mercoledì 24 marzo 2004

fondamentalismo all'italiana

Unità 24.3.04
La scuola licenzia Darwin
di Pietro Greco


Addio, Charles Darwin. Nelle scuole medie italiane - come, per una breve stagione, in quelle del Kansas - non si insegnerà più la teoria dell’evoluzione biologica. Nei libri di testo dei nostri ragazzi non è più previsto alcun accenno alla cespugliosa storia evolutiva della vita sulla Terra, alla modificazione incessante delle specie per quel gioco di «caso e necessità» di cui parlava Jacques Monod, a quell’ipotesi di discendenza dell’uomo dalla scimmia che tanto faceva soffrire l’iracondo vescovo Wilberforce. Via, tutto. Cancellato. I ragazzi non devono sapere.
Non conosciamo se a decretare il veto contro l’insegnamento di quella teoria darwiniana, che la comunità scientifica in tutto il mondo considera la base fondamentale del nostro sapere intorno ai fatti della vita, sia stata una qualche commissione distratta o una qualche autorità retrograda.
Non sappiamo se a provocare la virtuale cancellazione di Darwin dai libri di scienze dei nostri ragazzi sia stato l’atto malaccorto di un burocrate sciatto o la decisione cosciente di un’autorità reazionaria. Fatto è che con la riforma Moratti la teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale del più adatto esce dalla scuola italiana. I ragazzi non devono sapere. E neppure gli adulti.
La notizia è, di certo, fragorosa: l’Italia opera una censura culturale che non ha riscontro in alcuna parte del mondo, Kansas incluso. Una mordacchia che neppure ai tempi di Galileo.
La teoria dell’evoluzione biologica di Charles Darwin non è solo una delle più grandi conquiste del pensiero scientifico, è anche una delle più grandi acquisizioni della cultura di ogni tempo. La sua teoria dell’evoluzione biologica ha contribuito a ridisegnare la visione che noi tutti abbiamo del mondo che ci circonda e di noi stessi. Darwin, per intenderci, siede al tavolo dei grandi del pensiero insieme ad Aristotele e a Kant, a Euclide e Gödel, a Galileo e Newton, a Platone ed Einstein. Cancellarlo dai libri di testo significa, né più né meno, cancellare un pezzo decisivo della cultura occidentale e della cultura tout court.
Per questo più assordante ancora dell’operazione di cassazione a opera del ministero dell’Istruzione è il silenzio che si è creato intorno alla vicenda. Nessuno ne parla. Né per condannare e neppure per applaudire. Come se cancellare un pezzo fondante della nostra cultura dai libri di testo fosse un’operazione normale. Come se cacciare Charles Darwin dalla scuola a un secolo e mezzo dalla pubblicazione di “Sull'origine delle specie”, fosse un'operazione non degna di alcun interesse. Come se cancellare il pensiero su cui si fonda la scienza emergente del XXI secolo, la biologia, potesse essere culturalmente sostenibile per un paese che si autodefinisce libero e avanzato.
Ora noi capiamo (ma non giustifichiamo, sia chiaro) il governo e gli ambienti culturali che lo sostengono. Da qualche tempo - intorno a quel governo, in quegli ambienti - spira un vago vento antievoluzionista. Che è come dire un vago eppure concreto vento antistorico e antiscientifico. Da qualche tempo a questo improbabile zefiro viene dato un certo spazio. Ricordate il convegno contro Charles Darwin organizzato nei mesi scorsi a Milano da frange di Alleanza Nazionale e ospitato dalla Provincia? E ricordate, che nei mesi scorsi, tra i massimi dirigenti del nostro massimo Ente pubblico di ricerca il governo Berlusconi ha nominato, per l’appunto, un antievoluzionista? Nessuna di queste (e altre) operazioni ha riscontro nei paesi occidentali. E neppure nei paesi islamici. O buddisti. O induisti. O animisti. Neppure nelle roccaforti dei creazionisti (il Kansas, il Texas e gli altri stati del Sud degli Usa) le istituzioni promuovono convegni contro l’evoluzionismo e pongono ai vertici della ricerca pubblica degli antidarwinisti. Non succede perché il pensiero di Darwin è, ormai, scienza consolidata e il creazionismo è un atto di fede. Un atto legittimo, sul piano religioso. Ma in nessun posto al mondo, ormai, neppure nelle teocrazie più fondamentaliste un centro di ricerca scientifica si regge su un puro atto fede.
Per intenderci, anche la Chiesa cattolica considera quella darwiniana un’ipotesi solida (anche se non completa). E, comunque, l’unica ipotesi scientifica in campo capace di spiegare i fatti noti della biologia. Per essere ancora più chiari: il cattolico Ludovico Galleni nel Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede pubblicato di recente dalla Urbania University Press e da Città Nuova a cura di Giuseppe Tanzella-Nitti e Alberto Strumia sostiene «l’accettazione ormai definitiva della prospettiva scientifica evolutiva» da parte del pensiero teologico. Cosicché il pensiero antievolutivo è l’epigone di un pensiero cristiano (cattolico e protestante) reazionario del tutto minoritario in ogni parte del mondo, Kansas compreso.
Cosicché anche il governo Berlusconi non ostenta le sue ormai sistematiche gesta antidarwiniane. Non ha il coraggio delle proprie azioni. Le minimizza. Le fa passare in sordina. Quasi a farci intendere che dietro non c'è una precisa scelta culturale. Che si tratta solo di piccoli e innocui pegni da pagare ad ambienti di destra con idee più o meno bizzarre. Ed è così, in sordina, che il governo fa passare le nuove gesta didattico-pedagogiche che buttano fuori Darwin dalle scuole medie italiane.
Ma può la società italiana accettare che un atto politico - non si sa se (più) sciatto o (più) reazionario - metta la scolorina al grande quadro della teoria fondamentale della scienza emergente, la biologia, proprio come in Unione Sovietica i burocrati zelanti cancellavano con la scolorina dalle foto ufficiali i politici caduti in disgrazia agli occhi di Stalin? Può accettare che i suoi ragazzi si formino senza aver mai sentito parlare di Charles Darwin e della sua teoria evoluzionista in un’epoca in cui la scienza biologica disegna gran parte della frontiera sociale ove si incontrano cultura, etica e persino economia?
La domande sono certamente retoriche: no che l’Italia non può accettarlo. Non senza combattere, almeno. Le risposte, invece, sono avvilenti. La cancellazione con la scolorina della figura di Charles Darwin dalla grande foto della storia surrettiziamente proposta ai ragazzi della scuola media non ha suscitato una grande reazione di ripulsa nell’opinione pubblica e nei media. È come se un po' tutti fossero rassegnati a questo improbabile revisionismo. A questo revisionismo vigliacco che preferisce non parlare di Darwin piuttosto che sfidarlo in campo aperto. E così molti - troppi - tacciono, facendo finta, proprio come accadeva in Urss, di non vedere. Di non vedere che qualcuno - non si sa se più per sciatteria o più per spirito reazionario - sta manipolando la scienza e la storia. Che qualcuno sta minando alla base la cultura - e il futuro - dei nostri figli. È davvero assordante questo silenzio.

la religione americana e la Corte Suprema

L'ORIGINE: Il motto "In God we trust" (Confidiamo in Dio) fu coniato e messo per la prima volta su monete da 2 cent nel 1864, come testimonianza di un rafforzato sentimento religioso durante la Guerra civile

I DOLLARI: Sul retro di ogni taglio di banconota statunitense si legge, stampato sopra una sorta di festone, l'immancabile motto "In God we trust"

LE POSTE: In molti stati esiste l'obbligo di mostrare poster con la scritta "In God we trust" negli uffici postali e nelle agenzie federali

LE CORTI: Nelle aule di tribunale federali i processi si aprono con un commesso che recita la frase rituale: "Dio salvi gli Stati Uniti e questa onorevole corte"

I DISCORSI DI BUSH: I discorsi del presidente George W. Bush alla Nazione si concludono la formula: "Grazie, e possa Dio continuare a benedire l'America"

LE MODIFICHE DEL TESTO
COM´ERA IERI,
"Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati uniti d'America e alla repubblica che essa rappresenta, una nazione unita dalla fede in Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti"
COM´È OGGI: "Giuro fedeltà alla mia bandiera e alla repubblica che essa rappresenta: una nazione, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti"

IL CASO
I giudici discutono il ricorso di un genitore contro le invocazioni religiose a scuola
Dio alla Corte Suprema Usa
L´EQUIVOCO DELLO STATO LAICO CHE PREGA PER SALVARSI
VITTORIO ZUCCONI


WASHINGTON. C´è un posto anche per il nome di Dio nelle aule delle scuole di Stato americane? Lo sapremo oggi. Poche volte, nella storia degli Stati Uniti, una sentenza della Corte Suprema sarà chiamata a tagliare più a fondo nell´anima e nel corpo della nazione che incarna la suprema conquista civile della separazione tra religione e Stato.
Una separazione che, secondo la petizione alla massimo corte, è sempre più minacciata dall´insidia dell´integralismo cristiano.
Non c´è ormai discorso pubblico che risparmi Dio. Che Dio benedica l´America, anzi, come dice George Bush che Dio «continui» a benedire l´America. Non c´è Presidente che non chieda l´aiuto di Dio, «... and so help me God.... » per governare gli Stati Uniti, al momento di giurare sulla Bibbia dei cristiani. Non c´è banconota che non riponga la fiducia del portatore in Dio, «in God we trust», più che nella banca centrale. Siamo una nazione unica «sotto Dio» recitano a memoria gli scolari all´inizio delle lezioni nel giuramento di fedeltà, il «Pledge of Allegiance». Non c´è nazione dell´Occidente che nomini tanto spesso e con tanta insistenza il nome di Dio, dopo avere essa per prima, solennemente e scandalosamente agli occhi delle teocrazie e delle monarchia europee, sancito nel proprio atto di nascita l´assoluta, rigorosa, inflessibile, civilissima separazione tra Stato e Chiese.
Sarà dunque doloroso per la Corte Suprema tagliare il nodo che il genitore di uno scolaro ha scaricato sulla scrivania dei nove magistrati per stabilire se quella invocazione a Dio nelle scuole pubbliche violi il sacramento laico della separazione. Lo taglierà, perché la massima corte non ha mai nessun obbligo di prendere in esami ricorsi e se accetta di discutere un caso è evidentemente perché intende decidere. Ma il clima morale, gli umori politici e culturali che la circondano oggi garantiscono che qualunque decisione i nove prendano, offenderà ferocemente milioni di cittadini e contribuirà ad approfondire il rancore che taglia quest´America già lacerata da un presidente che sulla polarizzazione dei campi opposti sta giocando le proprie speranze di rielezione.
Se la Corte dovesse stabilire che il giuramento di fedeltà alla nazione «sotto Dio» nelle scuole pubbliche è anticostituzionale, l´America dei cristianissimi l´America dell´integralismo biblico che ha pagato già 400 milioni di dollari per celebrare l´evangelismo pulp di Mel Gibson insorgerà nel segno del sacrilegio e della corruzione morale della nazione. E sarà poi assai difficile per un presidente giurare sopra la Bibbia dei cristiani, chiedendo l´aiuto di Dio per difendere quella stessa Costituzione che proibisce ai bambini di recitare la loro innocente formuletta alla mattina.
Se invece la Corte giudicherà legittima l´invocazione, sarà l´America laica, l´America non cristiana, l´America della separazione storica fra stato e chiese, a indignarsi per un nuovo segno della «talebanizzazione» strisciante di una democrazia che ha trovato in Bush un leader che indica nel Gesù di Nazareth il proprio «filosofo politico preferito». E che dipende più di ogni altro predecessore, dall´elettorato integralista per vincere le elezioni.
Come sempre nella storia americana, qualsiasi decisione sarà, sia pure molto a malincuore, accettata dagli sconfitti, come fu accettata la sentenza che impose l´integrazione razziale delle scuole, considerata abominevole nel Sud, o fu il riconoscimento del diritto all´aborto volontario, anatema per tutte le gerarchie e i fedeli maschi, assai meno per le fedeli femmine.
Accettata non significherà tuttavia approvata o dimenticata, perchè sempre la vittoria di una parte mobilita la resistenza della parte sconfitta soprattutto in una materia come questa, del rapporto fra Dio e Cesare che nessuna bilancia della giustizia può soppesare. E che oscilla da oltre due secoli sopra un equivoco, quello di una nazione che si proclama fondata sui diritto naturali invocati dall´Illuminismo settecentesco, ma poi chiede l´aiuto di Dio per restare laica.

Un padre ateo contesta le parole che sua figlia deve pronunciare ogni mattina a scuola: violato il primo emendamento?
Usa, la Corte decide su Dio
A giudizio il riferimento religioso nel giuramento alla nazione
di VANNA VANNUCCINI


NEW YORK - Ogni mattina che Dio manda in terra in America gli scolari delle elementari, non appena entrano in classe, ascoltano la voce del preside trasmessa attraverso gli altoparlanti. Insieme, bambini preside e insegnanti pronunciano il giuramento alla bandiera con la mano sul cuore: «Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d´America e ai valori che rappresenta, una nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti». Segue un minuto di silenzio in cui tutti restano immobili.
Il rito si ripete ogni giorno per ogni anno di scuola nella vita di tutti gli americani. Esattamente da 112 anni, da quando un pastore di idee socialiste, Francis Bellamy, pubblicò nel 1892 il "Pledge of Allegiance", il giuramento di fedeltà, nel suo giornaletto per bambini. Pochi mesi dopo il giuramento fece il suo debutto nelle scuole sotto il presidente Benjamin Harrison. Da allora è stato leggermente modificato un paio di volte. Ma la modifica principale fu fatta nel 1954: un´associazione cattolica, i cavalieri di Colombo (Knights of Columbus), chiese di aggiungere accanto alla nazione le parole «under God», sotto Dio. Si trattava di distinguere, argomentò, il giuramento di fedeltà americano da altri pronunciati da «comunisti senza Dio». L´America attraversava anche allora una crisi, una guerra atomica sembrava imminente e il presidente Eisenhower chiese al Congresso di aggiungere le due parole.
Cinquant´anni dopo, queste vengono contestate di fronte alla Corte Suprema. La Corte si riunirà stamani e come sempre i giudici apriranno l´udienza in piedi, con il capo chino, e ascolteranno le parole di prammatica: «Dio salvi gli Stati Uniti e questa onorevole Corte». Subito dopo dovranno decidere se la menzione di Dio che le scuole richiedono agli insegnanti di pronunciare ogni mattina non violi il venerato First Amendment della Costituzione. Se così fosse, quale sarebbe il destino dei tanti riferimenti religiosi contenuti nelle cerimonie civili americane, come appunto le parole con cui la Corte Suprema inizia le sue sessioni?
Il caso è stato provocato dal ricorso in appello di una scuola californiana contro la sentenza esplosiva pronunciata nel giugno 2002 da una corte d´appello di San Francisco, che viene considerata la più liberal degli Stati Uniti. La Corte di San Francisco sentenziò che le parole «under God» equivalgono a un´esplicita professione di religione e sono pertanto incostituzionali. Dette così ragione a un medico e avvocato californiano, Michael Newdow, che si definisce ateo il quale non vuole che la figlia di nove anni sia costretta ogni mattina a reiterare devozione a Dio.
Prima di tutto la Corte dovrà stabilire che cosa significhi veramente giurare fedeltà a «una nazione sotto Dio». Significa implicare che Dio esiste, «un dogma religioso che il governo non dovrebbe sponsorizzare nella scuola pubblica», come afferma Michael Newdow? Secondo l´amministrazione, che difende le due parole, pronunciarle non equivale a una professione di fede religiosa bensì di patriottismo. I garbugli della vicenda sono infiniti e intensamente controversi. La faccenda è ulteriormente complicata dal fatto che è in corso un´aspra battaglia legale tra il padre e la madre della bambina. La madre, che si definisce «una cristiana rinata» che ha ritrovato la fede dopo un breve sbandamento (causa non secondaria, afferma, del suo incontro con il medico californiano), sostiene che il padre non aveva diritto di presentare la causa perché non aveva a quel momento l´affidamento della figlia. Se la Corte vuole uscire d´impaccio senza deliberare una sentenza così ardua, basterà che stabilisca che in effetti il medico californiano non aveva titolo per parlare a nome della figlia.

psicologia dell'insolito

La Stampa Tuttoscienze 24.3.04
Psicologia dell’insolito


E’ PARTITO presso la Facoltà di Psicologia dell'Università di Milano, un corso di "Psicologia dell'insolito". E' la prima volta che l'argomento viene trattato nelle università italiane e come docente è stato chiamato lo psicologo Massimo Polidoro, segretario nazionale del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale - www.cicap.org), un'organizzazione scientifica e educativa fondata da Piero Angela e da scienziati come Margherita Hack, Silvio Garattini, Tullio Regge, Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia. La parapsicologia non ha mai dimostrato in maniera conclusiva l'esistenza di "canali anomali" per la trasmissione delle informazioni o la capacità della mente di influire sulla materia. Eppure una porzione significativa della popolazione vive o ha vissuto esperienze insolite per le quali ritiene, a torto o a ragione, che non esista una spiegazione "normale". Sono esperienze piuttosto comuni, per esempio, quelle di avere dei "flash" telepatici (penso a un amico che non vedo da tanto tempo e lo incontro pochi minuti dopo...), di fare sogni "premonitori" o di vivere sensazioni di «déjà vu». Esse possono avere una miriade di spiegazioni "normali" ma che, dato il loro forte impatto emotivo, possono apparire "paranormali" ad un pubblico che non dispone degli strumenti interpretativi necessari. Un gran numero di sondaggi ha dimostrato come esperienze personali di questo tipo rappresentino la principale motivazione offerta dai rispondenti per la loro credenza nei fenomeni paranormali. Chi vive questo tipo di esperienze, non trovando spiegazioni facilmente accessibili presso chi dovrebbe fornirgliele - gli psicologi, per esempio - si rivolge alla parapsicologia. Qui ottiene molte "spiegazioni" a base di ESP o PK che, tuttavia, non spiegano nulla veramente e lasciano intatto il mistero che circonda l'esperienza in questione. D'altra parte, gli stessi psicologi, che costituiscono il gruppo di studiosi accademici più scettici sull'argomento, rispetto a colleghi nell'ambito delle scienze naturali o in quello umanistico, non sono immuni da confusione e disinformazione. Una serie di sondaggi condotti annualmente dal professor Guido Petter sugli studenti del primo anno di psicologia a Padova rivela, per esempio, che ogni anno la percentuale di coloro che ritengono la telepatia un fenomeno fondato si aggira intorno al 55%, mentre solo il 10% si dichiara scettico. Anche per questo stato attivato all’Università di Milano il primo Corso di "Metodo scientifico, pseudoscienza e psicologia dell'insolito": 20 ore di lezioni in cui, oltre agli aspetti metodologici, verranno approfonditi argomenti quali l'apparente percezione extrasensoriale nella vita quotidiana, i problemi della memoria e i falsi ricordi, l'inattendibilità della testimonianza oculare, la fisiologia delle esperienze trascendentali, la medianità e i presunti contatti con l'aldilà, la psicologia dell'inganno, le tecniche di persuasione usate da maghi e veggenti, i rischi dell'autoinganno, le guarigioni misteriose e l'effetto placebo, le esperienze insolite legate al sonno e ai sogni e così via. Anche se non si dovesse mai scoprire che le facoltà paranormali sono reali, lo studio della psicologia dell'insolito consentirà per lo meno di capire meglio come funziona le mente umana e, in particolare, come mai siamo tanto affascinati dalla magia e dai misteri.

i classici dell'arte del '900

Corriere della Sera 24.3.04
I colori di un secolo
PICASSO
dietro foto e design
di Carlo Arturo Quintavalle


Come capire l’arte contemporanea, quella del secolo appena trascorso, quella dell’astrazione, quella delle forme sconvolte, dei colori violenti, quella delle immagini sospese, estraniate, quasi dei sogni rappresi davanti a noi? In ogni tempo l’arte ha raccontato le ideologie, le immagini hanno trasmesso agli altri quello che era il progetto, la volontà del potere, ma adesso da oltre un secolo, l’arte esprime tensioni diverse, quelle contrapposte delle diverse classi. Gli artisti, che non sono più una élite, che vivono insieme a tutti, che non dipingono per il «principe», dialogano con un pubblico molto ampio, scoprono le idee degli intellettuali più avanzati, dunque vogliono gettare un ponte verso tutti coloro che l’arte non l’hanno ancora conosciuta, oppure verso coloro che vivono esistenze parallele, filosofi, musicisti, psicoanalisti, e che sentono l’arte come un grande problema umano, ma anche civile. Si chiamava «Il ponte» quel movimento sorto nel 1905 a Dresda che con Heckel, Kirchner, Nolde, voleva collegare artisti e grande pubblico, ed erano stati battezzati «Fauves», fiere, in senso dispregiativo, quegli artisti a Parigi che, da Matisse a Braque a Dérain, rivoluzionavano col colore violento l’immagine. Oggi c’è chi continua a giudicare l’arte di un intero secolo pensando alla tradizione accademica, quella dall’arte greca al Neoclassico, ma loro, i pittori del ’900, hanno creato un’arte che parla a tutti, aprendo un dialogo nuovo con le ideologie, naturalmente quelle rivoluzionarie.
Pensate, i futuristi sognano, da Boccioni a Balla, la trasformazione delle macchine nell’Italia contadina e savoiarda prima del 1915; i cubisti, con Picasso e Braque, scompongono le forme, inventano il tempo dentro la pittura attraverso la filosofia di Henry Bergson e, forse, alludono anche alla teoria della relatività di Einstein. Un russo e un tedesco, Wasilij Kandinsky e Franz Marc, pubblicano a Monaco nel 1912 un almanacco, «Il cavaliere azzurro» che vuole il ritorno al primitivo, all’originario, un sogno che hanno in comune con i musicisti, come Schriabin e Mussorskij, e dove primitivo coincide anche con popolare.
Mentre i cubisti e i pittori della Brùcke puntano sull’arte negra, Chagall reinventa la sua pittura pensando al perduto villaggio ebreo Vitebsk e alle fiabe di un popolo di esclusi, e uno svizzero, Paul Klee, ritrova nel segno grafico ridotto, nella immagine infantile, un senso nuovo, concludendo anche se in lui, molte volte, questo mondo si fa disordine, cosmica angoscia. Certo, le avanguardie sono anche tensione politica, violento contrasto, sempre contro l’accademia, ed è questo il senso della rivolta proposta in Russia da Malevitch, Tatlin, la Gonciàrova, la Exter fra il 1917 e il 1925 circa, tutti poi messi a tacere da Stalin. Essi volevano dunque creare un’arte per il mondo contadino e operaio usando le antiche lingue popolari, la fiaba, le immagini dei popoli più lontani dall’arte del civile Occidente, per loro l’arte doveva cambiare il mondo.
L’arte del ’900 è dunque rivoluzione, spesso più efficace di quelle armate. Si pensi a Giorgio De Chirico che trasferisce il vuoto senza tempo della riflessione di Nietzsche nell’arte fra il primo e secondo decennio, creando un modello di immagine - estraniata - che sarà ripreso nel film, nelle pubblicità, fino ad oggi. Lo capisce anche Marcel Duchamp per il quale arte è inventare qualsiasi oggetto come arte, nel nome, ancora una volta, del rifiuto della figura, delle forme banali che si copiano dal vero. Per capire l’arte di oggi dobbiamo pensare alla musica, infatti Kandinsky dialoga con Schönberg, l’uno inventa la pittura astratta, l’altro la musica atonale, che innervano il mondo di oggi.
Ma l’arte del ’900 è stata molto di più di questo, è stata avanguardia della libertà, Picasso con Guernica, certo, ma, prima di lui, tutti coloro che hanno vissuto l’arte come mezzo per scoprire l’inconscio, da Max Ernst a Magritte, oppure l’arte come mediatrice fra le lingue e le culture. Dobbiamo conoscere l’arte del ’900 perché è la chiave del mondo contemporaneo, sono qui infatti le matrici delle immagini che ci circondano, dai manifesti alle fotografie, dalle architetture al design.
L’arte del ’900 evidenzia la crisi di un mondo, quello tradizionale, ma scopre nuovi mondi, dove l’arte dei popoli un tempo subalterni trionfa: il mito del primitivo ha trasformato l’Occidente.

Sanguineti e Vattimo a Genova

Repubblica, ed. di Genova 24.3.04
Al convegno "Biologia moderna & visioni dell´umanità" un forte richiamo del poeta ai "camici bianchi al di fuori della Storia"
Sanguineti, la scienza e la sferza
"Ricercatori, chiedetevi per chi e con quale fine state lavorando"
Il filosofo Vattimo ha scelto Genova per ufficializzare la propria candidatura con i Comunisti italiani al Parlamento europeo
di MICHELA BOMPANI


«Scelgo Genova, capitale europea della cultura, per lanciare la mia prossima candidatura al Parlamento europeo»: lo ha annunciato ieri il filosofo ed europarlamentare Gianni Vattimo, a margine del convegno internazionale "Biologia moderna & visioni dell´umanità", a Palazzo Ducale. Mentre sferza i «camici bianchi al di fuori della Storia», il poeta Edoardo Sanguineti. Ne rispetta profondamente il lavoro, ma sente il bisogno di richiamare, nella sessione pomeridiana, gli scienziati: «Quanto costano le ricerche biologiche? E sono al servizio di chi? Questo si devono chiedere i ricercatori nei laboratori».
Vattimo s´impegna: tra qualche settimana, tornerà a Genova per trascorre alcuni giorni, godersi la capitale europea e presentarsi ufficialmente ai nastri di partenza della corsa al parlamento Ue, per i Comunisti italiani (dopo essersi allontanato dall´area Ds).
E il filosofo ha contrappuntato di stoccate politiche, la sua dissertazione su scienza, etica e democrazia, ieri mattina. «Una legge indecente - ha detto Vattimo - quella italiana sulla fecondazione assistita, le donne non devono essere costrette a portare avanti una gravidanza, se il feto ha malformazioni». Si schiera fortemente sulla libertà di utilizzo, per l´estrazione di cellule staminali, dagli embrioni congelati. Non ci si può richiamare al "rispetto della natura" per intralciare la ricerca scientifica, spinge Vattimo: «Perché è per natura che nei tessuti si formano i tumori: allora, per rispetto della natura, dovremmo forse non curarli?». La natura, definisce il filosofo, nella tenzone tra scienza ed etica, «è soltanto un pretesto, con cui giustifichiamo il rifiuto delle nostre responsabilità». Traccia l´arco della vita dell´uomo, Vattimo, davanti ai cinquecento partecipanti al convegno, scienziati, sociologi, filosofi venuti dalle università ai quattro angoli del mondo: punta il dito su importanti snodi etici contemporanei, all´inizio e alla fine di essa. Aborto terapeutico ed eutanasia. «Credo che per quanto riguarda l´embrione, debba essere la madre a dover decidere, liberamente, ma supportata da psicologi dei servizi sociali - conclude Vattimo - e poi sono convinto che l´uomo debba avere, altrettanto liberamente, la possibilità di morire degnamente. Qualche passo avanti si è fatto, però, in questa direzione almeno con il testamento genetico».
Fa riflettere, segno dei tempi, che anche Vattimo abbia sentito la necessità di tornare più volte sul tema dell´aborto, a ribadire l´intoccabilità della legge 104, così come hanno fatto, nei due giorni di convegno, quasi tutti i relatori, mettendolo vicino alle più frementi problematiche contempornaee, clonazione, bioingegneria, ogm.
Edoardo Sanguineti ha ribadito le perplessità, sulle discussioni del convegno, che aveva confessato in platea, mercoledì. Ieri, infatti, le ha appesantite e rovesciate dal tavolo dei relatori, ieri: «Ho sentito scienziati che parlavano da scienziati - dice - con uno spirito corporativo, senza curarsi di ciò che accade al di fuori dei laboratori: il vero problema oggi è la responsabilità politica della scienza. C´è la guerra, il terrorismo, gli scienziati hanno responsabilità politica. Perché, scienza e lettere, da sempre, sono naturalmente impegnati ideologicamente». Lo chiama "l´isolamento del biologo", il martello che riduce in cocci quello che dovrebbe essere un cerchio armonico tra etica e scienza: il poeta mette in guardia gli scienziati, la loro responsabilità morale, che è politica, li deve portare non soltanto a condurre diligentemente il loro lavoro, ma anche a chiedersi per chi, e con quale fine, lo stanno facendo.