domenica 2 gennaio 2005

ancora sui battesimi imposti con la forza
la criminalità dei cattolici

Corriere della Sera 2.1.05
Dai battesimi «non volontari» al rispetto delle famiglie e dei diritti naturali
di Anna Foa
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Pio XII e Roncalli La direttiva del ’46
Il dibattito sui bambini ebrei battezzati è cominciato il 28 dicembre con la pubblicazione sul «Corriere» di un articolo di Alberto Melloni che presentava un documento inedito, datato ottobre 1946, in cui Pio XII chiedeva ad Angelo Roncalli, allora nunzio apostolico a Parigi, di non restituire alle famiglie i piccoli battezzati, ma di dare loro un’educazione cristiana. Nel dibattito sono intervenuti Vittorio Messori (29 dicembre), Giovanni Miccoli (30 dicembre) ed Emma Fattorini (31 dicembre).

*L’autrice
Anna Foa (Torino,1944)insegna storia moderna all’Università La Sapienza di Roma. Si è occupata, tra l’altro, di storia della cultura nel Rinascimento («Ateismo e magia», ed. dell’Ateneo, 1980; «Giordano Bruno», il Mulino) e di caccia alle streghe curando la traduzione italiana della «
Cautio criminalis» di Friedrich von Spee
È autrice anche di «Ebrei in Europa dalla peste nera all'emancipazione», Laterza. Recentemente ha pubblicato «Eretici, storie di streghe, ebrei e convertiti», il Mulino
La polemica suscitata dalla pubblicazione delle istruzioni del 1946 del Sant'Uffizio sul problema della restituzione dei bambini ebrei nascosti e battezzati durante la persecuzione nazista lascia aperte molte questioni che riguardano non soltanto il rapporto tra cattolici ed ebrei nel Novecento ma in genere l'atteggiamento della Chiesa di Roma e le formulazioni del diritto canonico di fronte al problema del battesimo forzato. Il battesimo dei minori contro o in assenza della volontà dei genitori (invitis parentibus) è un caso particolare, anche se estremamente delicato, del problema più generale, affrontato dalla Chiesa fin dall'età tardoantica, della liceità o meno dell'uso della forza nella somministrazione del sacramento battesimale. E le formulazioni del diritto canonico, a loro volta, non sono norme pietrificate, bensì il frutto di un lungo dibattito, di complesse vicende e di molti approfondimenti, distinzioni, trasformazioni. Nel corso dei secoli, la Chiesa romana ha saputo spesso modificare e mettere alla prova della storia le norme che regolavano in questi casi l'imposizione del battesimo, come tante altre sue norme. In alcuni casi, rendendole più duttili, in altri irrigidendole, in altri ancora tentando mutamenti e aggiustamenti che si sono infranti di fronte alle ragioni della politica, dei rapporti con gli Stati, dello spirito dei tempi. Che la somministrazione del battesimo, in quanto sacramento fondato sulla libera accettazione e sulla fede, non dovesse avvenire sotto costrizione, è principio fondante della religione cristiana. Nel caso degli ebrei, esso fu ribadito con forza in alcune lettere di papa Gregorio Magno (590-604), poi confluite nel diritto canonico, in risposta ai molti dubbi che agitavano le autorità ecclesiastiche di fronte al problema dell'«infedeltà» ebraica e alle vicende d'imposizione del battesimo con la forza che qua e là, particolarmente nel mondo bizantino ma non solo, si verificavano. Pochi decenni dopo queste norme gregoriane, i re visigoti, da poco convertiti dall'arianesimo al cattolicesimo, imponevano con la forza la conversione dei numerosi ebrei che vivevano in Spagna. La Chiesa spagnola, con il Concilio di Toledo del 694, sanciva lo stato di fatto con norme giuridiche che, pur vietando in principio la conversione forzata, avallavano, a battesimo avvenuto, la validità di tale conversione.
Queste norme sarebbero confluite nel diritto canonico al momento della sua compilazione (secoli XI-XII), in un momento in cui esse, riaffermando il valore ex opere operato (cioè per il solo fatto di essere stato amministrato) del battesimo, contrastavano l'eresia patarina che lo negava. Dopo la conversione imposta dai visigoti, non si verificano nell'Occidente cristiano episodi di uso della forza, almeno non di tale portata da restare nella memoria storica e da costituire un problema per la Chiesa. Il problema rinasce con le crociate e gli attacchi alle comunità ebraiche renane da parte di bande marginali di crociati. In quella circostanza, molte furono le conversioni imposte con la forza. A violenza passata, la Chiesa tedesca accettò senza problemi il ritorno dei convertiti all'ebraismo, nonostante il battesimo.
Nello stesso tempo, i giuristi affinarono le norme del diritto canonico approfondendo il concetto di forza (vis). Il battesimo non era valido in caso di «forza assoluta», si finì per stabilire, ma lo era in caso di «forza relativa». Che cosa si doveva intendere per forza relativa? All'inizio del Trecento, le formulazioni del diritto canonico erano ormai precise: la forza era assoluta quando per il battesimo qualcuno veniva legato mani e piedi e immerso nell'acqua mentre continua a protestare a voce alta il suo rifiuto. In tutti gli altri casi, anche sotto la minaccia di una spada, il battesimo, pur se riprovevole, era da considerarsi valido in quanto frutto di «forza relativa» (c'era pur sempre la possibilità di scegliere la spada). Lo imparò a sue spese, Baruch, un rabbino della Provenza convertito nel 1320 a forza da bande di «pastorelli» e poi tornato tranquillamente all’ebraismo addirittura con l'avallo del locale inquisitore. Ma l'arrivo di un altro inquisitore, Jacques Fournier, poi divenuto papa Benedetto XII (1334-1342), lo obbligò, in base alle nuove norme canoniche, a restare nel seno della Chiesa se voleva evitare il rogo come apostata, non prima di lunghe discussioni teologiche che il suo processo ci restituisce in tutta la loro complessità.
Le norme del diritto canonico sull'uso della forza sarebbero rimaste da allora stabili, anche se nel Cinquecento esse furono oggetto di molte critiche all'interno della Chiesa. L'occasione fu una vicenda che ancora una volta, e in misura maggiore che durante le crociate, mise la questione della forza all'ordine del giorno nel dibattito teologico e politico: la conversione più o meno forzata degli ebrei spagnoli e quella, forzata anche secondo le restrittive norme canoniche, degli ebrei portoghesi.
A Roma, si discusse molto e molto a lungo. Sembra che papa Clemente VII avrebbe voluto consentire ai conversos portoghesi il ritorno all'ebraismo e addirittura accoglierli come ebrei a Roma. Alla fine prevalse però la politica e il rapporto con l'imperatore Carlo V e con i sovrani portoghesi. Il diritto canonico non conobbe mutazioni. Iniziava la questione «marrana», per cui ebrei convertiti più o meno a forza tentavano di tornare all'ebraismo o passavano da un mondo all'altro. Per la Chiesa, erano apostati, passibili di processo inquisitoriale e, in caso di ricaduta nell'eresia, di consegna al braccio secolare (cioè, della pena capitale). Venezia consentì loro, alla fine del Cinquecento, il ritorno all'ebraismo e così la Livorno medicea. Per la Chiesa, erano una ferita aperta, la ferita che dopo le crociate i vescovi avevano previsto e invano tentato di evitare. Ma dopo il Trecento ormai la Chiesa mette in gioco molta parte della sua identità sul problema di convertire gli ebrei, come non era mai stato prima.
Dentro questo contesto, in cui la spinta alla conversione diventa dominante, si può collocare e comprendere il problema del battesimo dei bambini ebrei invitis parentibus. La Chiesa accettava senza alcun problema di «potestà» il battesimo di bambini «offerti» da uno dei genitori o dai nonni, mentre per molto tempo fu assai cauta sul battesimo di bambini attuato da persone prive di qualsiasi diritto sul minore (vicini, domestiche). Solo nel Settecento, a partire soprattutto dal pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), la Chiesa varò norme molto rigide che aprivano la strada alla sottrazione di minori alla potestà naturale dei genitori.
Il caso Mortara, del 1858, ne è l'esempio più famoso. Ma proprio in occasione del caso Mortara, come in altri simili, i memoriali della comunità ebraica, redatti con l'aiuto di canonisti (cattolici), citano precedenti di norme e decisioni che consentivano il permanere nella famiglia ebraica di bambini battezzati, mettendo in accordo il diritto canonico con il diritto naturale, quello che consente ai genitori, come già affermava San Tommaso proprio in riferimento a casi del genere, la potestà sui figli minori.
Il quadro che emerge è quello di un diritto canonico molto rigido, lontano dalla nostra sensibilità moderna, ma anche frutto di una storia complessa di accomodamenti e trasformazioni, legate a opzioni politiche non meno che religiose. E anche un diritto che in alcuni momenti storici, come in quello seguito al trauma del battesimo di massa degli ebrei portoghesi, la Chiesa ha tentato di rimettere in discussione. Insomma, un quadro in cui la Chiesa è in grado almeno di cogliere gli eventi, di farne oggetto di riflessione, spinte per il cambiamento. Quello che il documento del 1946 del Sant'Uffizio sembra invece non mostrare, come non mostra il caso, avvenuto ancora più tardi, nel 1953, dei due bambini ebrei contesi in Francia tra la zia naturale e l'asilo cattolico che, salvandoli, li aveva anche battezzati.
Ancora pochi anni e molto sarebbe cambiato nella Chiesa, senza per questo nulla togliere al valore cristiano del battesimo. Del resto, come ha ricordato il rabbino Riccardo Di Segni, in un caso simile avvenuto in Polonia il giovane Karol Wojtyla fece di tutto per non fare battezzare e per restituire alla sua famiglia un bambino ebreo sottratto alla persecuzione. Questo vuol dire che le opzioni erano diverse, le scelte possibili diverse. Che, come nel passato, alcuni erano più sordi di altri, meno propensi a ricavare dal trauma della Shoah l'insegnamento che poi ne sarebbe stato tratto, quando il rispetto verso la fede dell’altro sarebbe stato affermato da un cattolicesimo rinnovato.

Lia Melandri su Liberazione
la violenza contro le donne

Liberazione 2.1.05
Chiedetevi: cosa è la maschilità?
di Lea Melandri


Negli ultimi mesi sono usciti Rapporti, dati statistici, inchieste sulla violenza a donne e bambini, che avrebbero meritato maggiore attenzione (Eurispes, Amnesty International, Istat 2002). Elemento comune risulta il fatto che in entrambi i casi l'aggressione viene perlopiù da persone vicine alla vittima: padri, mariti, amanti, amici. A parte qualche doveroso grido di allarme o di indignazione morale quando si parla di sfruttamento e di violenza sui bambini, per il resto non si può non essere colpiti dall'indifferenza con cui generalmente vengono accolti questi dati, che parlano di una "guerra" quotidiana, molto vicina a noi, per non dire interna alle nostre case. La freddezza con cui si elencano atrocità date per scontate -stupri, omicidi, maltrattamenti fisici e psicologici, ecc. - risulta tanto più evidente e inspiegabile se confrontata con l'enfasi e l'eccitazione immaginaria con cui, spesso nella stessa pagina di giornale, viene raccontato un fatto di cronaca dal contenuto analogo: per esempio, l'omicidio di una giovane donna, con sospetto di violenza sessuale. La differenza nasce dal fatto che, in questi casi, la vittima ha un nome, un volto, una famiglia, un luogo, delle abitudini. Se ne possono ricostruire i movimenti, spiare i desideri, soprattutto quelli più inconfessabili, in cui si è tentati di rintracciare la ragione che li ha portati alla morte.

Ma la diversità maggiore, tra le due notizie, è che nelle inchieste l'elemento che balza per primo agli occhi è l'appartenenza di sesso della vittima e dell'aggressore - il fatto cioè che a uccidere, violentare, sfruttare le donne sono quasi esclusivamente uomini -, mentre nel racconto di cronaca il sesso dei protagonisti resta in sottofondo, ragione nascosta dell'eccitazione e del voyeurismo, e dominante è invece la loro singolarità: quella particolare ragazza, quel presunto omicida. La dimensione generale del problema lascia cioè il posto a una casistica rassicurante di "ordinaria" delinquenza o di "ordinaria" patologia.

Non è difficile constatare tuttavia che, in entrambi i casi, finisce per scomparire l'interrogativo di fondo: perché gli uomini fanno violenza alle donne? Perché gli aggressori sono soprattutto figure della loro vita famigliare e sentimentale (mariti, figli, amanti)? Perché questa violenza aumenta? Nel primo caso è la genericità del dato quantitativo, numerico, a scoraggiare l'identificazione, e quindi l'assunzione di responsabilità; nel secondo, al contrario, è la particolarità del caso, il suo aspetto ogni volta "unico", "eccezionale".

Come venire allora a capo di una "evidenza" che continua a restare "invisibile", come far sì che una inspiegabile "guerra tra i sessi", fatta di amore e odio, vita e morte, tenerezza e violenza, venga portata non solo alla coscienza, ma alla storia e alla cultura, a cui ha sempre appartenuto?

Un modo, che può essere rivelatore, è quello degli accostamenti: cominciare, per esempio, a riflettere su due inchieste apparentemente estranee l'una all'altra, quella sulla violenza ai minori e quella sulla violenza alle donne, chiedendosi che cosa hanno in comune.

L'elemento che più immediatamente li avvicina è che si tratta, in tutti e due i casi, di una violenza che va a colpire i più "deboli", quegli stessi corpi che l'uomo (il maschio) ha pensato di dover proteggere, a garanzia della sua stessa sopravvivenza, e coi quali si può dire che è stato "tutt'uno": cioè il suo corpo-bambino e il corpo della madre. Ma, oltre che deboli, questi corpi sono anche carichi di quella seduzione sessuale che, conosciuta in una fase precoce della vita, è destinata a lasciare segni duraturi nelle fantasie, nei desideri e nelle paure della vita adulta, tanto più quanto più pesante è la maschera di "virilità" di cui l'uomo è chiamato a rispondere dalla comunità storica dei suoi simili. La "fuga dal femminile" è perciò presa di distanza non solo da un sesso diverso, ma anche da quella parte di sé - il bambino/figlio- che continua in qualche modo a farne parte, come rischio permanente di debolezza, dipendenza, effeminatezza, manipolabilità. La "pedofilia", in senso lato, fa parte della "preistoria" personale di tutti gli umani, così come i sentimenti contraddittori di attrazione e repulsione rispetto al corpo che ci ha generati.

Resta da spiegare perché, quello che dovrebbe essere un naturale distacco dall'infanzia e dalla madre, sia tutt'oggi vissuto come un taglio violento, un atto di guerra -morte tua/vita mia-, perché il rapporto intimo con una donna sia al medesimo tempo un legame che strangola e un legame di cui non si può fare a meno, perché non si riesca a immaginare l'uscita dal dominio maschile se non come capovolgimento di poteri.

Il 18 dicembre 2004, su "Liberazione", un "giovane studente-lavoratore" ha scritto una lettera di protesta per la scelta del giornale di pubblicare articoli "ultrafemministi", e soprattutto per aver fatto una "vergognosa pagina" con la scritta "maschi assassini". Senza tener conto che con quel titolo si apriva un dettagliato resoconto sul Rapporto di Amnesty International sulla crescente violenza alle donne nel mondo, lo scenario immediatamente si ribalta: le donne non sono vittime, ma protagoniste di un "sessismo alla rovescia", aspiranti, per effetto di antiche "frustrazioni sessuali", a uno "strapotere" che si aggiunge ai "privilegi" che già hanno. L'espressione "maschi assassini" poteva effettivamente essere presa per un' "incriminazione" generalizzata del sesso maschile, ma mi chiedo anche perché non ha potuto essere considerata invece un modo provocatorio per spingere gli uomini a interrogarsi su come si è costruita storicamente la maschilità, che forme ha preso, che problemi pone il fatto che una percentuale così alta di persone del proprio sesso uccidono, sfruttano, violentano, accanendosi proprio sulle persone che più amano e desiderano. Lo "strapotere" femminile, che il lettore vede avanzare per effetto di un femminismo distorto dai suoi fini emancipatori, è sicuramente quello che la specie umana alla sua "origine" -e ogni bambini alla sua nascita- deve aver visto o attribuito al corpo che lo ha messo al mondo e in balìa del quale si è trovato a lungo "inerme". Ma non è certo la "storia" del rapporto tra i sessi, che ancora si configura come il più duraturo dei domini, perché "incorporato", come ha scritto Pierre Bourdieu (Il dominio maschile, Feltrinelli 1998), assorbito attraverso l'educazione, la divisione sessuale del lavoro, le istituzioni della vita pubblica, frutto di una "violenza simbolica" che impronta i pensieri e i sentimenti di uomini e donne, così che dominato e dominatore parlano la stessa lingua.

Il ribaltamento operato dal lettore ne è la prova, e dice anche quanto sia difficile uscire da una logica di guerra che parla allo stesso modo quando si tratta di "scontro di civiltà" o di conflitto tra i sessi: l'impianto è quello della specularità - il Bene e il Male, la vittima e l'aggressore -, poli che si fronteggiano e si ribaltano, secondo da che parte li si guarda. Uscirne vuol dire avere la forza di risalire alle cause, andare alla radice dei comportamenti, cercando dentro di sé prima di tutto, e insieme ragionando sulla cultura che, nostro malgrado e a nostra insaputa, abbiamo ereditato.