intenso lavoro di documentazione, è nata una piece teatrale, ?From Medea´, dal nome del personaggio della tragedia classica, madre infanticida per antonomasia. La pièce, pubblicata da Sironi Editore, uscirà nelle librerie il 23 settembre.
Molti lettori potrebbero restare spiazzati da questo libro. Sorpresi da come si possa provare empatia e persino tenerezza per queste madri assassine. La stessa reazione che ha suscitato "From Medea" quando è andato in scena, a Roma, nell´autunno del 2002, per la regia di Pietro Bontempo. «Calandosi nelle vite dolorose o estremamente grigie delle protagoniste non si può non sentire per loro pietà», spiega l´autrice. Una pietà laica per Grazia Verasani, quella che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si inizia a cercare di comprendere. In effetti, in "From Medea" non c´è traccia di giudizio nei confronti delle quattro donne, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C´è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dal luogo dove stanno scontando la pena e, contemporaneamente, cercando di «curarsi» con il supporto di psichiatri.
«Conoscere la storia pregressa delle infanticide - prosegue l´autrice - aiuta a capire come l´istinto materno non sia obbligatorio, come la maternità sia qualcosa di estremamente complesso e come la depressione post partum, se non compresa, possa sfociare anche nell´assassinio del proprio figlio, che, poi, altro non è che un suicidio». Durante la stesura del libro la scrittrice bolognese si è ampiamente documentata su depressione post partum e maternity blues, sindromi legate alla maternità studiate soprattutto negli Stati Uniti, dove i casi di infanticidio sono numerosi. «Ho letto molti libri e saggi - spiega - e mi è stato molto utile il supporto di un amico psichiatra che si occupa di questi temi. Poi, naturalmente ho letto centinaia di articoli di giornale e visto i programmi televisivi nei quali andavano in scena i casi di infanticidio». Come il caso Franzoni: «Mi hanno indignato la facilità di giudizio e le valutazioni approssimative di tutti, colpevolisti e innocentisti. Mi ha colpito come l´attenzione non fosse rivolta al bambino o agli altri bimbi che, se Annamaria Franzoni è davvero colpevole, devono essere protetti, quanto piuttosto alla ricerca del "mostro". Alla sua individuazione attraverso primi piani ed espressioni del viso».
«Ma la mente umana è un pozzo profondo», dice la scrittrice. Spesso insondabile. Figuriamoci con una telecamera. La depressione post partum esiste. Sta lì, minacciosa. Lo dimostra una vasta letteratura in materia. Lo dimostrano le storie vere delle donne detenute nel carcere psichiatrico giudiziario di Castiglione dello Stiviere, nel mantovano, e le storie immaginate di Marga, Vincenza, Rina ed Eloisa. Allora meglio guardarla in faccia. Pensare che si può provare a fare almeno un piccolo sforzo di comprensione.
uno studio USA:
la guerra produce anche malattie mentali tra gli aggressori
tempomedico.it 14 settembre 2004
Il conflitto pesa sulla salute mentale
Disturbi psichiatrici in aumento tra i militari delle ultime missioni
di Raffaella Daghini - Tempo Medico n. 782
La guerra ha un costo che va oltre quello calcolato in vite perse o in numero di feriti. Le conseguenze sulla salute mentale di chi ha preso parte ai combattimenti e ha visto morire i propri compagni si fanno sentire anche a distanza di decine di anni, come dimostrato dagli studi condotti a metà degli anni ottanta sui veterani della guerra in Vietnam. Per la prima volta, però, uno studio ha analizzato l'incidenza di alcuni disturbi mentali sui soldati statunitensi di ritorno dalle missioni in Afghanistan e in Iraq, dove la guerra è ancora in corso.
La ricerca, condotta da un gruppo di studiosi del Walter Reed Army Institute of Research guidato da Charles W. Hoge, presenta diversi aspetti di assoluta novità rispetto a studi analoghi compiuti, per esempio, dopo i conflitti in Vietnam e la guerra del Golfo. Prima di tutto, appunto, la coincidenza dello studio con il protrarsi del conflitto; poi, la disponibilità di dati ottenuti da indagini condotte sui soldati prima della loro partenza. Infine è stata compiuta anche un'analisi dell'atteggiamento dei soldati nei confronti delle cure psichiatriche, che ha messo in luce una diffusa resistenza a sottoporsi ai necessari trattamenti, anche quando c'è la consapevolezza della presenza di un disturbo.
I risultati, ottenuti attraverso un'indagine anonima, suggeriscono un legame tra l'effettiva attività sul campo e l'incidenza dei disturbi mentali. "Solo il 31 per cento dei soldati impiegati in Afghanistan è stato coinvolto in scontri a fuoco" dice Hoge. "Per i militari della missione in Iraq questa percentuale sale al 71 per cento, e all'86 per i marines. E proprio i militari impegnati in Iraq presentano disturbi mentali in percentuali più elevate". Aumenta la prevalenza della depressione, dell'ansia, dell'abuso di alcol, ma soprattutto del disordine da stress post traumatico (PTSD), che cresce del 15,6 per cento tra i militari di fanteria e del 17,1 per cento tra i marines rispetto ai dati relativi al periodo pre bellico. Per i soldati di ritorno dall'Afghanistan, invece, la crescita dell'incidenza dei disturbi mentali considerati è dell'11,2 per cento.
Numeri preoccupanti, soprattutto se si considerano alla luce delle reazioni dei soldati. "Tra i militari che presentano un disturbo mentale" sottolinea Hoge "solo una parte compresa tra il 38 e il 45 per cento dimostra interesse a ricevere aiuto". Le motivazioni sono legate alla percezione, da parte dei militari ancora in attività, di un possibile giudizio da parte dei commilitoni. " Queste persone sono i grado di riconoscere i propri disturbi" spiega Matthew J. Friedman del National Center for PTSD del Department of Veterans Affairs. "Ma nel sottoporsi alla cura c'è la paura di rovinare la propria carriera, di trovarsi in difficoltà con i pari grado e i superiori, e di dare l'impressione di essere deboli".
I dati sono in accordo con una tendenza generale presente nel mondo militare, e già messa in evidenza anche in situazioni esterne ai conflitti, che porta solo il 19 per cento del personale attivo a ricercare la cura per i disturbi mentali; tra i civili questa percentuale sale al 28,5 per cento. E la situazione è particolarmente seria per quanto riguarda il disordine da stress post traumatico, perché proprio questo disturbo risulta il meno curato: solo il 4,1 per cento dei soldati affetti da PTSD si sottopone alle cure necessarie.
Le contromisure per arginare i possibili effetti di questo atteggiamento devono essere previste all'interno di politiche sanitarie che tengano conto di quanto si sa oggi del disordine da stress post traumatico. Dopo che si è manifestato, infatti, la sua persistenza è legata alle condizioni in cui la persona affetta si trova in quel momento, alla presenza di un sostegno emotivo e sociale, al periodo che sta vivendo. "L'imbarazzo dei militari nel ricorrere alle cure" sostengono Hoge e i colleghi autori dello studio "potrebbe essere ridotto potenziando il sostegno alla salute mentale nei centri di prima assistenza e mettendo a disposizione consulenze confidenziali". Misure auspicabili ma che, per quanto riguarda l'ultima ipotesi, si scontrano con le scarsa fiducia che il personale militare ripone nella possibilità che riservatezza venga mantenuta.
La validità dei risultati ottenuti in uno studio così tempestivo dovrà comunque essere valutata nel tempo, e per ora non è possibile prevedere se i casi di disordine da stress post traumatico crescerà nei prossimi anni. Gli studi sui veterani di precedenti conflitti mostrano infatti una tendenza all'aumento dell'incidenza della malattia nei due anni immediatamente successivi al ritorno. Inoltre, come già mostrato dagli studi compiuti sui militari di ritorno dalla missione in Somalia, una crescita dei casi di disturbi mentali può manifestarsi quando il conflitto cambia le sue caratteristiche, svestendo i panni dell'intervento di liberazione per assumere quelli di un vero e proprio scontro armato. Una certa cautela, quindi, è necessaria per valutare i dati raccolti perché, come sostiene Friedman: "potrebbe essere troppo presto per determinare la reale portata degli effetti sulla salute mentale dei soldati di queste missioni".
Fonte: New Engl.J.Med. 2004; 351:13 e 75
Il conflitto pesa sulla salute mentale
Disturbi psichiatrici in aumento tra i militari delle ultime missioni
di Raffaella Daghini - Tempo Medico n. 782
La guerra ha un costo che va oltre quello calcolato in vite perse o in numero di feriti. Le conseguenze sulla salute mentale di chi ha preso parte ai combattimenti e ha visto morire i propri compagni si fanno sentire anche a distanza di decine di anni, come dimostrato dagli studi condotti a metà degli anni ottanta sui veterani della guerra in Vietnam. Per la prima volta, però, uno studio ha analizzato l'incidenza di alcuni disturbi mentali sui soldati statunitensi di ritorno dalle missioni in Afghanistan e in Iraq, dove la guerra è ancora in corso.
La ricerca, condotta da un gruppo di studiosi del Walter Reed Army Institute of Research guidato da Charles W. Hoge, presenta diversi aspetti di assoluta novità rispetto a studi analoghi compiuti, per esempio, dopo i conflitti in Vietnam e la guerra del Golfo. Prima di tutto, appunto, la coincidenza dello studio con il protrarsi del conflitto; poi, la disponibilità di dati ottenuti da indagini condotte sui soldati prima della loro partenza. Infine è stata compiuta anche un'analisi dell'atteggiamento dei soldati nei confronti delle cure psichiatriche, che ha messo in luce una diffusa resistenza a sottoporsi ai necessari trattamenti, anche quando c'è la consapevolezza della presenza di un disturbo.
I risultati, ottenuti attraverso un'indagine anonima, suggeriscono un legame tra l'effettiva attività sul campo e l'incidenza dei disturbi mentali. "Solo il 31 per cento dei soldati impiegati in Afghanistan è stato coinvolto in scontri a fuoco" dice Hoge. "Per i militari della missione in Iraq questa percentuale sale al 71 per cento, e all'86 per i marines. E proprio i militari impegnati in Iraq presentano disturbi mentali in percentuali più elevate". Aumenta la prevalenza della depressione, dell'ansia, dell'abuso di alcol, ma soprattutto del disordine da stress post traumatico (PTSD), che cresce del 15,6 per cento tra i militari di fanteria e del 17,1 per cento tra i marines rispetto ai dati relativi al periodo pre bellico. Per i soldati di ritorno dall'Afghanistan, invece, la crescita dell'incidenza dei disturbi mentali considerati è dell'11,2 per cento.
Numeri preoccupanti, soprattutto se si considerano alla luce delle reazioni dei soldati. "Tra i militari che presentano un disturbo mentale" sottolinea Hoge "solo una parte compresa tra il 38 e il 45 per cento dimostra interesse a ricevere aiuto". Le motivazioni sono legate alla percezione, da parte dei militari ancora in attività, di un possibile giudizio da parte dei commilitoni. " Queste persone sono i grado di riconoscere i propri disturbi" spiega Matthew J. Friedman del National Center for PTSD del Department of Veterans Affairs. "Ma nel sottoporsi alla cura c'è la paura di rovinare la propria carriera, di trovarsi in difficoltà con i pari grado e i superiori, e di dare l'impressione di essere deboli".
I dati sono in accordo con una tendenza generale presente nel mondo militare, e già messa in evidenza anche in situazioni esterne ai conflitti, che porta solo il 19 per cento del personale attivo a ricercare la cura per i disturbi mentali; tra i civili questa percentuale sale al 28,5 per cento. E la situazione è particolarmente seria per quanto riguarda il disordine da stress post traumatico, perché proprio questo disturbo risulta il meno curato: solo il 4,1 per cento dei soldati affetti da PTSD si sottopone alle cure necessarie.
Le contromisure per arginare i possibili effetti di questo atteggiamento devono essere previste all'interno di politiche sanitarie che tengano conto di quanto si sa oggi del disordine da stress post traumatico. Dopo che si è manifestato, infatti, la sua persistenza è legata alle condizioni in cui la persona affetta si trova in quel momento, alla presenza di un sostegno emotivo e sociale, al periodo che sta vivendo. "L'imbarazzo dei militari nel ricorrere alle cure" sostengono Hoge e i colleghi autori dello studio "potrebbe essere ridotto potenziando il sostegno alla salute mentale nei centri di prima assistenza e mettendo a disposizione consulenze confidenziali". Misure auspicabili ma che, per quanto riguarda l'ultima ipotesi, si scontrano con le scarsa fiducia che il personale militare ripone nella possibilità che riservatezza venga mantenuta.
La validità dei risultati ottenuti in uno studio così tempestivo dovrà comunque essere valutata nel tempo, e per ora non è possibile prevedere se i casi di disordine da stress post traumatico crescerà nei prossimi anni. Gli studi sui veterani di precedenti conflitti mostrano infatti una tendenza all'aumento dell'incidenza della malattia nei due anni immediatamente successivi al ritorno. Inoltre, come già mostrato dagli studi compiuti sui militari di ritorno dalla missione in Somalia, una crescita dei casi di disturbi mentali può manifestarsi quando il conflitto cambia le sue caratteristiche, svestendo i panni dell'intervento di liberazione per assumere quelli di un vero e proprio scontro armato. Una certa cautela, quindi, è necessaria per valutare i dati raccolti perché, come sostiene Friedman: "potrebbe essere troppo presto per determinare la reale portata degli effetti sulla salute mentale dei soldati di queste missioni".
Fonte: New Engl.J.Med. 2004; 351:13 e 75
American Journal of Psychiatry
11 settembre e psicofarmaci
Yahoo! Salute - lunedì 13 settembre 2004
Pochi psicofarmaci per la paura dell'11 settembre
Il Pensiero Scientifico Editore
Elena Chiodi
Negli Stati Uniti tra le conseguenze dell’attacco terroristico dell’11 settembre non andrebbe incluso l’aumento del consumo di farmaci psicotropici. Secondo i risultati di uno studio recentemente pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, soltanto a New York City nella ristretta categoria di persone già in cura per disturbi mentali è stato riscontrato un aumento modesto, per quanto statisticamente significativo del consumo di questi farmaci.
Nelle settimane immediatamente successive all’attacco terroristico dell’11 settembre, alcuni studi nazionali avevano riscontrato alti livelli di stress e stati d’ansia; in particolare tra gli abitanti di New York City erano stati registrati molti casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD), depressione e un aumento del consumo di sostanze. In base a queste prime valutazioni erano stati previsti più di 500.000 casi di PTSD nella sola area di New York City, suscitando forti preoccupazioni per la salute mentale dell’intera nazione e per il sistema sanitario nazionale.
Per avere un riscontro effettivo su come gli Americani hanno reagito all’attacco terroristico nelle settimane successive all’11 settembre, i due autori dello studio hanno voluto verificare e valutare i cambiamenti nel consumo dei farmaci psicotropici.
I ricercatori hanno analizzato le informazioni relative al consumo di antidepressivi, antipsicotici, ansiolitici e farmaci ipnotici nelle 12 settimane precedenti e successive l’11 settembre 2001 e le hanno confrontate con quelle relative alle stesse settimane dell’anno precedente. A livello nazionale e nella città di Washington non è stato riscontrato un aumento né di nuove prescrizioni, né delle dosi giornaliere di farmaci psicotropici. Soltanto in New York City tra le persone già in cura è stato riscontrato un aumento statisticamente rilevante nel consumo di farmaci psicotropici nelle settimane successive all’attacco (dal 13,6 per cento del 2000 al 16 per cento del 2001), ma non un aumento rilevante nella percentuale delle prescrizioni di nuovi farmaci.
Sebbene i risultati ottenuti abbiano smentito la paura di un massiccio ricorso a terapie psicotropiche nelle settimane successive all’11 settembre, secondo gli autori il mancato aumento di consumi farmacologici non sarebbe dipeso da una reale mancanza di disturbi quanto da altri fattori. Molte persone per le quali sarebbe stato necessario un intervento farmacologico infatti potrebbero non aver avuto accesso alle cure sanitarie per lo stigma, per la mancanza di una assicurazione sanitaria o semplicemente per il caos in cui ha vissuto l’America in quelle settimane. Molte altre, pur presentando specifiche sintomatologie, potrebbero non aver riconosciuto la necessità di una terapia farmacologica per i loro disturbi, considerandoli una normale reazione all’accaduto. Infine mancano i dati di tutti quelli che si sono rivolti alle organizzazioni religiose, amici e familiari.
Bibliografia. Druss BG, Marcus SC. Use of psychotropic medications before and after Sept. 11, 2001. Am J Psychiatry, 2004; 161(8): 1377-83.
Pochi psicofarmaci per la paura dell'11 settembre
Il Pensiero Scientifico Editore
Elena Chiodi
Negli Stati Uniti tra le conseguenze dell’attacco terroristico dell’11 settembre non andrebbe incluso l’aumento del consumo di farmaci psicotropici. Secondo i risultati di uno studio recentemente pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, soltanto a New York City nella ristretta categoria di persone già in cura per disturbi mentali è stato riscontrato un aumento modesto, per quanto statisticamente significativo del consumo di questi farmaci.
Nelle settimane immediatamente successive all’attacco terroristico dell’11 settembre, alcuni studi nazionali avevano riscontrato alti livelli di stress e stati d’ansia; in particolare tra gli abitanti di New York City erano stati registrati molti casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD), depressione e un aumento del consumo di sostanze. In base a queste prime valutazioni erano stati previsti più di 500.000 casi di PTSD nella sola area di New York City, suscitando forti preoccupazioni per la salute mentale dell’intera nazione e per il sistema sanitario nazionale.
Per avere un riscontro effettivo su come gli Americani hanno reagito all’attacco terroristico nelle settimane successive all’11 settembre, i due autori dello studio hanno voluto verificare e valutare i cambiamenti nel consumo dei farmaci psicotropici.
I ricercatori hanno analizzato le informazioni relative al consumo di antidepressivi, antipsicotici, ansiolitici e farmaci ipnotici nelle 12 settimane precedenti e successive l’11 settembre 2001 e le hanno confrontate con quelle relative alle stesse settimane dell’anno precedente. A livello nazionale e nella città di Washington non è stato riscontrato un aumento né di nuove prescrizioni, né delle dosi giornaliere di farmaci psicotropici. Soltanto in New York City tra le persone già in cura è stato riscontrato un aumento statisticamente rilevante nel consumo di farmaci psicotropici nelle settimane successive all’attacco (dal 13,6 per cento del 2000 al 16 per cento del 2001), ma non un aumento rilevante nella percentuale delle prescrizioni di nuovi farmaci.
Sebbene i risultati ottenuti abbiano smentito la paura di un massiccio ricorso a terapie psicotropiche nelle settimane successive all’11 settembre, secondo gli autori il mancato aumento di consumi farmacologici non sarebbe dipeso da una reale mancanza di disturbi quanto da altri fattori. Molte persone per le quali sarebbe stato necessario un intervento farmacologico infatti potrebbero non aver avuto accesso alle cure sanitarie per lo stigma, per la mancanza di una assicurazione sanitaria o semplicemente per il caos in cui ha vissuto l’America in quelle settimane. Molte altre, pur presentando specifiche sintomatologie, potrebbero non aver riconosciuto la necessità di una terapia farmacologica per i loro disturbi, considerandoli una normale reazione all’accaduto. Infine mancano i dati di tutti quelli che si sono rivolti alle organizzazioni religiose, amici e familiari.
Bibliografia. Druss BG, Marcus SC. Use of psychotropic medications before and after Sept. 11, 2001. Am J Psychiatry, 2004; 161(8): 1377-83.
dal mondo tolemaico:
il maternage cattolico del basaglismo
La gazzetta del mezzogiorno 13 settembre 2004
Dalla cultura di Cesare Lombroso alla chiusura delle strutture manicomiali, se ne è discusso a Metaponto
Il messaggio, la testimonianza
Sofferenza mentale, Basaglia indicò a tutti la via della dignità
Pino Gallo
MATERA Un malato di mente non ha bisogno di un letto di ospedale, bensì dell'affetto e della comprensione di quanti lo circondano e lo sostengono ed egli stesso deve rimanere inserito tra i suoi affetti, tra i suoi amici, nella città dove è nato, fra quanti lo hanno aiutato a crescere e gli hanno trasmesso la prima cultura. Ciò riveste un ruolo assolutamente prioritario perché il malato mentale possa continuare a crescere e nel suo cammino di difficoltà e di sofferenza.
È quanto è emerso dalla tavola rotonda organizzata dalla dott.ssa Rossa Cimino, responsabile della Biblioteca comunale di Metaponto, cui hanno partecipato il dr. Edoardo De Ruggeri, psichiatra, il dr. Paolo Tranchino, psicanalista ed il dr. Rocco Canosa, presidente nazionale di Psichiatria democratica.
Un richiamo forte e chiaro al grande messaggio di Franco Basaglia, che per primo nel 1978, con la legge n.180 che porta il suo nome, restituì alla vita di relazione ed alla libertà un esercito di 110 mila internati, che per molti aspetti vivevano chiusi e segregati come le vittime dei campi di sterminio nazisti. Era impensabile, allora, che i manicomi potessero essere superati ed ancora oggi questo concetto resta l'unico esempio in un'Europa che mostra paura della diversità e della malattia mentale nel suo specifico.
«Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi - scriveva lo stesso Basaglia - magari più chiusi di prima. Io non lo so. In ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo. È la testimonianza è fondamentale».
Si trattava di un approccio semplice e banale e perciò stesso rivoluzionario per la società degli anni '60, ancora fortemente gerarchizzata e piramidale, ma che stava vivendo le sue prime mutazioni con le richieste di aperture politico-istituzionali fortemente avanzate dalle contestazioni studentesche ed operaie del movimento sessantottino.
In questo clima nasceva la costruzione di un'altra idea terapeutica, di un nuovo e più semplice concetto di salute e di malattia, di una diversa trama di rapporti, di accettazioni sociali, di convivenze possibili in strutture concrete di vita quotidiana, più vicine alla casa che all'ospedale.
«Prima della legge Basaglia del 1978 - ha ribadito De Ruggeri, responsabile dei centri diurni del dipartimento di salute mentale dell'Asl di Matera - una cultura lombrosiana, insieme ad una diffusa e consolidata letteratura medica trattava regolarmente i malati mentali con elettrochoc e segregazioni manicomiali, che dovevano allontanare e nascondere alla città il volto di quanti vivevano nel dolore e nella sofferenza. Basaglia, invece, ha fatto riprendere alla città quanto le apparteneva e soprattutto quanto doveva continuare ad appartenerle per poter esercitare la sua insostituibile terapia di recupero e di osmosi affettiva».
«Infatti in manicomio il malato, privato e depredato dei suoi affetti e delle sue cose più care, non poteva essere curato e così regrediva progressivamente in una quotidianità del tutto anomala e perversa - ha precisato Paolo Tranchino, psicanalista e direttore di una rivista specialistica. Questo è banale, ma è così. E noi andiamo avanti sulla strada tracciata da Basaglia e sul concetto che tutte le persone cosiddette normali, non solo i malati mentali, stanno meglio a casa che in manicomio o in una qualsiasi altra comunità». «E poi - ha continuato Tranchino - ciò che conta ancora per questi come per tutti gli esseri umani è che intorno a loro ci sia sempre qualcuno che ascolti. Più semplicemente che ci sia, sia presente, che si ponga come un sicuro punto di riferimento e di sostegno in ogni momento della giornata».
«Attenti, però, a non scadere nel paternalismo - ha avvertito Rocco Canosa, Presidente nazionale di psichiatria democratica - e soprattutto facciamo in modo che la città entri nei centri diurni e che gli ospiti dei centri vivano la città, altrimenti sono guai: il rischio è una nuova istituzionalizzazione, una nuova cronicità, una diversa ghettizzazione, che addirittura giustifica la propria esistenza andando a caccia del diverso».
Un approccio, dunque, non più ed esclusivamente di tipo medico-terapeutico, ma di tipo societario, in cui la comunità non può non continuare ad esercitare il suo insostituibile ed insopprimibile ruolo di sostegno psico-fisico ed affettivo, con tutta la sua smisurata ricchezza di rapporti sociali e culturali. Ciò che emerge, infatti, nel disagio mentale è soltanto una punta dell'iceberg, che non può essere appannaggio esclusivo e solipsistico della psichiatria ufficiale fatta di psico-terapie, psicofarmaci e centri diurni permanenti.
Dalla cultura di Cesare Lombroso alla chiusura delle strutture manicomiali, se ne è discusso a Metaponto
Il messaggio, la testimonianza
Sofferenza mentale, Basaglia indicò a tutti la via della dignità
Pino Gallo
MATERA Un malato di mente non ha bisogno di un letto di ospedale, bensì dell'affetto e della comprensione di quanti lo circondano e lo sostengono ed egli stesso deve rimanere inserito tra i suoi affetti, tra i suoi amici, nella città dove è nato, fra quanti lo hanno aiutato a crescere e gli hanno trasmesso la prima cultura. Ciò riveste un ruolo assolutamente prioritario perché il malato mentale possa continuare a crescere e nel suo cammino di difficoltà e di sofferenza.
È quanto è emerso dalla tavola rotonda organizzata dalla dott.ssa Rossa Cimino, responsabile della Biblioteca comunale di Metaponto, cui hanno partecipato il dr. Edoardo De Ruggeri, psichiatra, il dr. Paolo Tranchino, psicanalista ed il dr. Rocco Canosa, presidente nazionale di Psichiatria democratica.
Un richiamo forte e chiaro al grande messaggio di Franco Basaglia, che per primo nel 1978, con la legge n.180 che porta il suo nome, restituì alla vita di relazione ed alla libertà un esercito di 110 mila internati, che per molti aspetti vivevano chiusi e segregati come le vittime dei campi di sterminio nazisti. Era impensabile, allora, che i manicomi potessero essere superati ed ancora oggi questo concetto resta l'unico esempio in un'Europa che mostra paura della diversità e della malattia mentale nel suo specifico.
«Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi - scriveva lo stesso Basaglia - magari più chiusi di prima. Io non lo so. In ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo. È la testimonianza è fondamentale».
Si trattava di un approccio semplice e banale e perciò stesso rivoluzionario per la società degli anni '60, ancora fortemente gerarchizzata e piramidale, ma che stava vivendo le sue prime mutazioni con le richieste di aperture politico-istituzionali fortemente avanzate dalle contestazioni studentesche ed operaie del movimento sessantottino.
In questo clima nasceva la costruzione di un'altra idea terapeutica, di un nuovo e più semplice concetto di salute e di malattia, di una diversa trama di rapporti, di accettazioni sociali, di convivenze possibili in strutture concrete di vita quotidiana, più vicine alla casa che all'ospedale.
«Prima della legge Basaglia del 1978 - ha ribadito De Ruggeri, responsabile dei centri diurni del dipartimento di salute mentale dell'Asl di Matera - una cultura lombrosiana, insieme ad una diffusa e consolidata letteratura medica trattava regolarmente i malati mentali con elettrochoc e segregazioni manicomiali, che dovevano allontanare e nascondere alla città il volto di quanti vivevano nel dolore e nella sofferenza. Basaglia, invece, ha fatto riprendere alla città quanto le apparteneva e soprattutto quanto doveva continuare ad appartenerle per poter esercitare la sua insostituibile terapia di recupero e di osmosi affettiva».
«Infatti in manicomio il malato, privato e depredato dei suoi affetti e delle sue cose più care, non poteva essere curato e così regrediva progressivamente in una quotidianità del tutto anomala e perversa - ha precisato Paolo Tranchino, psicanalista e direttore di una rivista specialistica. Questo è banale, ma è così. E noi andiamo avanti sulla strada tracciata da Basaglia e sul concetto che tutte le persone cosiddette normali, non solo i malati mentali, stanno meglio a casa che in manicomio o in una qualsiasi altra comunità». «E poi - ha continuato Tranchino - ciò che conta ancora per questi come per tutti gli esseri umani è che intorno a loro ci sia sempre qualcuno che ascolti. Più semplicemente che ci sia, sia presente, che si ponga come un sicuro punto di riferimento e di sostegno in ogni momento della giornata».
«Attenti, però, a non scadere nel paternalismo - ha avvertito Rocco Canosa, Presidente nazionale di psichiatria democratica - e soprattutto facciamo in modo che la città entri nei centri diurni e che gli ospiti dei centri vivano la città, altrimenti sono guai: il rischio è una nuova istituzionalizzazione, una nuova cronicità, una diversa ghettizzazione, che addirittura giustifica la propria esistenza andando a caccia del diverso».
Un approccio, dunque, non più ed esclusivamente di tipo medico-terapeutico, ma di tipo societario, in cui la comunità non può non continuare ad esercitare il suo insostituibile ed insopprimibile ruolo di sostegno psico-fisico ed affettivo, con tutta la sua smisurata ricchezza di rapporti sociali e culturali. Ciò che emerge, infatti, nel disagio mentale è soltanto una punta dell'iceberg, che non può essere appannaggio esclusivo e solipsistico della psichiatria ufficiale fatta di psico-terapie, psicofarmaci e centri diurni permanenti.
KANDINSKY E L'ANIMA RUSSA
Milano Circolo della Stampa Corso Venezia 16
Martedì 14 settembre, ore 12.00
La mostra propone circa centotrenta opere fra le più significative della storia dell'arte russa dall'Ottocento ad oggi, raramente giunte in Occidente e mai presentate secondo un progetto espositivo così completo ed aderente ai propri intenti. Dai pittori ambulanti dell'Ottocento alle avanguardie di Kandinsky, Malevich, Goncharova, fino alla visione iconografica dei nostri giorni, la mostra sviluppa per la prima volta un tema di grande fascino, quale appunto l'anima russa, che si propone nella storia della cultura come un luogo esclusivo delle vicende artistiche e letterarie degli ultimi due secoli.
Grazie alla consolidata collaborazione con il Museo di Stato russo di San Pietroburgo,
oltre alle tele di V. Kandinsky sarà possibile ammirare opere di M. Chagall, P. Filonov, M. Nesterov, K. Petrov-Vodkin, I.Y. Repin, V. Surikov, M. Vrubel.
La mostra è stata ideata da Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d'Arte moderna Palazzo Forti, che ne è il curatore insieme a Evgenia Petrova vice-direttrice del Museo di Stato Russo.
Interverranno alla presentazione
Il Vice Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Verona
Maurizio Pedrazza Gorlero
Il Direttore della Galleria d'Arte Moderna Palazzo Forti
Giorgio Cortenova
Segue cocktail
La mostra si terrà negli spazi espositivi della Gallerie d'Arte Moderna di Palazzo Forti di Verona
dal 16 ottobre 2004 al 30 gennaio 2005.
Apertura dal martedì alla domenica 9,00 19,00 Chiuso il lunedì, e il 1° gennaio
Informazioni e prenotazioni: 199.199.100, ,
Gruppi: 02.43353522, Scuole 045.8000804,
Ufficio Stampa
Palazzo Forti Ingegneria per la Cultura
Tel 0458001903 fax 0458003524 Tel 0682077337-305 fax 0682077345
Martedì 14 settembre, ore 12.00
La mostra propone circa centotrenta opere fra le più significative della storia dell'arte russa dall'Ottocento ad oggi, raramente giunte in Occidente e mai presentate secondo un progetto espositivo così completo ed aderente ai propri intenti. Dai pittori ambulanti dell'Ottocento alle avanguardie di Kandinsky, Malevich, Goncharova, fino alla visione iconografica dei nostri giorni, la mostra sviluppa per la prima volta un tema di grande fascino, quale appunto l'anima russa, che si propone nella storia della cultura come un luogo esclusivo delle vicende artistiche e letterarie degli ultimi due secoli.
Grazie alla consolidata collaborazione con il Museo di Stato russo di San Pietroburgo,
oltre alle tele di V. Kandinsky sarà possibile ammirare opere di M. Chagall, P. Filonov, M. Nesterov, K. Petrov-Vodkin, I.Y. Repin, V. Surikov, M. Vrubel.
La mostra è stata ideata da Giorgio Cortenova, direttore della Galleria d'Arte moderna Palazzo Forti, che ne è il curatore insieme a Evgenia Petrova vice-direttrice del Museo di Stato Russo.
Interverranno alla presentazione
Il Vice Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Verona
Maurizio Pedrazza Gorlero
Il Direttore della Galleria d'Arte Moderna Palazzo Forti
Giorgio Cortenova
Segue cocktail
La mostra si terrà negli spazi espositivi della Gallerie d'Arte Moderna di Palazzo Forti di Verona
dal 16 ottobre 2004 al 30 gennaio 2005.
Apertura dal martedì alla domenica 9,00 19,00 Chiuso il lunedì, e il 1° gennaio
Informazioni e prenotazioni: 199.199.100, ,
Gruppi: 02.43353522, Scuole 045.8000804,
Ufficio Stampa
Palazzo Forti Ingegneria per la Cultura
Tel 0458001903 fax 0458003524 Tel 0682077337-305 fax 0682077345
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