Corriere della Sera 28.2.05
Referendum tra teologia e politica
LA VITA UMANA
di GIOVANNI SARTORI
Fede e ragione. Vi sono questioni che sono materia di fede, e questioni che sono materia di ragione. Se Dio esiste è materia di fede. Se è vero che gli aeroplani volano perché sostenuti da angeli è materia di ragione. L’importante è che le due sfere si rispettino e che non si impasticcino l’una con l’altra. Mentre nei dibattiti in corso sul diritto alla vita e sull’embrione l’impasticciamento è di tutta evidenza. Intanto, vita non è lo stesso che vita umana. Anche le mosche, i pidocchi, le zanzare sono animaletti viventi, sono vita. Ma io li uccido, confesso, con soddisfazione. Anche gli animali e i pesci che io mangio erano, prima, esseri viventi. Eppure li mangio, confesso, senza sentirmi in peccato. Invece la vita umana è inviolabile, è sacra. Perché? Qual è la differenza?
Il problema è questo, ma la Chiesa di Papa Wojtyla lo evade. La sua crociata è per la difesa della «vita nascente». Anche quella delle piante? Anche quella dei tafani? Evidentemente no. E perché no? Torno a chiedere: qual è la differenza tra qualsiasi vita e la vita umana? In passato la risposta era l’anima, che è l’anima che determina l’essere dell’uomo. Ma oggi l’anima viene dimenticata, la Chiesa non ne parla quasi più. L’omissione è stupefacente. Ma tant’è.
Su quando scocca la scintilla della vita nei primati, e specificamente nell’uomo (saltiamo, per brevità, tutte le altre vite), la risposta è oramai sicura: comincia nell’attimo della fecondazione, della congiunzione dello spermatozoo maschile con un gamete femminile. Ma, al solito (la domanda non è evadibile), questa fecondazione è già, a quel momento, vita umana? La fede, se così le viene imposto dalle sue autorità, può rispondere di sì. Ma la ragione, vedremo, deve rispondere di no. Quanto alla scienza, la domanda su quando «un embrione diventa persona e gode dei diritti spettanti a una persona... è domanda che esula dalla biologia e dalla scienza in generale» (cito da Edoardo Boncinelli su queste colonne). Proprio così.
Veniamo alla ragione, all’argomento razionale. In quel contesto l’argomento è che la vita umana è diversa dalla vita animale perché l’uomo è un essere capace di riflettere su se stesso, e quindi caratterizzato da autoconsapevolezza. L’animale non sa di dover morire; l’uomo lo sa. L’animale soffre fisicamente perché è dotato di sistema nervoso; ma l’uomo soffre anche psicologicamente, anche spiritualmente. Diciamo, allora, che la vita umana comincia a diventare diversa, radicalmente diversa da quella di ogni altro animale superiore quando comincia a «rendersi conto». Non certo da quando sta ancora nell’utero della madre.
Papa Wojtyla asserisce che «la scienza ha ormai dimostrato che l’embrione è un individuo umano», e come tale non uccidibile. Ma non è così. La scienza è sottoposta, nel suo argomentare, alle regole della logica. E per la logica io uccido esattamente quel che uccido. Non posso uccidere un futuro, qualcosa che ancora non esiste. Se uccido un girino non uccido una rana. Se bevo un uovo di gallina non uccido una gallina. Se mangio una tazza di caviale non mangio cento storioni. E dunque l’asserzione (la terza del quesito referendario sul quale andremo a votare) che i diritti dell’embrione sono equivalenti a quelli delle persone già nate è, per la logica, una assurdità.
Il cattolico alla Tertulliano (credo quia absurdum, credo così proprio perché è assurdo) è liberissimo di sottoscrivere questa assurdità. Ma la Chiesa di Sant’Agostino e di San Tommaso, e anche tutte le persone ragionanti, dovrebbero volere che le cellule staminali da embrioni umani siano utilizzate dalla ricerca scientifica per curare i viventi, i già nati. E dovrebbero anche volere la sopravvivenza della logica.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
lunedì 28 febbraio 2005
embrioni
lo Stato laico deve rispettare tutte le «visioni della vita»
La Stampa 28 Febbraio 2005
IL MANIFESTO DI SCIENZA E VITA
FECONDAZIONE
L’OCCASIONE DELLO STATO LAICO
Gian Enrico Rusconi
IL Manifesto del Comitato Scienza e Vita contro il referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita è assai deludente. Ripete assunti generalissimi sul «primato della vita», sui «diritti del concepito», sulla «deriva scientista» senza confrontarsi minimamente con le tesi di coloro che la pensano diversamente. Anzi, lascia intendere che i sostenitori del referendum (la cui formulazione sarebbe «volutamente equivoca») vanno incontro al «rischio di una società che non si fa scrupolo di manipolare l’uomo».
Il Manifesto insomma è un testo militante, non un serrato confronto di idee - come mi sarei aspettato dalle stimatissime personalità firmatarie. Peccato.
Evitando di entrare nel merito dei singoli difetti della legge (cui riconoscono semplicemente che «non è perfetta»), confermano che la loro preoccupazione non è una legislazione ragionevole, ma fare quadrato attorno ad un principio tanto evidente quanto problematico nella sua concreta realizzazione: il «primato della vita».
No, le cose non sono così semplici. La filosofia della legge 40 e le sue norme eludono la questione cruciale che lo sviluppo delle bioscienze ci fornisce una conoscenza più appropriata del processo della «vita», in tutte le sue diverse fasi. E quindi offre una dimensione più complessa all'intera questione morale.
Tutte le fasi genetiche sono da collocare sotto la tutela etica della vita, ma in modo articolato. Occorre tener conto di molti criteri, primo fra tutti quello terapeutico. E' sorprendente che i firmatari del Manifesto (specialmente i biologi) non abbiano preso conoscenza delle tesi scientifiche e delle preoccupazioni etiche, espresse non già in un fantomatico «Far West procreativo», ma dalla commissione Warnock nella civilissima Inghilterra. Essa consente una rigorosa controllata sperimentazione delle cellule embrionali a fini terapeutici. Sulla stessa strada si muove con più cautela la Germania.
Prendiamo il problema dell’utilizzo sperimentale degli embrioni soprannumerari in prospettiva terapeutica (è il primo quesito del referendum), o il problema della liceità di alcune riprogrammazioni delle cellule embrionali della primissima fase (ootidi). La legge 40 proibisce tutto questo a priori, in modo categorico in nome della difesa della «vita umana», perché in qualunque stadio biologico sarebbe già virtualmente presente la persona umana («il concepito») con i suoi diritti inalienabili.
Chi sostiene il referendum abrogativo parte invece dalla constatazione che lo sviluppo genetico si articola, in particolare nei primissimi stadi, con continuità e discontinuità che legittimano una tutela differenziata e ragionata della vita stessa. Qui si entra in un’ottica dell'etica della cura di carattere universalistico. Si aprono nuove dimensioni per una possibile variante dell'etica del dono.
Naturalmente la questione è delicata. Ma è inaccettabile che si denigri l’impostazione, ora delineata, come un’ipocrita relativizzazione del principio etico e si liquidino come pseudo-scientifiche le distinzioni introdotte. Se si respinge come non scientifica la denominazione di «pre-embrione», talvolta usata per segnalare la fase di sviluppo genetico che precede l'annidamento, si può replicare che non è scientifica neppure l'espressione di «concepito» che è il pilastro della filosofia della legge 40.
Trovo semplicistico qualificare tale legge come una «legge cattolica», ma non c’è dubbio che è un'occasione mancata per una prova di laicità della nostra democrazia. Questa infatti deve rispettare tutte le «visioni della vita», nel momento in cui definisce vincoli di legge per tutti i cittadini. Lo Stato laico parte dal presupposto che esiste un ethos diviso e divisivo dei suoi cittadini, che va regolato in modo ragionevolmente consensuale. Soprattutto quando fa serio riferimento al dato scientifico. L’attuale legge sulla fecondazione assistita manca questi obiettivi.
IL MANIFESTO DI SCIENZA E VITA
FECONDAZIONE
L’OCCASIONE DELLO STATO LAICO
Gian Enrico Rusconi
IL Manifesto del Comitato Scienza e Vita contro il referendum per l’abrogazione della legge sulla fecondazione assistita è assai deludente. Ripete assunti generalissimi sul «primato della vita», sui «diritti del concepito», sulla «deriva scientista» senza confrontarsi minimamente con le tesi di coloro che la pensano diversamente. Anzi, lascia intendere che i sostenitori del referendum (la cui formulazione sarebbe «volutamente equivoca») vanno incontro al «rischio di una società che non si fa scrupolo di manipolare l’uomo».
Il Manifesto insomma è un testo militante, non un serrato confronto di idee - come mi sarei aspettato dalle stimatissime personalità firmatarie. Peccato.
Evitando di entrare nel merito dei singoli difetti della legge (cui riconoscono semplicemente che «non è perfetta»), confermano che la loro preoccupazione non è una legislazione ragionevole, ma fare quadrato attorno ad un principio tanto evidente quanto problematico nella sua concreta realizzazione: il «primato della vita».
No, le cose non sono così semplici. La filosofia della legge 40 e le sue norme eludono la questione cruciale che lo sviluppo delle bioscienze ci fornisce una conoscenza più appropriata del processo della «vita», in tutte le sue diverse fasi. E quindi offre una dimensione più complessa all'intera questione morale.
Tutte le fasi genetiche sono da collocare sotto la tutela etica della vita, ma in modo articolato. Occorre tener conto di molti criteri, primo fra tutti quello terapeutico. E' sorprendente che i firmatari del Manifesto (specialmente i biologi) non abbiano preso conoscenza delle tesi scientifiche e delle preoccupazioni etiche, espresse non già in un fantomatico «Far West procreativo», ma dalla commissione Warnock nella civilissima Inghilterra. Essa consente una rigorosa controllata sperimentazione delle cellule embrionali a fini terapeutici. Sulla stessa strada si muove con più cautela la Germania.
Prendiamo il problema dell’utilizzo sperimentale degli embrioni soprannumerari in prospettiva terapeutica (è il primo quesito del referendum), o il problema della liceità di alcune riprogrammazioni delle cellule embrionali della primissima fase (ootidi). La legge 40 proibisce tutto questo a priori, in modo categorico in nome della difesa della «vita umana», perché in qualunque stadio biologico sarebbe già virtualmente presente la persona umana («il concepito») con i suoi diritti inalienabili.
Chi sostiene il referendum abrogativo parte invece dalla constatazione che lo sviluppo genetico si articola, in particolare nei primissimi stadi, con continuità e discontinuità che legittimano una tutela differenziata e ragionata della vita stessa. Qui si entra in un’ottica dell'etica della cura di carattere universalistico. Si aprono nuove dimensioni per una possibile variante dell'etica del dono.
Naturalmente la questione è delicata. Ma è inaccettabile che si denigri l’impostazione, ora delineata, come un’ipocrita relativizzazione del principio etico e si liquidino come pseudo-scientifiche le distinzioni introdotte. Se si respinge come non scientifica la denominazione di «pre-embrione», talvolta usata per segnalare la fase di sviluppo genetico che precede l'annidamento, si può replicare che non è scientifica neppure l'espressione di «concepito» che è il pilastro della filosofia della legge 40.
Trovo semplicistico qualificare tale legge come una «legge cattolica», ma non c’è dubbio che è un'occasione mancata per una prova di laicità della nostra democrazia. Questa infatti deve rispettare tutte le «visioni della vita», nel momento in cui definisce vincoli di legge per tutti i cittadini. Lo Stato laico parte dal presupposto che esiste un ethos diviso e divisivo dei suoi cittadini, che va regolato in modo ragionevolmente consensuale. Soprattutto quando fa serio riferimento al dato scientifico. L’attuale legge sulla fecondazione assistita manca questi obiettivi.
embrioni
da Valverde alla «libertà della coscienza critica»
L'Unità 28 Febbraio 2005
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima). In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano a morire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell'Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch'esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome. Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell'ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile. Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
Federico La Sala
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioché non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l'eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l'humus fa crescere il seme» (Françoise D'Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell'embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un'improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima). In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano a morire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell'Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch'esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome. Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell'ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile. Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
anniversari
la scoperta della struttura del Dna
La Provincia 28.2.04
DNA Quel 28 febbraio che aprì le porte della vita
Il biologo americano che ne scoprì la struttura, James Watson, in un libro ci racconta come, da quel giorno del 1953, molte cose sono cambiate
James Watson durante una recente conferenza nella quale ha illustrato il «Progetto Genoma»: nel 1953 il biologo americano rivelò la struttura del Dna con il collega Francis Crick
Marco Cambiaghi
Il 28 febbraio di 52 anni fa era un sabato: quel giorno James Watson e Francis Crick scoprivano la struttura della sostanza organica che sta alla base della vita. A richiamare l'importante evento è l'uscita in Italia del libro Dna. Il segreto della vita, scritto proprio da James Watson ed edito da Adelphi. Quel 28 febbraio 1953 Watson, biologo americano ventitreenne, si recò nel suo laboratorio e lì ebbe l'illuminazione della vita: aveva intuito, dopo lunghe ricerche, la struttura del Dna, la sostanza chimica che funge da messaggero della trasmissione genetica. Poco dopo lo raggiunse il suo collega Crick, fisico di 35 anni (dedicatosi alla ricerca biomolecolare dopo aver progettato mine magnetiche durante la guerra), comprendendo immediatamente l'importanza della scoperta. Insieme costituiscono il modello definitivo della molecola: il Dna ha una struttura a doppia elica, dove la 4 basi combaciano a coppie ben precise: A-T e C-G. Entrando per il pranzo nel loro solito pub, l'Eagle Pub di Cambridge, fu proprio Crick ad annunciare che, modestamente, avevano appena scoperto il «segreto della vita». Il Dna era stato scoperto quasi un secolo prima, nel 1869 da Friedrich Miecher, ma solo negli anni '50 si cominciò a studiarne meglio la struttura: Rosalind Franklin e Maurice Wilkins negli stessi anni dei due giovani ricercatori stavano infatti studiando il Dna attraverso analisi ai raggi X. Crick, Watson e Wilkins vinsero il premio Nobel nel 1962, mentre la Franklin non ebbe questa riconoscenza (il 16 aprile del 1958 all'età di 37 anni muore di cancro alle ovaie a causa della sua esposizione prolungata ai raggi X). Le scoperte e lo studio del genoma di molti organismi si moltiplicarono negli anni a venire. Nel 1959 venne identificata la prima anormalità cromosomica umana: la sindrome di Down, o trisomia del cromosoma 21. Nel 1967 Allan Wilson e Vincent Sarich dichiarano che la specie umana e i primati hanno iniziato a divergere evolutivamente intorno a 5 milioni di anni fa e non 25 come molti antropologi credevano. Nel 1973, nel primo esperimento di successo di manipolazione genetica, Stanley Cohen e Herbert Boyer inseriscono un gene di rospo in un Dna batterico, e nel 1980 Martin Cline e i suoi collaboratori creano il primo topo transgenico. Nel 1984 Alec Jeffreys e i suoi colleghi elaborano la «prova Dna», un metodo di identificazione inconfutabile, tuttora ampiamente utilizzato nelle indagini legali. Fino ad arrivare al 1990, quando ha inizio il «Progetto Genoma», un impegno internazionale per sequenziare e mappare il genoma dell'uomo, dapprima diretto dallo stesso Watson. È Bill Clinton il 26 giugno 2000 ad annunciare il completamento della prima bozza del genoma umano: abbiamo circa 30.000 geni, non molti più del piccolo verme C.Elegans che, seppur non più grande di una virgola, ne ha ben 19.000! L'aver codificato ed in parte compreso il nostro genoma e quello di molti animali ha ovviamente portato la mentalità scientifica a spingersi oltre, cercando di risolvere le sue disfunzioni o studiarne le modifiche. Il naturale susseguirsi degli eventi ha perciò portato alla creazione dei primi mutanti, come i moscerini con 4 ali o le zampe al posto delle antenne create da Ed Lewis (Nobel nel 1995), che hanno così tanto scandalizzato i tradizionalisti. Potendo togliere geni da un organismo ed inserirli in un altro, negli anni '70 si iniziò seriamente a pensare alla terapia genica: inserire in un virus capace di infettare un organismo un gene funzionale che ne sostituisca uno difettoso. I primi esperimenti su animali effettuati da Paul Berger nel 1971 scatenarono un putiferio, così da vietare successive sperimentazioni. Le scelte scientifiche e politiche furono rimesse in seguito in discussione negli anni a seguire e la terapia genica è oggi stata sperimentata anche sull'uomo. Di questi tempi, invece, le polemiche più focose sono rivolte agli Ogm, gli organismi geneticamente modificati che fanno così tanta paura. Si sente sempre più parlare di coltivazioni biologiche, Ogm-free, senza ricordare che proprio grazie agli Ogm l'uso dei pesticidi per le piante è significativamente diminuito. Inoltre, probabilmente molti non sanno che farmaci oggi ampiamente utilizzati, come l'insulina (fino al 1982 si usava quella bovina, che non è esattamente uguale all'umana, così da provocare spesso reazioni allergiche) o l'ormone della crescita, derivano da batteri Ogm. Un altro motivo per cui il Dna guadagna spesso le prime pagine dei giornali riguarda la clonazione e l'uso di embrioni a scopi scientifici. Tutti ricorderanno gli scandali provocati dalla nascita di Dolly, la pecora clonata nel 1997 da Ian Wilmut. È dell'8 febbraio la notizia che, in Gran Bretagna, il professor Wilmut ha avuto la licenza di clonare embrioni umani a scopo terapeutico. Ma il Dna è andato oltre, permettendoci di assemblare con esattezza alcuni tasselli che riguardano la storia della nostra specie. Che gli Ebrei sono indistinguibili dal resto delle popolazioni del Medio Oriente, compresi i palestinesi, in quanto tutti comuni discendenti di Abramo. O la scoperta dei nostri antenati comuni, una donna da cui derivano tutti i nostri mitocondri e un uomo, portatore del primo cromosoma Y: entrambi erano originari dell'Africa e di carnagione nera. Un'unica razza, come sostenne Einstein: la razza umana.
James Watson, «Dna. Il segreto della vita», Adelphi. 462 pagine, 39,50 euro
DNA Quel 28 febbraio che aprì le porte della vita
Il biologo americano che ne scoprì la struttura, James Watson, in un libro ci racconta come, da quel giorno del 1953, molte cose sono cambiate
James Watson durante una recente conferenza nella quale ha illustrato il «Progetto Genoma»: nel 1953 il biologo americano rivelò la struttura del Dna con il collega Francis Crick
Marco Cambiaghi
Il 28 febbraio di 52 anni fa era un sabato: quel giorno James Watson e Francis Crick scoprivano la struttura della sostanza organica che sta alla base della vita. A richiamare l'importante evento è l'uscita in Italia del libro Dna. Il segreto della vita, scritto proprio da James Watson ed edito da Adelphi. Quel 28 febbraio 1953 Watson, biologo americano ventitreenne, si recò nel suo laboratorio e lì ebbe l'illuminazione della vita: aveva intuito, dopo lunghe ricerche, la struttura del Dna, la sostanza chimica che funge da messaggero della trasmissione genetica. Poco dopo lo raggiunse il suo collega Crick, fisico di 35 anni (dedicatosi alla ricerca biomolecolare dopo aver progettato mine magnetiche durante la guerra), comprendendo immediatamente l'importanza della scoperta. Insieme costituiscono il modello definitivo della molecola: il Dna ha una struttura a doppia elica, dove la 4 basi combaciano a coppie ben precise: A-T e C-G. Entrando per il pranzo nel loro solito pub, l'Eagle Pub di Cambridge, fu proprio Crick ad annunciare che, modestamente, avevano appena scoperto il «segreto della vita». Il Dna era stato scoperto quasi un secolo prima, nel 1869 da Friedrich Miecher, ma solo negli anni '50 si cominciò a studiarne meglio la struttura: Rosalind Franklin e Maurice Wilkins negli stessi anni dei due giovani ricercatori stavano infatti studiando il Dna attraverso analisi ai raggi X. Crick, Watson e Wilkins vinsero il premio Nobel nel 1962, mentre la Franklin non ebbe questa riconoscenza (il 16 aprile del 1958 all'età di 37 anni muore di cancro alle ovaie a causa della sua esposizione prolungata ai raggi X). Le scoperte e lo studio del genoma di molti organismi si moltiplicarono negli anni a venire. Nel 1959 venne identificata la prima anormalità cromosomica umana: la sindrome di Down, o trisomia del cromosoma 21. Nel 1967 Allan Wilson e Vincent Sarich dichiarano che la specie umana e i primati hanno iniziato a divergere evolutivamente intorno a 5 milioni di anni fa e non 25 come molti antropologi credevano. Nel 1973, nel primo esperimento di successo di manipolazione genetica, Stanley Cohen e Herbert Boyer inseriscono un gene di rospo in un Dna batterico, e nel 1980 Martin Cline e i suoi collaboratori creano il primo topo transgenico. Nel 1984 Alec Jeffreys e i suoi colleghi elaborano la «prova Dna», un metodo di identificazione inconfutabile, tuttora ampiamente utilizzato nelle indagini legali. Fino ad arrivare al 1990, quando ha inizio il «Progetto Genoma», un impegno internazionale per sequenziare e mappare il genoma dell'uomo, dapprima diretto dallo stesso Watson. È Bill Clinton il 26 giugno 2000 ad annunciare il completamento della prima bozza del genoma umano: abbiamo circa 30.000 geni, non molti più del piccolo verme C.Elegans che, seppur non più grande di una virgola, ne ha ben 19.000! L'aver codificato ed in parte compreso il nostro genoma e quello di molti animali ha ovviamente portato la mentalità scientifica a spingersi oltre, cercando di risolvere le sue disfunzioni o studiarne le modifiche. Il naturale susseguirsi degli eventi ha perciò portato alla creazione dei primi mutanti, come i moscerini con 4 ali o le zampe al posto delle antenne create da Ed Lewis (Nobel nel 1995), che hanno così tanto scandalizzato i tradizionalisti. Potendo togliere geni da un organismo ed inserirli in un altro, negli anni '70 si iniziò seriamente a pensare alla terapia genica: inserire in un virus capace di infettare un organismo un gene funzionale che ne sostituisca uno difettoso. I primi esperimenti su animali effettuati da Paul Berger nel 1971 scatenarono un putiferio, così da vietare successive sperimentazioni. Le scelte scientifiche e politiche furono rimesse in seguito in discussione negli anni a seguire e la terapia genica è oggi stata sperimentata anche sull'uomo. Di questi tempi, invece, le polemiche più focose sono rivolte agli Ogm, gli organismi geneticamente modificati che fanno così tanta paura. Si sente sempre più parlare di coltivazioni biologiche, Ogm-free, senza ricordare che proprio grazie agli Ogm l'uso dei pesticidi per le piante è significativamente diminuito. Inoltre, probabilmente molti non sanno che farmaci oggi ampiamente utilizzati, come l'insulina (fino al 1982 si usava quella bovina, che non è esattamente uguale all'umana, così da provocare spesso reazioni allergiche) o l'ormone della crescita, derivano da batteri Ogm. Un altro motivo per cui il Dna guadagna spesso le prime pagine dei giornali riguarda la clonazione e l'uso di embrioni a scopi scientifici. Tutti ricorderanno gli scandali provocati dalla nascita di Dolly, la pecora clonata nel 1997 da Ian Wilmut. È dell'8 febbraio la notizia che, in Gran Bretagna, il professor Wilmut ha avuto la licenza di clonare embrioni umani a scopo terapeutico. Ma il Dna è andato oltre, permettendoci di assemblare con esattezza alcuni tasselli che riguardano la storia della nostra specie. Che gli Ebrei sono indistinguibili dal resto delle popolazioni del Medio Oriente, compresi i palestinesi, in quanto tutti comuni discendenti di Abramo. O la scoperta dei nostri antenati comuni, una donna da cui derivano tutti i nostri mitocondri e un uomo, portatore del primo cromosoma Y: entrambi erano originari dell'Africa e di carnagione nera. Un'unica razza, come sostenne Einstein: la razza umana.
James Watson, «Dna. Il segreto della vita», Adelphi. 462 pagine, 39,50 euro
archeologia
il tesoro di Priamo conteso
Corriere della Sera 28.2.05
Il «tesoro di Priamo» resta (per ora) all’ombra del Cremlino
La disputa tra Germania e Russia per il «tesoro di Priamo» si arricchisce di un nuovo capitolo. L’oro di Troia - scoperto dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel 1873 sotto le rovine dell’antica città turca e trafugato dal Museo nazionale di Berlino nel 1945 dalle truppe sovietiche - resterà proprietà del governo di Mosca come parte del risarcimento per i danni di guerra. Ad affermarlo in un’intervista al Moskovsky Komsomolets è Anatoly Vilkov, vicedirettore dell’agenzia culturale russa. Il «tesoro di Priamo» è stato abbandonato per circa mezzo secolo in un deposito sotterraneo segreto del Museo Puskin ed esposto al pubblico per la prima volta solo nell’aprile del 1996, con una mostra parziale della collezione. Proprio da metà degli anni Novanta va avanti la contesa tra il Cremlino e Berlino per il possesso del tesoro: la controversia tra i due Paesi sembra però in stallo. Infatti, anche la Russia ha delle pretese sui bottini di guerra tedeschi risalenti al secondo conflitto mondiale. In ogni caso, parlare di «tesoro di Priamo» è storicamente scorretto: l’oro non apparteneva al leggendario re di Troia, ma è di un’epoca anteriore ai fatti narrati da Omero.
Il «tesoro di Priamo» resta (per ora) all’ombra del Cremlino
La disputa tra Germania e Russia per il «tesoro di Priamo» si arricchisce di un nuovo capitolo. L’oro di Troia - scoperto dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel 1873 sotto le rovine dell’antica città turca e trafugato dal Museo nazionale di Berlino nel 1945 dalle truppe sovietiche - resterà proprietà del governo di Mosca come parte del risarcimento per i danni di guerra. Ad affermarlo in un’intervista al Moskovsky Komsomolets è Anatoly Vilkov, vicedirettore dell’agenzia culturale russa. Il «tesoro di Priamo» è stato abbandonato per circa mezzo secolo in un deposito sotterraneo segreto del Museo Puskin ed esposto al pubblico per la prima volta solo nell’aprile del 1996, con una mostra parziale della collezione. Proprio da metà degli anni Novanta va avanti la contesa tra il Cremlino e Berlino per il possesso del tesoro: la controversia tra i due Paesi sembra però in stallo. Infatti, anche la Russia ha delle pretese sui bottini di guerra tedeschi risalenti al secondo conflitto mondiale. In ogni caso, parlare di «tesoro di Priamo» è storicamente scorretto: l’oro non apparteneva al leggendario re di Troia, ma è di un’epoca anteriore ai fatti narrati da Omero.
fecondazione assistita
Corriere della Sera 28.2.05
«Quella foto e la mia vita tra le provette»
La biologa dell’immagine-simbolo del dibattito sulla fecondazione assistita
Enzo d’Errico
NAPOLI - Nessun figlio. Almeno finora. E, comunque, per scelta. Quella scelta che, invece, il destino ha negato alle centinaia e centinaia di donne che, in questi anni, sono venute a cercare l’ultima briciola di speranza nelle stanze del Centro Mediterraneo per la fecondazione assistita, dove Mirella Iaccarino lavora accanto al padre, Mariano, che dirige la struttura. D’accordo, vi starete chiedendo: ma chi è Mirella Iaccarino? E, soprattutto, perché dobbiamo ascoltare la sua storia? Il motivo è semplice: questa trentaduenne biologa napoletana, figlia di uno dei più noti ginecologi della città, è diventata suo malgrado il simbolo iconografico del dibattito etico-scientifico che sta lacerando il Paese e gli stessi schieramenti politici.
La sua immagine, scattata dal fotografo vesuviano Ciro Fusco, accompagna da settimane nelle pagine di tutti i giornali italiani le cronache sulla fecondazione assistita. E’ ritratta mentre lavora in sala operatoria ad un impianto di embrioni. I capelli sono raccolti in una piccola cuffia, ma il volto è in primo piano. Ecco perché tanti amici e colleghi l’hanno riconosciuta subito. «E ogni volta che quella foto viene pubblicata - aggiunge -, mi bersagliano di telefonate, dicendomi che sono diventata il simbolo di questa vicenda. All’inizio, pensavo che scherzassero, poi col passare del tempo mi sono accorta che facevano sul serio. Grazie al cielo, però, nessuno mi ha riconosciuta, a parte loro. Altrimenti... Beh, posso dirlo? Sono mostruosa in quello scatto... Non certo per colpa del fotografo: diciamo che la situazione non era fra le più indicate per un ritratto».
E giù un sorriso che mescola un pizzico di vanità femminile a una buona dose d’ironia, perché Mirella Iaccarino in questi otto anni spesi fra provette e congelatori ha imparato cos’è il tormento d’una donna che vuole diventare madre e non ci riesce, le sue angosce e le sue illusioni. E sa attutire col sorriso i piccoli inciampi della vita quotidiana.
«Ci sono stati dei momenti in cui avrei fatto volentieri a meno di vedere, sui giornali, la mia immagine associata a questioni come la clonazione e gli scambi di provetta, cose lontane anni luce dalla fecondazione assistita - spiega -. Io credo in questo lavoro, anche se non nascondo d’averlo scelto perché mio padre mi dava l’opportunità di farlo al meglio. Adesso, tuttavia, è una vera e propria passione: ho appena terminato all’università di Leeds il master di embriologia clinica. E lì nessuno sapeva chi fossi...».
Sta di fatto che fra pochi mesi anche Mirella Iaccarino, al pari degli altri italiani, dovrà decidere come rispondere ai quesiti referendari sulla legge che regolamenta le nascite in provetta. E sarebbe davvero singolare se lei, che bene o male è diventata il simbolo iconografico di questa discussione, si ritrovasse a difendere... «Difendere cosa? - sbotta -. Per me, già i referendum rappresentano un compromesso, figuriamoci se potrei sposare una sola delle tesi contenute dentro quella normativa. Anzi, lo dico chiaro e tondo: ero e rimango per l’abrogazione totale. Sia chiaro: una regolamentazione è necessaria, se vogliamo evitare che le donne cadano nelle mani d’imbroglioni e speculatori. Ma il punto è che una legge dovrebbe garantire standard di qualità ed efficienza nelle strutture sanitarie del settore, non imporre vincoli legati esclusivamente alla morale cattolica».
Mica vorrà liquidare così i dubbi della Chiesa e di chi s’appella alla sacralità dell’embrione come primo germoglio della vita. «I dati scientifici dimostrano che non c’è corrispondenza fra embrione e persona - ribatte Mirella Iaccarino -. Se è vero, infatti, che ogni persona era un embrione, non è vero che ogni embrione diventa una persona. Soltanto il venti per cento di essi attecchisce nell’utero, dunque di cosa parliamo? Lo ripeto: al punto in cui siamo, ben vengano i referendum, così almeno potremo cancellare i quattro punti fondamentali di questa orrenda legge. Per quanto mi riguarda, farò il possibile affinché la gente vada alle urne e vincano i sì. Dite che la mia foto sui giornali è il simbolo di questa contesa? Allora spero che serva a qualcosa e sono pronta a fare la campagna referendaria in prima fila. Già adesso, quando è possibile, ne parlo con le mie pazienti, cercando di spiegare quante informazioni sbagliate vengono contrabbandate come autentiche pur d’impedire che la scienza vada avanti e aiuti a risolvere piccole e grandi tragedie familiari».
Del resto, secondo la biologa napoletana, la nuova legge sta già producendo i suoi effetti. «Abbiamo una drastica riduzione del tasso di gravidanza assistita nelle pazienti oltre i trentacinque anni - racconta -. Al contrario, aumenta notevolmente il numero delle gestazioni gemellari nelle più giovani. Io sono sposata e finora non ho voluto figli. La mia, però, è stata una scelta. Per queste donne, invece no. E nessuno può togliere loro il diritto di provare a diventare madri. Come hanno sempre sognato».
«Quella foto e la mia vita tra le provette»
La biologa dell’immagine-simbolo del dibattito sulla fecondazione assistita
Enzo d’Errico
NAPOLI - Nessun figlio. Almeno finora. E, comunque, per scelta. Quella scelta che, invece, il destino ha negato alle centinaia e centinaia di donne che, in questi anni, sono venute a cercare l’ultima briciola di speranza nelle stanze del Centro Mediterraneo per la fecondazione assistita, dove Mirella Iaccarino lavora accanto al padre, Mariano, che dirige la struttura. D’accordo, vi starete chiedendo: ma chi è Mirella Iaccarino? E, soprattutto, perché dobbiamo ascoltare la sua storia? Il motivo è semplice: questa trentaduenne biologa napoletana, figlia di uno dei più noti ginecologi della città, è diventata suo malgrado il simbolo iconografico del dibattito etico-scientifico che sta lacerando il Paese e gli stessi schieramenti politici.
La sua immagine, scattata dal fotografo vesuviano Ciro Fusco, accompagna da settimane nelle pagine di tutti i giornali italiani le cronache sulla fecondazione assistita. E’ ritratta mentre lavora in sala operatoria ad un impianto di embrioni. I capelli sono raccolti in una piccola cuffia, ma il volto è in primo piano. Ecco perché tanti amici e colleghi l’hanno riconosciuta subito. «E ogni volta che quella foto viene pubblicata - aggiunge -, mi bersagliano di telefonate, dicendomi che sono diventata il simbolo di questa vicenda. All’inizio, pensavo che scherzassero, poi col passare del tempo mi sono accorta che facevano sul serio. Grazie al cielo, però, nessuno mi ha riconosciuta, a parte loro. Altrimenti... Beh, posso dirlo? Sono mostruosa in quello scatto... Non certo per colpa del fotografo: diciamo che la situazione non era fra le più indicate per un ritratto».
E giù un sorriso che mescola un pizzico di vanità femminile a una buona dose d’ironia, perché Mirella Iaccarino in questi otto anni spesi fra provette e congelatori ha imparato cos’è il tormento d’una donna che vuole diventare madre e non ci riesce, le sue angosce e le sue illusioni. E sa attutire col sorriso i piccoli inciampi della vita quotidiana.
«Ci sono stati dei momenti in cui avrei fatto volentieri a meno di vedere, sui giornali, la mia immagine associata a questioni come la clonazione e gli scambi di provetta, cose lontane anni luce dalla fecondazione assistita - spiega -. Io credo in questo lavoro, anche se non nascondo d’averlo scelto perché mio padre mi dava l’opportunità di farlo al meglio. Adesso, tuttavia, è una vera e propria passione: ho appena terminato all’università di Leeds il master di embriologia clinica. E lì nessuno sapeva chi fossi...».
Sta di fatto che fra pochi mesi anche Mirella Iaccarino, al pari degli altri italiani, dovrà decidere come rispondere ai quesiti referendari sulla legge che regolamenta le nascite in provetta. E sarebbe davvero singolare se lei, che bene o male è diventata il simbolo iconografico di questa discussione, si ritrovasse a difendere... «Difendere cosa? - sbotta -. Per me, già i referendum rappresentano un compromesso, figuriamoci se potrei sposare una sola delle tesi contenute dentro quella normativa. Anzi, lo dico chiaro e tondo: ero e rimango per l’abrogazione totale. Sia chiaro: una regolamentazione è necessaria, se vogliamo evitare che le donne cadano nelle mani d’imbroglioni e speculatori. Ma il punto è che una legge dovrebbe garantire standard di qualità ed efficienza nelle strutture sanitarie del settore, non imporre vincoli legati esclusivamente alla morale cattolica».
Mica vorrà liquidare così i dubbi della Chiesa e di chi s’appella alla sacralità dell’embrione come primo germoglio della vita. «I dati scientifici dimostrano che non c’è corrispondenza fra embrione e persona - ribatte Mirella Iaccarino -. Se è vero, infatti, che ogni persona era un embrione, non è vero che ogni embrione diventa una persona. Soltanto il venti per cento di essi attecchisce nell’utero, dunque di cosa parliamo? Lo ripeto: al punto in cui siamo, ben vengano i referendum, così almeno potremo cancellare i quattro punti fondamentali di questa orrenda legge. Per quanto mi riguarda, farò il possibile affinché la gente vada alle urne e vincano i sì. Dite che la mia foto sui giornali è il simbolo di questa contesa? Allora spero che serva a qualcosa e sono pronta a fare la campagna referendaria in prima fila. Già adesso, quando è possibile, ne parlo con le mie pazienti, cercando di spiegare quante informazioni sbagliate vengono contrabbandate come autentiche pur d’impedire che la scienza vada avanti e aiuti a risolvere piccole e grandi tragedie familiari».
Del resto, secondo la biologa napoletana, la nuova legge sta già producendo i suoi effetti. «Abbiamo una drastica riduzione del tasso di gravidanza assistita nelle pazienti oltre i trentacinque anni - racconta -. Al contrario, aumenta notevolmente il numero delle gestazioni gemellari nelle più giovani. Io sono sposata e finora non ho voluto figli. La mia, però, è stata una scelta. Per queste donne, invece no. E nessuno può togliere loro il diritto di provare a diventare madri. Come hanno sempre sognato».
storia
la Russia
Corriere della Sera 28.2.05
La lunga linea rossa, da Ivan il Terribile a Putin
C’è una lunga linea rossa che percorre tutta la storia della Russia, dalla Russia di Kiev a quella di Mosca, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dalla Grande Caterina a Nicola II, da Stalin a Gorbaciov. Questa costante, indipendentemente da chi era al potere, ma che il potere ha caratterizzato come in nessun altro Paese al mondo, si chiama autocrazia, il potere legibus solutus, al di sopra e al di fuori della legge, di un autocrate, fosse esso lo zar o il Partito comunista. Un potere che è la negazione stessa della democrazia e dello Stato di diritto e della rule of law, il «governo della legge». In Russia - con la sola, pallida eccezione, forse, dell’ultima stagione dell’impero zarista, prima della Rivoluzione d’Ottobre - ha costantemente governato l’arbitrio, e quando al volere dell’autocrate è subentrata una parvenza di legalità, secondo teoria e prassi giuspositivista, quest’ultima non è mai stata sorretta dal principio di legittimità, della «legge giusta», cioè dal rispetto dei diritti individuali, secondo teoria e prassi giusnaturalista propria dei Paesi di grande tradizione liberale e democratica.
La Russia non ha mai vissuto le guerre di religione, che hanno dilaniato il resto dell’Europa fino alla pace di Westfalia (1648), che ad esse avrebbe posto fine con la nascita del concetto di sovranità, ma che sono state contemporaneamente la premessa storica e politica della libertà di coscienza. Non ha vissuto l’Illuminismo, con la sua componente razionalistica e con il suo culto della tolleranza, premessa della grande rivoluzione francese del 1789, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della democrazia.
Dell’Illuminismo la Russia ha colto, se mai, l’aspetto antidemocratico e elitistico della seconda parte della grande rivoluzione, quella del giacobinismo e del Terrore trionfanti, primogenitori del leninismo e della presunzione deterministica marxiana di poter interpretare il corso della storia e di prevederne gli inevitabili esiti. Infine, la Russia non ha conosciuto la rivoluzione industriale, progenitrice del moderno capitalismo e del primo embrione di globalizzazione, ma anche del sindacalismo e del socialismo democratico, dei diritti dei lavoratori.
È in tale contesto socio-culturale e socio-politico che si è sviluppata, manifestata e maturata la seconda costante della Russia zarista, dell’Unione Sovietica, poi, che ancora informa e condiziona la politica estera della Russia post-sovietica: il panslavismo, espressione diretta del «complesso dell’accerchiamento» di cui hanno sofferto tutti i suoi governanti. L’immenso territorio sul quale si è estesa la Russia di sempre, per un terzo europea e due terzi asiatica, ha generato quasi inevitabilmente e inesorabilmente nelle sue popolazioni la sensazione di essere costantemente esposte a una possibile aggressione attraverso confini che, per la loro lunghezza e la loro distanza dal centro politico del Paese, sono stati sempre percepiti, sia dall’interno, sia dall’esterno, come «aperti» all’invasione. La paura ha generato una forte tendenza espansionistica, che, provocando a sua volta la reazione dei vicini, ha alimentato, come in un circolo vizioso, nuove paure nei russi. Il panslavismo ha assunto, pertanto, due forme, l’una - diremmo - europea, l’altra asiatica. La prima, si è caratterizzata come «estroversione», cioè come desiderio di integrazione nella cultura e nella società occidentali e europee. La seconda, come «introversione», cioè come volontà di separatezza asiatica. Ivan fu un panslavista della seconda specie e così fu Stalin; Pietro lo fu della prima specie e così lo è stato Gorbaciov e, entro certi limiti, lo è Putin.
Questa è, dunque, la Storia della Russia di Nicholas V. Riasanovsky, fino al 1983, integrata e aggiornata da Sergio Romano con un ultimo capitolo su quella contemporanea, dal 1983 ai giorni nostri, che il Corriere della Sera offre ai suoi lettori. Una lettura utile non solo a comprendere il passato di un grande Paese, con il quale l’Europa ha sempre dovuto e ancora deve fare i conti, ma anche il futuro del mondo intero.
La lunga linea rossa, da Ivan il Terribile a Putin
C’è una lunga linea rossa che percorre tutta la storia della Russia, dalla Russia di Kiev a quella di Mosca, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dalla Grande Caterina a Nicola II, da Stalin a Gorbaciov. Questa costante, indipendentemente da chi era al potere, ma che il potere ha caratterizzato come in nessun altro Paese al mondo, si chiama autocrazia, il potere legibus solutus, al di sopra e al di fuori della legge, di un autocrate, fosse esso lo zar o il Partito comunista. Un potere che è la negazione stessa della democrazia e dello Stato di diritto e della rule of law, il «governo della legge». In Russia - con la sola, pallida eccezione, forse, dell’ultima stagione dell’impero zarista, prima della Rivoluzione d’Ottobre - ha costantemente governato l’arbitrio, e quando al volere dell’autocrate è subentrata una parvenza di legalità, secondo teoria e prassi giuspositivista, quest’ultima non è mai stata sorretta dal principio di legittimità, della «legge giusta», cioè dal rispetto dei diritti individuali, secondo teoria e prassi giusnaturalista propria dei Paesi di grande tradizione liberale e democratica.
La Russia non ha mai vissuto le guerre di religione, che hanno dilaniato il resto dell’Europa fino alla pace di Westfalia (1648), che ad esse avrebbe posto fine con la nascita del concetto di sovranità, ma che sono state contemporaneamente la premessa storica e politica della libertà di coscienza. Non ha vissuto l’Illuminismo, con la sua componente razionalistica e con il suo culto della tolleranza, premessa della grande rivoluzione francese del 1789, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e della democrazia.
Dell’Illuminismo la Russia ha colto, se mai, l’aspetto antidemocratico e elitistico della seconda parte della grande rivoluzione, quella del giacobinismo e del Terrore trionfanti, primogenitori del leninismo e della presunzione deterministica marxiana di poter interpretare il corso della storia e di prevederne gli inevitabili esiti. Infine, la Russia non ha conosciuto la rivoluzione industriale, progenitrice del moderno capitalismo e del primo embrione di globalizzazione, ma anche del sindacalismo e del socialismo democratico, dei diritti dei lavoratori.
È in tale contesto socio-culturale e socio-politico che si è sviluppata, manifestata e maturata la seconda costante della Russia zarista, dell’Unione Sovietica, poi, che ancora informa e condiziona la politica estera della Russia post-sovietica: il panslavismo, espressione diretta del «complesso dell’accerchiamento» di cui hanno sofferto tutti i suoi governanti. L’immenso territorio sul quale si è estesa la Russia di sempre, per un terzo europea e due terzi asiatica, ha generato quasi inevitabilmente e inesorabilmente nelle sue popolazioni la sensazione di essere costantemente esposte a una possibile aggressione attraverso confini che, per la loro lunghezza e la loro distanza dal centro politico del Paese, sono stati sempre percepiti, sia dall’interno, sia dall’esterno, come «aperti» all’invasione. La paura ha generato una forte tendenza espansionistica, che, provocando a sua volta la reazione dei vicini, ha alimentato, come in un circolo vizioso, nuove paure nei russi. Il panslavismo ha assunto, pertanto, due forme, l’una - diremmo - europea, l’altra asiatica. La prima, si è caratterizzata come «estroversione», cioè come desiderio di integrazione nella cultura e nella società occidentali e europee. La seconda, come «introversione», cioè come volontà di separatezza asiatica. Ivan fu un panslavista della seconda specie e così fu Stalin; Pietro lo fu della prima specie e così lo è stato Gorbaciov e, entro certi limiti, lo è Putin.
Questa è, dunque, la Storia della Russia di Nicholas V. Riasanovsky, fino al 1983, integrata e aggiornata da Sergio Romano con un ultimo capitolo su quella contemporanea, dal 1983 ai giorni nostri, che il Corriere della Sera offre ai suoi lettori. Una lettura utile non solo a comprendere il passato di un grande Paese, con il quale l’Europa ha sempre dovuto e ancora deve fare i conti, ma anche il futuro del mondo intero.
L’opera: oggi in edicola con il «Corriere della Sera» esce «Storia della Russia» di Nicholas V. Riasanovsky integrato da un capitolo di Sergio Romano sulla Russia contemporanea e con una prefazione di Vittorio Strada. È il 27° volume della Storia Universale, in vendita a 12,90 oltre al prezzo del quotidiano
Lella Bertinotti
...e intanto Fausto va al Congresso
Corriere della Sera 28.2.05
VERSO IL CONGRESSO / «Crisi anche tra di noi, ci ha unito l’affetto»
«Prc, donne poco visibili A Fausto tutto lo spazio»
Lella Bertinotti: non siamo una coppia da Mulino Bianco
Maria Latella
ROMA - «Comincio a preoccuparmi già qualche giorno prima. Perchè per Fausto il congresso è, insieme, emozione e fatica fisica. Così, lo vivo anch’io: con emozione e con un po’di preoccupazione». Lella e Fausto Bertinotti stanno insieme da quarant’anni e in quarant’anni hanno condiviso cambiamenti di città e di lavoro, la nascita del figlio e dei nipoti, la carriera di lui, l’adeguarsi di lei. Non è una moglie del genere «un passo indietro» Lella Bertinotti. Ha sempre camminato insieme al marito, talvolta precedendolo nelle scelte politiche. Lui era socialista, lei del Psiup: finirono entrambi nel Pci, ma lei prima di lui. «Anche a Rifondazione, se è per questo, mi sono iscritta con anni di anticipo rispetto a Fausto. Il Pci l’ho lasciato nel 1987: avevo capito dove si stava andando a parare». Marina Sereni è stata appena nominata responsabile dell’organizzazione dei Ds. Un ruolo importante. Come mai non c’è una donna di Rifondazione Comunista con una vera visibilità?
«Le donne ci sono e lavorano moltissimo. Per fare politica, una donna deve metterci il doppio della passione che ci mette un uomo, perchè dovrà rinunciare a molte più cose. Comunque è vero, le donne hanno poca visibilità: è l’effetto di una politica che ruota sempre intorno alle stesse facce. Rifondazione non sfugge alla regola: purtroppo è molto Bertinotti e c’è poco spazio per gli altri».
Colpa di Bertinotti.
«No. Lui spesso propone altri, per un’intervista, per una trasmissione televisiva. Qualche volta la proposta viene fatta cadere, altre volte non succede niente».
Lei si considera più a destra o più a sinistra di suo marito?
«Non so se è giusto definirmi più a sinistra... Forse si tratta di una collocazione più umana che politica. Insomma: io non sarei capace di trattare con certe persone, Fausto invece lo fa».
Chi le piace e chi le dispiace dei leader politici?
«Parliamo di quelli stranieri, è meglio. Ne ho conosciuti tanti, da Fidel Castro ad Arafat, a Marcos. E’ uno dei regali che ho ricevuto dalla politica: poter conoscere personaggi straordinari. A Cuba dormivamo in una casa, il cui giardino comunicava con quello di Gabriel Garcia Marquez. Mi alzavo all’alba per vederlo e una volta lui mi ha scoperta: "Cosa fa in piedi a quest’ora?". "Speravo di incontrarla" gli ho detto, come se fossi una fan di quindici anni. Un incontro sorprendente è stato quello con Chavez, il presidente venezuelano. Ero molto titubante, in fondo ha un passato da paracadutista. Invece è interessante, simpatico, autoironico».
Quarant’anni insieme a suo marito. Mai tentati dalla separazione?
«Certo che ci sono stati momenti di crisi, se no saremmo una coppia da Mulino Bianco. Ci sono stati, ma sono passati col prevalere della solidarietà, degli affetti».
E’ stata più moglie o più madre?
Pausa di incertezza. «Con tutti gli inevitabili errori, credo di essere stata una madre presente, per Duccio. Il padre lo seguiva negli studi, ma per il resto ci sono sempre stata io. Per anni abbiamo sentito dire che non conta la quantità del tempo dedicato ai figli, conta la qualità... Baggianate. Contano le ore, altrochè. I figli vogliono una madre attenta, interessata a loro, non distratta da mille altre cose».
Che cosa è cambiato rispetto agli anni in cui lei era una giovane mamma?
«C’è la lacerazione delle famiglie. Questo è cambiato. I bambini, oggi, crescono in famiglie che non sono più unite. Succede, è successo anche ai miei nipotini. Ed è una differenza grandissima perchè i primi a sentirsi precari sono proprio i piccoli. Provate a chiedere a un bambino se preferisce che mamma e papà restino insieme bisticciando o se è meglio che si separino. Risponderà che li vuole insieme, pure se bisticciano. I nostri figli crescevano con la certezza di avere una famiglia, brutta o bella che fosse. I bambini di adesso questa certezza non ce l’hanno».
La politica può influire su questa dimensione della vita?
«La politica può fare tantissimo. A cominciare dalla scuola. Io ho lavorato per trent’anni nella pubblica amministrazione, prima alla Provincia di Novara, poi a Torino e a Roma. All’epoca, la Provincia aveva larghe competenze sulla scuola e io ho seguito i viaggi che si organizzavano per gli studenti, ad Auschwitz o in Sicilia, per far conoscere loro il teatro di Pirandello. Oggi la scuola mi pare molto trascurata. Si dimentica che non è solo sede di apprendimento, ma luogo in cui si formano i cittadini. Tanto più in una fase come questa, con le famiglie fragili di adesso».
Difficile che la scuola si sostituisca alla famiglia, non le pare?
«Non sto dicendo questo. Ma la scuola dovrebbe poter intervenire. Mi dicono che negli istituti scolastici i centri di assistenza psicologica hanno liste d’attesa lunghissime. Ci sono tanti problemi, nuovi e vecchi, dalle tensioni domestiche alla droga. La politica può e deve occuparsi di questioni che peggiorano la vita delle famiglie, dal costo degli affitti alla precarietà del lavoro».
Le sembra che Fausto Bertinotti se ne occupi?
«A me sembra tra i più attenti. Se il salario non fosse precario, forse nelle famiglie si litigherebbe meno... Qualche volta gli dico che parla troppo poco di scuola».
Forse vuole tenersi buono il voto degli studenti...
Ride. «Non credo. I giovani votano Rifondazione perchè sentono che parliamo delle loro preoccupazioni, il salario sociale, il futuro precario...».
Del futuro precario che cosa la preoccupa di più?
«Il fatto che si possa crescere senza forti ideali. Dall’assenza di ideali derivano tutte le altre preoccupazioni, il farsi male con la droga, il ricorrere alla violenza. Con i miei nipoti cerco di parlare di questo, anche se sono piccoli. Leggo loro delle storie oppure vediamo insieme dei film. Poi ci sono quelle che Natalia Ginzburg chiamava "le piccole virtù": insegnar loro che è bello voler bene alla città in cui si vive, che bisogna proteggerla, non buttare la carta del gelato per terra... Ogni tanto mi scappa di mano il mio ruolo di nonna e tendo a fare l’educatrice. Non dovrei, lo so, ci sono mamma e papà per questo».
L'Unità 28 Febbraio 2005
«Non sarà l’ultimo congresso comunista»
Bertinotti: il timone riformista? Le parole di Prodi non mi offendono, proveremo a metterle in discussione
Simone Collini
ROMA Fausto Bertinotti esclude che quello che si apre giovedì a Venezia Lido sia l’ultimo congresso di un partito comunista. Alle quattro mozioni di minoranza che contestano l’alleanza con il centrosinistra, il segretario del Prc risponde che in questa fase il partito deve entrare in un eventuale governo dell’Unione, mentre alla Federazione dell’Ulivo fa sapere: «Quando Prodi dice che il timone deve essere riformista, io non mi offendo. Dico però che proveremo a dimostrare che questo può essere messo in discussione».
Onorevole Bertinotti, per ora la sua mozione è data al 59,7% dei consensi. Valeva la pena annunciare a gennaio che avrebbe governato il partito anche con il 51%?
«Non era un atteggiamento arrogante, quello, non aveva il senso di una manifestazione muscolare. Il messaggio era: andiamo a un chiarimento di fondo ora, perché poi si apre una fase complessa di gestione - che va dalle elezioni regionali alle politiche, dalla costruzione dell’Unione alla definizione del programma dell’alternativa - che deve essere messa al riparo da elementi di incertezza e di ambiguità».
A giudicare dalle dichiarazioni che vengono dalle minoranze alla vigilia del congresso nazionale, il chiarimento sembra tutt’altro che compiuto.
«Da parte nostra ci siamo mossi su una linea molto netta, non si è fatta nessuna concessione, anzi addirittura si è lavorato a rendere particolarmente nitido il profilo della scelta. Quindi è naturale che le ragioni di contrasto emergano e continuino ad emergere ora. Questo è un congresso di scelta netta, e mi pare che la nostra posizione sia stata premiata, perché in questi ultimi anni abbiamo governato il partito con percentuali inferiori».
Secondo il senatore Malabarba, la sua proposta vince ma non convince, e definisce emblematico il caso del circolo di Mirafiori, dove la mozione trotskista di cui è primo firmatario ha superato il 65% dei consensi.
«È un’operazione inelegante e poco significativa. Né mi piace replicare, perché potrei farlo citando molte altre realtà operaie o di lotta che non ritengo gerarchicamente inferiori rispetto a Mirafiori, a cui pure mi sento molto legato».
Fiat Mirafiori è un luogo simbolo della lotta operaia...
«Allora dico che Acerra non è meno importante, Terni non è meno importante. Ma lo dico non per una rivalsa, ma per sottolineare che si sta insistendo su un’idea del conflitto chiaramente diversa da quella che il movimento ci ha insegnato. Siccome le forme plurali di lotta vanno dal luogo di lavoro al territorio, dalla struttura dei servizi a nuove forme di organizzazione come l’articolazione dei centri sociali, la riduzione di tutte queste espressioni ad una sola è un’operazione poco rispettosa della struttura stessa del movimento».
Tutte e quattro le mozioni alternative alla sua contestano l’alleanza con il centrosinistra: o perché ancora non si è discusso il programma, come fa l’area dell’Ernesto, o perché il Prc non può andare al governo con forze liberali, come sostengono i trotskisti. Come risponde?
«Rispondo con due argomentazioni. La prima, è che è del tutto arbitrario e anche fuorviante individuare il centro del congresso nella questione del governo. Il centro è la costruzione di un’alternativa di società di fronte alle crisi delle politiche neoliberiste e in un mondo caratterizzato dalla guerra e dal terrorismo».
Sembra elusivo...
«Nient’affatto. Stiamo parlando di mettere in campo ricette politiche completamente diverse dalle attuali. Dico anche che l’impoverimento della politica che si produce con la centralità del governo è foriera di grandissimi danni e che per quanto ne siamo capaci noi dobbiamo evitarla. Il governo è considerato un passaggio che può doversi fare, non necessariamente indica una collocazione in sé migliore di quella dell’opposizione, dipende. Ma il punto è capire in che strategia è inserita questa scelta. E in questa strategia, in cui resta centrale il rapporto con i movimenti, il senso che vogliamo trasmettere è di un aut-aut, per l’Italia, per l’Europa, per il mondo. Abbiamo o no una percezione drammatica del passaggio che la destra opera in Italia e nel mondo? C’è una necessità della politica oppure no?».
Detto nel modo più semplice possibile?
«In questa situazione, se una forza politica di sinistra non si mette nella condizione di raccogliere la domanda che viene da tutti i popoli della sinistra di cacciare Berlusconi, dimostrando il proprio contributo attivo, finisce per essere cancellata come forza di massa. E aggiungo giustamente, perché vorrebbe dire che non si vedono le conseguenze, anche di lungo periodo, provocate dalle politiche del governo Berlusconi».
Al congresso di Rimini avete rotto con lo stalinismo. Questo potrebbe essere l’ultimo congresso di un partito comunista?
«No. Da Rimini siamo andati avanti fino alla nonviolenza e abbiamo lavorato per riformare profondamente la nostra cultura politica, questo è vero. Però tutta questa operazione è fatta in modo da consentire per la prima volta dopo 25 anni una uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio, perché se alla fine del secolo scorso la partita era chiusa, all’inizio di questo secolo si è riaperta».
E questo che sia l’ultimo congresso che la vede segretario, si può dire?
«Ho il dovere di riserbo nei confronti dei congressisti. Però penso che la politica non si sottragga alla legge del tempo».
L’Europa del centrosinistra sarà stretta alleata degli Stati Uniti?
«Io spero in un atlantico largo, che è l’unica protezione possibile al riparo della quale possa crescere un’Europa autonoma, sia come soggetto di politica internazionale, sia come modello sociale ed economico».
Secondo D’Alema il Papa ha giocato un ruolo positivo nella fine dell’Unione sovietica, secondo lei?
«Dico soltanto che malgrado veda l’incidenza della globalizzazione e anche di forze come quelle della chiesa, penso che la ragione principale del crollo dei regimi sia tutta interna».
Cioè?
«C’è stata un’implosione per perdita di consenso. E, perciò, storicamente comprensibile e giustificata».
Il Tempo 27.2.05
LA CONTROMOSSA DI RIFONDAZIONE Ma Bertinotti rilancia:
«Dobbiamo trovare un accordo»
«NOI siamo d'accordo nell'offrire ai Radicali quella "ospitalità elettorale" nel nostro schieramento che è ovviamente e dichiaratamente cosa ben diversa da un accordo programmatico e dalla condivisione comune di tesi politiche». Lo afferma il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, rispondendo ai lettori di Liberazione nel numero in edicola oggi. «Non lo facciamo — dice ancora il leader del Prc — per un pugno di voti in più. In ogni caso ribadisco che accostarsi a questo problema con un'ottica puramente utilitaristica sarebbe una operazione miope e probabilmente inefficace. Che noi non siamo d'accordo con i Radicali è cosa davvero fin troppo evidente. Lo dimostrano inequivocabilmente le battaglie che abbiamo combattuto spesso per obiettivi e su versanti non solo diversi, ma addirittura opposti. Non è tuttavia un caso se questo sia sempre avvenuto entro un rapporto di sostanziale e reciproco rispetto. Né si può chiedere a loro né tantomeno pretendere abiure delle loro posizioni che suonerebbero inevitabilmente false e quindi rappresenterebbero un'offesa alla intelligenza degli elettori». «Naturalmente — dice ancora il segretario di Rifondazione — questa diversità non è assoluta, non è estesa a tutti i campi, non diventa totale incomunicabilità. Non lo è stato nel passato, non lo è neanche oggi. È infatti evidente che attorno alla questione della presenza dei Radicali nelle liste dell'Unione, si annoda il tema del referendum sulla procreazione assistita. La stessa data della sua convocazione è oggetto di un acceso scontro politico». Bertinotti infine, riferendosi anche alle considerazioni di Arturo Parisi in una lettera al Corriere della Sera, lega il discorso dell'alleanza con i Radicali alla questione del bipolarismo e della legge elettorale. «Proprio noi, che da sempre siamo contrari al maggioritario, e pur dovendolo subire, non rinunciamo all'idea — afferma il leader del Prc — di una riforma istituzionale basata su un sistema essenzialmente proporzionale, non possiamo semplicemente rispondere: "chi è causa del suo mal pianga se stesso"». «Anzi, dobbiamo aggiungere esplicitamente un altro motivo della nostra disponibilità alla "ospitalità" elettoralè verso i Radicali, quello, appunto di una critica in positivo e di una contromossa, per quanto limitata, rispetto all'attuale sistema elettorale. Il che — conclude Bertinotti — può essere anche un buon esempio, un pro-memoria, per la prossima legislatura».
VERSO IL CONGRESSO / «Crisi anche tra di noi, ci ha unito l’affetto»
«Prc, donne poco visibili A Fausto tutto lo spazio»
Lella Bertinotti: non siamo una coppia da Mulino Bianco
Maria Latella
ROMA - «Comincio a preoccuparmi già qualche giorno prima. Perchè per Fausto il congresso è, insieme, emozione e fatica fisica. Così, lo vivo anch’io: con emozione e con un po’di preoccupazione». Lella e Fausto Bertinotti stanno insieme da quarant’anni e in quarant’anni hanno condiviso cambiamenti di città e di lavoro, la nascita del figlio e dei nipoti, la carriera di lui, l’adeguarsi di lei. Non è una moglie del genere «un passo indietro» Lella Bertinotti. Ha sempre camminato insieme al marito, talvolta precedendolo nelle scelte politiche. Lui era socialista, lei del Psiup: finirono entrambi nel Pci, ma lei prima di lui. «Anche a Rifondazione, se è per questo, mi sono iscritta con anni di anticipo rispetto a Fausto. Il Pci l’ho lasciato nel 1987: avevo capito dove si stava andando a parare». Marina Sereni è stata appena nominata responsabile dell’organizzazione dei Ds. Un ruolo importante. Come mai non c’è una donna di Rifondazione Comunista con una vera visibilità?
«Le donne ci sono e lavorano moltissimo. Per fare politica, una donna deve metterci il doppio della passione che ci mette un uomo, perchè dovrà rinunciare a molte più cose. Comunque è vero, le donne hanno poca visibilità: è l’effetto di una politica che ruota sempre intorno alle stesse facce. Rifondazione non sfugge alla regola: purtroppo è molto Bertinotti e c’è poco spazio per gli altri».
Colpa di Bertinotti.
«No. Lui spesso propone altri, per un’intervista, per una trasmissione televisiva. Qualche volta la proposta viene fatta cadere, altre volte non succede niente».
Lei si considera più a destra o più a sinistra di suo marito?
«Non so se è giusto definirmi più a sinistra... Forse si tratta di una collocazione più umana che politica. Insomma: io non sarei capace di trattare con certe persone, Fausto invece lo fa».
Chi le piace e chi le dispiace dei leader politici?
«Parliamo di quelli stranieri, è meglio. Ne ho conosciuti tanti, da Fidel Castro ad Arafat, a Marcos. E’ uno dei regali che ho ricevuto dalla politica: poter conoscere personaggi straordinari. A Cuba dormivamo in una casa, il cui giardino comunicava con quello di Gabriel Garcia Marquez. Mi alzavo all’alba per vederlo e una volta lui mi ha scoperta: "Cosa fa in piedi a quest’ora?". "Speravo di incontrarla" gli ho detto, come se fossi una fan di quindici anni. Un incontro sorprendente è stato quello con Chavez, il presidente venezuelano. Ero molto titubante, in fondo ha un passato da paracadutista. Invece è interessante, simpatico, autoironico».
Quarant’anni insieme a suo marito. Mai tentati dalla separazione?
«Certo che ci sono stati momenti di crisi, se no saremmo una coppia da Mulino Bianco. Ci sono stati, ma sono passati col prevalere della solidarietà, degli affetti».
E’ stata più moglie o più madre?
Pausa di incertezza. «Con tutti gli inevitabili errori, credo di essere stata una madre presente, per Duccio. Il padre lo seguiva negli studi, ma per il resto ci sono sempre stata io. Per anni abbiamo sentito dire che non conta la quantità del tempo dedicato ai figli, conta la qualità... Baggianate. Contano le ore, altrochè. I figli vogliono una madre attenta, interessata a loro, non distratta da mille altre cose».
Che cosa è cambiato rispetto agli anni in cui lei era una giovane mamma?
«C’è la lacerazione delle famiglie. Questo è cambiato. I bambini, oggi, crescono in famiglie che non sono più unite. Succede, è successo anche ai miei nipotini. Ed è una differenza grandissima perchè i primi a sentirsi precari sono proprio i piccoli. Provate a chiedere a un bambino se preferisce che mamma e papà restino insieme bisticciando o se è meglio che si separino. Risponderà che li vuole insieme, pure se bisticciano. I nostri figli crescevano con la certezza di avere una famiglia, brutta o bella che fosse. I bambini di adesso questa certezza non ce l’hanno».
La politica può influire su questa dimensione della vita?
«La politica può fare tantissimo. A cominciare dalla scuola. Io ho lavorato per trent’anni nella pubblica amministrazione, prima alla Provincia di Novara, poi a Torino e a Roma. All’epoca, la Provincia aveva larghe competenze sulla scuola e io ho seguito i viaggi che si organizzavano per gli studenti, ad Auschwitz o in Sicilia, per far conoscere loro il teatro di Pirandello. Oggi la scuola mi pare molto trascurata. Si dimentica che non è solo sede di apprendimento, ma luogo in cui si formano i cittadini. Tanto più in una fase come questa, con le famiglie fragili di adesso».
Difficile che la scuola si sostituisca alla famiglia, non le pare?
«Non sto dicendo questo. Ma la scuola dovrebbe poter intervenire. Mi dicono che negli istituti scolastici i centri di assistenza psicologica hanno liste d’attesa lunghissime. Ci sono tanti problemi, nuovi e vecchi, dalle tensioni domestiche alla droga. La politica può e deve occuparsi di questioni che peggiorano la vita delle famiglie, dal costo degli affitti alla precarietà del lavoro».
Le sembra che Fausto Bertinotti se ne occupi?
«A me sembra tra i più attenti. Se il salario non fosse precario, forse nelle famiglie si litigherebbe meno... Qualche volta gli dico che parla troppo poco di scuola».
Forse vuole tenersi buono il voto degli studenti...
Ride. «Non credo. I giovani votano Rifondazione perchè sentono che parliamo delle loro preoccupazioni, il salario sociale, il futuro precario...».
Del futuro precario che cosa la preoccupa di più?
«Il fatto che si possa crescere senza forti ideali. Dall’assenza di ideali derivano tutte le altre preoccupazioni, il farsi male con la droga, il ricorrere alla violenza. Con i miei nipoti cerco di parlare di questo, anche se sono piccoli. Leggo loro delle storie oppure vediamo insieme dei film. Poi ci sono quelle che Natalia Ginzburg chiamava "le piccole virtù": insegnar loro che è bello voler bene alla città in cui si vive, che bisogna proteggerla, non buttare la carta del gelato per terra... Ogni tanto mi scappa di mano il mio ruolo di nonna e tendo a fare l’educatrice. Non dovrei, lo so, ci sono mamma e papà per questo».
L'Unità 28 Febbraio 2005
«Non sarà l’ultimo congresso comunista»
Bertinotti: il timone riformista? Le parole di Prodi non mi offendono, proveremo a metterle in discussione
Simone Collini
ROMA Fausto Bertinotti esclude che quello che si apre giovedì a Venezia Lido sia l’ultimo congresso di un partito comunista. Alle quattro mozioni di minoranza che contestano l’alleanza con il centrosinistra, il segretario del Prc risponde che in questa fase il partito deve entrare in un eventuale governo dell’Unione, mentre alla Federazione dell’Ulivo fa sapere: «Quando Prodi dice che il timone deve essere riformista, io non mi offendo. Dico però che proveremo a dimostrare che questo può essere messo in discussione».
Onorevole Bertinotti, per ora la sua mozione è data al 59,7% dei consensi. Valeva la pena annunciare a gennaio che avrebbe governato il partito anche con il 51%?
«Non era un atteggiamento arrogante, quello, non aveva il senso di una manifestazione muscolare. Il messaggio era: andiamo a un chiarimento di fondo ora, perché poi si apre una fase complessa di gestione - che va dalle elezioni regionali alle politiche, dalla costruzione dell’Unione alla definizione del programma dell’alternativa - che deve essere messa al riparo da elementi di incertezza e di ambiguità».
A giudicare dalle dichiarazioni che vengono dalle minoranze alla vigilia del congresso nazionale, il chiarimento sembra tutt’altro che compiuto.
«Da parte nostra ci siamo mossi su una linea molto netta, non si è fatta nessuna concessione, anzi addirittura si è lavorato a rendere particolarmente nitido il profilo della scelta. Quindi è naturale che le ragioni di contrasto emergano e continuino ad emergere ora. Questo è un congresso di scelta netta, e mi pare che la nostra posizione sia stata premiata, perché in questi ultimi anni abbiamo governato il partito con percentuali inferiori».
Secondo il senatore Malabarba, la sua proposta vince ma non convince, e definisce emblematico il caso del circolo di Mirafiori, dove la mozione trotskista di cui è primo firmatario ha superato il 65% dei consensi.
«È un’operazione inelegante e poco significativa. Né mi piace replicare, perché potrei farlo citando molte altre realtà operaie o di lotta che non ritengo gerarchicamente inferiori rispetto a Mirafiori, a cui pure mi sento molto legato».
Fiat Mirafiori è un luogo simbolo della lotta operaia...
«Allora dico che Acerra non è meno importante, Terni non è meno importante. Ma lo dico non per una rivalsa, ma per sottolineare che si sta insistendo su un’idea del conflitto chiaramente diversa da quella che il movimento ci ha insegnato. Siccome le forme plurali di lotta vanno dal luogo di lavoro al territorio, dalla struttura dei servizi a nuove forme di organizzazione come l’articolazione dei centri sociali, la riduzione di tutte queste espressioni ad una sola è un’operazione poco rispettosa della struttura stessa del movimento».
Tutte e quattro le mozioni alternative alla sua contestano l’alleanza con il centrosinistra: o perché ancora non si è discusso il programma, come fa l’area dell’Ernesto, o perché il Prc non può andare al governo con forze liberali, come sostengono i trotskisti. Come risponde?
«Rispondo con due argomentazioni. La prima, è che è del tutto arbitrario e anche fuorviante individuare il centro del congresso nella questione del governo. Il centro è la costruzione di un’alternativa di società di fronte alle crisi delle politiche neoliberiste e in un mondo caratterizzato dalla guerra e dal terrorismo».
Sembra elusivo...
«Nient’affatto. Stiamo parlando di mettere in campo ricette politiche completamente diverse dalle attuali. Dico anche che l’impoverimento della politica che si produce con la centralità del governo è foriera di grandissimi danni e che per quanto ne siamo capaci noi dobbiamo evitarla. Il governo è considerato un passaggio che può doversi fare, non necessariamente indica una collocazione in sé migliore di quella dell’opposizione, dipende. Ma il punto è capire in che strategia è inserita questa scelta. E in questa strategia, in cui resta centrale il rapporto con i movimenti, il senso che vogliamo trasmettere è di un aut-aut, per l’Italia, per l’Europa, per il mondo. Abbiamo o no una percezione drammatica del passaggio che la destra opera in Italia e nel mondo? C’è una necessità della politica oppure no?».
Detto nel modo più semplice possibile?
«In questa situazione, se una forza politica di sinistra non si mette nella condizione di raccogliere la domanda che viene da tutti i popoli della sinistra di cacciare Berlusconi, dimostrando il proprio contributo attivo, finisce per essere cancellata come forza di massa. E aggiungo giustamente, perché vorrebbe dire che non si vedono le conseguenze, anche di lungo periodo, provocate dalle politiche del governo Berlusconi».
Al congresso di Rimini avete rotto con lo stalinismo. Questo potrebbe essere l’ultimo congresso di un partito comunista?
«No. Da Rimini siamo andati avanti fino alla nonviolenza e abbiamo lavorato per riformare profondamente la nostra cultura politica, questo è vero. Però tutta questa operazione è fatta in modo da consentire per la prima volta dopo 25 anni una uscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio, perché se alla fine del secolo scorso la partita era chiusa, all’inizio di questo secolo si è riaperta».
E questo che sia l’ultimo congresso che la vede segretario, si può dire?
«Ho il dovere di riserbo nei confronti dei congressisti. Però penso che la politica non si sottragga alla legge del tempo».
L’Europa del centrosinistra sarà stretta alleata degli Stati Uniti?
«Io spero in un atlantico largo, che è l’unica protezione possibile al riparo della quale possa crescere un’Europa autonoma, sia come soggetto di politica internazionale, sia come modello sociale ed economico».
Secondo D’Alema il Papa ha giocato un ruolo positivo nella fine dell’Unione sovietica, secondo lei?
«Dico soltanto che malgrado veda l’incidenza della globalizzazione e anche di forze come quelle della chiesa, penso che la ragione principale del crollo dei regimi sia tutta interna».
Cioè?
«C’è stata un’implosione per perdita di consenso. E, perciò, storicamente comprensibile e giustificata».
Il Tempo 27.2.05
LA CONTROMOSSA DI RIFONDAZIONE Ma Bertinotti rilancia:
«Dobbiamo trovare un accordo»
«NOI siamo d'accordo nell'offrire ai Radicali quella "ospitalità elettorale" nel nostro schieramento che è ovviamente e dichiaratamente cosa ben diversa da un accordo programmatico e dalla condivisione comune di tesi politiche». Lo afferma il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, rispondendo ai lettori di Liberazione nel numero in edicola oggi. «Non lo facciamo — dice ancora il leader del Prc — per un pugno di voti in più. In ogni caso ribadisco che accostarsi a questo problema con un'ottica puramente utilitaristica sarebbe una operazione miope e probabilmente inefficace. Che noi non siamo d'accordo con i Radicali è cosa davvero fin troppo evidente. Lo dimostrano inequivocabilmente le battaglie che abbiamo combattuto spesso per obiettivi e su versanti non solo diversi, ma addirittura opposti. Non è tuttavia un caso se questo sia sempre avvenuto entro un rapporto di sostanziale e reciproco rispetto. Né si può chiedere a loro né tantomeno pretendere abiure delle loro posizioni che suonerebbero inevitabilmente false e quindi rappresenterebbero un'offesa alla intelligenza degli elettori». «Naturalmente — dice ancora il segretario di Rifondazione — questa diversità non è assoluta, non è estesa a tutti i campi, non diventa totale incomunicabilità. Non lo è stato nel passato, non lo è neanche oggi. È infatti evidente che attorno alla questione della presenza dei Radicali nelle liste dell'Unione, si annoda il tema del referendum sulla procreazione assistita. La stessa data della sua convocazione è oggetto di un acceso scontro politico». Bertinotti infine, riferendosi anche alle considerazioni di Arturo Parisi in una lettera al Corriere della Sera, lega il discorso dell'alleanza con i Radicali alla questione del bipolarismo e della legge elettorale. «Proprio noi, che da sempre siamo contrari al maggioritario, e pur dovendolo subire, non rinunciamo all'idea — afferma il leader del Prc — di una riforma istituzionale basata su un sistema essenzialmente proporzionale, non possiamo semplicemente rispondere: "chi è causa del suo mal pianga se stesso"». «Anzi, dobbiamo aggiungere esplicitamente un altro motivo della nostra disponibilità alla "ospitalità" elettoralè verso i Radicali, quello, appunto di una critica in positivo e di una contromossa, per quanto limitata, rispetto all'attuale sistema elettorale. Il che — conclude Bertinotti — può essere anche un buon esempio, un pro-memoria, per la prossima legislatura».
libri
Gore Vidal contro il Logos occidentale
La Stampa Tuttolibri 26.2.05
Il fuoco di Zoroastro
sapienza d’Oriente
«Creazione», un iperbolico e visionario romanzo antioccidentale in cui Gore Vidal intreccia storie e idee di Persia, India, Cina
Silvia Ronchey
QUANDO un ragazzo indiano giunge all'età che chiamano della seconda nascita, gli danno un cordone fatto con tre fili intrecciati che dovrà portare attraverso il petto, dalla spalla all'ascella, per il resto della vita», scrive Gore Vidal in Creazione. Arrivato all'età della sua terza nascita, nel 1981, Gore Vidal si è guardato sul petto e ha visto un cordone intrecciato di Persia, India e quello che chiama Catai ed è la Cina. E ha immaginato che da lì lui e tutti noi veniamo, e che siamo tutti debitori della sapienza dell'Oriente. In questo che con qualche esagerazione il New York Times ha definito il suo romanzo migliore, questo figlio ribelle dell'impero americano ha voluto scrivere, anzitutto, un mastodontico, ironico pamphlet antioccidentale.
Il pensiero presocratico ha indagato come pochi l'essenza della natura? In realtà, spiega Gore Vidal, la Grecia, la sua filosofia, le sue cosmogonie e teorie sulla creazione non sono che un minuscolo frammento dell'immensa geografia culturale per cui erra nella sua lunga vita Ciro Spitama, persiano della tribù dei Medi e nipote devoto di Zoroastro nonché alter ego dell'autore e protagonista del romanzo. «Quando ripenso all'India - mormora ormai settantenne e cieco al discepolo che raccoglie le sue memorie - l'oro risplende nelle tenebre dietro le palpebre di questi occhi ciechi. Quando ripenso al Catai invece scintilla l'argento e rivedo una neve argentata che cade sui salici d'argento».
La Grecia entra nella storia incidentalmente, è solo una dirimpettaia dell'impero persiano, che si estende al Pakistan e all'Afghanistan, l'antica Battriana. Le «guerre persiane» vengono chiamate «guerre greche» e al grande Dario l'io narrante rimprovera di avere sempre guardato ad Ovest anziché a conquistare la Cina. Erodoto è liquidato subito come un ciarlatano, e anzi la data d'inizio del racconto è proprio quella della contestazione del suo discorso ad Atene, argomentata in pubblico da Ciro in «quello che sarebbe per noi - scrive Gore Vidal - il 20 dicembre del 445 avanti Cristo». Questa rimarrà la sola ammissione dell'autore di essere e sentirsi occidentale.
Creazione occupa solo 720 pagine perché il benemerito editore Fazi le ha stampate in corpo piccolo, anche se su ottima carta. E' una fantasmagoria iperbolica di fiabe e visioni, memorie e epifanie. Le mura di Babilonia sono «così spesse che un cocchio a quattro cavalli poteva fare un giro completo sui parapetti». La danza indiana rende il corpo più invitante perché decapitato: la testa si muove sul collo in modo del tutto innaturale. Del Catai lo incantano la cucina e le cerimonie quasi religiose della tavola. Ammira la sapienza politica riassunta nel precetto: «Svuotare la mente dei sudditi, riempirne lo stomaco». La sentenza che ascolta quando viene iniziato fra lo Yamuna e il Gange è invece: «Noi siamo nati su una riva, che è la vita di questo mondo, ma se ci affidiamo al traghettatore possiamo passare all'altra sponda». Quando si mette sulle tracce del traghettatore, e cioè di Siddharta, Ciro si sente rispondere: «Al Buddha non interessa la religione. Semplicemente aiuta coloro che sono sulla riva perché possano passare di là e scoprire che non esistono né il fiume, né il traghetto, né le due rive». Confucio è un grigio dipendente statale, riservato, timido ma senza peli sulla lingua, semplice ma odiato per la sua pignoleria, ateo, modesto. Non è arrogante come Socrate: non fa domande, ma dà solo risposte a chiunque gliele chieda.
«In principio era il fuoco». Fra le tre antiche tradizioni, Gore Vidal sembra optare per la zoroastriana, che vede il fuoco come principio e fine di ogni cosa. Nella ricerca del principio di tutto e dell'atto di creazione, l'Afghanistan ha un ruolo centrale, perché è là che Zoroastro riceve la rivelazione del fuoco. Se pensiamo che secondo Marco Polo i giacimenti di petrolio incendiandosi spontaneamente suggerivano a quelle popolazioni la presenza della divinità, e sono visti come una delle radici dello zoroastrismo, il messaggio di Gore Vidal fiammeggia, oggi, di una luce foscamente singolare: il principio di tutto, forse, è il petrolio.
Il fuoco di Zoroastro
sapienza d’Oriente
«Creazione», un iperbolico e visionario romanzo antioccidentale in cui Gore Vidal intreccia storie e idee di Persia, India, Cina
Silvia Ronchey
QUANDO un ragazzo indiano giunge all'età che chiamano della seconda nascita, gli danno un cordone fatto con tre fili intrecciati che dovrà portare attraverso il petto, dalla spalla all'ascella, per il resto della vita», scrive Gore Vidal in Creazione. Arrivato all'età della sua terza nascita, nel 1981, Gore Vidal si è guardato sul petto e ha visto un cordone intrecciato di Persia, India e quello che chiama Catai ed è la Cina. E ha immaginato che da lì lui e tutti noi veniamo, e che siamo tutti debitori della sapienza dell'Oriente. In questo che con qualche esagerazione il New York Times ha definito il suo romanzo migliore, questo figlio ribelle dell'impero americano ha voluto scrivere, anzitutto, un mastodontico, ironico pamphlet antioccidentale.
Il pensiero presocratico ha indagato come pochi l'essenza della natura? In realtà, spiega Gore Vidal, la Grecia, la sua filosofia, le sue cosmogonie e teorie sulla creazione non sono che un minuscolo frammento dell'immensa geografia culturale per cui erra nella sua lunga vita Ciro Spitama, persiano della tribù dei Medi e nipote devoto di Zoroastro nonché alter ego dell'autore e protagonista del romanzo. «Quando ripenso all'India - mormora ormai settantenne e cieco al discepolo che raccoglie le sue memorie - l'oro risplende nelle tenebre dietro le palpebre di questi occhi ciechi. Quando ripenso al Catai invece scintilla l'argento e rivedo una neve argentata che cade sui salici d'argento».
La Grecia entra nella storia incidentalmente, è solo una dirimpettaia dell'impero persiano, che si estende al Pakistan e all'Afghanistan, l'antica Battriana. Le «guerre persiane» vengono chiamate «guerre greche» e al grande Dario l'io narrante rimprovera di avere sempre guardato ad Ovest anziché a conquistare la Cina. Erodoto è liquidato subito come un ciarlatano, e anzi la data d'inizio del racconto è proprio quella della contestazione del suo discorso ad Atene, argomentata in pubblico da Ciro in «quello che sarebbe per noi - scrive Gore Vidal - il 20 dicembre del 445 avanti Cristo». Questa rimarrà la sola ammissione dell'autore di essere e sentirsi occidentale.
Creazione occupa solo 720 pagine perché il benemerito editore Fazi le ha stampate in corpo piccolo, anche se su ottima carta. E' una fantasmagoria iperbolica di fiabe e visioni, memorie e epifanie. Le mura di Babilonia sono «così spesse che un cocchio a quattro cavalli poteva fare un giro completo sui parapetti». La danza indiana rende il corpo più invitante perché decapitato: la testa si muove sul collo in modo del tutto innaturale. Del Catai lo incantano la cucina e le cerimonie quasi religiose della tavola. Ammira la sapienza politica riassunta nel precetto: «Svuotare la mente dei sudditi, riempirne lo stomaco». La sentenza che ascolta quando viene iniziato fra lo Yamuna e il Gange è invece: «Noi siamo nati su una riva, che è la vita di questo mondo, ma se ci affidiamo al traghettatore possiamo passare all'altra sponda». Quando si mette sulle tracce del traghettatore, e cioè di Siddharta, Ciro si sente rispondere: «Al Buddha non interessa la religione. Semplicemente aiuta coloro che sono sulla riva perché possano passare di là e scoprire che non esistono né il fiume, né il traghetto, né le due rive». Confucio è un grigio dipendente statale, riservato, timido ma senza peli sulla lingua, semplice ma odiato per la sua pignoleria, ateo, modesto. Non è arrogante come Socrate: non fa domande, ma dà solo risposte a chiunque gliele chieda.
«In principio era il fuoco». Fra le tre antiche tradizioni, Gore Vidal sembra optare per la zoroastriana, che vede il fuoco come principio e fine di ogni cosa. Nella ricerca del principio di tutto e dell'atto di creazione, l'Afghanistan ha un ruolo centrale, perché è là che Zoroastro riceve la rivelazione del fuoco. Se pensiamo che secondo Marco Polo i giacimenti di petrolio incendiandosi spontaneamente suggerivano a quelle popolazioni la presenza della divinità, e sono visti come una delle radici dello zoroastrismo, il messaggio di Gore Vidal fiammeggia, oggi, di una luce foscamente singolare: il principio di tutto, forse, è il petrolio.
Gore Vidal
Creazione
intr. di Anthony Burgess
trad. di Stefano Tummolini
Fazi, pp. 726, e18,50
ROMANZO
Creazione
intr. di Anthony Burgess
trad. di Stefano Tummolini
Fazi, pp. 726, e18,50
ROMANZO
Donald D. Winnicott
«l’odio è indispensabile alla felicità»
La Stampa Tuttolibri 26.2.05
Winnicott, scacchista della psiche:
l’odio è indispensabile alla felicità
BIOGRAFIA E ANALISI DELLE OPERE DI UN PENSATORE
FUORI DAL CORO E SPESSO FRAINTESO, CHE HA STUDIATO
TRA L’ALTRO L’IMPORTANZA DEI SENTIMENTI NEGATIVI
Alessandro Defilippi
CLARE Winnicott, ricordando il marito Donald a diversi anni dalla morte, disse di lui: «Voleva vivere (…) E alla fine ha scritto questa frase: ”Preghiera: Oh, Dio, possa io esser vivo quando muoio”. E lo era davvero».
Donald D. Winnicott, pensatore eretico e creativo, che a 74 anni, pochi mesi prima di morire, salì sulla cima d'un albero per potarlo, perché «oscurava la vista», fu un uomo profondamente vivo, che entrò nella morte ad occhi aperti. Di lui ci parla F. Robert Rodman, analista nella Città degli Angeli, a Beverly Hills, nel suo Winnicott, vita e opere, un monumento pubblicato da Raffaello Cortina a un anno dalla comparsa negli USA.
Winnicott è stato un outsider nel mondo complicato e pettegolo della comunità psicoanalitica internazionale. Allievo sui generis, critico e amico di Melanie Klein, molto apprezzato da Anna Freud, viene abitualmente annoverato nel gruppo dei cosiddetti Indipendenti britannici, autonomi rispetto al conflitto tra le stesse Klein e Anna, entrambe convinte di essere le vere eredi del grande vecchio Sigmund.
Winnicott era un dinosauro in un epoca in cui la British Society of Psychoanalysis era dominata da analisti laici: pediatra di formazione, non cessò per lungo tempo di esercitare la professione medica. Si occupò di bambini, ma, pur senza aver mai ricevuto uno specifico training nell'analisi di adulti, il suo lavoro e la sua opera sono fondamentali anche in questo campo.
Esiste, nella cultura inglese, un lato ad un tempo oscuro e giocoso, quello che ha prodotto la grande letteratura gotica e Tolkien, Lewis Carroll e la pittura di Bacon, Alan Turing e i nonsense di Edward Lear: una modalità creativa del tutto singolare rispetto all'Europa continentale e agli Stati Uniti, radicata nell'empirismo, nell'indipendenza, nella capacità di stupirsi e nel gioco. A questa tradizione trasversale risale, a mio parere, la peculiarità di Winnicott, analista visionario e poetico, che si sentiva una sorta di gemello di Jung, il Giosuè predestinato da Mosè-Freud.
Il libro di Rodman segue il doppio registro della biografia e dell'analisi delle opere. Come spesso accade in testi simili, scritti da analisti su analisti (il cui modello insuperato, nel bene e nel male, resta Vita e opere di Freud di E. Jones), il tono tende talvolta a scivolare verso l'interpretazione, offrendoci il Winnicott paziente post mortem dell'analista Rodman, con tutte le idiosincrasie, i giudizi e i moralismi dell'autore.
Indicative in questo senso sono le molte pagine spese sul rapporto tra Winnicott e Masud Khan, rispetto a cui si moltiplicano le diagnosi di antisocialità. È un limite che pare insito nella stessa mentalità psicoanalitica, paranoica per definizione: come d'altronde potrebbe non essere almeno un po' paranoico chi si occupa ogni giorno di ricercare il lato segreto del mondo? La lotta per il potere, nelle società analitiche, si è sempre svolta a colpi di psicopatologia, fin dal tempo in cui Ferenczi fu accusato da Jones di essere pazzo. Sembra talora che gli analisti non possano accettare di entrare in rapporto con l'Altro se non attraverso lo schermo del loro sapere tecnico, con infinite variazioni sul tema «tu sei patologico e io no».
Al di là di questo limite, forse inevitabile, il libro di Rodman è un'opera fondamentale su un intellettuale luminoso e oscuro, sempre fuori del coro e spesso frainteso, come Winnicott. L' unicità del pensatore è confermata dal fatto che non esiste una scuola ispirata a lui, mentre le sue intuizioni si ritrovano spesso nell'opera di altri analisti, come Bion, sotto forma di debiti raramente riconosciuti.
Ma quel che colpisce, nella vicenda umana e spirituale di Winnicott è l'estrema libertà di pensiero, quella stessa che lo ha fatto paragonare ad un cavallo del gioco degli scacchi: «i suoi movimenti erano unici, imprevedibili, obliqui». La sua capacità di porre in luce i sentimenti negativi e la loro importanza, l'"odio", come lui lo chiamava, o la spietatezza, «indispensabile alla felicità umana» è pari alla spericolatezza con cui mette in gioco il corpo nella relazione analitica, attraverso il concetto di holding, ossia di contenimento non solo psichico ma anche fisico. Anche qui si può riconoscere un legame tra lui e altri grandi eretici, come Ferenczi, che si lasciava baciare dalle pazienti, o Jung, che permetteva l'espressione fisica, per esempio nella danza. È significativo notare come - alla fine - la vera "eresia", il vero pericolo, sia stato sempre avvertito dalla comunità analitica proprio lì, nel corpo, il grande rimosso, come rimossa è la morte. E d'altronde Winnicott critica esplicitamente «gli analisti che sanno troppo».
Molte sarebbero le cose da sottolineare in questo bel libro, come lo spazio riservato alla teoria degli oggetti transizionali (la coperta di Linus, per intenderci), o le pagine sul «diritto di non comunicare» o sul rapporto tra paranoia e guerra, o ancora quelle sul Vero e il falso Sé. Mi piace però concludere con una citazione dolente e definitiva: «(…) ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto». Speriamo di rimanere tanto vivi anche noi, fino alla morte.
Winnicott, scacchista della psiche:
l’odio è indispensabile alla felicità
BIOGRAFIA E ANALISI DELLE OPERE DI UN PENSATORE
FUORI DAL CORO E SPESSO FRAINTESO, CHE HA STUDIATO
TRA L’ALTRO L’IMPORTANZA DEI SENTIMENTI NEGATIVI
Alessandro Defilippi
CLARE Winnicott, ricordando il marito Donald a diversi anni dalla morte, disse di lui: «Voleva vivere (…) E alla fine ha scritto questa frase: ”Preghiera: Oh, Dio, possa io esser vivo quando muoio”. E lo era davvero».
Donald D. Winnicott, pensatore eretico e creativo, che a 74 anni, pochi mesi prima di morire, salì sulla cima d'un albero per potarlo, perché «oscurava la vista», fu un uomo profondamente vivo, che entrò nella morte ad occhi aperti. Di lui ci parla F. Robert Rodman, analista nella Città degli Angeli, a Beverly Hills, nel suo Winnicott, vita e opere, un monumento pubblicato da Raffaello Cortina a un anno dalla comparsa negli USA.
Winnicott è stato un outsider nel mondo complicato e pettegolo della comunità psicoanalitica internazionale. Allievo sui generis, critico e amico di Melanie Klein, molto apprezzato da Anna Freud, viene abitualmente annoverato nel gruppo dei cosiddetti Indipendenti britannici, autonomi rispetto al conflitto tra le stesse Klein e Anna, entrambe convinte di essere le vere eredi del grande vecchio Sigmund.
Winnicott era un dinosauro in un epoca in cui la British Society of Psychoanalysis era dominata da analisti laici: pediatra di formazione, non cessò per lungo tempo di esercitare la professione medica. Si occupò di bambini, ma, pur senza aver mai ricevuto uno specifico training nell'analisi di adulti, il suo lavoro e la sua opera sono fondamentali anche in questo campo.
Esiste, nella cultura inglese, un lato ad un tempo oscuro e giocoso, quello che ha prodotto la grande letteratura gotica e Tolkien, Lewis Carroll e la pittura di Bacon, Alan Turing e i nonsense di Edward Lear: una modalità creativa del tutto singolare rispetto all'Europa continentale e agli Stati Uniti, radicata nell'empirismo, nell'indipendenza, nella capacità di stupirsi e nel gioco. A questa tradizione trasversale risale, a mio parere, la peculiarità di Winnicott, analista visionario e poetico, che si sentiva una sorta di gemello di Jung, il Giosuè predestinato da Mosè-Freud.
Il libro di Rodman segue il doppio registro della biografia e dell'analisi delle opere. Come spesso accade in testi simili, scritti da analisti su analisti (il cui modello insuperato, nel bene e nel male, resta Vita e opere di Freud di E. Jones), il tono tende talvolta a scivolare verso l'interpretazione, offrendoci il Winnicott paziente post mortem dell'analista Rodman, con tutte le idiosincrasie, i giudizi e i moralismi dell'autore.
Indicative in questo senso sono le molte pagine spese sul rapporto tra Winnicott e Masud Khan, rispetto a cui si moltiplicano le diagnosi di antisocialità. È un limite che pare insito nella stessa mentalità psicoanalitica, paranoica per definizione: come d'altronde potrebbe non essere almeno un po' paranoico chi si occupa ogni giorno di ricercare il lato segreto del mondo? La lotta per il potere, nelle società analitiche, si è sempre svolta a colpi di psicopatologia, fin dal tempo in cui Ferenczi fu accusato da Jones di essere pazzo. Sembra talora che gli analisti non possano accettare di entrare in rapporto con l'Altro se non attraverso lo schermo del loro sapere tecnico, con infinite variazioni sul tema «tu sei patologico e io no».
Al di là di questo limite, forse inevitabile, il libro di Rodman è un'opera fondamentale su un intellettuale luminoso e oscuro, sempre fuori del coro e spesso frainteso, come Winnicott. L' unicità del pensatore è confermata dal fatto che non esiste una scuola ispirata a lui, mentre le sue intuizioni si ritrovano spesso nell'opera di altri analisti, come Bion, sotto forma di debiti raramente riconosciuti.
Ma quel che colpisce, nella vicenda umana e spirituale di Winnicott è l'estrema libertà di pensiero, quella stessa che lo ha fatto paragonare ad un cavallo del gioco degli scacchi: «i suoi movimenti erano unici, imprevedibili, obliqui». La sua capacità di porre in luce i sentimenti negativi e la loro importanza, l'"odio", come lui lo chiamava, o la spietatezza, «indispensabile alla felicità umana» è pari alla spericolatezza con cui mette in gioco il corpo nella relazione analitica, attraverso il concetto di holding, ossia di contenimento non solo psichico ma anche fisico. Anche qui si può riconoscere un legame tra lui e altri grandi eretici, come Ferenczi, che si lasciava baciare dalle pazienti, o Jung, che permetteva l'espressione fisica, per esempio nella danza. È significativo notare come - alla fine - la vera "eresia", il vero pericolo, sia stato sempre avvertito dalla comunità analitica proprio lì, nel corpo, il grande rimosso, come rimossa è la morte. E d'altronde Winnicott critica esplicitamente «gli analisti che sanno troppo».
Molte sarebbero le cose da sottolineare in questo bel libro, come lo spazio riservato alla teoria degli oggetti transizionali (la coperta di Linus, per intenderci), o le pagine sul «diritto di non comunicare» o sul rapporto tra paranoia e guerra, o ancora quelle sul Vero e il falso Sé. Mi piace però concludere con una citazione dolente e definitiva: «(…) ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto». Speriamo di rimanere tanto vivi anche noi, fino alla morte.
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