La Stampa TuttoScienze 29.12.04
PSICOLOGIA E CONOSCENZA RICERCA USA
Anche i bebè sanno contare
GLI ULTIMI TEST NEGLI ASILI DI CAMBRIDGE SMENTISCONO PIAGET SECONDO CUI I BIMBI PIU’ PICCOLI NON HANNO VERE CONSAPEVOLEZZE
di Ida Molinari
COME nasce la conoscenza, come inizia il pensiero? Se lo domandano in tanti, ma Elizabeth Spelke, illustre psicologa dell'università di Harvard, ha deciso di puntare sulle capacità aritmetiche dei bambini che ancora non parlano e si è focalizzata su quello che essi sanno dei numeri e su come lo hanno imparato. Un bambino che non parla pensa in termini aritmetici? Per rispondere la ricercatrice ha inventato un sistema d'indagine che le è valso la nomina di «America's best in science» del settimanale «Time». Sulla scia del suo metodo è nata una scuola in cui oggi lavorano molti ricercatori in collaborazione con gli asili nido di Cambridge, la città presso Boston in cui si trova la prestigiosa università. Per studiare i bambini ne occorre un ampio campionario con genitori che accettino di partecipare ad un nuovo esperimento. Più che nuovo proprio innovativo, visto che fino a poco tempo fa tutti credevano nell'insegnamento di Jean Piaget, secondo cui i bambini inferiori ad un anno non hanno vere consapevolezze. Ora anche gli studenti sanno che Piaget sbagliava. E lo sanno soprattutto grazie al lavoro di Harvard. Dato che i piccoli non parlano, la Spelke ha inventato esperimenti "cattura attenzione" per capire se il bambino è consapevole del mondo che lo circonda e sa quello che deve aspettarsi. I risultati sono stati straordinari. Dice la studiosa: "Siamo rimasti ammirati dalle capacità dei bambini piccolissimi in aritmetica. Devo anche dire che siamo rimasti stupiti dai risultati analoghi che hanno raggiunto i nostri colleghi che lavorano con gli animali." La Spelke presenta ad un bebè un oggetto, magari una palla rossa. Quindi la nasconde in una scatola. Gli mette sotto gli occhi un'altra palla, eventualmente gialla, e la nasconde nella stessa scatola. Porge al bambino la scatola senza che lui ne veda l'interno. Immancabilmente il piccolo metterà la mano nella scatola due volte: ha solo 5 mesi e nel suo cervello le connessioni nervose non sono ancora complete, ma lui già ricorda che nella scatola le palle sono due. Dunque lui sa che uno più uno fa due. Quantomeno sa che ci sono delle leggi matematiche che governano il mondo. I numeri sembrano proprio essere innati nella natura umana. Ed ecco una seconda sperimentazione: i ricercatori siedono un bambino davanti a un teatrino dove c'è un burattino, aggiungono un secondo burattino, calano il siparietto e lo rialzano. Se i burattini sono ancora due il bambino non batte ciglio, se ne è stato aggiunto un terzo il bambino guarda esterrefatto: ma come, uno più uno fa due, non fa tre! Allora è proprio vero: i bambini nascono con una capacità matematica innata. La studiosa è certa che sì. A quel punto si accorge con un certo turbamento che successi simili li ottengono colleghi che lavorano con i topi o con le scimmie. Prosegue le sue indagini con piccoli di 3-4 anni e si rende conto che è la parola a cambiare tutto. Chi non ha avvicinato un bambino di due, tre anni che, felice, impara a contare, uno, due, tre...? Ebbene, il momento in cui lui impara che i numeri hanno un nome e dei simboli, è anche il momento in cui compie il gran salto in avanti nelle sue abilità aritmetiche, attiva un meccanismo mentale superiore, come nessun animale potrà mai. Così conclude la Spelke. «D'altro canto chi fa esperimenti con gli adulti (con i piccoli non è permesso) servendosi di mezzi diagnostici ad immagini vede che parti del cervello che controllano il linguaggio si attivano anche mentre l'adulto è impegnato in calcoli aritmetici». E' dunque il linguaggio che fa la differenza fra noi e gli altri animali? Non sono stati quelli di Harvard i primi a dirlo, ma certo il loro lavoro ne è una prova potente. «Il mio obiettivo finale è capire come nasce la conoscenza umana. E sono certa che ci riusciremo a mano a mano che impareremo a far convergere molti saperi: la psicologia, la linguistica, la scienza dei computer, l'antropologia, le neuroscienze».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 29 dicembre 2004
la pubblicazione del documento vaticano contro i bimbi ebrei
la consueta impudenza cattolica
Corriere della Sera 29.12.04
Fa discutere l’ordine del Sant’Uffizio pubblicato dal «Corriere»
Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche: «orrendo» il documento sui bimbi accolti nei conventi
C’era da aspettarselo. Il documento del Sant’Uffizio pubblicato ieri dal Corriere della Sera ha riacceso le polemiche sulla possibile beatificazione di Pio XII. A sollevare la questione è Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane, che si dichiara «allucinato» e bolla come «agghiacciante» e «orrendo» l’ordine, approvato da Papa Eugenio Pacelli, di non restituire alle famiglie i «bambini giudei» battezzati che avevano trovato rifugio presso istituzioni cattoliche francesi durante l’occupazione nazista. Se il Vaticano deciderà di beatificare comunque Pio XII, nonostante questa scoperta archivistica, Luzzatto non esclude «che vi saranno problemi nei rapporti con gli ebrei». A suo parere, siamo di fronte a una vicenda ancora più grave del famoso caso di Edgardo Mortara, il bambino ebreo bolognese sottratto alla famiglia, perché battezzato, all’epoca di Pio IX, prima che scomparisse lo Stato Pontificio. Il documento infatti, sottolinea Luzzatto, «porta la data dell’ottobre 1946», quando «tutti già sapevano che cosa era successo agli ebrei d’Europa, conoscevano gli orrori dei campi di concentramento». Eppure la decisione del Sant’Uffizio «non fa cenno alcuno» all’Olocausto: «È un documento arido, burocratico - insiste Luzzatto - che non ha nessuna sensibilità, mi spiace dirlo, per la Shoah».
La diatriba pare destinata a inasprirsi, visto che sulla sponda opposta padre Peter Gumpel, postulatore della causa di beatificazione riguardante Pacelli, sostiene che il documento uscito sul Corriere , «ammesso che sia autentico, non inficia affatto la santità di Pio XII». E si richiama al diritto canonico vigente all’epoca. «Secondo la dottrina prevalente del tempo - spiega Gumpel - se un bambino riceveva il battesimo aveva il diritto ad avere un’educazione cattolica ed era considerato ormai membro effettivo della Chiesa. Ciò lo poneva sotto la giurisdizione dell’autorità ecclesiastica: una vecchia legislazione che non derivava da Pio XII. Lui applicò solo le norme in vigore».
Sembra insomma che la vicenda riproponga l’antico e angoscioso dilemma di Antigone: da una parte l’inflessibile dettato delle norme scritte, per giunta religiosamente ispirate; dall’altra il senso umanitario e il rispetto del legame filiale tra bambini e genitori. Ma va aggiunto che le istruzioni del Sant’Uffizio riguardavano anche gli orfani ebrei non battezzati, per i quali si suggeriva che la Chiesa continuasse a farsene carico, a dispetto delle richieste delle comunità israelitiche. Non bisogna dimenticare poi che il nunzio pontificio in Francia Angelo Roncalli (divenuto poi Papa Giovanni XXIII), con una lettera del luglio 1946, aveva appoggiato l’azione del rabbino Herzog, impegnato nella ricerca dei piccoli ebrei accolti nei conventi. Dunque nella gerarchia ecclesiastica potevano manifestarsi atteggiamenti di maggiore apertura, anche se non è chiaro come Roncalli abbia poi accolto la decisione del Sant’Uffizio, posteriore di alcuni mesi alla sua lettera. Peraltro Gumpel avanza delle riserve anche sull’autenticità del documento, chiedendosi perché sia finito in un archivio diverso da quello della Nunziatura. È evidente che la questione merita di essere approfondita in ogni suo aspetto.
Corriere della Sera 29.12.04
INTERVISTA
«Quelle parole non implicano scarsa sensibilità sulla Shoah»
«Non credo proprio che il documento pubblicato dal Corriere, di per sé, dimostri una presunta scarsa sensibilità della Chiesa dell’epoca verso la tragedia della Shoah. Sarebbe così se effettivamente numerosi bambini ebrei non fossero stati restituiti alle famiglie dopo la guerra. Ma di episodi del genere non ho mai sentito parlare: se si fossero verificati, con un precedente clamoroso come il caso Mortara, sicuramente sarebbero ben noti». Andrea Tornielli, vaticanista del Giornale e autore nel 2001 del libro Pio XII. Il Papa degli ebrei (Piemme), non vuole polemizzare con Amos Luzzatto, ma invita a non esprimere giudizi affrettati sulla decisione del Sant’Uffizio.
Non fa impressione il divieto di restituire i bambini ebrei battezzati ai loro genitori?
«Il problema esiste, ma va considerato che il battesimo per la fede cattolica ha un valore straordinario, in quanto muta l’essere della persona che lo riceve, incorporandola nella Chiesa. Comunque il documento, fissata la cornice dottrinale della questione, invita a procedere caso per caso, perché spesso agli ebrei perseguitati e ricercati dai nazisti venivano forniti dei falsi certificati di battesimo».
Ma ci sono anche gli orfani non battezzati, che il Sant’Uffizio raccomanda di non consegnare alle comunità ebraiche.
«Qui usa però termini più sfumati, afferma che "non è conveniente" sottrarre quei bambini alla tutela della Chiesa. Tra l’altro vorrei sottolineare che Roncalli, nelle sue agende private, non accenna mai a questo documento, mentre parla dettagliatamente di altri temi assai meno rilevanti».
Si può dunque ipotizzare che il futuro Giovanni XXIII condividesse la posizione del Sant’Uffizio?
«Dico soltanto che è profondamente sbagliato dividere la Chiesa in buoni e cattivi, tracciare una specie di solco invalicabile fra Pio XII e il suo successore, per gettare su Papa Pacelli una luce sfavorevole. Roncalli stesso dichiarò che durante la guerra, a Istanbul, si era adoperato per mettere in salvo un gran numero di ebrei in base a ordini ricevuti da Pio XII».
Fa discutere l’ordine del Sant’Uffizio pubblicato dal «Corriere»
Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche: «orrendo» il documento sui bimbi accolti nei conventi
Le direttive dell’ottobre 1946
La decisione del Sant’Uffizio, approvata da Pio XII, sui bambini ebrei accolti da istituzioni e famiglie cattoliche in Francia durante l’occupazione nazista, porta la data del 20 ottobre 1946 ed è stata rinvenuta negli Archivi della Chiesa di Francia La direttiva raccomanda di non rispondere per iscritto alle comunità israelitiche che chiedono la restituzione dei minori e suggerisce di prendere tempo per esaminare ogni richiesta caso per caso. Nel merito, si specifica innanzitutto che i bambini ebrei battezzati «non potranno essere affidati a istituzioni che non ne sappiano assicurare l’educazione cristiana». Quanto ai non battezzati, si sconsiglia di sottrarre gli orfani alla custodia della Chiesa per affidarli a «persone che non hanno alcun diritto su di loro». Si ammette solo la restituzione dei bambini reclamati dai loro genitori, purché i piccoli «non abbiano ricevuto il battesimo»
Il documento sarà incluso nel secondo tomo del quinto volume dell’edizione nazionale dei diari spirituali, dei quaderni e delle agende di lavoro di Papa Giovanni XXIII, in corso di pubblicazione da parte dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna (www.fscire.it)
Il quinto volume dell’opera, curato da Étienne Fouilloux, raccoglie le agende private tenute da Angelo Roncalli quando si trovava in Francia come nunzio apostolico. Il primo tomo, appena uscito, riguarda gli anni dal 1945 al 1948. Il secondo, che vedrà la luce tra circa un anno, concerne il periodo 1949-53 e conterrà il documento anticipato dal Corriere, scoperto troppo tardi per poter essere pubblicato nel primo.
Il documento sarà incluso nel secondo tomo del quinto volume dell’edizione nazionale dei diari spirituali, dei quaderni e delle agende di lavoro di Papa Giovanni XXIII, in corso di pubblicazione da parte dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna (www.fscire.it)
Il quinto volume dell’opera, curato da Étienne Fouilloux, raccoglie le agende private tenute da Angelo Roncalli quando si trovava in Francia come nunzio apostolico. Il primo tomo, appena uscito, riguarda gli anni dal 1945 al 1948. Il secondo, che vedrà la luce tra circa un anno, concerne il periodo 1949-53 e conterrà il documento anticipato dal Corriere, scoperto troppo tardi per poter essere pubblicato nel primo.
C’era da aspettarselo. Il documento del Sant’Uffizio pubblicato ieri dal Corriere della Sera ha riacceso le polemiche sulla possibile beatificazione di Pio XII. A sollevare la questione è Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane, che si dichiara «allucinato» e bolla come «agghiacciante» e «orrendo» l’ordine, approvato da Papa Eugenio Pacelli, di non restituire alle famiglie i «bambini giudei» battezzati che avevano trovato rifugio presso istituzioni cattoliche francesi durante l’occupazione nazista. Se il Vaticano deciderà di beatificare comunque Pio XII, nonostante questa scoperta archivistica, Luzzatto non esclude «che vi saranno problemi nei rapporti con gli ebrei». A suo parere, siamo di fronte a una vicenda ancora più grave del famoso caso di Edgardo Mortara, il bambino ebreo bolognese sottratto alla famiglia, perché battezzato, all’epoca di Pio IX, prima che scomparisse lo Stato Pontificio. Il documento infatti, sottolinea Luzzatto, «porta la data dell’ottobre 1946», quando «tutti già sapevano che cosa era successo agli ebrei d’Europa, conoscevano gli orrori dei campi di concentramento». Eppure la decisione del Sant’Uffizio «non fa cenno alcuno» all’Olocausto: «È un documento arido, burocratico - insiste Luzzatto - che non ha nessuna sensibilità, mi spiace dirlo, per la Shoah».
La diatriba pare destinata a inasprirsi, visto che sulla sponda opposta padre Peter Gumpel, postulatore della causa di beatificazione riguardante Pacelli, sostiene che il documento uscito sul Corriere , «ammesso che sia autentico, non inficia affatto la santità di Pio XII». E si richiama al diritto canonico vigente all’epoca. «Secondo la dottrina prevalente del tempo - spiega Gumpel - se un bambino riceveva il battesimo aveva il diritto ad avere un’educazione cattolica ed era considerato ormai membro effettivo della Chiesa. Ciò lo poneva sotto la giurisdizione dell’autorità ecclesiastica: una vecchia legislazione che non derivava da Pio XII. Lui applicò solo le norme in vigore».
Sembra insomma che la vicenda riproponga l’antico e angoscioso dilemma di Antigone: da una parte l’inflessibile dettato delle norme scritte, per giunta religiosamente ispirate; dall’altra il senso umanitario e il rispetto del legame filiale tra bambini e genitori. Ma va aggiunto che le istruzioni del Sant’Uffizio riguardavano anche gli orfani ebrei non battezzati, per i quali si suggeriva che la Chiesa continuasse a farsene carico, a dispetto delle richieste delle comunità israelitiche. Non bisogna dimenticare poi che il nunzio pontificio in Francia Angelo Roncalli (divenuto poi Papa Giovanni XXIII), con una lettera del luglio 1946, aveva appoggiato l’azione del rabbino Herzog, impegnato nella ricerca dei piccoli ebrei accolti nei conventi. Dunque nella gerarchia ecclesiastica potevano manifestarsi atteggiamenti di maggiore apertura, anche se non è chiaro come Roncalli abbia poi accolto la decisione del Sant’Uffizio, posteriore di alcuni mesi alla sua lettera. Peraltro Gumpel avanza delle riserve anche sull’autenticità del documento, chiedendosi perché sia finito in un archivio diverso da quello della Nunziatura. È evidente che la questione merita di essere approfondita in ogni suo aspetto.
Corriere della Sera 29.12.04
INTERVISTA
«Quelle parole non implicano scarsa sensibilità sulla Shoah»
«Non credo proprio che il documento pubblicato dal Corriere, di per sé, dimostri una presunta scarsa sensibilità della Chiesa dell’epoca verso la tragedia della Shoah. Sarebbe così se effettivamente numerosi bambini ebrei non fossero stati restituiti alle famiglie dopo la guerra. Ma di episodi del genere non ho mai sentito parlare: se si fossero verificati, con un precedente clamoroso come il caso Mortara, sicuramente sarebbero ben noti». Andrea Tornielli, vaticanista del Giornale e autore nel 2001 del libro Pio XII. Il Papa degli ebrei (Piemme), non vuole polemizzare con Amos Luzzatto, ma invita a non esprimere giudizi affrettati sulla decisione del Sant’Uffizio.
Non fa impressione il divieto di restituire i bambini ebrei battezzati ai loro genitori?
«Il problema esiste, ma va considerato che il battesimo per la fede cattolica ha un valore straordinario, in quanto muta l’essere della persona che lo riceve, incorporandola nella Chiesa. Comunque il documento, fissata la cornice dottrinale della questione, invita a procedere caso per caso, perché spesso agli ebrei perseguitati e ricercati dai nazisti venivano forniti dei falsi certificati di battesimo».
Ma ci sono anche gli orfani non battezzati, che il Sant’Uffizio raccomanda di non consegnare alle comunità ebraiche.
«Qui usa però termini più sfumati, afferma che "non è conveniente" sottrarre quei bambini alla tutela della Chiesa. Tra l’altro vorrei sottolineare che Roncalli, nelle sue agende private, non accenna mai a questo documento, mentre parla dettagliatamente di altri temi assai meno rilevanti».
Si può dunque ipotizzare che il futuro Giovanni XXIII condividesse la posizione del Sant’Uffizio?
«Dico soltanto che è profondamente sbagliato dividere la Chiesa in buoni e cattivi, tracciare una specie di solco invalicabile fra Pio XII e il suo successore, per gettare su Papa Pacelli una luce sfavorevole. Roncalli stesso dichiarò che durante la guerra, a Istanbul, si era adoperato per mettere in salvo un gran numero di ebrei in base a ordini ricevuti da Pio XII».
A.Ca
Corriere della Sera 29.12.04
Pacelli fu coerente: ogni battezzato è figlio della Chiesa
di VITTORIO MESSORI
«Straordinario documento», «ordini agghiaccianti», addirittura un «proprio così!». Sorprende un poco che uno studioso come Alberto Melloni, tra l’altro ottimo conoscitore di cose cattoliche, sembri abbandonare la sobrietà dello storico per adottare un linguaggio ad effetto. E, questo, dando notizia delle istruzioni della Santa Sede al nunzio in Francia, Angelo Roncalli, per affrontare il problema dei bambini ebrei affidati «alle istituzioni e alle famiglie cattoliche». Innanzitutto non andrebbe dimenticato che la semplice esistenza di un simile problema testimonia di un merito ecclesiale tra i più alti. Nei ringraziamenti commossi che sommersero Pio XII al termine della guerra e che provenivano da tutte le istituzioni e le comunità ebraiche, si faceva cenno alla generosità con cui la Chiesa accolse e nascose gli ebrei braccati e in particolare i bambini. Per citare un solo caso italiano, l’arcivescovo di Torino, cardinale Maurilio Fossati (decorato nel 1945 con una medaglia d’oro dal rabbino capo della città, assieme al segretario, monsignor Barale, che era stato arrestato dai tedeschi), si adoperò perché le suore salesiane organizzassero a Valdocco un vero e proprio asilo nido clandestino per i piccoli israeliti.
Se, dunque, alla fine della guerra, la Chiesa dovette confrontarsi con un problema - che coinvolse tra l’altro non alcuni, ma molti, moltissimi ebrei - è perché, davanti al dramma, non rimase spettatrice, ma intervenne tanto attivamente quanto prudentemente, come le circostanze esigevano. Per venire ora al documento «straordinario»: precisato che una valutazione storicamente oggettiva sarà possibile solo a pubblicazione avvenuta delle Agende roncalliane, va osservato che la disposizione del Sant’Uffizio è del 20 ottobre del 1946. Da oltre due anni la Francia era stata liberata, la guerra era terminata da diciassette mesi ed è dunque ovvio presumere che, in tutto quel tempo, la maggioranza dei casi avesse trovato soluzione. Recuperare un bambino che si è dovuto nascondere è forse cosa da differire nel tempo o non prevale su ogni altra urgenza? Poiché non si ha notizia di difficoltà insorte tra Chiesa (e non solo di Francia, ma di tutta l’Europa già occupata) e comunità ebraiche, è giustificato pensare che tutto si sia risolto nella pace e nel buon senso. Sembra, dunque, che il documento dell’autunno del 1946 riguardi casi residuali, di particolare complessità. Ma, anche qui, Melloni stesso ammette che il nunzio Roncalli, pur così sensibile su questi temi, non ha lasciato nelle sue agende alcuna annotazione su problemi insorti. Non si dimentichi che il suo soggiorno a Parigi durerà ancora più di sei anni. Eppure, nessuna crisi, nessuna protesta, nessun intervento politico o diplomatico: dunque il documento «agghiacciante» non sembra avere provocato effetti constatabili, se stiamo almeno a quanto registrato dalla Nunziatura del pur vigilantissimo futuro Giovanni XXIII.
Per scendere ai particolari delle disposizioni del Sant’Uffizio: ogni storico sa che tra i luoghi comuni di ogni governo (soprattutto in tempi turbolenti come quel dopoguerra francese) c’è la consegna ai propri ambasciatori di parlare, ma, per quanto possibile, di scrivere poco. Sospettare, dunque, atmosfere oscure e inconfessabili dietro quell’«oralmente» raccomandato dal Vaticano sarebbe da dilettante che ha poca dimestichezza con archivi diplomatici. Poiché lo spazio non lo consente, siamo costretti a trascurare altri punti del documento (il quarto, soprattutto) e a concentrarci sul vero centro delle disposizioni vaticane, quello che non a caso ha ispirato il titolo del giornale: «I piccoli giudei, se battezzati, devono ricevere un’educazione cristiana». Qui sta lo scandalo che, tra l’altro, mise a rumore l’Europa quando, nel 1858, Pio IX, ancora Papa-re, tolse alla famiglia Edgardo Mortara, piccolo ebreo bolognese, perché fosse allevato in un collegio cattolico, almeno sino alla maggiore età: dopo i 18 anni avrebbe potuto scegliere. In quel caso, scelse il sacerdozio (assumendo il nome «Pio» per riconoscenza verso il Papa) e morì, novantenne, in odore di santità, lasciando un diario, sinora inedito, che la Mondadori pubblicherà la prossima primavera e che sorprenderà molti.
Qui è possibile solo tentare di far comprendere alcune delle ragioni che, in simili casi, rendono «prigioniera» la Chiesa. Questa, conformemente al pensiero dei Padri, proibisce da sempre che i figli minorenni di ebrei siano battezzati senza il consenso dei genitori. Ma se, per una qualunque ragione, il battesimo è validamente amministrato, questo rende «cristiani» ex opere operato, imprime il carattere indelebile di figlio della Chiesa. La quale, sentendosi Madre, non ha mai consentito né mai consentirà di abbandonare chi - nel mistero della fede - con il sacramento è entrato per tutta l’eternità nella sua famiglia. Ci rendiamo ben conto che, per comprendere un simile atteggiamento, occorre porsi in una prospettiva di fede. Al di fuori di essa, disposizioni come quelle di Pio IX e di Pio XII, in linea con la millenaria Tradizione, possono apparire (perché nasconderlo?) disumane. Se ne sono resi conto i Papi stessi, che - custodi e non padroni della Rivelazione - hanno fatto vivere, ma hanno vissuto essi stessi, autentici drammi. Ma non in nome di un arido legalismo, bensì in una dimensione misterica, pur umanamente dura, che solo la credenza nel Vangelo può rendere accettabile.
Diverso il discorso sugli autori di quei battesimi. Se hanno agito su infanti senza che i genitori fossero consenzienti, hanno peccato gravemente, sono andati contro il diritto canonico e le disposizioni secolari della Chiesa. Si può comunque escludere sin da ora che i battesimi francesi (se davvero ce ne furono di illeciti) siano stati impartiti su ordine o anche solo con la connivenza delle autorità ecclesiastiche.
Pacelli fu coerente: ogni battezzato è figlio della Chiesa
di VITTORIO MESSORI
«Straordinario documento», «ordini agghiaccianti», addirittura un «proprio così!». Sorprende un poco che uno studioso come Alberto Melloni, tra l’altro ottimo conoscitore di cose cattoliche, sembri abbandonare la sobrietà dello storico per adottare un linguaggio ad effetto. E, questo, dando notizia delle istruzioni della Santa Sede al nunzio in Francia, Angelo Roncalli, per affrontare il problema dei bambini ebrei affidati «alle istituzioni e alle famiglie cattoliche». Innanzitutto non andrebbe dimenticato che la semplice esistenza di un simile problema testimonia di un merito ecclesiale tra i più alti. Nei ringraziamenti commossi che sommersero Pio XII al termine della guerra e che provenivano da tutte le istituzioni e le comunità ebraiche, si faceva cenno alla generosità con cui la Chiesa accolse e nascose gli ebrei braccati e in particolare i bambini. Per citare un solo caso italiano, l’arcivescovo di Torino, cardinale Maurilio Fossati (decorato nel 1945 con una medaglia d’oro dal rabbino capo della città, assieme al segretario, monsignor Barale, che era stato arrestato dai tedeschi), si adoperò perché le suore salesiane organizzassero a Valdocco un vero e proprio asilo nido clandestino per i piccoli israeliti.
Se, dunque, alla fine della guerra, la Chiesa dovette confrontarsi con un problema - che coinvolse tra l’altro non alcuni, ma molti, moltissimi ebrei - è perché, davanti al dramma, non rimase spettatrice, ma intervenne tanto attivamente quanto prudentemente, come le circostanze esigevano. Per venire ora al documento «straordinario»: precisato che una valutazione storicamente oggettiva sarà possibile solo a pubblicazione avvenuta delle Agende roncalliane, va osservato che la disposizione del Sant’Uffizio è del 20 ottobre del 1946. Da oltre due anni la Francia era stata liberata, la guerra era terminata da diciassette mesi ed è dunque ovvio presumere che, in tutto quel tempo, la maggioranza dei casi avesse trovato soluzione. Recuperare un bambino che si è dovuto nascondere è forse cosa da differire nel tempo o non prevale su ogni altra urgenza? Poiché non si ha notizia di difficoltà insorte tra Chiesa (e non solo di Francia, ma di tutta l’Europa già occupata) e comunità ebraiche, è giustificato pensare che tutto si sia risolto nella pace e nel buon senso. Sembra, dunque, che il documento dell’autunno del 1946 riguardi casi residuali, di particolare complessità. Ma, anche qui, Melloni stesso ammette che il nunzio Roncalli, pur così sensibile su questi temi, non ha lasciato nelle sue agende alcuna annotazione su problemi insorti. Non si dimentichi che il suo soggiorno a Parigi durerà ancora più di sei anni. Eppure, nessuna crisi, nessuna protesta, nessun intervento politico o diplomatico: dunque il documento «agghiacciante» non sembra avere provocato effetti constatabili, se stiamo almeno a quanto registrato dalla Nunziatura del pur vigilantissimo futuro Giovanni XXIII.
Per scendere ai particolari delle disposizioni del Sant’Uffizio: ogni storico sa che tra i luoghi comuni di ogni governo (soprattutto in tempi turbolenti come quel dopoguerra francese) c’è la consegna ai propri ambasciatori di parlare, ma, per quanto possibile, di scrivere poco. Sospettare, dunque, atmosfere oscure e inconfessabili dietro quell’«oralmente» raccomandato dal Vaticano sarebbe da dilettante che ha poca dimestichezza con archivi diplomatici. Poiché lo spazio non lo consente, siamo costretti a trascurare altri punti del documento (il quarto, soprattutto) e a concentrarci sul vero centro delle disposizioni vaticane, quello che non a caso ha ispirato il titolo del giornale: «I piccoli giudei, se battezzati, devono ricevere un’educazione cristiana». Qui sta lo scandalo che, tra l’altro, mise a rumore l’Europa quando, nel 1858, Pio IX, ancora Papa-re, tolse alla famiglia Edgardo Mortara, piccolo ebreo bolognese, perché fosse allevato in un collegio cattolico, almeno sino alla maggiore età: dopo i 18 anni avrebbe potuto scegliere. In quel caso, scelse il sacerdozio (assumendo il nome «Pio» per riconoscenza verso il Papa) e morì, novantenne, in odore di santità, lasciando un diario, sinora inedito, che la Mondadori pubblicherà la prossima primavera e che sorprenderà molti.
Qui è possibile solo tentare di far comprendere alcune delle ragioni che, in simili casi, rendono «prigioniera» la Chiesa. Questa, conformemente al pensiero dei Padri, proibisce da sempre che i figli minorenni di ebrei siano battezzati senza il consenso dei genitori. Ma se, per una qualunque ragione, il battesimo è validamente amministrato, questo rende «cristiani» ex opere operato, imprime il carattere indelebile di figlio della Chiesa. La quale, sentendosi Madre, non ha mai consentito né mai consentirà di abbandonare chi - nel mistero della fede - con il sacramento è entrato per tutta l’eternità nella sua famiglia. Ci rendiamo ben conto che, per comprendere un simile atteggiamento, occorre porsi in una prospettiva di fede. Al di fuori di essa, disposizioni come quelle di Pio IX e di Pio XII, in linea con la millenaria Tradizione, possono apparire (perché nasconderlo?) disumane. Se ne sono resi conto i Papi stessi, che - custodi e non padroni della Rivelazione - hanno fatto vivere, ma hanno vissuto essi stessi, autentici drammi. Ma non in nome di un arido legalismo, bensì in una dimensione misterica, pur umanamente dura, che solo la credenza nel Vangelo può rendere accettabile.
Diverso il discorso sugli autori di quei battesimi. Se hanno agito su infanti senza che i genitori fossero consenzienti, hanno peccato gravemente, sono andati contro il diritto canonico e le disposizioni secolari della Chiesa. Si può comunque escludere sin da ora che i battesimi francesi (se davvero ce ne furono di illeciti) siano stati impartiti su ordine o anche solo con la connivenza delle autorità ecclesiastiche.
messori@numerica.it
una polemica piuttosto mal posta:
De Giovanni è per il cristianesimo, Parlato per l'illuminismo
il manifesto 28.12.04
COMMENTO
Povero Cristo
VALENTINO PARLATO
Biagio De Giovanni è persona colta, anche per questo ho letto con attenzione il suo articolo, sul Riformista, dal titolo provocatorio, «Perché dove c'è Cristo c'è più libertà». Accettando, cadendo nella provocazione, sono portato a rispondere con un altro titolo, «Perché dove c'è Robespierre c'è più libertà», anche se Robespierre piuttosto che crocefisso fu ghigliottinato, ma morì egualmente, con il merito, tutto laico, di non essere resuscitato. Non ho niente contro le radici giudaico-cristiane (e sottolineo il giudaico) della nostra Europa, ma cancellare la rivoluzione francese mi sembra eccessivo. Cancellare le guerre di religione, l'Inquisizione e la idolatrata Isabella Cattolica anche. Mi sorprende che Biagio De Giovanni, persona che ha viaggiato nelle terre della filosofia, scopra adesso nel cristianesimo una virtù che del cristianesimo non era propria, quella famosa tolleranza che fu più di Voltaire che dei papi e dei cardinali al seguito. Rimuovere il Concilio di Trento non mi pare opera meritoria per un filosofo che conosce la storia della cultura europea meglio di me. E che infatti scrive: «La libertà dei moderni e la scienza dei moderni si è affermata anche combattendo quelle pulsioni, fino a contrapporsi alla medesima Rivelazione in quanto tale: l'Illuminismo è stato anche (e qualcuno dice soprattutto) questo. Democrazia e Chiesa cattolica si sono contrapposte fino ai tempi recenti». Biagio De Giovanni sa bene che le cose sono andate a questo modo, ma tanto più mi è difficile capire perché dia questo primato al cristianesimo, considerando (oggettivamente) secondari l'Illuminismo, la rivoluzione francese. Mi è difficile capire perché De Giovanni rimuova il Concilio di Trento e anche il Concilio di Papa Giovanni XXIII? E mi è difficile capire la sua apertura al protestantesimo. Mi viene il dubbio che nell'attuale rigurgito bushiano dei valori fondamentali e religiosi non contemporanei, soprattutto europei, stiamo buttando nella spazzatura la rivoluzione francese, l'Illuminismo e pure la buon'anima di Kant.
Che significato ha oggi, in un mondo globalizzato, affermare la priorità del cristianesimo, sia pure in quanto religione (ma non è vero) di libertà? Eppure nel cristianesimo c'è un aspetto per me affascinante: è quello della kenosis, della mortificazione massima del dio fatto uomo: «elì, elì, lamma sabactani». Ma con la kenosis non si può affermare una priorità sul mondo. Quindi è da trascurare. La superiorità cristiana è ben rappresentata dal titolo di testa del Sole 24ore di ieri: «L'onda lunga dei listini». Questo è il vero maremoto. E Cristo che c'entra?
Corriere della Sera 29.12.04
Il ruolo della Chiesa e l’eredità della Rivoluzione francese
Livia Michilli
ROMA - «Dove c’è Cristo c’è più libertà», scriveva lunedì Il Riformista. «Dove c’è Robespierre c’è più libertà», replicava ieri Il manifesto. È un botta e risposta sul primato del cristianesimo e il suo rapporto con la democrazia e la libertà, quello che va in pagina sui due quotidiani. Il monoteismo cristiano, spiega Biagio De Giovanni sul Riformista, «non opprime l’uomo con il proprio comando politico-religioso, ma distingue tra politica e religione» e questo è l’asse della laicità moderna. «Perciò avviene che il mondo moderno si formi anche intorno alla libertà dei cristiani» e la superiorità del cristianesimo, continua De Giovanni, è proprio nell’aver gettato un «seme di libertà» nell’Occidente, che oggi deve difendere la sua visione del mondo e della storia «senza alcun fanatismo ma con ragionevole determinazione». Una tesi contestata da Valentino Parlato che, sul Manifesto, ricorda l’Inquisizione e il Concilio di Trento: «Mi viene il dubbio che nell’attuale rigurgito bushiano dei valori fondamentali e religiosi non contemporanei, soprattutto europei, stiamo buttando nella spazzatura la Rivoluzione francese e l’Illuminismo». Secondo Parlato la superiorità cristiana è ben rappresentata dal titolo che il Sole 24 Ore pubblicava all’indomani del terremoto nel sudest asiatico: «"L’onda lunga dei listini" - diceva il titolo -. Questo è il vero maremoto. E Cristo che c’entra?», si chiede Parlato. De Giovanni gli risponderà domani sul Riformista: «Dobbiamo interrogarci su cosa sia oggi l’Occidente: è davvero ridotto ad un "listino prezzi" che non merita di essere difeso, spostando l’asse del mondo altrove, o è ancora un’entità che rappresenta le forme della libertà politica moderna?».
interviene anche Garavagnuolo, oggi sull'Unità:
L'Unità, 29.12.04
DE GIOVANNI, IL FASCINO DELLA DESTRA HEGELIANA
Bruno Gravagnuolo
Il destro hegeliano. "Perché dov'è Cristo c'è più libertà". Titolo di ieri d'apertura del Riformista, in testa a un articolo di Biagio De Giovanni, a riassumerne le tesi di fondo: a) la libertà moderna si forma "nel cuore stesso della visione cristiana", b) L'Occidente è in campo con una sua visione del mondo "che va difesa con ragionevole determinazione". A supporto De Giovanni cita lo "Hegel cristiano". Ma ne fraintende il senso. Perché il Cristianesimo in Hegel è bensì un punto di svolta storica dove l'Universale infinito con Cristo si incarna nell'uomo (in tutti gli uomini!). E però esso è ancora forma della coscienza alienata, coscienza del servo che ha il divino fuori di sé. Talché quella coscienza servile andrà superata in un Universale laico condiviso e basato sui diritti di tutti e di ciascuno. Insomma il Cristianesimo per Hegel è tappa. Fase storica della liberazione dello Spirito che procede attraverso Lavoro e Sapere. Il che significa primato della Ragione globale, e non già dello specimen cristiano a tutela di un'area geopolitica. In altri termini De Giovanni resta ancorato a un hegelismo angusto (conservatore alla David Strauss) e non coglie la dinamica universalista e "atea" della laicità hegeliana, quella che criticava il Kant della Pace perpetua, colpevole di non prevedere un vero ordinamento statuale mondiale. Eccolo l'epilogo del vero Occidente: democratico e cosmopolita. Altro che meschina difesa della "sua visione del mondo".
Malpelo nell'uovo. Dalle stelle alle stalle. Anche Rosso Malpelo, simpatico corsivista dell'Avvenire vuol parlare di Hegel e della sua Menschenwerdung (incarnazione del divino). E lo fa accanendosi sul refuso di un nostro articoletto sul Natale ("reliqua " invece di "reliquia"). Nonché su presunte desidenze sbagliate ("Hoc facite in comemoratione mea"? Ma è Zwingli sull'Eucarestia). Il resto è tutto un fiorire di punti esclamativi e puntini sospensivi, a indicare lo stupore di Rosso per i traviamenti di una "nostra" idea: il mondo pagano che anticipa il valore etico della persona umana. Con la libertà interiore del sapere e l'eguale dignità degli uomini, da Parmenide a Epicuro. Eresia che scatena le bizze del nostro timorato correttore di bozze. Il suo cervello Dio lo riposi....
[...]
COMMENTO
Povero Cristo
VALENTINO PARLATO
Biagio De Giovanni è persona colta, anche per questo ho letto con attenzione il suo articolo, sul Riformista, dal titolo provocatorio, «Perché dove c'è Cristo c'è più libertà». Accettando, cadendo nella provocazione, sono portato a rispondere con un altro titolo, «Perché dove c'è Robespierre c'è più libertà», anche se Robespierre piuttosto che crocefisso fu ghigliottinato, ma morì egualmente, con il merito, tutto laico, di non essere resuscitato. Non ho niente contro le radici giudaico-cristiane (e sottolineo il giudaico) della nostra Europa, ma cancellare la rivoluzione francese mi sembra eccessivo. Cancellare le guerre di religione, l'Inquisizione e la idolatrata Isabella Cattolica anche. Mi sorprende che Biagio De Giovanni, persona che ha viaggiato nelle terre della filosofia, scopra adesso nel cristianesimo una virtù che del cristianesimo non era propria, quella famosa tolleranza che fu più di Voltaire che dei papi e dei cardinali al seguito. Rimuovere il Concilio di Trento non mi pare opera meritoria per un filosofo che conosce la storia della cultura europea meglio di me. E che infatti scrive: «La libertà dei moderni e la scienza dei moderni si è affermata anche combattendo quelle pulsioni, fino a contrapporsi alla medesima Rivelazione in quanto tale: l'Illuminismo è stato anche (e qualcuno dice soprattutto) questo. Democrazia e Chiesa cattolica si sono contrapposte fino ai tempi recenti». Biagio De Giovanni sa bene che le cose sono andate a questo modo, ma tanto più mi è difficile capire perché dia questo primato al cristianesimo, considerando (oggettivamente) secondari l'Illuminismo, la rivoluzione francese. Mi è difficile capire perché De Giovanni rimuova il Concilio di Trento e anche il Concilio di Papa Giovanni XXIII? E mi è difficile capire la sua apertura al protestantesimo. Mi viene il dubbio che nell'attuale rigurgito bushiano dei valori fondamentali e religiosi non contemporanei, soprattutto europei, stiamo buttando nella spazzatura la rivoluzione francese, l'Illuminismo e pure la buon'anima di Kant.
Che significato ha oggi, in un mondo globalizzato, affermare la priorità del cristianesimo, sia pure in quanto religione (ma non è vero) di libertà? Eppure nel cristianesimo c'è un aspetto per me affascinante: è quello della kenosis, della mortificazione massima del dio fatto uomo: «elì, elì, lamma sabactani». Ma con la kenosis non si può affermare una priorità sul mondo. Quindi è da trascurare. La superiorità cristiana è ben rappresentata dal titolo di testa del Sole 24ore di ieri: «L'onda lunga dei listini». Questo è il vero maremoto. E Cristo che c'entra?
Corriere della Sera 29.12.04
Il ruolo della Chiesa e l’eredità della Rivoluzione francese
Livia Michilli
ROMA - «Dove c’è Cristo c’è più libertà», scriveva lunedì Il Riformista. «Dove c’è Robespierre c’è più libertà», replicava ieri Il manifesto. È un botta e risposta sul primato del cristianesimo e il suo rapporto con la democrazia e la libertà, quello che va in pagina sui due quotidiani. Il monoteismo cristiano, spiega Biagio De Giovanni sul Riformista, «non opprime l’uomo con il proprio comando politico-religioso, ma distingue tra politica e religione» e questo è l’asse della laicità moderna. «Perciò avviene che il mondo moderno si formi anche intorno alla libertà dei cristiani» e la superiorità del cristianesimo, continua De Giovanni, è proprio nell’aver gettato un «seme di libertà» nell’Occidente, che oggi deve difendere la sua visione del mondo e della storia «senza alcun fanatismo ma con ragionevole determinazione». Una tesi contestata da Valentino Parlato che, sul Manifesto, ricorda l’Inquisizione e il Concilio di Trento: «Mi viene il dubbio che nell’attuale rigurgito bushiano dei valori fondamentali e religiosi non contemporanei, soprattutto europei, stiamo buttando nella spazzatura la Rivoluzione francese e l’Illuminismo». Secondo Parlato la superiorità cristiana è ben rappresentata dal titolo che il Sole 24 Ore pubblicava all’indomani del terremoto nel sudest asiatico: «"L’onda lunga dei listini" - diceva il titolo -. Questo è il vero maremoto. E Cristo che c’entra?», si chiede Parlato. De Giovanni gli risponderà domani sul Riformista: «Dobbiamo interrogarci su cosa sia oggi l’Occidente: è davvero ridotto ad un "listino prezzi" che non merita di essere difeso, spostando l’asse del mondo altrove, o è ancora un’entità che rappresenta le forme della libertà politica moderna?».
interviene anche Garavagnuolo, oggi sull'Unità:
L'Unità, 29.12.04
DE GIOVANNI, IL FASCINO DELLA DESTRA HEGELIANA
Bruno Gravagnuolo
Il destro hegeliano. "Perché dov'è Cristo c'è più libertà". Titolo di ieri d'apertura del Riformista, in testa a un articolo di Biagio De Giovanni, a riassumerne le tesi di fondo: a) la libertà moderna si forma "nel cuore stesso della visione cristiana", b) L'Occidente è in campo con una sua visione del mondo "che va difesa con ragionevole determinazione". A supporto De Giovanni cita lo "Hegel cristiano". Ma ne fraintende il senso. Perché il Cristianesimo in Hegel è bensì un punto di svolta storica dove l'Universale infinito con Cristo si incarna nell'uomo (in tutti gli uomini!). E però esso è ancora forma della coscienza alienata, coscienza del servo che ha il divino fuori di sé. Talché quella coscienza servile andrà superata in un Universale laico condiviso e basato sui diritti di tutti e di ciascuno. Insomma il Cristianesimo per Hegel è tappa. Fase storica della liberazione dello Spirito che procede attraverso Lavoro e Sapere. Il che significa primato della Ragione globale, e non già dello specimen cristiano a tutela di un'area geopolitica. In altri termini De Giovanni resta ancorato a un hegelismo angusto (conservatore alla David Strauss) e non coglie la dinamica universalista e "atea" della laicità hegeliana, quella che criticava il Kant della Pace perpetua, colpevole di non prevedere un vero ordinamento statuale mondiale. Eccolo l'epilogo del vero Occidente: democratico e cosmopolita. Altro che meschina difesa della "sua visione del mondo".
Malpelo nell'uovo. Dalle stelle alle stalle. Anche Rosso Malpelo, simpatico corsivista dell'Avvenire vuol parlare di Hegel e della sua Menschenwerdung (incarnazione del divino). E lo fa accanendosi sul refuso di un nostro articoletto sul Natale ("reliqua " invece di "reliquia"). Nonché su presunte desidenze sbagliate ("Hoc facite in comemoratione mea"? Ma è Zwingli sull'Eucarestia). Il resto è tutto un fiorire di punti esclamativi e puntini sospensivi, a indicare lo stupore di Rosso per i traviamenti di una "nostra" idea: il mondo pagano che anticipa il valore etico della persona umana. Con la libertà interiore del sapere e l'eguale dignità degli uomini, da Parmenide a Epicuro. Eresia che scatena le bizze del nostro timorato correttore di bozze. Il suo cervello Dio lo riposi....
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«Malattie mentali è emergenza mondiale»
La Gazzetta del Mezzogiorno 28.12.04
Malattie mentali è emergenza mondiale
ROMA - Ogni venti secondi c’è chi si toglie la vita: ogni anno al mondo sono da 900 ad un milione le persone tra cui tanti adolescenti e ragazzi che decidono da farla finita: un fenomeno inquietante e più grande di un maremoto. Ed accanto ai suicidi crescono la tendenza a «medicalizzare e farmacolizzare» malumori e contrattempi della vita, come evidenziano prescrizioni a dismisura per psicofarmaci, da somministrare in particolare ad adolescenti e bambini, nonché l’intossicazione acuta da alcool.
Sono queste le nuove emergenze sanitarie nel mondo di cui si fa portavoce Benedetto Saraceno, il direttore del ’Mental Health’ dell’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
«Le malattie mentali ci sono eccome - precisa subito Saraceno - Le stime sono di 150 milioni di persone affette da depressione maggiore e di 25 milioni quelle colpite da schizofrenia e psicosi. Patologie che non sono in aumento ma vengono, oggi, diagnosticate di più come la depressione che prima passava inosservata: a preoccupare ed allarmare sono altri fenomeni».
Intanto i suicidi: ogni anno da 900mila a un milione di persone si tolgono la vita. «Una ogni venti secondi - precisa Saraceno - Se 50 anni fa erano le donne a suicidarsi di più, oggi sono in costante aumento gli uomini ed in particolare i più giovani e ciò è inquietante: non siamo in presenza di un’epidemia però il fenomeno non va sottovalutato».
Perché un adolescente o ragazzo dovrebbe suicidarsi e cosa fare per contrastare questa escalation? «Alla base del suicidio ci sono impulsi violenti - osserva Saraceno - il giovane reagisce in modo impulsivo ad eventi della vita che lo riguardano: parlare e dialogare con adolescenti e ragazzi è fondamentale così come interessarsi della loro vita che è diversa da quella dell’adulto e richiede sempre un sostegno ed un appoggio». L’Oms propone poi la messa al bando dei mezzi più letali: pistole e armi da fuoco; detossificazione del gas e pesticidi. «Chi ricorre ad ansiolitici e tranquillanti - avverte Saraceno - ha molte più possibilità di salvarsi: diventa un tentato suicidio».
Sono i paesi dell’ex-Urss (tra i primi 10 al mondo) quelli a più alta incidenza di suicidi, mentre la Cina è il paese con il più alto numero di donne che si tolgono la vita. «Le zone rurali sono a più alto rischio diversamente da quel che si crede - osserva Saraceno - di suicidio rispetto alle zone industrializzate, alle grandi aree metropolitane».
Dai suicidi all’intossicazione acuta da alcool: sono 90 milioni le persone che abusano di alcool o di sostanze illecite. «La dipendenza da alcool è diminuita: non c’è quasi più l’ubriacone per strada che tutto sommato non era poi tanto pericoloso - nota Saraceno - oggi c’è l’intossicazione acuta, ossia l’abuso di alcool e sostanze una volta la settimana: ciò è alla base degli incidenti stradali mortali e di atti di violenza inauditi».
Forse c’è da pensare che l’intossicazione acuta da alcool sia la causa scatenante di qualcosa che è però già presente, latente? «Forse, ma è difficile dirlo - risponde Saraceno - fatto sta che in stato di forte ebbrezza si verificano incidenti mortali e atti violenti».
E le droghe? «Si consumano ma non si registrano aumenti particolarmente significativi - spiega Saraceno - anche per le droghe iniettabili, mentre capita spesso di incrociare il consumo misto di alcool, droghe e psicofarmaci: una miscela esplosiva». Ecco la cosiddetta cultura della droga per risolvere malumori, disagi e contrattempi della vita, ci si affida a sostanze che eccitano o sedano. «Le iper-prescrizioni di psicofarmaci sono in forte crescita: la tendenza a medicalizzare e farmacolizzare ogni malumore o conflitto della vita - avverte Saraceno -ci preoccupa e molto specie quando si somministrano gli psicofarmaci a bambini ed adolescenti: è questa una tendenza pericolosa da contrastare».
E veniamo alle malattie psichiatriche per eccellenza: schizofrenia e depressione. «Va subito detto che questa patologie - sottolinea Saraceno - sono uguali e identiche in ogni angolo del mondo e che non sono in crescita: solo che oggi rispetto al passato sono diagnosticate di più, come la depressione». Le cifre sono sempre alte comunque. «Stimiamo che la depressione nel 2020 salirà dal quarto al secondo posto dopo le malattie infettive per la disabilità che provoca - osserva Saraceno - in termini di giorni di lavoro persi, di qualità della vita e di costi sociali, molto più elevati di altre malattie come tumori e malattie cardiovascolari».
E per la cura? «Indubbiamente quella farmacologica - ribatte Saraceno - in prima battuta sapendo bene che il farmaco è un sintomatico e poi un mix di farmaci e psicoterapia, di recupero sul piano sociale e lavorativo». E tra le psicoterapie riconosciute dall’Oms, c’è quella ad indirizzo cognitivo - comportamentale mentre invece la classica psiocanalisi freudiana e junghiana, «non la incontriamo mai tra le pratiche terapeutiche: a noi interessa - conclude Saraceno - soprattutto il funzionamento dei servizi, i livelli di assistenza e di cura che debbono assicurare».
Malattie mentali è emergenza mondiale
ROMA - Ogni venti secondi c’è chi si toglie la vita: ogni anno al mondo sono da 900 ad un milione le persone tra cui tanti adolescenti e ragazzi che decidono da farla finita: un fenomeno inquietante e più grande di un maremoto. Ed accanto ai suicidi crescono la tendenza a «medicalizzare e farmacolizzare» malumori e contrattempi della vita, come evidenziano prescrizioni a dismisura per psicofarmaci, da somministrare in particolare ad adolescenti e bambini, nonché l’intossicazione acuta da alcool.
Sono queste le nuove emergenze sanitarie nel mondo di cui si fa portavoce Benedetto Saraceno, il direttore del ’Mental Health’ dell’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
«Le malattie mentali ci sono eccome - precisa subito Saraceno - Le stime sono di 150 milioni di persone affette da depressione maggiore e di 25 milioni quelle colpite da schizofrenia e psicosi. Patologie che non sono in aumento ma vengono, oggi, diagnosticate di più come la depressione che prima passava inosservata: a preoccupare ed allarmare sono altri fenomeni».
Intanto i suicidi: ogni anno da 900mila a un milione di persone si tolgono la vita. «Una ogni venti secondi - precisa Saraceno - Se 50 anni fa erano le donne a suicidarsi di più, oggi sono in costante aumento gli uomini ed in particolare i più giovani e ciò è inquietante: non siamo in presenza di un’epidemia però il fenomeno non va sottovalutato».
Perché un adolescente o ragazzo dovrebbe suicidarsi e cosa fare per contrastare questa escalation? «Alla base del suicidio ci sono impulsi violenti - osserva Saraceno - il giovane reagisce in modo impulsivo ad eventi della vita che lo riguardano: parlare e dialogare con adolescenti e ragazzi è fondamentale così come interessarsi della loro vita che è diversa da quella dell’adulto e richiede sempre un sostegno ed un appoggio». L’Oms propone poi la messa al bando dei mezzi più letali: pistole e armi da fuoco; detossificazione del gas e pesticidi. «Chi ricorre ad ansiolitici e tranquillanti - avverte Saraceno - ha molte più possibilità di salvarsi: diventa un tentato suicidio».
Sono i paesi dell’ex-Urss (tra i primi 10 al mondo) quelli a più alta incidenza di suicidi, mentre la Cina è il paese con il più alto numero di donne che si tolgono la vita. «Le zone rurali sono a più alto rischio diversamente da quel che si crede - osserva Saraceno - di suicidio rispetto alle zone industrializzate, alle grandi aree metropolitane».
Dai suicidi all’intossicazione acuta da alcool: sono 90 milioni le persone che abusano di alcool o di sostanze illecite. «La dipendenza da alcool è diminuita: non c’è quasi più l’ubriacone per strada che tutto sommato non era poi tanto pericoloso - nota Saraceno - oggi c’è l’intossicazione acuta, ossia l’abuso di alcool e sostanze una volta la settimana: ciò è alla base degli incidenti stradali mortali e di atti di violenza inauditi».
Forse c’è da pensare che l’intossicazione acuta da alcool sia la causa scatenante di qualcosa che è però già presente, latente? «Forse, ma è difficile dirlo - risponde Saraceno - fatto sta che in stato di forte ebbrezza si verificano incidenti mortali e atti violenti».
E le droghe? «Si consumano ma non si registrano aumenti particolarmente significativi - spiega Saraceno - anche per le droghe iniettabili, mentre capita spesso di incrociare il consumo misto di alcool, droghe e psicofarmaci: una miscela esplosiva». Ecco la cosiddetta cultura della droga per risolvere malumori, disagi e contrattempi della vita, ci si affida a sostanze che eccitano o sedano. «Le iper-prescrizioni di psicofarmaci sono in forte crescita: la tendenza a medicalizzare e farmacolizzare ogni malumore o conflitto della vita - avverte Saraceno -ci preoccupa e molto specie quando si somministrano gli psicofarmaci a bambini ed adolescenti: è questa una tendenza pericolosa da contrastare».
E veniamo alle malattie psichiatriche per eccellenza: schizofrenia e depressione. «Va subito detto che questa patologie - sottolinea Saraceno - sono uguali e identiche in ogni angolo del mondo e che non sono in crescita: solo che oggi rispetto al passato sono diagnosticate di più, come la depressione». Le cifre sono sempre alte comunque. «Stimiamo che la depressione nel 2020 salirà dal quarto al secondo posto dopo le malattie infettive per la disabilità che provoca - osserva Saraceno - in termini di giorni di lavoro persi, di qualità della vita e di costi sociali, molto più elevati di altre malattie come tumori e malattie cardiovascolari».
E per la cura? «Indubbiamente quella farmacologica - ribatte Saraceno - in prima battuta sapendo bene che il farmaco è un sintomatico e poi un mix di farmaci e psicoterapia, di recupero sul piano sociale e lavorativo». E tra le psicoterapie riconosciute dall’Oms, c’è quella ad indirizzo cognitivo - comportamentale mentre invece la classica psiocanalisi freudiana e junghiana, «non la incontriamo mai tra le pratiche terapeutiche: a noi interessa - conclude Saraceno - soprattutto il funzionamento dei servizi, i livelli di assistenza e di cura che debbono assicurare».
sinistra
è morto il compagno Eliseo Milani
Liberazione 29.12.04
ADDIO ELISEO MILANI FONDATORE DEL MANIFESTO
di Rina Gagliardi
E così il vecchio leone, la roccia per anni indistruttibile, questa volta non ce l'ha fatta. E' morto la scorsa notte, Eliseo Milani, cedendo all'ultimo assalto di quel suo cuore malandatissimo, eppure così forte da esser riuscito cento volte ad aver ragione di ogni colpo. Soltanto pochissimi giorni fa, il 23 dicembre, era passato a salutare i compagni di «Aprile»: sempre in sella, nonostante tutto, nonostante gli anni, settantasette e passa. Poi, il giorno di Natale, un malore improvviso, l'ultima corsa al Policlinico. Con lui se ne va un pezzo della sinistra e, soprattutto, del Manifesto, che tanto aveva contribuito a far nascere e a far crescere - unico dirigente operaio del gruppo storico, l'unico davvero vocato alla pratica della costruzione organizzativa. Se ne va anche, ahimé, un pezzo della nostra giovinezza. Da Eliseo, abbiamo imparato molto, nel fuoco di quegli anni '70 in cui la società italiana si spingeva con forza a sinistra, ben al di là della sua rappresentazione politica. Noi, giovani "manifestini" quasi in toto di provenienza studentesca o intellettuale, con le nostre letture fresche dei classici e i nostri entusiasmi ideologici, ci scontrammo all'inizio con quel suo carattere all'apparenza "burbero", quella sua ostinazione pragmatica, quei suoi continui richiami alla necessità della concretezza e alla "dura scuola" della fabbrica; ma presto, molto presto, molti di noi riuscirono ad entrare in sintonia con la sua fierezza operaia (sempre proletaria e mai populista), con la singolare personalità di un dirigente che aveva una storia vera e un vissuto ricco. Eliseo era la smentita vivente - e lo sapeva - dei limiti intellealistici del Manifesto. E molti di noi hanno tratto dalla sua capacità comunicativa un'autentica lezione politica.
Da anni Eliseo aveva dovuto drasticamente ridurre la sua vita puhblica. Eppure, quelle poche volte che capitava di incontrarlo, si percepiva ancora la sua tempra vitale.
Da Bergamo a Roma
Era bergamasco, Eliseo Milani - per la precisione di Ponte San Pietro, dove era nato nel febbraio del 1927. Operaio della Dalmine, comunista, leader di mille battaglie e infaticabile organizzatore, negli anni '60 era diventato segretario delle Federazione bergamasca del Pci: un ruolo difficile, in una zona bianca (e clericale), dove la sinistra era da sempre minoritaria, ed esercitato con singolare apertura, su posizioni "naturalmente" di sinistra. Si vantava, Eliseo, di esser stato lui a reclutare nel Pci, nella seconda metà degli anni '50, due giovani intellettuali cattolici della città, usciti dalla Democrazia cristiana e passati attraverso l'originale esperienza di una rivista come "Dibattito politico": si chiamavano Lucio Magri e Giuseppe Chiarante. E si poteva vantare, soprattutto, di aver fatto crescere a Bergamo, uno straordinario gruppo di quadri e segnatamente di quadri operai - come Ravasio, Franco Petenzi, e tanti altri. Quando esplose l'autunno caldo, col suo epicentro (alla Fiat di lavoratori emigrati dal sud, dequaliticati e privi di memoria e pratica sindacale, dalle fabbriche lombarde - e bergamasche - arrivò una risposta diversa ma altrettanto significativa: un soggetto operaio piu professionalizzato e più legato alla storia del movimento operaio, ma pìu capace, anche per questo, di "connessioni" sociali e politiche, a partire dalla critica dell'organizzazione del lavoro.
C'entrava molto con tutto questo, Eliseo Milani, che nel frattempo era diventato anche deputato. C'entrava tanto che, quando nel 1969 nel Pci si discusse dovunque del "caso del Manifesto", Bergamo fu l'unica Federazione che si schierò a favore dei così detti "eretici". E l'onorevole Milani andò poi a costituire - insieme a Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara e Liberato Bronzuto - la piccola pattuglia manifestista di Montecitorio.
Quella storica radiazione...
Chi non ha vissuto quegli anni, certo, non può ricordare l'emozione politica che fu il gruppo del Manifesto. Un gruppo sotto molti aspetti anomalo e inedito nella storia del comunismo italiano. Il primo che ha tentato l'audace impresa dell'uscita da sinistra dalla crisi del Pci, dallo stalinismo, dall'ortodossia marxista-leninista. Lo composero, all'inizio, persone tra di loro molto diverse, collegte da un'adesione all'ingraismo che era tutto, però, fuorché una milizia organizzativa.
C'erano una intellettuale di prima classe, come Rossana Rossanda, che aveva lavorato con Togliatti e diretto la sezione culturale del Partito. C'era un giornalisti politico eccezionale, come Luigi Pintor, che aveva diretto L'Unità scontrandosi quotidianamente con la "destra" (che certo oggi non chiameremmo tale) di Amendola, Pajetta, Alicata. C'era un leader popolare (che era anche un sofisticato intellettuale), come Aldo Natoli, che a Roma era un punto di riferimento del popolo comunista, e non solo. E c'era un giovane intellettuale, come dicevamo, di origine cattolica, Lucio Magri, capace come pochi di elaborazione politica organica - e c'erano due giornalisti di prima classe come Luciana Castellina e Valentino Parlato, che sapevano raccontare le lotte, l'economia, gli scenari internazionali. Tutti ingraiani, appunto, ovvero segnati dall'XI Congresso del Pci (quello in cui Ingrao aveva concluso il suo intervento con un'affermazione ai tempi eversiva: "Non mi avete persuaso"). Tutti poi coinvolti, positivamente, dal movimento del '68, quello studentesco e quello operaio. Tutti, ahimé, sconfitti nella battaglia del XII congresso nazionale (Bologna, 1969) che si era concluso con l'ascesa di Enrico Berlinguer, su una piattaforma sostanzialmente "continuista" - né si prendeva atto della crisi irreversibile del "socialismo" dell'est, né si assumeva il 68-69 come la leva di una svolta strategica. Fu in questo clima che nacque, nel maggio del 1969, la rivista «il manifesto»: diretta da Magri e Rossanda, si diffuse in profondità nel partito. In qualche federazione - come quella di Bergamo - addirittura si radicò. E a molti giovani reduci dal movimento apparve come il luogo dove la rottura sessantottina e il meglio della tradizione comunista potevano finalmente incontrarsi, parlare una lingua comune, elaborare una nuova idea della politica e della militanza.
Il vertice del Pci non accettò questa provocazione, che rompeva - allora radicalmente - le regole della disciplina interna: il gruppo fu accusato di "frazionismo" e richiesto perenoriamente di rientrare nei ranghi, cioè di sospendere la pubblicazione di un mensile "non autorizzato" (e che aveva il torto di essere anche un grande successo editoriale). E dopo un dibattito fervido e appassionato, nel dicembre del 1969 la conclusione fu quella canonica: la radiazione Toccò prima ai membri del Comitato centrale, poi via via, nelle città, a tutti coloro che intendevano continuare quell'esperienza all'interno delpartito.
Il gusto dell'autonomia
Ma ci si doveva o no adeguare? Si doveva abbandonare il Pci organizzando una vera e propria scissione? Era sensato progettare un nuovo partito? Questi furono gli interrogativi - abbastanza drammatici - che il gruppo del Manifesto, una volta cacciato, si trovò ad affrontare. Fu in questa fase che Eliseo Milani venne a Roma per diventare uno dei dirigenti della nuova formazione politica che,nei fatti, stava nascendo. E ne fu, per anni, il "motore operativo", il propulsore organizzativo, riuscendo anche e soprattutto a diventare il riferimento politico obbligato anche dei massimi leader nazionali. Quando alla metà dei '70 si tenne a Bologna il primo Congresso nazionale del Pdup (il Partito che tentò per qualche anno di unificare il Manifesto e la sinistra psiuppina che non era confluita nel Pci), fu grazie soprattutto a lui che le tematiche radicali dell'esperienza del Manifesto riuscirono a prevalere. Poi, certo, ne seguì una storia costellata di scissioni, lotte fratricide, tentativi sempre falliti di "riconciliazioni": uno come Eliseo, al varcar della soglia dei tremendi anni '80, non poteva che nutrire un profondo pessimismo politico. Ciò che non lo indusse mai, tuttavia, a scelte checonsiderava improbabili ritorni a Canossa: perciò si rifiuto di rientrare nel Pci, anche quando l'esperienza della nuova sinistra si era bruciata e consunta. Del resto, per tutta la sua vita, ha sperimentato fino in fondo il gusto dell'autonomia: alieno da ogni forma di "estremismo", non si rassegnò mai all'ineluttabilita del "moderatismo". Preferì, piuttosto, rischiare la solitudine politica, come quando divenne senatore della Sinistra Indipendente, o come quando si buttò a capofitto nel lavoro del "Centro per la riforma dello Stato" di Ingrao. Comunque, da un certo momento in poi, fece a meno di un Partito, di quadri da far crescere, di una battaglia organica da portare avanti (ci riprovò, e vero, con Rifondazione comunista, ma per breve tempo e senza mai agio).
Uno sconfitto? Ma no. Una persona che ha vissuto bene, con passioni, idee, forza vitale, generosità. Un uomo che ha seminato molto e saputo far politica come andrebbe fatta - con la testa e il cuore, da protagonisti e da militanti. Un uomo molto bello, dentro e fuori. In fin dei conti, un comunista.
MERCOLEDÌ, 29 DICEMBRE 2004
IL PERSONAGGIO
Deputato Pci, fu radiato nel 1969. Poi il Pdup. Lavorava con Ingrao al Centro per la riforma dello Stato
Addio a Milani, fondatore del Manifesto
Con Pintor, Rossanda, Magri e Natoli diede vita al gruppo "eretico"
ROMA - È morto ieri notte al Policlinico di Roma l'ex parlamentare comunista Eliseo Milani. La sala ardente sarà allestita giovedì prossimo, 30 dicembre, al Policlinico Umberto I dalle ore 11.
Milani, 77 anni (era nato il 16 febbraio del 1927 a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo), era stato ricoverato il giorno di Natale in seguito ad un grave malore. Operaio della Dalmine di Bergamo, arrivò a Montecitorio nel 1968, dove è stato poi rieletto per tre legislature. Eletto infine senatore, Milani è stato tra i fondatori del Manifesto, per cui venne radiato dal Pci nel 1969 con Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luigi Pintor e Aldo Natoli. È stato poi dirigente di spicco del Pdup, il partito nato nel '74 con la confluenza del Manifesto e dell'area dello Psiup che non aveva accettato di entrare nel Pci.
Vissuta tutta la travagliata esperienza del Pdup, costellata da altre scissioni e anche da unificazioni con alcune delle sigle di quella che veniva chiamata la sinistra extraparlamentare (Avanguardia Operaia, Mls), nel 1984 Milani fu uno dei dirigenti della minoranza del partito che non accettò la confluenza nel Pci: restò senatore della Sinistra Indipendente, e di fatto concluse con la nona legislatura la sua attività politica a tempo pieno, anche per via del precario stato di salute che lo obbligò a mutare regime e stile di vita. Protagonista di numerose battaglie parlamentari, ha anche fatto parte della Commissione Moro.
Collaborò in seguito con il Centro per la Riforma dello Stato presieduto da Pietro Ingrao.
Con Eliseo Milani «se ne è andato un uomo appassionato e colto, un politico che ha dedicato gran parte della propria vita alla militanza e al confronto sulle sorti della sinistra italiana». È questo il ricordo del sindaco di Roma Walter Veltroni. «Dalla fondazione del Manifesto - sottolinea Veltroni - e poi del Pdup alla lunga esperienza parlamentare, conclusa come senatore della Sinistra Indipendente, alla partecipazione alla commissione Moro al suo impegno con il Centro per la Riforma dello Stato Eliseo Milani è stato negli anni un punto di riferimento per una parte importante della sinistra».
ADDIO ELISEO MILANI FONDATORE DEL MANIFESTO
di Rina Gagliardi
E così il vecchio leone, la roccia per anni indistruttibile, questa volta non ce l'ha fatta. E' morto la scorsa notte, Eliseo Milani, cedendo all'ultimo assalto di quel suo cuore malandatissimo, eppure così forte da esser riuscito cento volte ad aver ragione di ogni colpo. Soltanto pochissimi giorni fa, il 23 dicembre, era passato a salutare i compagni di «Aprile»: sempre in sella, nonostante tutto, nonostante gli anni, settantasette e passa. Poi, il giorno di Natale, un malore improvviso, l'ultima corsa al Policlinico. Con lui se ne va un pezzo della sinistra e, soprattutto, del Manifesto, che tanto aveva contribuito a far nascere e a far crescere - unico dirigente operaio del gruppo storico, l'unico davvero vocato alla pratica della costruzione organizzativa. Se ne va anche, ahimé, un pezzo della nostra giovinezza. Da Eliseo, abbiamo imparato molto, nel fuoco di quegli anni '70 in cui la società italiana si spingeva con forza a sinistra, ben al di là della sua rappresentazione politica. Noi, giovani "manifestini" quasi in toto di provenienza studentesca o intellettuale, con le nostre letture fresche dei classici e i nostri entusiasmi ideologici, ci scontrammo all'inizio con quel suo carattere all'apparenza "burbero", quella sua ostinazione pragmatica, quei suoi continui richiami alla necessità della concretezza e alla "dura scuola" della fabbrica; ma presto, molto presto, molti di noi riuscirono ad entrare in sintonia con la sua fierezza operaia (sempre proletaria e mai populista), con la singolare personalità di un dirigente che aveva una storia vera e un vissuto ricco. Eliseo era la smentita vivente - e lo sapeva - dei limiti intellealistici del Manifesto. E molti di noi hanno tratto dalla sua capacità comunicativa un'autentica lezione politica.
Da anni Eliseo aveva dovuto drasticamente ridurre la sua vita puhblica. Eppure, quelle poche volte che capitava di incontrarlo, si percepiva ancora la sua tempra vitale.
Da Bergamo a Roma
Era bergamasco, Eliseo Milani - per la precisione di Ponte San Pietro, dove era nato nel febbraio del 1927. Operaio della Dalmine, comunista, leader di mille battaglie e infaticabile organizzatore, negli anni '60 era diventato segretario delle Federazione bergamasca del Pci: un ruolo difficile, in una zona bianca (e clericale), dove la sinistra era da sempre minoritaria, ed esercitato con singolare apertura, su posizioni "naturalmente" di sinistra. Si vantava, Eliseo, di esser stato lui a reclutare nel Pci, nella seconda metà degli anni '50, due giovani intellettuali cattolici della città, usciti dalla Democrazia cristiana e passati attraverso l'originale esperienza di una rivista come "Dibattito politico": si chiamavano Lucio Magri e Giuseppe Chiarante. E si poteva vantare, soprattutto, di aver fatto crescere a Bergamo, uno straordinario gruppo di quadri e segnatamente di quadri operai - come Ravasio, Franco Petenzi, e tanti altri. Quando esplose l'autunno caldo, col suo epicentro (alla Fiat di lavoratori emigrati dal sud, dequaliticati e privi di memoria e pratica sindacale, dalle fabbriche lombarde - e bergamasche - arrivò una risposta diversa ma altrettanto significativa: un soggetto operaio piu professionalizzato e più legato alla storia del movimento operaio, ma pìu capace, anche per questo, di "connessioni" sociali e politiche, a partire dalla critica dell'organizzazione del lavoro.
C'entrava molto con tutto questo, Eliseo Milani, che nel frattempo era diventato anche deputato. C'entrava tanto che, quando nel 1969 nel Pci si discusse dovunque del "caso del Manifesto", Bergamo fu l'unica Federazione che si schierò a favore dei così detti "eretici". E l'onorevole Milani andò poi a costituire - insieme a Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara e Liberato Bronzuto - la piccola pattuglia manifestista di Montecitorio.
Quella storica radiazione...
Chi non ha vissuto quegli anni, certo, non può ricordare l'emozione politica che fu il gruppo del Manifesto. Un gruppo sotto molti aspetti anomalo e inedito nella storia del comunismo italiano. Il primo che ha tentato l'audace impresa dell'uscita da sinistra dalla crisi del Pci, dallo stalinismo, dall'ortodossia marxista-leninista. Lo composero, all'inizio, persone tra di loro molto diverse, collegte da un'adesione all'ingraismo che era tutto, però, fuorché una milizia organizzativa.
C'erano una intellettuale di prima classe, come Rossana Rossanda, che aveva lavorato con Togliatti e diretto la sezione culturale del Partito. C'era un giornalisti politico eccezionale, come Luigi Pintor, che aveva diretto L'Unità scontrandosi quotidianamente con la "destra" (che certo oggi non chiameremmo tale) di Amendola, Pajetta, Alicata. C'era un leader popolare (che era anche un sofisticato intellettuale), come Aldo Natoli, che a Roma era un punto di riferimento del popolo comunista, e non solo. E c'era un giovane intellettuale, come dicevamo, di origine cattolica, Lucio Magri, capace come pochi di elaborazione politica organica - e c'erano due giornalisti di prima classe come Luciana Castellina e Valentino Parlato, che sapevano raccontare le lotte, l'economia, gli scenari internazionali. Tutti ingraiani, appunto, ovvero segnati dall'XI Congresso del Pci (quello in cui Ingrao aveva concluso il suo intervento con un'affermazione ai tempi eversiva: "Non mi avete persuaso"). Tutti poi coinvolti, positivamente, dal movimento del '68, quello studentesco e quello operaio. Tutti, ahimé, sconfitti nella battaglia del XII congresso nazionale (Bologna, 1969) che si era concluso con l'ascesa di Enrico Berlinguer, su una piattaforma sostanzialmente "continuista" - né si prendeva atto della crisi irreversibile del "socialismo" dell'est, né si assumeva il 68-69 come la leva di una svolta strategica. Fu in questo clima che nacque, nel maggio del 1969, la rivista «il manifesto»: diretta da Magri e Rossanda, si diffuse in profondità nel partito. In qualche federazione - come quella di Bergamo - addirittura si radicò. E a molti giovani reduci dal movimento apparve come il luogo dove la rottura sessantottina e il meglio della tradizione comunista potevano finalmente incontrarsi, parlare una lingua comune, elaborare una nuova idea della politica e della militanza.
Il vertice del Pci non accettò questa provocazione, che rompeva - allora radicalmente - le regole della disciplina interna: il gruppo fu accusato di "frazionismo" e richiesto perenoriamente di rientrare nei ranghi, cioè di sospendere la pubblicazione di un mensile "non autorizzato" (e che aveva il torto di essere anche un grande successo editoriale). E dopo un dibattito fervido e appassionato, nel dicembre del 1969 la conclusione fu quella canonica: la radiazione Toccò prima ai membri del Comitato centrale, poi via via, nelle città, a tutti coloro che intendevano continuare quell'esperienza all'interno delpartito.
Il gusto dell'autonomia
Ma ci si doveva o no adeguare? Si doveva abbandonare il Pci organizzando una vera e propria scissione? Era sensato progettare un nuovo partito? Questi furono gli interrogativi - abbastanza drammatici - che il gruppo del Manifesto, una volta cacciato, si trovò ad affrontare. Fu in questa fase che Eliseo Milani venne a Roma per diventare uno dei dirigenti della nuova formazione politica che,nei fatti, stava nascendo. E ne fu, per anni, il "motore operativo", il propulsore organizzativo, riuscendo anche e soprattutto a diventare il riferimento politico obbligato anche dei massimi leader nazionali. Quando alla metà dei '70 si tenne a Bologna il primo Congresso nazionale del Pdup (il Partito che tentò per qualche anno di unificare il Manifesto e la sinistra psiuppina che non era confluita nel Pci), fu grazie soprattutto a lui che le tematiche radicali dell'esperienza del Manifesto riuscirono a prevalere. Poi, certo, ne seguì una storia costellata di scissioni, lotte fratricide, tentativi sempre falliti di "riconciliazioni": uno come Eliseo, al varcar della soglia dei tremendi anni '80, non poteva che nutrire un profondo pessimismo politico. Ciò che non lo indusse mai, tuttavia, a scelte checonsiderava improbabili ritorni a Canossa: perciò si rifiuto di rientrare nel Pci, anche quando l'esperienza della nuova sinistra si era bruciata e consunta. Del resto, per tutta la sua vita, ha sperimentato fino in fondo il gusto dell'autonomia: alieno da ogni forma di "estremismo", non si rassegnò mai all'ineluttabilita del "moderatismo". Preferì, piuttosto, rischiare la solitudine politica, come quando divenne senatore della Sinistra Indipendente, o come quando si buttò a capofitto nel lavoro del "Centro per la riforma dello Stato" di Ingrao. Comunque, da un certo momento in poi, fece a meno di un Partito, di quadri da far crescere, di una battaglia organica da portare avanti (ci riprovò, e vero, con Rifondazione comunista, ma per breve tempo e senza mai agio).
Uno sconfitto? Ma no. Una persona che ha vissuto bene, con passioni, idee, forza vitale, generosità. Un uomo che ha seminato molto e saputo far politica come andrebbe fatta - con la testa e il cuore, da protagonisti e da militanti. Un uomo molto bello, dentro e fuori. In fin dei conti, un comunista.
MERCOLEDÌ, 29 DICEMBRE 2004
IL PERSONAGGIO
Deputato Pci, fu radiato nel 1969. Poi il Pdup. Lavorava con Ingrao al Centro per la riforma dello Stato
Addio a Milani, fondatore del Manifesto
Con Pintor, Rossanda, Magri e Natoli diede vita al gruppo "eretico"
ROMA - È morto ieri notte al Policlinico di Roma l'ex parlamentare comunista Eliseo Milani. La sala ardente sarà allestita giovedì prossimo, 30 dicembre, al Policlinico Umberto I dalle ore 11.
Milani, 77 anni (era nato il 16 febbraio del 1927 a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo), era stato ricoverato il giorno di Natale in seguito ad un grave malore. Operaio della Dalmine di Bergamo, arrivò a Montecitorio nel 1968, dove è stato poi rieletto per tre legislature. Eletto infine senatore, Milani è stato tra i fondatori del Manifesto, per cui venne radiato dal Pci nel 1969 con Rossana Rossanda, Lucio Magri, Luigi Pintor e Aldo Natoli. È stato poi dirigente di spicco del Pdup, il partito nato nel '74 con la confluenza del Manifesto e dell'area dello Psiup che non aveva accettato di entrare nel Pci.
Vissuta tutta la travagliata esperienza del Pdup, costellata da altre scissioni e anche da unificazioni con alcune delle sigle di quella che veniva chiamata la sinistra extraparlamentare (Avanguardia Operaia, Mls), nel 1984 Milani fu uno dei dirigenti della minoranza del partito che non accettò la confluenza nel Pci: restò senatore della Sinistra Indipendente, e di fatto concluse con la nona legislatura la sua attività politica a tempo pieno, anche per via del precario stato di salute che lo obbligò a mutare regime e stile di vita. Protagonista di numerose battaglie parlamentari, ha anche fatto parte della Commissione Moro.
Collaborò in seguito con il Centro per la Riforma dello Stato presieduto da Pietro Ingrao.
Con Eliseo Milani «se ne è andato un uomo appassionato e colto, un politico che ha dedicato gran parte della propria vita alla militanza e al confronto sulle sorti della sinistra italiana». È questo il ricordo del sindaco di Roma Walter Veltroni. «Dalla fondazione del Manifesto - sottolinea Veltroni - e poi del Pdup alla lunga esperienza parlamentare, conclusa come senatore della Sinistra Indipendente, alla partecipazione alla commissione Moro al suo impegno con il Centro per la Riforma dello Stato Eliseo Milani è stato negli anni un punto di riferimento per una parte importante della sinistra».
tsunami
tutti i "preti" scagionano dio
(forse hanno paura?)
Corriere della Sera 29.12.04
Teologia
«Non ha colpito il Dio castigatore ma una natura non ancora perfetta»
di Paolo Conti
ROMA - «Come può un Dio creduto buono e giusto permettere non solo il male naturale, la morte, ma persino un’arbitraria, casuale distruzione di alcuni lasciando intatti altri, senza meriti né spiegazioni?». La domanda risale alla scoperta della divinità da parte dell’uomo. Ma oggi ha un senso attualissimo, quindi ben più atroce: Dio può «volere» una tragedia cieca come quella dell’Asia? Se l’è chiesto ieri su L’Avvenire Francesco Tomatis, docente di Filosofia teoretica a Salerno. Passati in rassegna Lucrezio, Voltaire, Schelling, Tomatis approda al Nuovo Testamento. Cita il san Paolo della Lettera ai Romani e conclude: «Attraverso la caduta dell’uomo originario la natura stessa, non solo l’uomo, s’è staccata da Dio, divenendo violenta, feroce, mortale, anziché una presenza di Dio stesso in ogni creatura come nello stato paradisiaco». Ora il futuro, dice Tomatis, è nelle mani dell’uomo che con la sua libertà «può riconciliarsi con Dio, introducendo con sé in Dio anche tutta la natura».
Il tema, è ovvio, non riguarda solo la cristianità. Ma in un Paese di radicata cultura cattolica come l’Italia è un quesito comunissimo. Dice Brunetto Salvarani, docente di Pedagogia interculturale a Milano Bicocca, ma da anni impegnato in un’opera editoriale di «teologia narrativa»: «Come insegna il pensiero ebraico riferito alla tragedia dell’Olocausto, anche Dio si può "ritirare", contrarsi, lasciare spazio alla scelta dell’uomo. Lo ha fatto anche Cristo abbassandosi sul mondo e prendendo su di sé il male e il dolore. Ed eccoci a san Paolo: la creazione "soffre" con l’uomo. Viviamo nella limitazione, in una terra che sarà rinnovata. Per i cattolici la promessa è contenuta nell’Apocalisse, che promette cieli e terra nuovi: sono i nostri, trasformati alla fine dei tempo». Tutta colpa del peccato dell’uomo? «Attenzione al determinismo, non c’è un "determinato" peccato o cattivi da punire». Conferma Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose: «Certamente non esiste un Dio castigatore della cattiveria dell’uomo, sarebbe una autentica perversione. Invece la creazione, quindi questo universo, non sono perfetti ma in continuo divenire. Quindi possono provocare il male. È un autentico enigma, lo so bene, ma noi cristiani pensiamo che il travaglio si concluderà con la trasfigurazione alla fine dei tempi. Ovvero con la salvezza».
Cambiando fede, le risposte sono diverse. Si interroga Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane: «Mi viene in mente Caino quando grida di non essere il custode del fratello Abele. Di fatto chiede a Dio perché gli abbia permesso di ucciderlo e non chiede a se stesso perché lo abbia fatto». Arrivando alla tragedia dell’Asia? «Perché ci poniamo il dilemma solo di fronte alle catastrofi naturali e non quando l’uomo può intervenire? La natura ha le sue leggi e le sue regole. Tocca a noi conoscerle per vivere meglio. Chiediamoci, e qui torniamo a Caino, come mai nell’oceano Pacifico tra Giappone e Stati Uniti esistano sistemi di rilevazione che avrebbero permesso di limitare i danni e invece la povertà in Asia sia così grande da rendere impensabili gli investimenti in quel campo. E adesso non domandiamoci perché mai Dio permetta la povertà. La nostra posizione sarebbe troppo comoda».
Sostiene invece l’imam della moschea di Roma, Mahmoud Ibrahim Sheweita: «Il maremoto è un problema da scienziati. Ma è comunque visibile la mano di Dio che vuole mostrare al mondo la sua forza, la sua capacità divina e onnipotente. C’è scritto nel Corano a proposito della distruzione di Sodoma: è stato messo sopra ciò che stava sotto e sotto ciò che stava sopra». Quale è il segnale? «È l’aiuto reciproco tra gli uomini. Ora molte epidemie supereranno i confini delle zone colpite. Dio chiede collaborazione fraterna tra le genti. In molti paesi come la Thailandia o lo Sri Lanka esistono contrapposizioni interne: ora sono messe da parte. Anche questo è un segno di Dio».
La parola infine a Emanuele Severino, filosofo non laico e non religioso ma che affronta il piano in cui i due atteggiamenti si contrappongono: «L’esistenza stessa dell’uomo appare come follia e violenza non perché dominata dalla malvagità ma proprio dalla volontà. Ovvero: è la volontà in quanto tale a essere follia, errore, violenza. È l’orizzonte nel quale si trova a vivere da subito l’essere mortale». E le catastrofi? «Ci dimentichiamo che il cataclisma radicale è avvenuto all’inizio, cioè quando la volontà ha inteso trasformare il mondo, ottenendo un risultato per cui le cose sono altre da ciò che erano in origine». Quindi, sostiene Severino, siamo di fronte «alle manifestazioni di una catastrofe originaria della volontà. Penso al cataclisma asiatico così come al conflitto atomico».
Eppure, assicura il filosofo, siamo destinati alla gioia: «Non come il prodotto di un dio, di un salvatore, di un popolo. Ma è la necessità stessa delle cose che ci conduce nella follia così come ce ne fa uscire e ci porta alla gioia».
Teologia
«Non ha colpito il Dio castigatore ma una natura non ancora perfetta»
di Paolo Conti
ROMA - «Come può un Dio creduto buono e giusto permettere non solo il male naturale, la morte, ma persino un’arbitraria, casuale distruzione di alcuni lasciando intatti altri, senza meriti né spiegazioni?». La domanda risale alla scoperta della divinità da parte dell’uomo. Ma oggi ha un senso attualissimo, quindi ben più atroce: Dio può «volere» una tragedia cieca come quella dell’Asia? Se l’è chiesto ieri su L’Avvenire Francesco Tomatis, docente di Filosofia teoretica a Salerno. Passati in rassegna Lucrezio, Voltaire, Schelling, Tomatis approda al Nuovo Testamento. Cita il san Paolo della Lettera ai Romani e conclude: «Attraverso la caduta dell’uomo originario la natura stessa, non solo l’uomo, s’è staccata da Dio, divenendo violenta, feroce, mortale, anziché una presenza di Dio stesso in ogni creatura come nello stato paradisiaco». Ora il futuro, dice Tomatis, è nelle mani dell’uomo che con la sua libertà «può riconciliarsi con Dio, introducendo con sé in Dio anche tutta la natura».
Il tema, è ovvio, non riguarda solo la cristianità. Ma in un Paese di radicata cultura cattolica come l’Italia è un quesito comunissimo. Dice Brunetto Salvarani, docente di Pedagogia interculturale a Milano Bicocca, ma da anni impegnato in un’opera editoriale di «teologia narrativa»: «Come insegna il pensiero ebraico riferito alla tragedia dell’Olocausto, anche Dio si può "ritirare", contrarsi, lasciare spazio alla scelta dell’uomo. Lo ha fatto anche Cristo abbassandosi sul mondo e prendendo su di sé il male e il dolore. Ed eccoci a san Paolo: la creazione "soffre" con l’uomo. Viviamo nella limitazione, in una terra che sarà rinnovata. Per i cattolici la promessa è contenuta nell’Apocalisse, che promette cieli e terra nuovi: sono i nostri, trasformati alla fine dei tempo». Tutta colpa del peccato dell’uomo? «Attenzione al determinismo, non c’è un "determinato" peccato o cattivi da punire». Conferma Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose: «Certamente non esiste un Dio castigatore della cattiveria dell’uomo, sarebbe una autentica perversione. Invece la creazione, quindi questo universo, non sono perfetti ma in continuo divenire. Quindi possono provocare il male. È un autentico enigma, lo so bene, ma noi cristiani pensiamo che il travaglio si concluderà con la trasfigurazione alla fine dei tempi. Ovvero con la salvezza».
Cambiando fede, le risposte sono diverse. Si interroga Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane: «Mi viene in mente Caino quando grida di non essere il custode del fratello Abele. Di fatto chiede a Dio perché gli abbia permesso di ucciderlo e non chiede a se stesso perché lo abbia fatto». Arrivando alla tragedia dell’Asia? «Perché ci poniamo il dilemma solo di fronte alle catastrofi naturali e non quando l’uomo può intervenire? La natura ha le sue leggi e le sue regole. Tocca a noi conoscerle per vivere meglio. Chiediamoci, e qui torniamo a Caino, come mai nell’oceano Pacifico tra Giappone e Stati Uniti esistano sistemi di rilevazione che avrebbero permesso di limitare i danni e invece la povertà in Asia sia così grande da rendere impensabili gli investimenti in quel campo. E adesso non domandiamoci perché mai Dio permetta la povertà. La nostra posizione sarebbe troppo comoda».
Sostiene invece l’imam della moschea di Roma, Mahmoud Ibrahim Sheweita: «Il maremoto è un problema da scienziati. Ma è comunque visibile la mano di Dio che vuole mostrare al mondo la sua forza, la sua capacità divina e onnipotente. C’è scritto nel Corano a proposito della distruzione di Sodoma: è stato messo sopra ciò che stava sotto e sotto ciò che stava sopra». Quale è il segnale? «È l’aiuto reciproco tra gli uomini. Ora molte epidemie supereranno i confini delle zone colpite. Dio chiede collaborazione fraterna tra le genti. In molti paesi come la Thailandia o lo Sri Lanka esistono contrapposizioni interne: ora sono messe da parte. Anche questo è un segno di Dio».
La parola infine a Emanuele Severino, filosofo non laico e non religioso ma che affronta il piano in cui i due atteggiamenti si contrappongono: «L’esistenza stessa dell’uomo appare come follia e violenza non perché dominata dalla malvagità ma proprio dalla volontà. Ovvero: è la volontà in quanto tale a essere follia, errore, violenza. È l’orizzonte nel quale si trova a vivere da subito l’essere mortale». E le catastrofi? «Ci dimentichiamo che il cataclisma radicale è avvenuto all’inizio, cioè quando la volontà ha inteso trasformare il mondo, ottenendo un risultato per cui le cose sono altre da ciò che erano in origine». Quindi, sostiene Severino, siamo di fronte «alle manifestazioni di una catastrofe originaria della volontà. Penso al cataclisma asiatico così come al conflitto atomico».
Eppure, assicura il filosofo, siamo destinati alla gioia: «Non come il prodotto di un dio, di un salvatore, di un popolo. Ma è la necessità stessa delle cose che ci conduce nella follia così come ce ne fa uscire e ci porta alla gioia».
illuministi e catastrofi
Liberazione 29.12.04
QUANDO L'EUROPA DEI FILOSOFI FU SCOSSA DAL SISMA DI LISBONA. ERA IL 1755
Voltaire, Rousseau, Kant: un libro appena pubblicato raccoglie i loro scritti su quel disastro
di Tonino Bucci
A un solo anno di distanza dal grande sisma che sconvolse la città di Lisbona, nel 1755, uscì a Erfurt, in Germania, un singolare volume dal titolo Le più memorabili storie di terremoti a nome di un certo J. H. Nonnens. Più che per il contenuto il libro colpiva per l'immagine stampata in primo piano: tre figure umane indicate come l'americano, il moro e l'europeo, compaiono accanto a una grande carta geografica. Il terzo mostra con l'indice della mano sinistra il disegno della mappa, come a voler rimarcare la vastità degli effetti provocati dal sisma della capitale portoghese.
Già da questa immagine si comprende quanto il terremoto del 1755 fosse avvertito nella coscienza del tempo come una catastrofe epocale che coinvolgeva l'intero mondo conosciuto e da cui non si poteva distogliere lo sguardo.
I più importanti esponenti della filosofia dell'epoca si trovano a dover quadrare i conti, stretti come sono tra irl progetto illuministrico di una società e una storia felici, da un lato, e l'imprevedibilità di una natura esterna a quel progetto, dall'altro. Persino tre pietremiliari della filosofia moderna come Voltaire, Rousseau e Kant rimangono talmente impressionati dal cataclisma che aveva colpito Lisbona da farne tema di riflessione. Quale fu il dibattito del tempo lo racconta un volume recentemente apparso nel quale sono raccolti gli scritti in questione dei tre pensatori: Sulla catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro (introduzione e cura di Andrea Tagliapietra, edizioni Bruno Mondadori, pp. 152, euro 18,00).
Con il terremoto di Lisbona, per la prima volta un cataclisma di enorme portata colpiva un angolo d'Europa dove si trovava il centro di un immenso - sebbene già in via di decadenza - impero coloniale. I possedimenti della corona portoghese a metà del '700 si estendevano pur sempre su tre continenti, dal Brasile, in America del Sud, alla Guinea e all'Angola, in Africa, e attraverso il Mozambico fino a Macao e Timor, nell'estremo Oriente dell'Asia. Lisbona, capitale di questo sterminato regno, era con i suoi duecentosettantacinquemila abitanti la quarta città d'Europa per popolazione dopo Londra, Parigi e Napoli, e rappresentava il principale porto d'acccesso sul continente delle merci d'oltremare. La "percezione della vicinanza" - notava Benjamin nel 1931 in una trasmissione radiofonica - viene accentuata dallo sviluppo del sistema della stampa, oltre che dalla vasta area geografica scossa dal sisma, ben duemilioni e mezzo di chilometri quadrati e un violento spostamento delle acque dalla Finlandia all'Indonesia.
In questa cornice muta anche il significato del termine "catastrofe": se prima si riferiva al contesto della drammaturgia classica, nel senso di un cambiamento che giunge alla fine di un'azione e la porta a compimento, ora tende a coincidere con "l'annientamento". Ma "può essere vista anche come un brusco e repentino cambio di direzione, come quello sconvolgimento profondo che consente alla svolta di essere autenticamente radicale". Accanto al significato negativo si fa strada una chiave di lettura "politica", tipicamente moderna, che rompe con la concezione della storia come progresso lineare e la sostituisce con la coppia annientamento/trasformazione. Il terremoto di Lisbona è il luogo di nascita di questo sentimento d'instabilità, in altri termini della percezione della propria epoca come stato di crisi permanente. In quel "dramma archetipico" nasce "l'endiadi portentosa di progresso e catastrofe", poi lucidamente analizzata nel '900 da Benjamin nella sua lettura dell'Angelus Novus di Klee: "dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi".
E' da questa prospettiva, ad esempio, che Rousseau entra in polemica con Voltaire, autore - all'indomani del sisma - del Poema sul disastro di Lisbona, un vero e proprio manifesto del disincanto, della disperazione, del pessimismo. In maniera sorprendente il primo scende in difesa dell'ottimismo: "sembra voler dire a Voltaire - scrive Andrea Tagliapietra nell'introduzione - che i poveri non possono permettersi il pessimismo, che i deboli, i diseredati e gli infelici debbono già sopportare un carico di miseria e di privazioni fin troppo pensante per poter accogliere anche il fardello di una disperazione senza rimedio". L'autentica catastrofe non proviene dalla natura: non questa "aveva riunito in quel luogo - scrive Rousseau a Voltaire - ventimila case di sei o sette piani". Se "gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto". E' all'uomo, al particolare sviluppo storico della società, quindi che Rousseau imputa la radice della catastrofe. Con uno scarto politico il filosofo si distacca dal dibattito tradizionale della teodicea - tanto da coloro che con Leibniz giustificano il male come un dettaglio nell'armonia prestabilita del migliore dei mondi possibili, opera senz'altro di Dio, quanto da coloro che si abbandonano a un disincantato, amaro pessimismo verso l'incontrollabilità della natura. A loro contrappone la speranza nell'unica delle catastrofi a sfondo ottimistico, la rivoluzione.
In sintonia con le riflessioni rousseauiane si pongono anche i quattro scritti dedicati da Kant all'eco suscitata dal terremoto di Lisbona: l'ispirazione illuminista è palese quando il filosofo tedesco polemizza con l'uso superstizioso della catastrofe come spauracchio per indurre negli uomini una "cieca sottomissione". "Fra tutte le ragioni che muovono la pietà religiosa - scrive Kant - quelle che traggono spunto dai terremoti sono senza dubbio le più deboli". Anche qui il distacco dalle discussionsi teologiche è evidente: al loro posto già si intravede negli scritti kantiani un reticolo di spiegazioni scientifiche e dati empirici, accompagnate dall'accusa nei confronti delle responsabilità dell'uomo - città costruite in luoghi a rischio, soluzioni urbanistiche che amplificano gli effetti dei sismi. La traiettoria dell'Illuminismo è così tracciata tra due fuochi: la scienza da un lato e la politica dall'altro come chiavi d'interpretazione del mondo.
QUANDO L'EUROPA DEI FILOSOFI FU SCOSSA DAL SISMA DI LISBONA. ERA IL 1755
Voltaire, Rousseau, Kant: un libro appena pubblicato raccoglie i loro scritti su quel disastro
di Tonino Bucci
A un solo anno di distanza dal grande sisma che sconvolse la città di Lisbona, nel 1755, uscì a Erfurt, in Germania, un singolare volume dal titolo Le più memorabili storie di terremoti a nome di un certo J. H. Nonnens. Più che per il contenuto il libro colpiva per l'immagine stampata in primo piano: tre figure umane indicate come l'americano, il moro e l'europeo, compaiono accanto a una grande carta geografica. Il terzo mostra con l'indice della mano sinistra il disegno della mappa, come a voler rimarcare la vastità degli effetti provocati dal sisma della capitale portoghese.
Già da questa immagine si comprende quanto il terremoto del 1755 fosse avvertito nella coscienza del tempo come una catastrofe epocale che coinvolgeva l'intero mondo conosciuto e da cui non si poteva distogliere lo sguardo.
I più importanti esponenti della filosofia dell'epoca si trovano a dover quadrare i conti, stretti come sono tra irl progetto illuministrico di una società e una storia felici, da un lato, e l'imprevedibilità di una natura esterna a quel progetto, dall'altro. Persino tre pietremiliari della filosofia moderna come Voltaire, Rousseau e Kant rimangono talmente impressionati dal cataclisma che aveva colpito Lisbona da farne tema di riflessione. Quale fu il dibattito del tempo lo racconta un volume recentemente apparso nel quale sono raccolti gli scritti in questione dei tre pensatori: Sulla catastrofe. L'illuminismo e la filosofia del disastro (introduzione e cura di Andrea Tagliapietra, edizioni Bruno Mondadori, pp. 152, euro 18,00).
Con il terremoto di Lisbona, per la prima volta un cataclisma di enorme portata colpiva un angolo d'Europa dove si trovava il centro di un immenso - sebbene già in via di decadenza - impero coloniale. I possedimenti della corona portoghese a metà del '700 si estendevano pur sempre su tre continenti, dal Brasile, in America del Sud, alla Guinea e all'Angola, in Africa, e attraverso il Mozambico fino a Macao e Timor, nell'estremo Oriente dell'Asia. Lisbona, capitale di questo sterminato regno, era con i suoi duecentosettantacinquemila abitanti la quarta città d'Europa per popolazione dopo Londra, Parigi e Napoli, e rappresentava il principale porto d'acccesso sul continente delle merci d'oltremare. La "percezione della vicinanza" - notava Benjamin nel 1931 in una trasmissione radiofonica - viene accentuata dallo sviluppo del sistema della stampa, oltre che dalla vasta area geografica scossa dal sisma, ben duemilioni e mezzo di chilometri quadrati e un violento spostamento delle acque dalla Finlandia all'Indonesia.
In questa cornice muta anche il significato del termine "catastrofe": se prima si riferiva al contesto della drammaturgia classica, nel senso di un cambiamento che giunge alla fine di un'azione e la porta a compimento, ora tende a coincidere con "l'annientamento". Ma "può essere vista anche come un brusco e repentino cambio di direzione, come quello sconvolgimento profondo che consente alla svolta di essere autenticamente radicale". Accanto al significato negativo si fa strada una chiave di lettura "politica", tipicamente moderna, che rompe con la concezione della storia come progresso lineare e la sostituisce con la coppia annientamento/trasformazione. Il terremoto di Lisbona è il luogo di nascita di questo sentimento d'instabilità, in altri termini della percezione della propria epoca come stato di crisi permanente. In quel "dramma archetipico" nasce "l'endiadi portentosa di progresso e catastrofe", poi lucidamente analizzata nel '900 da Benjamin nella sua lettura dell'Angelus Novus di Klee: "dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi".
E' da questa prospettiva, ad esempio, che Rousseau entra in polemica con Voltaire, autore - all'indomani del sisma - del Poema sul disastro di Lisbona, un vero e proprio manifesto del disincanto, della disperazione, del pessimismo. In maniera sorprendente il primo scende in difesa dell'ottimismo: "sembra voler dire a Voltaire - scrive Andrea Tagliapietra nell'introduzione - che i poveri non possono permettersi il pessimismo, che i deboli, i diseredati e gli infelici debbono già sopportare un carico di miseria e di privazioni fin troppo pensante per poter accogliere anche il fardello di una disperazione senza rimedio". L'autentica catastrofe non proviene dalla natura: non questa "aveva riunito in quel luogo - scrive Rousseau a Voltaire - ventimila case di sei o sette piani". Se "gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto". E' all'uomo, al particolare sviluppo storico della società, quindi che Rousseau imputa la radice della catastrofe. Con uno scarto politico il filosofo si distacca dal dibattito tradizionale della teodicea - tanto da coloro che con Leibniz giustificano il male come un dettaglio nell'armonia prestabilita del migliore dei mondi possibili, opera senz'altro di Dio, quanto da coloro che si abbandonano a un disincantato, amaro pessimismo verso l'incontrollabilità della natura. A loro contrappone la speranza nell'unica delle catastrofi a sfondo ottimistico, la rivoluzione.
In sintonia con le riflessioni rousseauiane si pongono anche i quattro scritti dedicati da Kant all'eco suscitata dal terremoto di Lisbona: l'ispirazione illuminista è palese quando il filosofo tedesco polemizza con l'uso superstizioso della catastrofe come spauracchio per indurre negli uomini una "cieca sottomissione". "Fra tutte le ragioni che muovono la pietà religiosa - scrive Kant - quelle che traggono spunto dai terremoti sono senza dubbio le più deboli". Anche qui il distacco dalle discussionsi teologiche è evidente: al loro posto già si intravede negli scritti kantiani un reticolo di spiegazioni scientifiche e dati empirici, accompagnate dall'accusa nei confronti delle responsabilità dell'uomo - città costruite in luoghi a rischio, soluzioni urbanistiche che amplificano gli effetti dei sismi. La traiettoria dell'Illuminismo è così tracciata tra due fuochi: la scienza da un lato e la politica dall'altro come chiavi d'interpretazione del mondo.
la condanna dei Templari
continua la ricerca sull'antico regolamento di conti tra cristiani
Il Tempo 29.12.04
Documenti inediti dall’Archivio Vaticano. Parla Barbara Frale
di CARMINE MASTROIANNI
LA SERA del 18 marzo del 1314 una fiamma alta ardeva nel cuore di Parigi. Su una pira bruciavano Jacques de Molay e Geoffroy de Charney, rispettivamente il Gran Maestro dei Templari e il Precettore del Tempio della Normandia. Con la loro morte finiva per sempre anche il più misterioso e potente ordine cavalleresco della cristianità. Dopo la storia nasceva il mito.
«Pochi sanno che ad assistere al rogo del Gran Maestro de Molay vi era anche un italiano, il mercante Boccaccino di Chelino, il padre di Giovanni Boccaccio, che si trovava nella capitale francese per affari. Tornato in Italia raccontò l'accaduto in famiglia biasimando "il gesto infame" compiuto dal re Filippo il Bello. L'episodio è narrato da Boccaccio nel De casibus virorum illustrium, un'operetta scritta in latino pressoché dimenticata».
A parlare è Barbara Frale, medievista e Ufficiale dell'Archivio Segreto Vaticano, una delle poche studiose che può svelarci i veri misteri che ancora si celano dietro la storia dei «cavalieri rossi». Frale cita le parole dell’autore del Decamerone, dedicate al maestro dei Templari giustiziato a Parigi: «Iacopo col fratello del Delfino fu condotto all’istesso supplizio che soffersero gli altri. Il quale ambedue con intrepido e costante cuore in presenza del re sopportarono, né niente altro mai dissero, finché a loro bastarono i forti spiriti...Così diceva Boccaccio, padre mio...».
Dottoressa Frale, quali sono le novità sui Templari?
«Posso anticiparle che stiamo studiando nuovi documenti in collaborazione con lo storico francese Alain Demurger. Abbiamo ritrovato i fascicoli di un processo antitemplare celebrato sotto l'egida di frate Bernardo Gui, l’inquisitore dominicano reso famoso da Umberto Eco ne "Il nome della Rosa". Si tratta di un processo di stregoneria in piena regola con tanto di maghi, pozioni e gatti neri».
Recentemente si è romanzato molto sui Templari, soprattutto circa i loro presunti rapporti con il mitico Graal. Ma cosa c'è di vero?
«Il "mistero" a cui gli studiosi stanno lavorando riguarda una celebrazione eucaristica che i Templari tenevano la sera del Giovedì Santo e durante la quale bevevano del vino inteso come sangue mistico. Il rito è talmente strano da non avere alcun riscontro né nella liturgia cristiana né in quella bizantina. Nessuno studioso di simbologia ha saputo darmi una spiegazione, l'unica cosa abbastanza certa e sconvolgente è che tale pratica rituale risalirebbe al primo periodo del cristianesimo, cioè mille anni prima della fondazione dell'Ordine templare».
Nel suo libro sui Templari, edito dal Mulino, non si fa cenno a Napoleone Bonaparte. Eppure si parla di un oscuro rapporto tra il còrso e i cavalieri dalla croce rossa.
«Non affronto l'argomento perché riguarda più la storia contemporanea che non quella medievale. Posso dirle tuttavia che non tanto Napoleone, ma i suoi generali ebbero interesse per i Templari».
In che senso?
«Quando nel 1809 i francesi occuparono Roma, saccheggiarono non soltanto i tesori ma anche i documenti custoditi nel Vaticano. I Marescialli di Francia dimostrarono una particolare predilezione per le pergamene che riguardavano l'Ordine del Tempio, tanto da trascurare degli atti pontificali assai più importanti e preziosi come le preziose bolle d'oro».
È noto che i più potenti graduati dell'esercito napoleonico facevano parte della massoneria, e si è sempre sostenuto che i Templari siano sopravvissuti al 1314...
«I segreti della massoneria sono imperscrutabili. I Templari avevano delle commende disseminate dal Portogallo all'Armenia, dalla Scozia alla Sicilia, eppure all'atto della sospensione dell'Ordine erano conosciuti i nomi di appena un migliaio di cavalieri. Questo è il mistero che noi medievisti dobbiamo svelare. Quanto ai Templari soppressi nel Trecento, scartabellando fra le pergamene dell'Archivio Vaticano, proprio quelle trafugate dai francesi, ho trovato delle notizie sorprendenti che dimostrano come papa Clemente V credesse nell'innocenza dei cavalieri templari. Fra quei documenti infatti c'era anche la bolla emanata dal pontefice nel concilio di Vienne del 1312».
Quella che abolì l'Ordine.
«Non esattamente, e questa è stata una grande sorpresa. Quel decreto sospendeva l'Ordine del Tempio, ma con una sentenza non definitiva motivata oltretutto da cause di forza maggiore. La particolarità di quel singolare atto giuridico è che da settecento anni è ancora in vigore e se un pontefice volesse, potrebbe revocarlo».
Visto che solamente un papa avrebbe la potestas di ricostituire l'Ordine del Tempio, chi sono i tanti templari esistenti oggi in Italia e nel mondo?
«Falsi epigoni, nostalgici che si fregiano di un nome e di simboli dei quali più nessuno possiede il copyright. Altri invece fanno parte di associazioni serie, ma non hanno più nulla a che vedere con i Cavalieri di Gerusalemme. Anzi, nella bolla di Clemente V si minacciava di scomunica chiunque avesse ricostituito o utilizzato i simboli dell'Ordine».
Documenti inediti dall’Archivio Vaticano. Parla Barbara Frale
di CARMINE MASTROIANNI
LA SERA del 18 marzo del 1314 una fiamma alta ardeva nel cuore di Parigi. Su una pira bruciavano Jacques de Molay e Geoffroy de Charney, rispettivamente il Gran Maestro dei Templari e il Precettore del Tempio della Normandia. Con la loro morte finiva per sempre anche il più misterioso e potente ordine cavalleresco della cristianità. Dopo la storia nasceva il mito.
«Pochi sanno che ad assistere al rogo del Gran Maestro de Molay vi era anche un italiano, il mercante Boccaccino di Chelino, il padre di Giovanni Boccaccio, che si trovava nella capitale francese per affari. Tornato in Italia raccontò l'accaduto in famiglia biasimando "il gesto infame" compiuto dal re Filippo il Bello. L'episodio è narrato da Boccaccio nel De casibus virorum illustrium, un'operetta scritta in latino pressoché dimenticata».
A parlare è Barbara Frale, medievista e Ufficiale dell'Archivio Segreto Vaticano, una delle poche studiose che può svelarci i veri misteri che ancora si celano dietro la storia dei «cavalieri rossi». Frale cita le parole dell’autore del Decamerone, dedicate al maestro dei Templari giustiziato a Parigi: «Iacopo col fratello del Delfino fu condotto all’istesso supplizio che soffersero gli altri. Il quale ambedue con intrepido e costante cuore in presenza del re sopportarono, né niente altro mai dissero, finché a loro bastarono i forti spiriti...Così diceva Boccaccio, padre mio...».
Dottoressa Frale, quali sono le novità sui Templari?
«Posso anticiparle che stiamo studiando nuovi documenti in collaborazione con lo storico francese Alain Demurger. Abbiamo ritrovato i fascicoli di un processo antitemplare celebrato sotto l'egida di frate Bernardo Gui, l’inquisitore dominicano reso famoso da Umberto Eco ne "Il nome della Rosa". Si tratta di un processo di stregoneria in piena regola con tanto di maghi, pozioni e gatti neri».
Recentemente si è romanzato molto sui Templari, soprattutto circa i loro presunti rapporti con il mitico Graal. Ma cosa c'è di vero?
«Il "mistero" a cui gli studiosi stanno lavorando riguarda una celebrazione eucaristica che i Templari tenevano la sera del Giovedì Santo e durante la quale bevevano del vino inteso come sangue mistico. Il rito è talmente strano da non avere alcun riscontro né nella liturgia cristiana né in quella bizantina. Nessuno studioso di simbologia ha saputo darmi una spiegazione, l'unica cosa abbastanza certa e sconvolgente è che tale pratica rituale risalirebbe al primo periodo del cristianesimo, cioè mille anni prima della fondazione dell'Ordine templare».
Nel suo libro sui Templari, edito dal Mulino, non si fa cenno a Napoleone Bonaparte. Eppure si parla di un oscuro rapporto tra il còrso e i cavalieri dalla croce rossa.
«Non affronto l'argomento perché riguarda più la storia contemporanea che non quella medievale. Posso dirle tuttavia che non tanto Napoleone, ma i suoi generali ebbero interesse per i Templari».
In che senso?
«Quando nel 1809 i francesi occuparono Roma, saccheggiarono non soltanto i tesori ma anche i documenti custoditi nel Vaticano. I Marescialli di Francia dimostrarono una particolare predilezione per le pergamene che riguardavano l'Ordine del Tempio, tanto da trascurare degli atti pontificali assai più importanti e preziosi come le preziose bolle d'oro».
È noto che i più potenti graduati dell'esercito napoleonico facevano parte della massoneria, e si è sempre sostenuto che i Templari siano sopravvissuti al 1314...
«I segreti della massoneria sono imperscrutabili. I Templari avevano delle commende disseminate dal Portogallo all'Armenia, dalla Scozia alla Sicilia, eppure all'atto della sospensione dell'Ordine erano conosciuti i nomi di appena un migliaio di cavalieri. Questo è il mistero che noi medievisti dobbiamo svelare. Quanto ai Templari soppressi nel Trecento, scartabellando fra le pergamene dell'Archivio Vaticano, proprio quelle trafugate dai francesi, ho trovato delle notizie sorprendenti che dimostrano come papa Clemente V credesse nell'innocenza dei cavalieri templari. Fra quei documenti infatti c'era anche la bolla emanata dal pontefice nel concilio di Vienne del 1312».
Quella che abolì l'Ordine.
«Non esattamente, e questa è stata una grande sorpresa. Quel decreto sospendeva l'Ordine del Tempio, ma con una sentenza non definitiva motivata oltretutto da cause di forza maggiore. La particolarità di quel singolare atto giuridico è che da settecento anni è ancora in vigore e se un pontefice volesse, potrebbe revocarlo».
Visto che solamente un papa avrebbe la potestas di ricostituire l'Ordine del Tempio, chi sono i tanti templari esistenti oggi in Italia e nel mondo?
«Falsi epigoni, nostalgici che si fregiano di un nome e di simboli dei quali più nessuno possiede il copyright. Altri invece fanno parte di associazioni serie, ma non hanno più nulla a che vedere con i Cavalieri di Gerusalemme. Anzi, nella bolla di Clemente V si minacciava di scomunica chiunque avesse ricostituito o utilizzato i simboli dell'Ordine».
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