Libertà 21.9.04
Parlano il direttore della Mostra di Venezia e l'attore
Tra il pubblico Marco Müller e Alessio Boni: «Regia moderna ma senza stravolgimenti»
di Gian Carlo Andreoli
Tra il pubblico che ieri sera ha affollato il Municipale per la “prima” del Rigoletto anche volti noti del mondo del cinema e della televisione. Presente nel palco reale il produttore e neodirettore della Mostra del cinema di Venezia Marco Muller, amico di Bellocchio, invitato dal regista stesso. Ovviamente l'occhio di Müller si ferma sul lavoro registico. «Ho apprezzato la regia - dice - perché ha trovato la distanza giusta. Nella lettura di Bellocchio ho letto il senso del cambiamento di quegli anni. Direi un disegno weimariano all'italiana, una storicizzazione che rende accettabile e significativa l'attualizzazione dell'opera. Se Bellocchio avesse operato un aggiornamento ancor più radicale e vicino ai nostri tempi probabilmente sarebbe stato difficile da accettare. Invece così si coglie bene il senso del cambiamento politico e il lato minaccioso dell'opera. Molto bello il contrasto luci e ombre, che genera insicurezza generale». Ha senso portare al cinema le opere oggi? «Sì - risponde Müller perché il cinema comunque crea un mondo straordinario, letto attraverso una lente di ingrandimento e quindi ci dona una fissazione del reale straordinaria». In platea siede anche un idolo delle giovanissime, l'attore Alessio Boni (da medico di "Incantesimo" al ribelle di "Un prete tra noi" in tv, consacrato al cinema da "La meglio gioventù" di Giordana). «Sono sul set a Torino con Claudio Amendola - dice - e siccome stavo tornanod a Roma ho fatto una capatina a Piacenza per questo Rigoletto. Sa, io sono appassionato di lirica. Devo dire che l'allestimento mi piace. La regia di Bellocchio la trovo moderna senza “disturbare” tuttavia il senso del dramma verdiano. Marco è stato bravo a far muovere tutta la scena e ad esprimere attraverso le luci la vivacità della vicenda». Tra i giornalisti presenti anche Angelo Foletto, critico di Repubblica ed ex insegnante al Nicolini. Telegrafico il suo commento. «Non c'è nulla di innovativo in questo allestimento. Finora tra i registi di cinema prestati all'opera mi ha soddisfatto solo Bertolucci».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 21 marzo 2004
Sergio Castellitto e Marco Bellocchio
Corriere Adriatico 21.3.04
PALERMO - "Reciterò in un film di Marco Bellocchio ambientato in Sicilia, di più per il momento non posso dire". Sergio Castellitto lo ha detto a Palermo durante la presentazione del suo nuovo film 'Non ti muovere'.
PALERMO - "Reciterò in un film di Marco Bellocchio ambientato in Sicilia, di più per il momento non posso dire". Sergio Castellitto lo ha detto a Palermo durante la presentazione del suo nuovo film 'Non ti muovere'.
«lo scienziato e l'artista si rivelano davvero poeti e cioè creatori, nella loro opera come nella loro esistenza»
Corriere della Sera 21.3.04
L’INTERVENTO
Bruno, Cartesio, Copernico: le favole del pensiero
di GIULIO GIORELLO
«Gli dei pigliano piacere nella moltiforme representazione di tutte cose, e frutti moltiformi de tutti ingegni». Così nel 1584 Giordano Bruno, il filosofo che si definiva «lodato da pochi, approvato da nessuno, perseguitato da tutti». Ma non è questa anche la sorte della novità scientifica, quando ancora è un «embrione» e non «trama», cioè configurazione capace di rompere con la costellazione dei pregiudizi stabiliti? Lo hanno sperimentato sulla loro pelle uomini come Copernico e Darwin, colpevoli l’uno di aver «messo in movimento» il nostro globo, l’altro di aver mostrato che il mondo del vivente è in perpetua evoluzione - due vere e proprie «scoperte», perché quel tipo di movimento-mutamento sfugge ai nostri sensi e va oltre l’esperienza quotidiana. Lo scopritore è sempre un narratore: Colombo descrisse minuziosamente la sua conquista del Nuovo Mondo; Copernico si prese la briga di raccontare come aveva imparato a diffidare delle apparenze; Darwin si fece cronista del proprio viaggio intorno al globo - per non dire di Bruno, che mise in scena la sua ricerca di quel Dio «che è dentro di noi, più che noi siamo dentro noi stessi» (e scontò questa scoperta sul rogo in Campo dei Fiori, 17 febbraio 1600). La rappresentazione della realtà è davvero multiforme! Lo può constatare qualunque spettatore, al cinema. E la narrazione cinematografica, prodotta dallo scorrere dei fotogrammi di una pellicola, è una metafora ancora imperfetta di una storia. Quello che importa, infatti, non è la linearità della sequenza, ma la complessità delle forme che producono la trama.
Una particolare disciplina scientifica, l’embriologia, ci fa capire come qualsiasi vita sia una continua metamorfosi di un individuo che, proprio in questo mutare, si definisce sullo sfondo del proprio ambiente. Questo vale anche, a tempi più lunghi, per l’evoluzione delle specie viventi per selezione naturale; nonché, su scala ancor più grande, per quella che nel Seicento si chiamava la «fabbrica dei cieli» - pianeti, stelle, galassie e forse l’intero nostro universo, il quale ha una storia, anzi è storia. Con tutte le nostre audaci ipotesi cosmologiche e i potenti telescopi fissi od orbitanti attorno alla Terra, noi ne siamo i modesti cronisti, ne raccontiamo cioè dei frammenti, e forse ci sfugge il senso della trama complessiva. Giordano Bruno paragonava l’opera del «filosofo della natura» (oggi diremmo scienziato) a quella di un pittore che raffigura «qui una nuvoletta, là uno straccio di cielo»; ma, al contrario degli ordinari pittori, non può mai prendere le giuste distanze da quel che rappresenta, perché appartiene al «quadro» stesso che viene delineando. È questo suo essere al contempo soggetto e oggetto della rappresentazione che fa di lui l’autentico narratore di una vicenda in cui ne va sempre della sua vita.
Prendo a prestito una battuta di Nuccio Ordine (dal suo bellissimo "La soglia dell’ombra", Marsilio, Venezia 2003): «Scrivere la vita e vivere la filosofia». È il destino che liberamente si sceglie qualunque grande scienziato o qualunque grande artista. Sia l’uno sia l’altro si rivelano davvero poeti e cioè creatori, nella loro opera come nella loro esistenza. Proprio per questo, nel nostro mondo che pur si pretende scettico e disincantato, non è mai venuto meno il mito (la parola, in origine, voleva dire «discorso vero») come capacità di riscrivere di continuo il grande libro del mondo. Appunto come capitava al grande Cartesio, quando i suoi detrattori (in realtà gli facevano un complimento) dicevano che la sua opera si sarebbe potuta intitolare Il Mondo è una Favola . E come diceva il maligno Giovenale di Ulisse, che inventava il proprio mito mentre narrava le sue peripezie «agli sbalorditi Feaci».
L’INTERVENTO
Bruno, Cartesio, Copernico: le favole del pensiero
di GIULIO GIORELLO
«Gli dei pigliano piacere nella moltiforme representazione di tutte cose, e frutti moltiformi de tutti ingegni». Così nel 1584 Giordano Bruno, il filosofo che si definiva «lodato da pochi, approvato da nessuno, perseguitato da tutti». Ma non è questa anche la sorte della novità scientifica, quando ancora è un «embrione» e non «trama», cioè configurazione capace di rompere con la costellazione dei pregiudizi stabiliti? Lo hanno sperimentato sulla loro pelle uomini come Copernico e Darwin, colpevoli l’uno di aver «messo in movimento» il nostro globo, l’altro di aver mostrato che il mondo del vivente è in perpetua evoluzione - due vere e proprie «scoperte», perché quel tipo di movimento-mutamento sfugge ai nostri sensi e va oltre l’esperienza quotidiana. Lo scopritore è sempre un narratore: Colombo descrisse minuziosamente la sua conquista del Nuovo Mondo; Copernico si prese la briga di raccontare come aveva imparato a diffidare delle apparenze; Darwin si fece cronista del proprio viaggio intorno al globo - per non dire di Bruno, che mise in scena la sua ricerca di quel Dio «che è dentro di noi, più che noi siamo dentro noi stessi» (e scontò questa scoperta sul rogo in Campo dei Fiori, 17 febbraio 1600). La rappresentazione della realtà è davvero multiforme! Lo può constatare qualunque spettatore, al cinema. E la narrazione cinematografica, prodotta dallo scorrere dei fotogrammi di una pellicola, è una metafora ancora imperfetta di una storia. Quello che importa, infatti, non è la linearità della sequenza, ma la complessità delle forme che producono la trama.
Una particolare disciplina scientifica, l’embriologia, ci fa capire come qualsiasi vita sia una continua metamorfosi di un individuo che, proprio in questo mutare, si definisce sullo sfondo del proprio ambiente. Questo vale anche, a tempi più lunghi, per l’evoluzione delle specie viventi per selezione naturale; nonché, su scala ancor più grande, per quella che nel Seicento si chiamava la «fabbrica dei cieli» - pianeti, stelle, galassie e forse l’intero nostro universo, il quale ha una storia, anzi è storia. Con tutte le nostre audaci ipotesi cosmologiche e i potenti telescopi fissi od orbitanti attorno alla Terra, noi ne siamo i modesti cronisti, ne raccontiamo cioè dei frammenti, e forse ci sfugge il senso della trama complessiva. Giordano Bruno paragonava l’opera del «filosofo della natura» (oggi diremmo scienziato) a quella di un pittore che raffigura «qui una nuvoletta, là uno straccio di cielo»; ma, al contrario degli ordinari pittori, non può mai prendere le giuste distanze da quel che rappresenta, perché appartiene al «quadro» stesso che viene delineando. È questo suo essere al contempo soggetto e oggetto della rappresentazione che fa di lui l’autentico narratore di una vicenda in cui ne va sempre della sua vita.
Prendo a prestito una battuta di Nuccio Ordine (dal suo bellissimo "La soglia dell’ombra", Marsilio, Venezia 2003): «Scrivere la vita e vivere la filosofia». È il destino che liberamente si sceglie qualunque grande scienziato o qualunque grande artista. Sia l’uno sia l’altro si rivelano davvero poeti e cioè creatori, nella loro opera come nella loro esistenza. Proprio per questo, nel nostro mondo che pur si pretende scettico e disincantato, non è mai venuto meno il mito (la parola, in origine, voleva dire «discorso vero») come capacità di riscrivere di continuo il grande libro del mondo. Appunto come capitava al grande Cartesio, quando i suoi detrattori (in realtà gli facevano un complimento) dicevano che la sua opera si sarebbe potuta intitolare Il Mondo è una Favola . E come diceva il maligno Giovenale di Ulisse, che inventava il proprio mito mentre narrava le sue peripezie «agli sbalorditi Feaci».
Pistoia: rinviata a giudizio una psichiatra
allieva del celebre professor Giovan Battista Cassano
una segnalazione di Marco Pettini
Repubblica, edizione di Firenze 20.3.04
La dottoressa non informò correttamente la madre della piccola paziente
Terapia sperimentale a giudizio il medico
La cura contro l'obesità le procurò emicranie, depressione e una allucinazione
Il farmaco sarebbe stato prescritto in dosi superiori a quelle consigliate
di FRANCA SELVATICI
PISTOIA - La dottoressa Donatella Marazziti, 48 anni, professore associato di psichiatria presso l´università di Pisa, è stata rinviata a giudizio dal Gip Ernesto Covini per lesioni volontarie aggravate. Il processo comincerà l´11 maggio nella sede distaccata di Monsummano. La psichiatra, allieva del celebre professor Giovan Battista Cassano, è accusata di aver prescritto nel 1999 un farmaco antiepilettico, il Topamax, a una bambina di 12 anni che pesava 120 chili e che la madre, angosciata per l´inefficacia delle cure e delle diete fino ad allora tentate, le aveva portato nel suo studio di Montecatini. Il Topamax era un farmaco sperimentale per la cura dell´obesità. Secondo le accuse, la dottoressa Marazziti avrebbe dovuto spiegarlo chiaramente alla madre della bambina e prescriverlo solo dopo aver acquisito il suo espresso consenso. Inoltre la dottoressa è accusata di aver fatto assumere la medicina in dosaggi superiori a quelli raccomandati. La psichiatra era convinta, e lo è ancora oggi, che il farmaco fosse non soltanto efficace per ridurre l´assunzione di cibo, ma anche tollerato in maniera eccellente dai bambini. La sua giovanissima paziente, però, non perse neppure un chilo. Per contro, durante i mesi in cui assunse il Topamax manifestò sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità e un episodio di allucinazione. Disturbi che, secondo i familiari, non sono cessati dopo l´interruzione della cura.
Racconta la madre: «La bambina dormiva sempre. Era molto pallida, sbavava, i cuscini erano bagnati. Aveva formicolii alle gambe, cefalea, febbre, diarrea. Quando informai la dottoressa, aumentò la dose. La ricercai altre volte ma non la trovavo mai. A scuola la bambina si addormentava sul banco. Un giorno andò dalla preside, spaventatissima, perché aveva "visto" il professore di musica prendere i bambini e metterli nei sacchi della spazzatura. Non scherzava. Era convinta».
L´inchiesta è stata lunga e tormentata, quasi un campo di battaglia fra consulenze, perizie, due richieste di archiviazione e infine la decisione del Pm Ornella Galeotti di chiedere il rinvio a giudizio. La famiglia della bambina è parte civile con l´avvocato Luca Cianferoni. La dottoressa Marazziti, assistita dal professor Tullio Padovani, è intervenuta ieri in udienza per difendere le sue scelte terapeutiche, la sua correttezza e la stessa scuola medico-psichiatrica alla quale deve la sua formazione. Indicata dal Dossier Medici della rivista Class come uno dei più importanti psichiatri italiani, la psichiatra è autrice, fra l´altro, di una ricerca sulle radici biochimiche dell´innamoramento e sulle alterazioni dei livelli di serotonina negli innamorati. Grazie a questo studio, è stata insignita nel 2000, insieme con il suo maestro Giovan Battista Cassano e con la collega Alessandra Rossi, nel 2000 del premio Ig-Nobel, l´anti-Nobel assegnato dalla rivista Annals of Improbable Research.
Repubblica, edizione di Firenze 20.3.04
La dottoressa non informò correttamente la madre della piccola paziente
Terapia sperimentale a giudizio il medico
La cura contro l'obesità le procurò emicranie, depressione e una allucinazione
Il farmaco sarebbe stato prescritto in dosi superiori a quelle consigliate
di FRANCA SELVATICI
PISTOIA - La dottoressa Donatella Marazziti, 48 anni, professore associato di psichiatria presso l´università di Pisa, è stata rinviata a giudizio dal Gip Ernesto Covini per lesioni volontarie aggravate. Il processo comincerà l´11 maggio nella sede distaccata di Monsummano. La psichiatra, allieva del celebre professor Giovan Battista Cassano, è accusata di aver prescritto nel 1999 un farmaco antiepilettico, il Topamax, a una bambina di 12 anni che pesava 120 chili e che la madre, angosciata per l´inefficacia delle cure e delle diete fino ad allora tentate, le aveva portato nel suo studio di Montecatini. Il Topamax era un farmaco sperimentale per la cura dell´obesità. Secondo le accuse, la dottoressa Marazziti avrebbe dovuto spiegarlo chiaramente alla madre della bambina e prescriverlo solo dopo aver acquisito il suo espresso consenso. Inoltre la dottoressa è accusata di aver fatto assumere la medicina in dosaggi superiori a quelli raccomandati. La psichiatra era convinta, e lo è ancora oggi, che il farmaco fosse non soltanto efficace per ridurre l´assunzione di cibo, ma anche tollerato in maniera eccellente dai bambini. La sua giovanissima paziente, però, non perse neppure un chilo. Per contro, durante i mesi in cui assunse il Topamax manifestò sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità e un episodio di allucinazione. Disturbi che, secondo i familiari, non sono cessati dopo l´interruzione della cura.
Racconta la madre: «La bambina dormiva sempre. Era molto pallida, sbavava, i cuscini erano bagnati. Aveva formicolii alle gambe, cefalea, febbre, diarrea. Quando informai la dottoressa, aumentò la dose. La ricercai altre volte ma non la trovavo mai. A scuola la bambina si addormentava sul banco. Un giorno andò dalla preside, spaventatissima, perché aveva "visto" il professore di musica prendere i bambini e metterli nei sacchi della spazzatura. Non scherzava. Era convinta».
L´inchiesta è stata lunga e tormentata, quasi un campo di battaglia fra consulenze, perizie, due richieste di archiviazione e infine la decisione del Pm Ornella Galeotti di chiedere il rinvio a giudizio. La famiglia della bambina è parte civile con l´avvocato Luca Cianferoni. La dottoressa Marazziti, assistita dal professor Tullio Padovani, è intervenuta ieri in udienza per difendere le sue scelte terapeutiche, la sua correttezza e la stessa scuola medico-psichiatrica alla quale deve la sua formazione. Indicata dal Dossier Medici della rivista Class come uno dei più importanti psichiatri italiani, la psichiatra è autrice, fra l´altro, di una ricerca sulle radici biochimiche dell´innamoramento e sulle alterazioni dei livelli di serotonina negli innamorati. Grazie a questo studio, è stata insignita nel 2000, insieme con il suo maestro Giovan Battista Cassano e con la collega Alessandra Rossi, nel 2000 del premio Ig-Nobel, l´anti-Nobel assegnato dalla rivista Annals of Improbable Research.
Emanuele Severino sulla pace e sulla guerra
Corriere della Sera 21.3.04
«Voglia di pace? Un’illusione Il mondo non sarà mai innocente»
Il filosofo Severino: «Il conflitto è tra il passato e la civiltà tecnica di oggi L’unica speranza è che il progresso aiuti i poveri prima che sia troppo tardi»
Ieri in tutto l’Occidente, per il primo anniversario della guerra in Iraq, grandi manifestazioni di massa hanno chiesto «pace». Si è gridato che la fine dei conflitti è l’unica strada per fermare il terrorismo, l’unico modo per bloccare la mano a coloro che stanno tenendo in scacco le nostre vecchie società. Abbiamo parlato di questo con Emanuele Severino, il filosofo che più di ogni altro ha studiato le radici della violenza.
Professor Severino, cosa ne pensa delle guerre attuali? Le ricordo che nel mondo ce ne sono circa venticinque in corso, di cui solo qualcuna interessa noi...
«Quelle che interessano a noi sono le più gravi. Noi siamo daccapo coinvolti in una conflittualità di carattere planetario. Sta venendo alla luce che il vero contrasto non è tra Islam e Cristianesimo, o tra Islam e "impero del male", ma tra il passato dell’Occidente e la contemporaneità, cioè la civiltà della tecnica. E al passato l’Islam appartiene non meno che il Cristianesimo».
Ma allora qual è la via da battere per trovare la pace?
«La via non è il risultato di un progetto, perché lo stesso progettare appartiene all’essenza della violenza e della guerra. La via però c’è e consiste nel tragitto inevitabile che conduce non alla pax americana ma alla pax tecnica».
Ma perché il progettare fa parte della violenza? Senza un progetto cosa possiamo fare?
«La via di cui parlo non è qualcosa d’irrazionale. Il progettare sottintende la disponibilità delle cose alla volontà dell’uomo. Ma quando si comincia a pensarle così disponibili, esplode perciò stesso la volontà di impadronirsene, modificarle, produrle, distruggerle. E questi atteggiamenti sono la condizione primaria della violenza. Progettare è comandare e il comandamento di "non uccidere" è la radice dell’omicidio perché presuppone la nullità costitutiva dell’uomo».
Ma allora uccidiamo i nostri simili partendo da un comandamento che invita a fare il contrario?
«Sì, perché è proprio la nostra cultura a pensare che gli uomini e le cose siano di per sé nulla, e questo pensiero che sta alla radice del comandamento di "non uccidere" è l’omicidio fondamentale e originario».
Ma allora cosa significa dichiarare una guerra?
«Significa rendere esplicito ciò che noi chiamiamo pace e che è regolato dal comandamento di "non uccidere". La pace è l’omicidio mascherato e la guerra è l’omicidio palese».
Ma lei professore non pensa che tutti coloro che ieri hanno manifestato nel mondo per la pace credano qualcosa di opposto? Per loro la pace è l’assenza di ogni guerra...
«Certo che lo credono, ma si illudono. Che lo credano e lo sperino, è fuori discussione».
Perché si illudono?
«Da un lato credono che la volontà, e quindi la volontà di pace, possa essere innocente, mentre la volontà non lo è mai: è sempre violenza. Dall’altro lato non ci si rende conto che il mondo sta andando verso quella forma estrema di violenza che sarà sì riuscita ad eliminare tutte le guerre sanguinose, ma non per questo sarà più innocente; ed è ciò che prima ho chiamato pax tecnica».
Ma il nichilismo cosa c’entra in questo suo discorso?
«Sin dall’inizio, rispondendole, mi riferivo al nichilismo; solo che si tratta di capire il senso autentico del nichilismo».
Qual è questo senso?
«Non le sembra che prima, parlando della convinzione che l’uomo sia originariamente un nulla, ci si sia avvicinati a questo senso autentico?».
Professore ma ieri milioni di persone hanno urlato la loro voglia di pace...
«Lei all’inizio mi ha amabilmente spinto verso le questioni ultime, ma in questi casi sarebbe opportuno lasciarle alla fine e incominciare appunto, come lei ora suggerisce, da ciò che immediatamente percepiamo. Quei milioni di persone indubbiamente costituiscono un fatto rilevante di cui i politici non possono non tener conto. Mi sorprende che a protestare contro la guerra e il terrorismo le masse occidentali non si trovino insieme alle masse islamiche. Non avvenendo mi sembra il segnale di un pericolo».
E cosa ne pensa dei tafferugli italiani? Fassino ha dovuto lasciare il corteo...
«Sono questioni meno rilevanti. Ma sono il sintomo della complessità del problema».
Può aiutare la pace un minor egoismo da parte dei Paesi ricchi?
«Se i ricchi per dare ai poveri fossero disposti a ridurre in modo consistente il loro tenore di vita, forse. Ma c’è il timore che lasciando che anche gli altri si aggrappino alla barca dei ricchi, questa vada a fondo trascinando con sé gli uni e gli altri. Più realistica è invece la possibilità che la tecnica soddisfi i bisogni dell’umanità povera prima che sia troppo tardi, ovvero prima che i poveri cerchino di buttare fuori dalla barca i ricchi».
«Voglia di pace? Un’illusione Il mondo non sarà mai innocente»
Il filosofo Severino: «Il conflitto è tra il passato e la civiltà tecnica di oggi L’unica speranza è che il progresso aiuti i poveri prima che sia troppo tardi»
Ieri in tutto l’Occidente, per il primo anniversario della guerra in Iraq, grandi manifestazioni di massa hanno chiesto «pace». Si è gridato che la fine dei conflitti è l’unica strada per fermare il terrorismo, l’unico modo per bloccare la mano a coloro che stanno tenendo in scacco le nostre vecchie società. Abbiamo parlato di questo con Emanuele Severino, il filosofo che più di ogni altro ha studiato le radici della violenza.
Professor Severino, cosa ne pensa delle guerre attuali? Le ricordo che nel mondo ce ne sono circa venticinque in corso, di cui solo qualcuna interessa noi...
«Quelle che interessano a noi sono le più gravi. Noi siamo daccapo coinvolti in una conflittualità di carattere planetario. Sta venendo alla luce che il vero contrasto non è tra Islam e Cristianesimo, o tra Islam e "impero del male", ma tra il passato dell’Occidente e la contemporaneità, cioè la civiltà della tecnica. E al passato l’Islam appartiene non meno che il Cristianesimo».
Ma allora qual è la via da battere per trovare la pace?
«La via non è il risultato di un progetto, perché lo stesso progettare appartiene all’essenza della violenza e della guerra. La via però c’è e consiste nel tragitto inevitabile che conduce non alla pax americana ma alla pax tecnica».
Ma perché il progettare fa parte della violenza? Senza un progetto cosa possiamo fare?
«La via di cui parlo non è qualcosa d’irrazionale. Il progettare sottintende la disponibilità delle cose alla volontà dell’uomo. Ma quando si comincia a pensarle così disponibili, esplode perciò stesso la volontà di impadronirsene, modificarle, produrle, distruggerle. E questi atteggiamenti sono la condizione primaria della violenza. Progettare è comandare e il comandamento di "non uccidere" è la radice dell’omicidio perché presuppone la nullità costitutiva dell’uomo».
Ma allora uccidiamo i nostri simili partendo da un comandamento che invita a fare il contrario?
«Sì, perché è proprio la nostra cultura a pensare che gli uomini e le cose siano di per sé nulla, e questo pensiero che sta alla radice del comandamento di "non uccidere" è l’omicidio fondamentale e originario».
Ma allora cosa significa dichiarare una guerra?
«Significa rendere esplicito ciò che noi chiamiamo pace e che è regolato dal comandamento di "non uccidere". La pace è l’omicidio mascherato e la guerra è l’omicidio palese».
Ma lei professore non pensa che tutti coloro che ieri hanno manifestato nel mondo per la pace credano qualcosa di opposto? Per loro la pace è l’assenza di ogni guerra...
«Certo che lo credono, ma si illudono. Che lo credano e lo sperino, è fuori discussione».
Perché si illudono?
«Da un lato credono che la volontà, e quindi la volontà di pace, possa essere innocente, mentre la volontà non lo è mai: è sempre violenza. Dall’altro lato non ci si rende conto che il mondo sta andando verso quella forma estrema di violenza che sarà sì riuscita ad eliminare tutte le guerre sanguinose, ma non per questo sarà più innocente; ed è ciò che prima ho chiamato pax tecnica».
Ma il nichilismo cosa c’entra in questo suo discorso?
«Sin dall’inizio, rispondendole, mi riferivo al nichilismo; solo che si tratta di capire il senso autentico del nichilismo».
Qual è questo senso?
«Non le sembra che prima, parlando della convinzione che l’uomo sia originariamente un nulla, ci si sia avvicinati a questo senso autentico?».
Professore ma ieri milioni di persone hanno urlato la loro voglia di pace...
«Lei all’inizio mi ha amabilmente spinto verso le questioni ultime, ma in questi casi sarebbe opportuno lasciarle alla fine e incominciare appunto, come lei ora suggerisce, da ciò che immediatamente percepiamo. Quei milioni di persone indubbiamente costituiscono un fatto rilevante di cui i politici non possono non tener conto. Mi sorprende che a protestare contro la guerra e il terrorismo le masse occidentali non si trovino insieme alle masse islamiche. Non avvenendo mi sembra il segnale di un pericolo».
E cosa ne pensa dei tafferugli italiani? Fassino ha dovuto lasciare il corteo...
«Sono questioni meno rilevanti. Ma sono il sintomo della complessità del problema».
Può aiutare la pace un minor egoismo da parte dei Paesi ricchi?
«Se i ricchi per dare ai poveri fossero disposti a ridurre in modo consistente il loro tenore di vita, forse. Ma c’è il timore che lasciando che anche gli altri si aggrappino alla barca dei ricchi, questa vada a fondo trascinando con sé gli uni e gli altri. Più realistica è invece la possibilità che la tecnica soddisfi i bisogni dell’umanità povera prima che sia troppo tardi, ovvero prima che i poveri cerchino di buttare fuori dalla barca i ricchi».
Leopardi
Corriere della Sera 21.3.04
CLASSICI
Una ribellione contro la cruda concretezza della vita adulta
Sul «limitare di gioventù», tra speranze e tristi presagi
di Giorgio De Rienzo
Guai se una femminista dei nostri giorni leggesse l’epistolario di Leopardi: darebbe fuoco ai Canti . «La freddezza e l’egoismo d’oggi dì, l’ambizione, l’interesse, la perfidia, l’insensibilità delle donne che io definisco un animale senza cuore, sono cose che mi spaventano», scrive Leopardi nel 1820 a un amico. Le lettere da Recanati sono sempre cariche di invettive contro la «frivolezza» e la «dissipatezza» di queste «non donne, ma bestie femmine». Anche fuori del «natio borgo selvaggio» l’astio non si placherà. Quando Giacomo - finalmente - riuscirà ad andare a Roma, si metterà per strada, come un qualsiasi provinciale, per «incontrare donne». Raccoglierà delusioni con dispetto. «Trattando - scrive al fratello Carlo - è così difficile fermare una donna in Roma, come in Recanati, anzi molto di più», perché le «femmine» nella grande città «sono piene di ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi». E’ ben lontano da queste pagine il poeta di Silvia e di Nerina, come quello tormentato dall’immagine provocatrice di Aspasia. Gli epistolari però - si sa - spesso rendono brutti servizi agli scrittori per la loro cattiva prosa quotidiana, anche quando testimoniano brucianti sconfitte d’anima. Il linguaggio della poesia è tutt’altra cosa. Rende magari più dolorosa l’esperienza della realtà, ma meno gretta. Un solo esempio. Vedete come tutto si colora d’amore nell’attacco di A Silvia , con quei versi così lineari, semplici, tra i più chiari della nostra letteratura: «Silvia rimembri ancora / Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendea / Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / E tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?». Un’interrogativa e un vocativo: i due modi più tipici della scrittura leopardiana. Il domandare spesso che non ha risposta e il vocativo, il «tu» essenziale di questa poesia, che segna nei versi uno spazio di risonanza, un’intesa d’affetto, un desiderio trepido di colloquio: il bisogno insomma di una distanza ravvicinata, di una compagnia, con l’oggetto della poesia, così come con il lettore.
E’ appunto la lenta lavorazione della parola nella scrittura creativa che crea un distacco dalla vita, mentre pure la ingloba. Basterebbe leggersi la storia interna di questi versi, le varianti attraverso cui si giunge alla stesura definitiva: è la storia di una pazienza senza fine. «Rimembri», si legge oggi nel canto di Silvia. E’ un approdo che scarta altre soluzioni prima tentate: «sovvienti», «rammenti». Non si tratta di un suono più o meno solenne, né di pura musicalità. E’ questione, invece, di un concetto diverso: di una durata della memoria, che man mano nella rielaborazione si approfondisce. Il nucleo più importante dei versi sta però nell’immagine degli «occhi ridenti e fuggitivi» di Silvia, detta «lieta e pensosa». Una doppia coppia perfettamente simmetrica di aggettivi, che segna un profilo immortale di giovinezza già turbata, ma ancora non scalfita.
L’itinerario percorso da Leopardi per giungere a questa immagine è travagliato. Scarta dapprima la possibilità di una figura più corporale: «ne la fronte e nel sen tuo verginale». Cassa, subito dopo, la possibilità di un’immagine soltanto spirituale: «gli sguardi incerti e fuggitivi» della giovane che per compenso non è «pensosa», ma «pudica». La via imboccata alla fine da Leopardi è di sintesi felicissima. «Gli occhi» di Silvia ne richiamano il corpo, più degli «sguardi»: e questi «occhi» che si fanno «ridenti e fuggitivi» riescono a tradurre della ragazza «lieta e pensosa» anche l’incertezza e il pudore. Ebbene, in questi occhi immortali di Silvia «lieta e pensosa» c’è non soltanto la pazienza di Leopardi, ma anche la sua grandezza di poeta caro soprattutto ai lettori giovani.
A Silvia , infatti, è il canto della giovinezza spezzata, dell’illusione caduta, dell’aspettativa interrotta e, insieme, della maturità non accettata. Se per Silvia c’è la morte che determina la caduta delle speranze, per il poeta che la canta c’è la vita che smentisce le fantastiche proiezioni nel futuro di un amore non vissuto. Leopardi è il poeta dell’adolescenza perpetua, che si ribella al limite umano, che non accetta la concretezza cruda del vivere d’ogni giorno: il suo profilo più convincente è, infatti, proprio quello di un adolescente che esita a salire, come Silvia, il «limitare di gioventù», che caparbiamente si rifiuta di compiere un piccolo passo. La grandezza di Leopardi sta nell’aver saputo decorare la propria disperata mancanza di coraggio. Se mi è concessa questa espressione, direi che la sua straordinaria (e leggera) singolarità sta nell’aver saputo tergiversare tra ciò che di lieta aspettativa (gli «occhi ridenti») e ciò che di triste presagio (gli occhi «fuggitivi» di Silvia «pensosa») la vita comporta, al di là del «limitare di gioventù».
CLASSICI
Una ribellione contro la cruda concretezza della vita adulta
Sul «limitare di gioventù», tra speranze e tristi presagi
di Giorgio De Rienzo
Guai se una femminista dei nostri giorni leggesse l’epistolario di Leopardi: darebbe fuoco ai Canti . «La freddezza e l’egoismo d’oggi dì, l’ambizione, l’interesse, la perfidia, l’insensibilità delle donne che io definisco un animale senza cuore, sono cose che mi spaventano», scrive Leopardi nel 1820 a un amico. Le lettere da Recanati sono sempre cariche di invettive contro la «frivolezza» e la «dissipatezza» di queste «non donne, ma bestie femmine». Anche fuori del «natio borgo selvaggio» l’astio non si placherà. Quando Giacomo - finalmente - riuscirà ad andare a Roma, si metterà per strada, come un qualsiasi provinciale, per «incontrare donne». Raccoglierà delusioni con dispetto. «Trattando - scrive al fratello Carlo - è così difficile fermare una donna in Roma, come in Recanati, anzi molto di più», perché le «femmine» nella grande città «sono piene di ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi». E’ ben lontano da queste pagine il poeta di Silvia e di Nerina, come quello tormentato dall’immagine provocatrice di Aspasia. Gli epistolari però - si sa - spesso rendono brutti servizi agli scrittori per la loro cattiva prosa quotidiana, anche quando testimoniano brucianti sconfitte d’anima. Il linguaggio della poesia è tutt’altra cosa. Rende magari più dolorosa l’esperienza della realtà, ma meno gretta. Un solo esempio. Vedete come tutto si colora d’amore nell’attacco di A Silvia , con quei versi così lineari, semplici, tra i più chiari della nostra letteratura: «Silvia rimembri ancora / Quel tempo della tua vita mortale, / Quando beltà splendea / Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / E tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?». Un’interrogativa e un vocativo: i due modi più tipici della scrittura leopardiana. Il domandare spesso che non ha risposta e il vocativo, il «tu» essenziale di questa poesia, che segna nei versi uno spazio di risonanza, un’intesa d’affetto, un desiderio trepido di colloquio: il bisogno insomma di una distanza ravvicinata, di una compagnia, con l’oggetto della poesia, così come con il lettore.
E’ appunto la lenta lavorazione della parola nella scrittura creativa che crea un distacco dalla vita, mentre pure la ingloba. Basterebbe leggersi la storia interna di questi versi, le varianti attraverso cui si giunge alla stesura definitiva: è la storia di una pazienza senza fine. «Rimembri», si legge oggi nel canto di Silvia. E’ un approdo che scarta altre soluzioni prima tentate: «sovvienti», «rammenti». Non si tratta di un suono più o meno solenne, né di pura musicalità. E’ questione, invece, di un concetto diverso: di una durata della memoria, che man mano nella rielaborazione si approfondisce. Il nucleo più importante dei versi sta però nell’immagine degli «occhi ridenti e fuggitivi» di Silvia, detta «lieta e pensosa». Una doppia coppia perfettamente simmetrica di aggettivi, che segna un profilo immortale di giovinezza già turbata, ma ancora non scalfita.
L’itinerario percorso da Leopardi per giungere a questa immagine è travagliato. Scarta dapprima la possibilità di una figura più corporale: «ne la fronte e nel sen tuo verginale». Cassa, subito dopo, la possibilità di un’immagine soltanto spirituale: «gli sguardi incerti e fuggitivi» della giovane che per compenso non è «pensosa», ma «pudica». La via imboccata alla fine da Leopardi è di sintesi felicissima. «Gli occhi» di Silvia ne richiamano il corpo, più degli «sguardi»: e questi «occhi» che si fanno «ridenti e fuggitivi» riescono a tradurre della ragazza «lieta e pensosa» anche l’incertezza e il pudore. Ebbene, in questi occhi immortali di Silvia «lieta e pensosa» c’è non soltanto la pazienza di Leopardi, ma anche la sua grandezza di poeta caro soprattutto ai lettori giovani.
A Silvia , infatti, è il canto della giovinezza spezzata, dell’illusione caduta, dell’aspettativa interrotta e, insieme, della maturità non accettata. Se per Silvia c’è la morte che determina la caduta delle speranze, per il poeta che la canta c’è la vita che smentisce le fantastiche proiezioni nel futuro di un amore non vissuto. Leopardi è il poeta dell’adolescenza perpetua, che si ribella al limite umano, che non accetta la concretezza cruda del vivere d’ogni giorno: il suo profilo più convincente è, infatti, proprio quello di un adolescente che esita a salire, come Silvia, il «limitare di gioventù», che caparbiamente si rifiuta di compiere un piccolo passo. La grandezza di Leopardi sta nell’aver saputo decorare la propria disperata mancanza di coraggio. Se mi è concessa questa espressione, direi che la sua straordinaria (e leggera) singolarità sta nell’aver saputo tergiversare tra ciò che di lieta aspettativa (gli «occhi ridenti») e ciò che di triste presagio (gli occhi «fuggitivi» di Silvia «pensosa») la vita comporta, al di là del «limitare di gioventù».
Ungaretti e Gobetti
Corriere della Sera 21.3.04
Una dedica inedita del poeta simpatizzante del regime al fondatore della «Rivoluzione liberale»: «La libertà è una parola vana»
Ungaretti e Gobetti, strana coppia ai tempi del fascismo
di Dario Fertilio
Giuseppe Ungaretti e Piero Gobetti. Poeta attratto dal mussolinismo imperiale, il primo; intellettuale visceralmente «contro», il secondo. Eppure, i loro destini si incrociarono, benché tra le carte del poeta scomparso nel 1970, a 82 anni, non se ne siano trovati cenni (per non parlare dell’intellettuale antifascista, morto in esilio a Parigi appena venticinquenne). Tempo fa, la rivista «Belfagor» segnalò un documento inedito, una dedica vergata da Ungaretti sul «Porto sepolto», la raccolta di versi pubblicata a La Spezia nel 1923. Di quella edizione curata da Ettore Serra, amico del poeta fin dai tempi in trincea del ’15-18, esisteva una copia dimenticata nella biblioteca personale di Gobetti a Torino. Ed ecco, sfogliandola, comparire in frontespizio un’epigrafe di Ungaretti scandita dai versi:
Questa dedica di Ungaretti getta, infatti, una luce speciale sul Gobetti privato: studente appassionato di poesia, che nel giugno del 1920 scrive al la «fidanzatina» Ada Prospero, poi destinata a diventare sua moglie, di essere appassionato di Dante «tutto musica e luce»; di «adorare» Leopardi; di aver deciso di dedicare la sua tesi di laurea a Vittorio Alfieri, giudicato «il primo uomo nuovo». E che dichiara, tra i moderni, di ammirare Slataper, mentre mantiene rapporti con Saba, sviluppa un’amicizia con Montale (sarà il primo editore dei suoi «Ossi di seppia»), ha come compagni di studi il futuro critico Natalino Sapegno e lo scrittore Carlo Levi. Non solo: l’eclettico Gobetti si appassiona alla pittura, tanto da essere legato a Felice Casorati, e al teatro (diventerà infatti critico teatrale dell’«Ordine Nuovo» e scriverà una recensione entusiastica su Eleonora Duse).
Ecco, dunque, la chiave per comprendere l’affinità tra i due personaggi: il gusto per l’immaginazione creativa, quasi un antidoto alla durezza dei tempi. Strano scambio dei ruoli: Ungaretti mostra un volto politico, al punto da rimproverare la passione gobettiana per la libertà come una specie di lusso borghese in tempi di lacrime e sangue. Ma, se da un lato serve a mettere in rilievo l’esistenza di un Gobetti «privato», l’epigrafe aiuta anche a comprendere qualcosa dell’Ungaretti «politico». Il suo gusto cioè, dopo la scelta interventista che gli aveva fatto sperimentare la disperazione e le miserie di Caporetto, per un movimento come quello fascista, capace ai suoi occhi di restaurare la «magnificenza» della civiltà romana e della tradizione latina sopraffatta dalle barbarie della modernità.
Una dedica inedita del poeta simpatizzante del regime al fondatore della «Rivoluzione liberale»: «La libertà è una parola vana»
Ungaretti e Gobetti, strana coppia ai tempi del fascismo
di Dario Fertilio
Giuseppe Ungaretti e Piero Gobetti. Poeta attratto dal mussolinismo imperiale, il primo; intellettuale visceralmente «contro», il secondo. Eppure, i loro destini si incrociarono, benché tra le carte del poeta scomparso nel 1970, a 82 anni, non se ne siano trovati cenni (per non parlare dell’intellettuale antifascista, morto in esilio a Parigi appena venticinquenne). Tempo fa, la rivista «Belfagor» segnalò un documento inedito, una dedica vergata da Ungaretti sul «Porto sepolto», la raccolta di versi pubblicata a La Spezia nel 1923. Di quella edizione curata da Ettore Serra, amico del poeta fin dai tempi in trincea del ’15-18, esisteva una copia dimenticata nella biblioteca personale di Gobetti a Torino. Ed ecco, sfogliandola, comparire in frontespizio un’epigrafe di Ungaretti scandita dai versi:
«A Piero GobettiNon c’è dubbio: un’esortazione rivolta all’intellettuale, di tredici anni più giovane, perché aderisse al fascismo in marcia. Un invito che oggi, riletto a tanti anni di distanza, suona un po’ sinistro: Gobetti, avversario dichiarato di Mussolini, morirà in volontario esilio a Parigi già nel 1926. Come interpretare dunque il gesto del poeta nei confronti di un intellettuale «inossidabile» rispetto alla propaganda del regime? Come poteva spera re, Ungaretti, di ritrovare «compagno» l’antifascista della prima ora? Per rispondere bisogna tentare di chiarire la loro relazione. La differenza d’età non era d’ostacolo: Gobetti si era già legato a Prezzolini e Salvemini, entrambi di qualche anno più anziani di Ungaretti. D’altra parte, loro due erano sempre vissuti distanti, benché Ungaretti, dopo la giovinezza trascorsa in Egitto (al seguito del padre, umile sterratore durante la costruzione del canale di Suez), si fosse stabilito per qualche an no a Parigi: la stessa città rifugio per artisti, intellettuali e militanti politici perseguitati dove di lì a poco Gobetti avrebbe trovato la morte. Forse, l’occasione del primo colloquio era venuta dalla comune amicizia e frequentazione con lo scrittore Giacomo Debendetti. Ma c’era dell’altro, a parte le opposte convinzioni politiche, ad unirli: la passione per la poesia, l'arte, la letteratura.
La libertà è una parola vana.
Le grandi cose nascono dall ’amore,
dal sacrifizio, dalla disciplina.
L’abbiamo tutti imparato - chi ha
imparato qualche cosa - pagando
di persona.
All’avversario che spero di ritrovare
compagno
Giuseppe Ungaretti
Roma, l’11 luglio 1923»
Questa dedica di Ungaretti getta, infatti, una luce speciale sul Gobetti privato: studente appassionato di poesia, che nel giugno del 1920 scrive al la «fidanzatina» Ada Prospero, poi destinata a diventare sua moglie, di essere appassionato di Dante «tutto musica e luce»; di «adorare» Leopardi; di aver deciso di dedicare la sua tesi di laurea a Vittorio Alfieri, giudicato «il primo uomo nuovo». E che dichiara, tra i moderni, di ammirare Slataper, mentre mantiene rapporti con Saba, sviluppa un’amicizia con Montale (sarà il primo editore dei suoi «Ossi di seppia»), ha come compagni di studi il futuro critico Natalino Sapegno e lo scrittore Carlo Levi. Non solo: l’eclettico Gobetti si appassiona alla pittura, tanto da essere legato a Felice Casorati, e al teatro (diventerà infatti critico teatrale dell’«Ordine Nuovo» e scriverà una recensione entusiastica su Eleonora Duse).
Ecco, dunque, la chiave per comprendere l’affinità tra i due personaggi: il gusto per l’immaginazione creativa, quasi un antidoto alla durezza dei tempi. Strano scambio dei ruoli: Ungaretti mostra un volto politico, al punto da rimproverare la passione gobettiana per la libertà come una specie di lusso borghese in tempi di lacrime e sangue. Ma, se da un lato serve a mettere in rilievo l’esistenza di un Gobetti «privato», l’epigrafe aiuta anche a comprendere qualcosa dell’Ungaretti «politico». Il suo gusto cioè, dopo la scelta interventista che gli aveva fatto sperimentare la disperazione e le miserie di Caporetto, per un movimento come quello fascista, capace ai suoi occhi di restaurare la «magnificenza» della civiltà romana e della tradizione latina sopraffatta dalle barbarie della modernità.
l'età di Rubens a Genova
L'Età di Rubens
Dimore, committenti e collezionisti genovesi
20 marzo - 11 luglio 2004
www.palazzoducale.genova.it
La presenza di Rubens a Genova nel primo quarto del Seicento coincide con la stagione di massimo splendore del patriziato locale, composto per la maggior parte da banchieri di recente nobiltà, ma dotati di disponibilità finanziarie immense. Ambizione, gusto raffinato e sapiente politica di investimenti concorrono in quegli anni alla nascita di collezioni artistiche straordinarie, in grado di competere con quelle dei maggiori sovrani europei dell'epoca.
Vi figuravano dipinti di Tiziano, Tintoretto, Veronese, Frans Floris, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni, Ribera, Procaccini, Orazio e Artemisia Gentileschi, Strozzi, Van Dyck e, naturalmente, Rubens, in una sapiente commistione di opere contemporanee e del passato più recente e accreditato.
L’allestimento della mostra, che è il risultato di un meticoloso lavoro di ricerca, vuole offrire al visitatore proprio la suggestione di varcare la soglia di una quindicina di grandi dimore genovesi dell’epoca e di evocare le figure di alcuni di quei collezionisti e committenti straordinari: oltre un centinaio di opere tra dipinti, arazzi ed eccezionali argenti da parata, provenienti dai musei di tutto il mondo, consentono di seguire un percorso emozionante a ritroso nel tempo.
Le diverse sezioni presentano, tra le altre, la ricchissima quadreria di Gio.Carlo Doria - ritratto a cavallo proprio da Rubens - e la sua “Wunderkammer”, una camera delle meraviglie ricca di curiosità naturalistiche; la serie delle Arti Liberali di Frans Floris, acquistata ad Anversa da Gerolamo e Gio.Agostino Balbi e ricomposta qui per l’occasione; la spettacolare Morte di Argo dipinta da Rubens per Stefano Balbi, finanziere a Milano; la quadreria di Gio. Filippo Spinola, il primo in Europa ad aver assicurato alla sua collezione una delle grandi Cene di Veronese. Infine, due sezioni staccate sono previste in due dimore storiche della città divenute museo: presso la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, che conserva la quadreria di Ansaldo Pallavicino, e la Galleria di Palazzo Rosso dove si trovano significative testimonianze della quadreria Brignole Sale.
Quando Rubens arrivò per la prima volta a Genova, nel 1604, esattamente 400 anni fa, la città era al massimo della sua potenza economica e la classe di governo si trovava in una situazione di grande ascesa, per merito degli investimenti condotti su diverse piazze finanziarie italiane ed europee.
I banchieri, i finanzieri, i grandi mercanti genovesi si trovarono ad avere una grande quantità di risorse da investire e si alimentò così un ricco collezionismo artistico del tutto peculiare.
La mostra, il fiore all’occhiello delle manifestazioni per Genova Capitale Europea della Cultura, vuole dar conto della specificità del collezionismo seicentesco a Genova e del suo rilievo internazionale.
In virtù del regime repubblicano che si era scelto, a Genova non si afferma un gusto ufficiale, altrove imposto dal sovrano, e questa libertà determina una singolare varietà di scelte, per lo più suggestionate dalla cultura figurativa delle aree geografiche in cui il collezionista impiegava i propri capitali e svolgeva i propri affari: Anversa per un ramo della famiglia Balbi, Milano e Venezia per un altro, Napoli per Marcantonio Doria, Milano per suo fratello Gio. Carlo, eccetera.
All’interno di quelle dimore che proprio Rubens celebrava per la loro magnificenza – con la pubblicazione del volume I Palazzi di Genova, edito la prima volta ad Anversa nel 1622 - nascevano quadrerie molto diverse fra loro.
Genova nella prima metà del Seicento accoglie le opere di Frans Floris e di Rubens da Anversa, di Procaccini, Cerano e Morazzone da Milano, di Guido Reni e di Guercino da Bologna, di Tiziano, di Paris Bordon e del Veronese da Venezia (e perfino da Augsburg), di Caravaggio e di Ribera da Napoli.
Ma accoglie anche gli artisti, chiamati a lavorare dai genovesi o attirati dalla loro disponibilità finanziaria: non solo Rubens e Van Dyck, ma anche Simon Vouet, Orazio Gentileschi, Giulio Cesare Procaccini, Justus Sustermans.
Sono state scelte una decina di quadrerie esemplari, ricostruite filologicamente sulla base dello studio degli inventari seicenteschi, che saranno presentate attraverso i principali capolavori, in modo che il visitatore possa rendersi conto, con il grande impatto visivo di decine di quadri appesi alle pareti, della magnificenza delle dimore visitate da Rubens.
Tra i collezionisti scelti ve ne sono alcuni già noti alla critica per il loro ruolo di mecenati: per esempio Gio. Carlo Doria, al quale già la mostra di Van Dyck sempre a Genova dedicò una spettacolare stanza a inizio percorso; suo fratello Marcantonio, il noto committente dell’ultima opera di Caravaggio, dipinta dall’artista a Napoli nel 1610, anno della sua morte; o ancora Gio. Vincenzo Imperiale, poeta e raffinato amatore d’arte la cui collezione, dopo essere stata offerta al duca di Mantova, fu acquistata in blocco da Cristina di Svezia. Ma altri saranno riscoperti per la prima volta, se non come personalità storiche, senz’altro nella loro veste di collezionisti e appassionati d’arte.
Nell’intento di ricostruire gli ambienti in cui le quadrerie erano ospitate, saranno esposti anche argenti e arazzi, che per altro costituivano un’alternativa abituale per gli investimenti artistici dei genovesi.
Il nucleo espositivo fondamentale sarà ospitato al piano nobile di Palazzo Ducale, con un allestimento curato dall’architetto Giovanni Tortelli, cui si deve la recente mostra dedicata a Vincenzo Foppa a Brescia.
In occasione della mostra molte saranno le opere sottoposte a restauro e pertanto restituite nel loro splendore anche per gli anni a venire.
Una tra tutte, è doveroso ricordare, il capolavoro di Rubens conservato al museo di Colonia: la grande tela raffigurante Giunone e Argo anticamente conservata nel palazzo genovese di Stefano e Gio. Battista Balbi, attualmente interessata da un delicato restauro. Verrà eccezionalmente prestata a Genova, proprio per rientrare per la prima volta nella città per la quale fu dipinta.
Sarà l’opera di Rubens senz’altro più spettacolare, se non altro per le dimensioni straordinarie (cm 250 x 300), ma altre opere competeranno con essa quanto a impatto visivo: per esempio, la bella Brigida Spinola Doria della National Gallery di Washington o la grande Cena di Veronese acquista da Gio. Filippo Spinola nel 1646 e oggi conservata alla Galleria Sabauda di Torino, o il Venere e Adone di Annibale Carracci del Prado.
Tra gli altri musei prestatori si ricordino il Louvre, la National Gallery di Londra, gli Uffizi, il Getty Museum di Los Angeles, il Nelson Atkins Museum di Kansas City, il Kunsthistorisches di Vienna, la Gemaeldegalerie di Berlino, la Alte Pinakothek di Monaco.
La mostra si avvale di un comitato scientifico consultivo che annovera alcuni tra i più noti studiosi italiani e stranieri.
La mostra si resa possibile grazie al generoso contributo della Fondazione Carige.
Informazioni
Sede della mostra
Palazzo Ducale – Appartamento del Doge
Piazza Matteotti 9 - 16123 Genova
Prezzo del biglietto
intero € 9,00
ridotto € 8,00
scuole € 3,00
Il biglietto comprende anche la visita a Palazzo Rosso e alla sezione della mostra a Palazzo Spinola
Si accettano tutte le maggiori carte di credito
Orario d'apertura della mostra
Tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 21.00 escluso il lunedì
(la biglietteria chiude alle 20)
aperto nelle festività
Tel. 010-5574004; fax 010-5574001
palazzoducale@palazzoducale.genova.it
biglietteria@palazzoducale.genova.it
Noleggio audioguida € 5,00
La mostra è inclusa nella GeNova04 Card
Per informazioni Info Point Genova 2004
Tel. 010-5574004
www.genova-2004.it - 04point@genova-2004.it
Visite guidate gruppi
Prenotazione obbligatoria telefonando al n. 010-5574004
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Dimore, committenti e collezionisti genovesi
20 marzo - 11 luglio 2004
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La presenza di Rubens a Genova nel primo quarto del Seicento coincide con la stagione di massimo splendore del patriziato locale, composto per la maggior parte da banchieri di recente nobiltà, ma dotati di disponibilità finanziarie immense. Ambizione, gusto raffinato e sapiente politica di investimenti concorrono in quegli anni alla nascita di collezioni artistiche straordinarie, in grado di competere con quelle dei maggiori sovrani europei dell'epoca.
Vi figuravano dipinti di Tiziano, Tintoretto, Veronese, Frans Floris, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni, Ribera, Procaccini, Orazio e Artemisia Gentileschi, Strozzi, Van Dyck e, naturalmente, Rubens, in una sapiente commistione di opere contemporanee e del passato più recente e accreditato.
L’allestimento della mostra, che è il risultato di un meticoloso lavoro di ricerca, vuole offrire al visitatore proprio la suggestione di varcare la soglia di una quindicina di grandi dimore genovesi dell’epoca e di evocare le figure di alcuni di quei collezionisti e committenti straordinari: oltre un centinaio di opere tra dipinti, arazzi ed eccezionali argenti da parata, provenienti dai musei di tutto il mondo, consentono di seguire un percorso emozionante a ritroso nel tempo.
Le diverse sezioni presentano, tra le altre, la ricchissima quadreria di Gio.Carlo Doria - ritratto a cavallo proprio da Rubens - e la sua “Wunderkammer”, una camera delle meraviglie ricca di curiosità naturalistiche; la serie delle Arti Liberali di Frans Floris, acquistata ad Anversa da Gerolamo e Gio.Agostino Balbi e ricomposta qui per l’occasione; la spettacolare Morte di Argo dipinta da Rubens per Stefano Balbi, finanziere a Milano; la quadreria di Gio. Filippo Spinola, il primo in Europa ad aver assicurato alla sua collezione una delle grandi Cene di Veronese. Infine, due sezioni staccate sono previste in due dimore storiche della città divenute museo: presso la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, che conserva la quadreria di Ansaldo Pallavicino, e la Galleria di Palazzo Rosso dove si trovano significative testimonianze della quadreria Brignole Sale.
Quando Rubens arrivò per la prima volta a Genova, nel 1604, esattamente 400 anni fa, la città era al massimo della sua potenza economica e la classe di governo si trovava in una situazione di grande ascesa, per merito degli investimenti condotti su diverse piazze finanziarie italiane ed europee.
I banchieri, i finanzieri, i grandi mercanti genovesi si trovarono ad avere una grande quantità di risorse da investire e si alimentò così un ricco collezionismo artistico del tutto peculiare.
La mostra, il fiore all’occhiello delle manifestazioni per Genova Capitale Europea della Cultura, vuole dar conto della specificità del collezionismo seicentesco a Genova e del suo rilievo internazionale.
In virtù del regime repubblicano che si era scelto, a Genova non si afferma un gusto ufficiale, altrove imposto dal sovrano, e questa libertà determina una singolare varietà di scelte, per lo più suggestionate dalla cultura figurativa delle aree geografiche in cui il collezionista impiegava i propri capitali e svolgeva i propri affari: Anversa per un ramo della famiglia Balbi, Milano e Venezia per un altro, Napoli per Marcantonio Doria, Milano per suo fratello Gio. Carlo, eccetera.
All’interno di quelle dimore che proprio Rubens celebrava per la loro magnificenza – con la pubblicazione del volume I Palazzi di Genova, edito la prima volta ad Anversa nel 1622 - nascevano quadrerie molto diverse fra loro.
Genova nella prima metà del Seicento accoglie le opere di Frans Floris e di Rubens da Anversa, di Procaccini, Cerano e Morazzone da Milano, di Guido Reni e di Guercino da Bologna, di Tiziano, di Paris Bordon e del Veronese da Venezia (e perfino da Augsburg), di Caravaggio e di Ribera da Napoli.
Ma accoglie anche gli artisti, chiamati a lavorare dai genovesi o attirati dalla loro disponibilità finanziaria: non solo Rubens e Van Dyck, ma anche Simon Vouet, Orazio Gentileschi, Giulio Cesare Procaccini, Justus Sustermans.
Sono state scelte una decina di quadrerie esemplari, ricostruite filologicamente sulla base dello studio degli inventari seicenteschi, che saranno presentate attraverso i principali capolavori, in modo che il visitatore possa rendersi conto, con il grande impatto visivo di decine di quadri appesi alle pareti, della magnificenza delle dimore visitate da Rubens.
Tra i collezionisti scelti ve ne sono alcuni già noti alla critica per il loro ruolo di mecenati: per esempio Gio. Carlo Doria, al quale già la mostra di Van Dyck sempre a Genova dedicò una spettacolare stanza a inizio percorso; suo fratello Marcantonio, il noto committente dell’ultima opera di Caravaggio, dipinta dall’artista a Napoli nel 1610, anno della sua morte; o ancora Gio. Vincenzo Imperiale, poeta e raffinato amatore d’arte la cui collezione, dopo essere stata offerta al duca di Mantova, fu acquistata in blocco da Cristina di Svezia. Ma altri saranno riscoperti per la prima volta, se non come personalità storiche, senz’altro nella loro veste di collezionisti e appassionati d’arte.
Nell’intento di ricostruire gli ambienti in cui le quadrerie erano ospitate, saranno esposti anche argenti e arazzi, che per altro costituivano un’alternativa abituale per gli investimenti artistici dei genovesi.
Il nucleo espositivo fondamentale sarà ospitato al piano nobile di Palazzo Ducale, con un allestimento curato dall’architetto Giovanni Tortelli, cui si deve la recente mostra dedicata a Vincenzo Foppa a Brescia.
In occasione della mostra molte saranno le opere sottoposte a restauro e pertanto restituite nel loro splendore anche per gli anni a venire.
Una tra tutte, è doveroso ricordare, il capolavoro di Rubens conservato al museo di Colonia: la grande tela raffigurante Giunone e Argo anticamente conservata nel palazzo genovese di Stefano e Gio. Battista Balbi, attualmente interessata da un delicato restauro. Verrà eccezionalmente prestata a Genova, proprio per rientrare per la prima volta nella città per la quale fu dipinta.
Sarà l’opera di Rubens senz’altro più spettacolare, se non altro per le dimensioni straordinarie (cm 250 x 300), ma altre opere competeranno con essa quanto a impatto visivo: per esempio, la bella Brigida Spinola Doria della National Gallery di Washington o la grande Cena di Veronese acquista da Gio. Filippo Spinola nel 1646 e oggi conservata alla Galleria Sabauda di Torino, o il Venere e Adone di Annibale Carracci del Prado.
Tra gli altri musei prestatori si ricordino il Louvre, la National Gallery di Londra, gli Uffizi, il Getty Museum di Los Angeles, il Nelson Atkins Museum di Kansas City, il Kunsthistorisches di Vienna, la Gemaeldegalerie di Berlino, la Alte Pinakothek di Monaco.
La mostra si avvale di un comitato scientifico consultivo che annovera alcuni tra i più noti studiosi italiani e stranieri.
La mostra si resa possibile grazie al generoso contributo della Fondazione Carige.
Sede della mostra
Palazzo Ducale – Appartamento del Doge
Piazza Matteotti 9 - 16123 Genova
Prezzo del biglietto
intero € 9,00
ridotto € 8,00
scuole € 3,00
Il biglietto comprende anche la visita a Palazzo Rosso e alla sezione della mostra a Palazzo Spinola
Si accettano tutte le maggiori carte di credito
Orario d'apertura della mostra
Tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 21.00 escluso il lunedì
(la biglietteria chiude alle 20)
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Tel. 010-5574004; fax 010-5574001
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