martedì 22 luglio 2003

la ricerca sulla percezione visiva

Corriere della sera 22.7.03
Gli occhi si muovono cinque volte al secondo ma il meccanismo permette di non avere visioni mosse
Scoperto il «fermo-immagine» nel cervello
La ricerca del San Raffaele di Milano e del Cnr di Pisa

E’ come un meccanismo di fermo-immagini: così il nostro cervello può vedere il mondo esterno come qualcosa di stabile. I ricercatori dell’Istituto San Raffaele di Milano e del Cnr di Pisa hanno così risolto un quesito che riguarda la nostra capacità di vedere le cose e che ancora non aveva trovato una spiegazione. Già nel 1083 uno studioso persiano, Al Haze, aveva notato che il cervello è capace di ricostruire immagini ferme a partire da una serie di singole «occhiate», con rapidi spostamenti dell’occhio da un punto all’altro di un oggetto. Da allora scienziati e fisiologi hanno cercato di comprendere il meccanismo che sta alla base di questa particolarità percettiva, senza riuscirci. Ecco allora la domanda da cui sono partiti i ricercatori italiani: perché i nostri occhi, che si muovono 4-5 volte al secondo (cioè 150 mila volte al giorno, una quantità superiore persino ai battiti del nostro cuore), riescono a vedere le cose ferme? Perché, in altre parole, il mondo non ruota insieme a loro? Risponde Concetta Morrone, la psicologa che ha firmato il lavoro sulla rivista Nature Neuroscience con David Melcher, un ricercatore americano che ha scelto di lavorare in Italia: «Il mondo ci sembra fermo - dice - perché mentre muoviamo gli occhi, il cervello continua a elaborare informazioni che provengono da una stessa posizione».
Tutto ciò sembra paradossale perché si sa che i singoli neuroni rispondono a stimoli provenienti da zone ben precise nello spazio e se gli occhi si muovono dovrebbero farlo anche le immagini che vediamo.
Ma il complesso esperimento di percezione visiva, ricostruito dai ricercatori, ha permesso loro di concludere che ogni neurone continua a rimanere sensibile alla stessa posizione proprio come se fosse dotato di un fermo-immagini che «fissa» la visione.
Ricadute pratiche della scoperta? «Mediche e tecnologiche», dice Concetta Morrone, che ipotizza un aiuto, per esempio, ai pazienti che per le conseguenze di un ictus vedono «mosse» le immagini dal mondo esterno.
A. Bz.

Il Giorno 22.7.03
Il segreto degli occhi: la telecamera virtuale
nel nostro cervello
di Paola D'Amico

I nostri occhi non sono semplici telecamere. Sono invece la somma di più obiettivi puntati sulla realtà che, attraverso una magia della mente, ci consegnano un'immagine del mondo stabile.
Fino ad oggi si pensava che, nella percezione di un'immagine, il cervello si creasse come delle telecamere capaci di muoversi insieme agli occhi. Non è così. Ricercatori del San Raffaele hanno tentato di dare una risposta al quesito: se i nostri occhi sono in movimento perpetuo (si muovono 4-5 volte al secondo, 150mila volte al giorno) come è possibile che il mondo stesso non ruoti assieme a loro, come accade con una telecamera, ma continua ad essere percepito come qualcosa di stabile?
In parole più semplici: come è possibile che noi guardiamo il mondo da una piattaforma mobile, camminiamo, saltiamo, corriamo, e gli oggetti che ci circondano continuiamo a vederli fermi nella loro esatta posizione?. Che è poi ciò che ci differenzia dal robot o da una telecamera, appunto.
Attraverso un complesso esperimento di percezione visiva, i ricercatori del San Raffaele hanno dimostrato il mondo sembra fermo perchè «mentre muoviamo gli occhi il cervello continua a elaborare informazioni che provengono dalla stessa posizione - spiega la professoressa Concetta Morrone, della facoltà di Psicologia del San Raffaele, che ha firmato lo studio pubblicato sul numero di agosto di Nature Neuroscience con David Melcher -. Crea cioè una sorta di telecamera solidale non con gli occhi ma con il mondo esterno».
Metà del nostro cervello è dedicato alla visione. E la ricerca prova che i meccanismi, nel cervello dell'adulto, sono dinamici, si adattano cioè ad ogni sguardo. Perchè il cervello ha una potenzialità di organizzazione infinita. «La percezione di una figura - prosegue la psicologa - viene costruita tramite una serie di singole occhiate, con rapidi spostamenti dell'occhio da un punto all'altro dell'oggetto. Ognuno di questi piccolissimi movimenti oculari genera un movimento dell'immagine retinica sulla superficie dell'occhio ma senza darci la sensazione che il mondo si muova. L'uomo è cioè inconsapevole di tali spostamenti, sia del cambiamento dell'inquadratura dell'immagine sia del diverso punto di osservazione che ciò comporta».
Sulla retina abbiamo come tante minuscole fotocellule che si spostano con l'occhio ma, fissato un oggetto, dopo lo spostamento tornano a fissarlo: l'immagine stabile è il risultato della rielaborazione da parte del cervello dei due fotogrammi successivi.
«Ora è chiaro il meccanismo, dobbiamo trovare la "macchinetta" che consente di ricalibrare l'immagine, un marchingegno che sta ad unn livello sensoriale precoce, non a un livello cognitivo ma a una primissima analisi del segnale visivo da parte del cervello».

Luigi Cancrini, sul gene della depressione

Il Messaggero Martedì 22 Luglio 2003
I RISULTATI DI UNA RICERCA
La depressione è colpa di un gene ma ha radici nei traumi infantili
di LUIGI CANCRINI

LA RICERCA pubblicata da Science sull’origine genetica dei disturbi depressivi è una ricerca importante. Basata su uno studio longitudinale durato venticinque anni, essa ha permesso infatti di verificare l’idea per cui il 43 per cento degli individui che presentano una certa versione (corta) di un tratto ben definito di Dna presentano una difficoltà speciale di elaborazione degli eventi traumatici. Dando luogo spesso, per questa via, ad episodi di tipo depressivo.
La prima riflessione da fare, di fronte ad una ricerca come questa, è relativa all’importanza fondamentale che essa ribadisce, dandola per scontata, al trauma. Gli episodi rilevanti di depressione sono sempre e comunque collegati dai ricercatori, infatti, al verificarsi di fatti traumatici, ad esperienze di perdita o di lutto. E’ da qui che si parte comunque quando quello cui ci si trova di fronte è un episodio depressivo come la clinica e l’esperienza degli psicoterapeuti ha dimostrato ormai da decenni.
Un secondo punto di riflessione, mi pare, riguarda i numeri. Verificare che il 43 per cento di una certa popolazione va incontro ad un episodio depressivo e che il 17 per cento di quella che non ha quel tipo di diversità genetica può comportarsi in modo analogo significa essenzialmente due cose. Che vi sono molte situazioni, il 57 per cento dei casi, in cui l’esistenza di fattori protettivi evita che l’anomalia genetica si manifesti (si esprima, nel senso dei biologi) e che molte altre ve ne sono in cui la difficoltà di elaborare il trauma e la depressione che segue tale difficoltà si verificano anche in assenza di anomalia genetica: in assenza, stavolta, dei fattori protettivi di cui sopra.
La ricerca clinica offre elementi importanti oggi per valutare la natura di questi fattori. Difficile e dura dal punto di vista emozionale, l’infanzia dei futuri depressi è un’infanzia regolarmente segnata dalle difficoltà dei genitori e dal verificarsi di eventi pesanti che il bambino ha vissuto dall’interno di una condizione di solitudine. Al modo in cui sono sicuramente la solitudine e la mancanza di un sostegno valido dal punto di vista emotivo le concause più rilevanti di quello che si caratterizzerà un giorno come episodio depressivo grave dell’adulto: come ci raccontano ogni giorno le persone che non hanno avuto uno spazio per ”dare parole” al loro dolore.
Quello che ne possiamo concludere provvisoriamente oggi, forse, è che, applicata agli uomini e al funzionamento della mente, la genetica può proporre solo frammenti di verità elementari. Senza riscontri pratici di grande rilievo. Quella cui dobbiamo pensare di più, infatti, è l’importanza dei fattori ambientali: per la possibilità che essi hanno di proteggere dal rischio genetico, prima di tutto, e per la possibilità che abbiamo, in secondo luogo, di controllarli e di modificarli. Adottando schemi intelligenti di comportamento. Mettendoci in mente con tutta la chiarezza possibile, che il modo migliore di proteggere un bambino dalla depressione di oggi o di domani è la nostra capacità di stare con lui nei momenti di difficoltà modulando in modo attento e intelligente l’affetto con cui lo facciamo crescere.
Quella con cui vorrei concludere è una fantasia che potrebbe essere alla base forse di altre ricerche. La variante corta del tratto di Dna considerata dai ricercatori di Science è responsabile, secondo loro, di un particolare difetto nella produzione di serotonina. Se questo è vero e se il 57 per cento degli individui il cui cervello funziona male su questo punto non sviluppa la depressione, però, quello che noi possiamo pensare, ipotizzare, è che un contesto educativo adeguato può rendersi utile anche a livello di biochimica del cervello. Un’idea che apre scenari affascinanti, mi pare, sull’interazione complessa fra la nostra vita mentale e il nostro corpo. Dando senso all’idea per cui quest’ultimo reagisce attivamente agli stimoli offerti da quella: inesplicabilmente collegando tra loro, vita dopo vita, l’evoluzione della specie e quella dell’individuo.

che noia...

Repubblica 22.7.03
Trattati, manualetti, esercizi: l´Europa tenta di riapprendere l´arte della lentezza. Per buttare fuori i cattivi pensieri e lasciarci con noi stessi
La noia ci salverà la vita
Rallentare, fare sempre meno: ormai è una filosofia
L´iperattivismo, la voglia di muoversi senza sosta ora passano di moda
di VERA SCHIAVAZZI

ROMA - Rallentare. Affrontare la paura del vuoto e diventarne consapevoli o, meglio ancora, passare a quella «presa di incoscienza» che, da sola, vale più di mille sedute di autoanalisi. Fare sempre meno, fare poco, fino ad arrivare a non far nulla del tutto. L´estate 2003 punta verso la noia, una noia non casuale, elevata al rango di filosofia. In Europa le si dedicano trattati, come la «Piccola filosofia» del norvegese Lars Svendsen. Negli Stati Uniti la si traduce in manualetti pronti per l´uso, come i dieci esercizi inventati da Karen Salmansohn per «Cambiare interamente la propria vita senza fare assolutamente nulla». Tutto si basa sul fatto che si debba riapprendere ciò che gli occidentali hanno dimenticato, ovvero il silenzio, la riflessione, il vuoto fisico e mentale che - proprio come il digiuno dal cibo disintossica e aiuta ad espellere le tossine - servono a buttar fuori cattivi pensieri e a lasciarci soli con noi stessi.
I percorsi di avvicinamento possono essere i più diversi: c´è chi approfondisce il problema come ha fatto Svendsen durante un anno sabbatico, partendo da Kierkegaard per arrivare ad Heidegger (per ragioni solo in parte misteriose, tutti i filosofi si sono annoiati prima o poi), e chi, come la sua collega francese Catherine Laroze, ha realizzato un´operazione di marketing producendo ciò che pareva impossibile, ovvero un libro fotografico sul tema che in Francia è già un oggetto di culto. Certo, l´iperattivismo, la frenesia, l´ossessione di arrivare e di muoversi senza sosta, appaiono destinati a diventare fuori moda come confermano ricercatori di tendenze e stilisti: «Ricominceremo presto a invidiare chi non ha bisogno di lavorare, chi può vivere di rendita o, al contrario, è in grado di ridurre a tal punto i suoi consumi da potersi permettere di fare poco per mantenersi... Dalla moda usciranno a poco a poco i tessuti e i materiali tecnici creati per evocare la performance, il movimento, l´energia». Che annoiarsi sia un modo come un altro per cercare di fermare, o almeno di addomesticare il tempo che passa, lo sanno del resto, da sempre, i pre-adolescenti ai quali la noia è consigliata, prescritta e imposta. Ma uno studio condotto in Germania da un gruppo di sociologi berlinesi ha dimostrato che, tra gli adulti, oltre l´80 per cento non è in grado di ricordare l´ultima volta nella quale ha trascorso almeno sei ore, sonno escluso, senza compiere nessuna attività «finalizzata».
Alla lunga, hanno sostenuto i tedeschi, l´eccessiva rapidità può penalizzare la qualità delle idee: teorie complesse non possono essere concepite, né tantomeno verificate, in pochi minuti o in pochi giorni, e la noia rappresenta una pausa eccellente. L´esercizio di rallentare, svuotare le proprie giornate appare più facile per le donne, per chi ha oltre cinquant´anni, per tutti quelli che vi colgono una giustificazione sociale alla propria pigrizia (le vacanze, ma anche un lutto, un licenziamento, una malattia, o una ragione ideologica, come spostarsi a piedi per non inquinare).
Da non dimenticare, la lentezza amorosa, il «torpore estivo degli affetti» descritto da Laroze: d´estate si possono talora condividere le vacanze o le scappatelle, ma non restare perennemente connessi come si fa durante l´anno, tra una telefonata e una mail. Che cosa resterà in settembre di tutto ciò? Due regali di non poco conto: un´agenda più smilza (quella stracolma di annotazioni è stata classificata tra i dieci oggetti femminili più ineleganti) e la capacità di pensare in silenzio per qualche minuto ogni giorno. Che, una volta imparata, non si perde più.

sociologi e religioni

Repubblica Torino 22.7.03
I sociologi e le divinità Quattro giorni di dibattito
In trecento da tutto il mondo a discutere di religioni

Dio, Allah, il Buddha e poi tutti gli altri modi di chiamare la divinità. Dall´altra parte, invece, gli uomini di tutto il mondo, e soprattutto i giovani che nel terzo millennio si confrontano con la voglia di fede e di verità. In mezzo, da ieri sino a venerdì, i quasi trecento sociologi e studiosi arrivati a Torino per la XXVIIma Conferenza della Società internazionale di sociologia delle religioni.
Un appuntamento voluto con forza da Franco Garelli, docente torinese di Sociologia dei processi culturali, e che segna un´occasione prestigiosa per la nostra città nel mondo del dopo 11 settembre 2000, dei rinnovati fondamentalismi religiosi, della globalizzazione e di guerre che, per bocca di George W. Bush come di Saddam Hussein, si ammantano di giustificazioni religiose o addirittura della "volontà divina".
Il tema scelto per questa edizione, "Religione e generazioni", guarda soprattutto alla realtà giovanile dell´esperienza di fede. E le ricerche che affrontano il fenomeno in molte latitudini del globo e davanti a fedi diverse, sembrano indicare, a sorpresa, tendenze comuni. «Tra i giovani si attenua l´ateismo - ha spiegato Garelli presentando la Conferenza - e se manca una pratica assidua nei riti e nell´approfondimento del proprio credere, cresce invece la disponibilità verso la religione come una riserva di vita, come un possibilità esistenziale a disposizione».
Da oggi tavole rotonde e sessioni, tra il cinema Massimo e la facoltà di Scienze politiche di via Verdi (e con escursioni a Damanhur o nelle Langhe), cercheranno di spiegare tutto ciò. In una città dove gli anni dell´emigrazione extracomunitaria, forse di più che in tante altre realtà italiane, hanno sottolineato i problemi della diversità ma anche le conquiste dell´integrazione.
(e. b.)

Slavoj Zizek (2)

il manifesto 22.7.03
POLITICA O QUASI
Ma di che sesso è il soggetto post-edipico?
di IDA DOMINIJANNI

«Oggigiorno assistiamo a un cambiamento non meno radicale di quello con cui si è passati dall'ordine patriarcale premoderno legittimato dal Maschile e dal Femminile come principi cosmici all'ordine patriarcale moderno che ha introdotto il concetto astratto-universale di uomo». Questa volta lo Zizek politico si fa attendere non poco dietro lo Zizek filosofo, e bisogna rincorrerlo lungo i tortuosi percorsi della sua eccentrica difesa del soggetto cartesiano (una difesa per modo di dire, in realtà) prima di trovarlo. Ma quando arriva, alla fine del suo ambizioso «trattato di ontologia politica», colpisce come sempre nel segno, e certo individua il problema, se non le risposte. Il problema è la costellazione di senso comune (un senso comune filosofico, politico, culturale) che egemonizza, soprattutto in campo progressista, l'interpretazione del tumultuoso cambiamento del mondo contemporaneo. Una costellazione che diagnostica (e prescrive) il passaggio in atto, grosso modo, come segue: dall'Uno ai molti, dal soggetto cartesiano alle soggettività molteplici, dall'identità alle differenze, dalla politica dello stato nazionale e della ridistribuzione alla post-politica delle minoranze e del riconoscimento, e via dicendo. Di questa costellazione - anzi, di questa «grande narrazione» post-moderna insediatasi al posto delle grandi narrazioni moderne di cui il primo post-modernismo decretò la fine - Zizek non è convinto; e certo il merito principale del suo «trattato», in controtendenza col senso comune di cui sopra, consiste nel denunciare che essa, lungi dal contrastare come pretenderebbe l'onda dominante, la segue, la cavalca e la legittima, al massimo la «democratizza», senza coglierne la radice e quindi senza riuscire a ribaltarla. Dove sta questa radice? Sta appunto in un cambiamento epocale dell'ordine simbolico, che Zizek non esita a connotare con la parola «fine» in luogo dell'abusata (e usurata) «crisi», e nel cambiamento altrettanto epocale dello statuto della soggettività che ne consegue. Fine dell'Edipo, fine del patriarcato, fine dell'«efficacia simbolica» del Grande Altro che detta la legge da seguire e da trasgredire. Il Padre non è più l'ideale dell'io, il portatore dell'autorità simbolica che interdice il godimento dicendo «non devi»; è una padre «osceno» che comanda di godere dicendo «puoi». Ma se l'autorità paterna garantiva, come già vide Horkheimer negli anni Trenta, la crescita di un soggetto critico e capace di ribellione, il padre «osceno» mette al mondo figli con la sindrome di Peter Pan, eterni adolescenti privi di obbligazioni morali, che per trasgredire il comandamento di fare ciò che vogliono si mettono nella posizione del servo, del dominato, del masochista: la sintomatologia corrente dell'autosfruttamento nel lavoro (modello Microsoft), della perversione sessuale (pratiche sadomaso, piercing etc), dell'indifferenza sentimentale, parla da sé.
Alla catastrofe dell'ordine simbolico patriarcale fa riscontro dunque un soggetto all'apparenza riflessivo, capace di scegliere, multiforme, nomade, ma in realtà nuovamente «assoggettato» a rinnovate forme di dominio. Colpa dei postmodernisti, dei teorici della «società del rischio» alla Beck, nonché «delle femministe», è per Zizek di non vedere l'effetto combinato della catastrofe simbolica e della deformazione del soggetto post-edipico: o illudendosi di avere ancora a che fare con il soggetto razionale moderno, o riconvocando continuamente - nelle rivendicazioni del riconoscimento delle minoranze ad esempio - un'autorità simbolica che non c'è più. Non basta: Zizek imputa altresì a tutti questi suoi interlocutori, nonché alla sinistra post-socialista e democratica nelle sue varie espressioni, una ulteriore responsabilità: la rimozione di ciò che resta fisso nell'infinita e mobile fluidità del panorama postmoderno, ovvero «la logica inesorabile del capitale». Sul punto non potrebbe essere più chiaro: non si tratta di negare la creatività e la produttività della «postpolitica» contemporanea, con la sua capacità di politicizzare ambiti prima privati come la sessualità, le relazioni interpersonali, l'ambiente; si tratta di ridare centralità e «primato» alla politicità dell'economia, «non a scapito delle forme di politicizzazione postmoderne, ma per creare le condizioni per una loro maggiore efficacia».
Psicoanalisi e marxismo: per fronteggiare il soggetto post-edipico e per combattere l'apparente fluidificazione democratica del capitale la ricetta di Zizek, uno degli interpreti del presente più originali di cui disponiamo, non potrebbe essere più classica; anche se il suo uso di questa classica ricetta si rivela decisamente altro dagli standard della tradizione, e va a parare su una «esortazione a osare» e a «non cedere sul proprio desiderio» che non piacerebbe a molti marxisti e nemmeno a molti freudiani o lacaniani. Grande essendo la sua considerazione dell'elaborazione femminista, tuttavia, mi resta da fargli qualche obiezione di fondo. Di che sesso è infatti il soggetto post-edipico di cui Zizek parla? Non c'è traccia nel suo trattato ontologico di questa domanda, né della risposta. Ma l'ordine simbolico edipico-patriarcale di cui Zizek giustamente vede la fine ordinava la posizione dei due sessi; e se quell'ordine è finito, è anche - soprattutto - perché uno dei due ha cambiato posizione. La libertà femminile non è l'ultimo dei fattori che provoca la fine del patriarcato, e non è senza conseguenze né sull'ordine simbolico post-patriarcale né sulla costituzione - sessuata - del soggetto post-edipico. Lettore accurato, ammiratore e critico, di Judith Butler e della sua teoria performativa del gender, demolitore spietato delle teorie neoessenzialiste del sesso, Zizek non vede però altre posizioni nel panorama politico e teorico femminista. Da un confronto con il pensiero della differenza italiano - l'unico che abbia messo a tema, come lui, la fine del patriarcato, ma anche, diversamente da lui e da Horkheimer, l'emergere di un'autorità simbolica femminile non speculare a quella paterna - l'ontologia politica del presente di Zizek avrebbe potuto trarre probabilmente qualche idea tiklish in più.

in guardia, secondo il manifesto c'è un nuovo «eroe della cultura» per la sinistra: Slavoj Zizek (1)

il manifesto 22.7.03
La necessaria follia del pensare

La rinuncia della sinistra politica a proporre un'alternativa alla realtà spettrale del capitalismo globale. Finalmente pubblicato «Il soggetto scabroso», l'opera più ambiziosa del filosofo sloveno Slavoj Zizek Heidegger, Balibar, Badiou, Butler, Beck. Filosofi, filosofe e studiosi così diversi tra loro, ma accomunati dall'assenza di una politica della liberazione all'altezza della miseria del presente
di SANDRO CHIGNOLA
Come evadere dal circuito spettrale del capitalismo globale e dal suo doppio ideologico? Come agire un gesto di liberazione che sia realmente politico e in grado di evitare il gioco al massacro del costante venire a patti con quella che, nelle retoriche del riformismo e della «sinistra di governo», ci viene presentata come la realtà, come l'inscalfibile orizzonte di riferimento sul quale misurare validità e legittimità dell'azione? Ciò che Heidegger, i teorici postalthusseriani (Balibar, Rancière, Laclau, Badiou), il femminismo decostruzionista (Butler), i sociologi della «società del rischio» (Giddens, Beck, per non parlare delle retoriche liberal del multiculturalismo) hanno in comune, è, per Slavoj Zizek, la cui opera più ambiziosa viene infine messa a disposizione del lettore italiano (Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina Editore, pp. 500, € 37), il rifiuto a confrontarsi con l'ontologia e ciò che da quello stesso rifiuto consegue: la mancanza di radicalità nel pensare una politica di liberazione all'altezza della miseria del presente.
Nell'interpretazione di Zizek, la scena contemporanea è dominata da due opposti e complementari modi di venire a patti con la perdita catastrofica che segue al «collasso del marxismo» del 1989: da un lato l'insistenza sulla forma vuota, la pura retorica dei principi feticisticamente attardata in difesa dei capisaldi della socialdemocrazia; dall'altro l'accettazione delle regole del capitalismo globale come necessità che fa legge, il Full Monty della sinistra blairiana ed ulivista, l'«andare fino in fondo» nello spogliarsi di ogni residua istanza capace di sostenere un'alternativa alle logiche del capitale.
Quanto rende possibile una tale impasse, è, per Zizek, il disconoscimento della scena originaria nella quale viene posto il problema del soggetto: non il suo venire a mancare, come lo interpretano le filosofie del postmoderno, il suo indebolirsi e scomparire come agente della trasformazione, ma il suo identificarsi con la mancanza stessa, con l'eccedenza che lo fonda come da sempre «out-of-joint», scardinato alla propria realtà, come incompleto, «vuoto».
Applicando alla filosofia politica contemporanea l'analisi lacaniana del problema della soggettività nell'idealismo tedesco, Zizek mira ad un doppio risultato. Da un lato assumere la centralità dello scarto in cui si costituisce la soggettivazione - mossa, quest'ultima, che gli permette di sganciare il problema del soggetto da ogni coinvolgimento con l'ordine della totalità e dell'immediatezza, evitando così l'errore di postulare una posizione di semplice esteriorità tra il soggetto e il positivo, tra il contingente e l'universale, tra l'«escluso» che pretende l'accesso e l'ordine di rapporti che lo esclude -; dall'altro l'interpretazione della filosofia politica contemporanea come formazione fondamentalmente difensiva.
Ogni ontologia è intrinsecamente politica, per Zizek, perché fondata da un atto «soggettivo» di decisione, che presenta la duplice caratteristica di essere sempre disconosciuto e contingente. L'idea della realtà come «Tutto autosufficiente» (anche quella del soggetto agente di una trasformazione possibile) va kantianamente rifiutata come paralogismo, perché quello che appare come un limite epistemologico dell'umana capacità di comprendere la realtà (il fatto che essa possa solo e sempre essere percepita a partire da una prospettiva finita e temporale) è la condizione ontologica costitutiva della realtà stessa. Come in Fichte (la nozione di Anstoß) o in Hegel (il negativo dialettico), la resistenza che il soggetto incontra non è una resistenza esterna (l'inerzia dell'ordine della realtà), ma lacanianamente ex-tima, fondativa della stessa realtà del soggetto, e proprio per questo eccedente/eccessiva rispetto alla sua stessa padronanza di sé. C'è, in altri termini, un momento di follia necessaria implicato sulla scena del cogito.
E' questo presupposto ciò che permette a Zizek di aprire un confronto radicale con il pensiero critico contemporaneo. Badiou e Laclau «ontologizzano» immediatamente il soggetto come effetto del loro platonismo di fondo. Rancière, muovendo dall'opposizione tra quelle che egli chiama la politique/police e la politique, tende a sovrastimare, stabilizzandolo, lo iato postulato tra l'ordine esistente e gli interventi parziali per mezzo dei quali viene data voce a le tort. Butler, teorica della differenza sessuale, finisce con l'identificare quest'ultima alla norma simbolica che determina ciò che uomo e ciò che è donna. Balibar si dimostra incapace di sottrarsi ad un habermasismo paradossale, nella misura in cui accetta l'universalità come orizzonte finale della politica, anche dopo aver posto l'attenzione sullo scarto che esiste tra le declaratorie formali del diritto e la domanda di egaliberté che insiste a sovvertirle dall'interno.
Rifiutando l'ontologia, il confronto con l'abisso che costituisce il soggetto sul fondo di una divisione, tutte queste posizioni approdano per Zizek ad una doppia paralisi. Sul lato teoretico, col postulare comunque - come effetto di una definizione sostanziale del soggetto - una forma dell'universale all'interno della quale le lotte vengono indebolite come semplici lotte per il riconoscimento. Sul lato politico, con lo sfuggire la posizione che obbliga ad assumersi la responsabilità politica della verità e della sua articolazione sovversiva.
Che la filosofia contemporanea rappresenti una formazione eminentemente difensiva, lo dimostra per Zizek non soltanto il modo attraverso il quale essa evita di interrogarsi sullo statuto reale del soggetto, ma il suo stesso autoconfinarsi in un atteggiamento da «sinistra kantiana» incapace di sostenere il passage à l'acte. In Balibar, in Rancière, in Badiou, la politicizzazione della situazione viene fatta dipendere dall'eccedenza di un universale impossibile che agisce da ideale regolatore.
Attenta a mantenere ed a rilanciare la differenza tra l'ordine delle cose e il suo impossibile compimento, questa posizione si condanna tuttavia anticipatamente al fallimento. Essa sopravvaluta l'ordine positivo dell'essere, lasciandosi sfuggire il fatto che l'ordine dell'essere non è mai dato in modo semplice, ma che è esso stesso fondato su un qualche Atto precedente: su di una separazione, una scissione. Quest'ultima è per Zizek ciò che comunque permane (a partire dallo stesso Soggetto) come la condizione irredimibile che sostiene ogni ordine dell'essere.
Questo a sua volta significa, che l'atto intrinsecamente divisorio per cui la situazione viene politicizzata (soggettivando l'esclusione, la parte di chi non ha parte), non può limitarsi - pena la condanna a quello stesso circuito isterico del desiderio già rimproverato da Lacan ai contestatori del Maggio francese - a sostenere una posizione di semplice critica o di denuncia. Occorre che il gesto tradizionale della critica dell'ideologia venga rovesciato, riconoscendo nell'infimo dell'ordine concreto l'unico punto della sua universalità e nell'oscenità della decisione in cui si costituisce il Soggetto il supplemento che permette di agire politicamente in conformità alla legge del desiderio.
Quello che Zizek chiama il protokantismo implicito della filosofia contemporanea - la posizione dell'«anima bella» in cui la critica si rinchiude per riflettere il luogo di un'eccedenza dell'idea di giustizia che paradossalmente finisce con l'assumere l'autoconsistenza dell'ordine della realtà - deve essere denunciato come il limite di un discorso sull'universale che rifiuta di assumersi la responsabilità politica della verità.
Una conoscenza oggettiva della realtà è impossibile, per Zizek, perché ogni sistema di norme (compreso quello che fonda la specifica legalità del conoscere) è costitutivamente sospeso dall'eccezionalità che lo fonda. Solo negando il proprio coinvolgimento immediato nella realtà, elaborando il lutto materiale del proprio prendere parte ad essa, il soggetto si insedia nella squilibrata posizione di esteriorità che gli permette di assumere la realtà come «oggetto» e quindi di dominarla. La patogenesi del soggetto implica una scissione ed un irriducibile antagonismo. E questo a sua volta significa, che solo in quel punto d'esclusione può emergere la «cornice» universale, la forma trascendentale che rende possibile il conoscere, e quindi la stessa «realtà».
Sul lato politico, questo implica una serie di conseguenze immediate. Innanzitutto, che l'uiversale del diritto può materializzarsi solo come effetto di una presa di parola parziale. La verità di una situazione emerge solo a partire dall'antagonismo che la squilibra e dalla faglia che la attraversa come sua soglia interna di rottura. E poi, che di questa rottura, della propria partecipazione sempre parziale alla situazione, occorre assumersi la piena responsabilità politica.
Il kantismo irriflesso della filosofia critica contemporanea può essere superato per Zizek solo in nome di una politica leninista della verità. Assumendo fino in fondo la parzialità della propria presa di parola e sopportando il disagio di doverne sostenere il peso. La realtà spettrale del capitale globale va ricondotta all'atto che la fonda (una precisa distribuzione dei rapporti di forza nella lotta di classe) e valutata negli effetti di violenza e di deprivazione materiale attraverso i quali essa si riproduce. Una politica di liberazione non può evitare di assumere su di sé l'onere di sospenderne la norma - quella che il commentatore liberal accetta come la normalità della valorizzazione, la linearità del suo funzionamento - e di sostenere fino in fondo la parte che le è propria: quella di accettare di sporcarsi le mani per affrontare l'osceno di una democrazia-a-venire che, per essere tale, deve attraversare il crudo della rivoluzione.

Franco Rodano, il maestro del «catto-comunismo», l'uomo per il quale il «compromesso storico» era troppo poco

il manifesto 22.7.03
SINISTRA
L'utopia di Rodano
di VALENTINO PARLATO

Vent'anni fa, il 21 luglio del 1983, moriva Franco Rodano e oggi, nell'ondata del postmoderno e nel decadimento politico e culturale della sinistra, il suo nome ha un suono tra i più anziani e solo tra rari giovani. Del tutto diversa era la situazione quando noi anziani di oggi eravamo giovani. Allora l'uomo Franco Rodano suscitava fascino, in verità un po' enigmatico: questa persona coltissima e profondamente cristiana, che politicamente era comunista e non per ragioni di classe, ma piuttosto di liberazione dell'uomo. Con una scomunica ad personam, poi ritirata ai tempi di Giovanni XXIII, ma sempre cristiano e comunista, limpidamente, senza mai nessuna confusione democristiana. Un uomo di ottime frequentazioni cattoliche e laiche, era sodale di Raffaele Mattioli, l'illuminato presidente della Comit, ma che ha sempre rifiutato la cosiddetta ascesa sociale: mai parlamentare, mai presidente di un qualche ente, ma sempre e solo Franco Rodano, ricercato, discusso, ma sempre apprezzato, anche dagli avversari. Anche di lui va detto «lo stile è l'uomo». E il suo era uno stile produttivo di pensiero, suscitatore di discussioni e ricerche. Aveva cominciato, giovanissimo, al Liceo Visconti di Roma, dove ostentava («fiammeggiante» diceva Giorgio Coppa allora mio capo alla Cna) il distintivo dell'azione cattolica, fondatore del Movimento dei comunisti cattolici, ispiratore del crociano Spettatore italiano e direttore di Dibattito politico, rivista alla quale collaboravano i giovanissimi Giuseppe Chiarante e Lucio Magri e poi, negli anni `60, fondatore con Claudio Napoleoni della prestigiosa Rivista trimestrale. Un grande lavoro, un capitale di pensiero, oggi piuttosto trascurato.
La questione cattolica - se ne parla anche oggi in rapporto alla difficile costituzione europea - rimane centrale, culturalmente e politicamente. E davanti a questo problema il lavoro di Rodano può aiutare. Di fronte alla questione cattolica, Rodano non è affatto un sostenitore del «compromesso storico», che per certi significava il degrado della grande questione nell'ambito riduttivo della «solidarietà nazionale», una mezzadria con la Dc. In un articolo apparso tempo fa su Critica marxista, Lucio Magri dà una interpretazione convincente del pensiero di Franco Rodano: «Il rapporto con la Chiesa, sia come comunità di fede che come istituzione, senza mediazioni di un partito cattolico... rappresentava un'occasione e una garanzia per depurare il movimento comunista non solo dell'ateismo scientista, ma anche di una visione totalizzante della rivoluzione politica e sociale (il mito del regno dei cieli sulla terra e di una storia senza alienazioni)... Corrispettivamente il movimento comunista era il portatore necessario di una trasformazione della società che non si presentasse... come inveramento e compimento della razionalità illuministica, della rivoluzione borghese, ma anche e soprattutto come loro rovesciamento dialettico, e perciò offrisse un fondamento storico e materiale ad un mondo in cui la persona umana diventasse centro e misura, liberata dalla reificazione capitalistica, e perciò stesso base reale di un pieno sviluppo di un cristianesimo, non integralista, ma consapevole, diffuso, praticabile». La posizione di Rodano è radicalmente e discutibilmente antiborghese è perciò piuttosto eversiva in un'epoca di borghesia trionfante.
Questo il terreno di lavoro anticipato da Rodano, certamente discutibile, ma oggi nel postfordismo e nella crescita del lavoro cosiddetto cognitivo, può essere più realistico di quanto non fosse venti anni fa: come a dire che l'uomo non è solo quel che mangia e che tra la struttura e la sovrastruttura i rapporti sono assai più complessi di quanto non fosse nel marxismo che abbiamo imparato da giovani. Soltanto che oggi attraversiamo una fase di crisi politica e culturale nella quale il valore più alto è la forza, cioè la guerra diffusa a tutti i livelli. Contro gli Hobbes di oggi forse Franco Rodano può darci un aiuto.
Questo penso oggi, ma tanti anni fa quando fui invitato a cena da Franco Rodano, insieme con Aniello Coppola, e quella cena era un po' un esame d'ammissione, ritengo di essere stato bocciato.