giovedì 3 febbraio 2005

ricerca USA sulla depressione
attàccati a una macchinetta... e vai!

REUTERS
Salute: ok Usa a un elettrostimolatore anti-depressione Cyberonics
Thu February 3, 2005 10:30 AM GMT


LOS ANGELES (Reuters) - Le autorità competenti in Usa hanno approvato in modo condizionale la richiesta di Cyberonics Inc. di vendere un dispositivo impiantabile per curare la depressione cronica.
Lo ha detto ieri l'azienda, le cui azioni sono cresciute del 27% nelle transazioni notturne.
Cyberonics, che ha sede a Houston, ha detto di aspettare per maggio la piena approvazione da parte della Food and Drug Administration Usa.
Il sistema di terapia Vns è un dispositivo simile a una pace-maker che si impianta nel torace e invia impulsi elettrici al cervello attraverso un elettrodo collegato con un nervo del collo. Cyberonics vende già il marchingegno per il trattamento dell'epilessia, per ridurre la frequenza degli attacchi.
Costa circa 20.000 dollari, comprensivi delle spese chirurgiche e di degenza, ha detto il l'amministratore delegato di Cyberonics, Skip Cummins.
La Fda ha detto che l'approvazione finale dipenderà dall'etichettatura finale, da protocolli per uno studio sul dosaggio come pure dalla risoluzione di questioni cliniche e legate alla produzione.
"Le condizioni sono chiare. Stiamo facendo buoni progressi nella risoluzione dei problemi", ha detto Cummins.
Il dispositivo Vns è l'unico prodotto venduto da Cyberonics. Le vendite annuali si aggirano intorno ai 110 milioni di dollari. Alcuni analisti prevedono che il mercato del trattamento della depressione -- secondo le stime circa 4.4 milioni di americani soffrono di depressione resistente alle cure -- sarebbe circa 10 volte più maggiore di quello per l'epilessia.

parade

repubblica.it/supplementi/salute 3 gennaio 2005
Depressione, serve una diagnosi precoce
Convegno a Roma su "trattamento e servizio pubblico": come creare una rete di pronto intervento
di Anna Rita Cillis


Il buio dell'anima, il male oscuro; modi di dire per siglare la depressione. Un disturbo più diffuso di quanto si pensi e più nascosto di quanto si creda. Nel nostro Paese circa 5 milioni di persone sono strette nella rete di questa malattia che lungo il suo cammino, se non accuratamente individuata e prontamente curata, trascina lentamente verso il basso. "E' una malattia invalidante: molti perdono la voglia di vivere prima e poi gli amici, il lavoro, una situazione che porta anche a un impoverimento economico e a farne le spese sono spesso i meno abbienti", spiega lo psichiatra Antonio Picano, responsabile dell'ambulatorio depressione e malattie correlate dell'Ospedale San Camillo di Roma e presidente dell'associazione Strade Onlus (www.strade-onlus.it), una realtà senza scopo di lucro organizzatrice del convegno Trattamento della depressione e servizio pubblico.
Un appuntamento che si è tenuto a Roma recentemente e che ha evidenziato, tra le altre cose, come una diagnosi precoce possa riportare serenità nella vita di molti.
Un compito, secondo lo psichiatra che dovrebbero assolvere le strutture sanitarie pubbliche. In Italia due depressi su tre non sanno di esserlo e quindi non accedono ad alcun tipo di cura. Ma spesso finiscono nelle sale dei pronto soccorso dove, dopo una visita (i sintomi lamentati vanno dai dolori al torace e alla schiena, all'ansia, al battito accelerato del cuore fino a quelli di tipo gastrointestimale) vengono rimandati a casa. E il calvario, passati pochi giorni, ricomincia di nuovo. Ed è qui che Strade Onlus chiede che l'intervento dei servizi pubblici venga trasformato in direzione della depressione grazie a un rete che metta in contatto medici del pronto soccorso con strutture adeguate .
"Il 12 per cento dei pazienti visitati al pronto soccorso del San Camillo e rimandati a casa", spiega Picano "dovrebbe essere valutato subito per escludere o confermare qualsiasi forma depressiva". Ma spesso a non rivolgersi al servizio nazionale sono proprio i malati. Su 400mila pazienti presi in carico dai servizi pubblici, 130mila sono depressi, il resto ha altri disturbi psichici.
E a rafforzare il credo del dottor Picano ci sono anche le analisi del professor Luca Pani, dirigente ricerca Cnr Cagliari.
"Riconoscere e curare precocemente la depressione è indispensabile", racconta Pani, "recenti ricerche hanno provato il rischio di modificazioni cerebrali potenzialmente irreversibili se l'intervento non è tempestivo, le strutture pubbliche non possono restare inattive di fronte a questa emergenza sociale".
E la "ricetta" per i partecipanti al convegno è semplice: una rete di servizi pubblici, farmaci nelle giuste dosi, quando necessario una psicoterapia, e attività fisica.

Strategie per il disturbo bipolare
Umore "up and down": la terapia con il litio non basta


La tendenza è un esordio, fino a qualche anno fa caratteristico dell'età giovanile, anticipato agli anni dell'adolescenza (10%). Con fasi alterne di "alti" e "bassi" e ricadute che punteggiano la vita di chi è affetto da sindrome maniaco-depressiva, patologia che tra qualche anno rappresenterà la prima causa di invalidità civile nel mondo occidentale come già accade in Finlandia.
Disturbo cosiddetto "bipolare" che nella forma maniacale, di ipereccitazione colpisce l'1,5% della popolazione e il 6-10% nella forma depressiva. Disturbo che sembra prediligere le persone vitali e piene di energia e del quale oggi si conoscono le molteplici sfaccettature tanto che la psichiatria anglosassone ha coniato il termine "spettro bipolare" che include forme leggere a guarigione spontanea fino a quelle gravissime, invalidanti e malcurate che sono purtroppo la maggioranza. "Nonostante i progressi in campo farmacologico, molti di questi malati anche quelli che curiamo continuano a star male", afferma il neuropsichiatra Athanasio Koukoupulos del Centro Bini di Roma, "infatti, il 20% dei pazienti va incontro a ricadute, un altro 20% sta sempre male".
Gli psichiatri s'interrogano sui fallimenti terapeutici del malato bipolare. Il litio resta il farmaco d'elezione ma non basta. "E' la strategia complessiva che andrebbe cambiata", spiega ancora Koukoupulos "spesso con le cure si cerca di far uscire la persona dalla fase depressiva e a volte la tiriamo troppo su senza considerare che alla fase di eccitazione segue sempre una fase depressiva. La terapia invece dovrebbe avere l'obiettivo di stabilizzare l'umore o tentare di stabilizzare. Inoltre i malati si autoconvincono che non guariranno mai e questo ovviamente non favorisce la ripresa. In questi casi i farmaci non bastano, è indispensabile un costante dialogo".

Yahoo!Salute giovedì 3 febbraio 2005,
La depressione influenza le cure contro l'epatite
Il Pensiero Scientifico Editore


La depressione è alleata dell’epatite C perché rende molto meno efficaci le cure contro questa malattia. Lo sostiene uno studio pubblicato sulla rivista Brain, Behavior and Immunity. Secondo le ricerche condotte dal Dipartimento di psichiatria e scienze comportamentali dell'Emory University School of Medicine, il trattamento anti-epatite C in pazienti che sviluppano forme di depressione era significativamente meno efficace nell'eliminare il virus dal sangue a sei mesi dal trattamento.
L'epatite C è una malattia virale che contagia dai tre ai cinque milioni di persone solo in America ed è la più importante causa di trapianto di fegato. L’infezione infatti porta a una malattia cronica che alla lunga può danneggiare irrimediabilmente l’organo. La cura per questa patologia epatica, a base di interferone-alfa-2b e ribavirina, ha una percentuale di successo che solitamente si aggira intorno al 40-50 per cento. Sfortunatamente, tuttavia, l'interferone alfa e la ribavirina sono responsabili di un'alta percentuale di effetti collaterali a livello psichico, che da tempo erano stati individuati come un impedimento al buon esito della cura.
Sinora però si riteneva che il fallimento dei farmaci fosse imputabile al peggioramento generale della qualità della vita del paziente in depressione. Molti esperti pensavano cioè che il malato, depresso, fosse più incline a smettere di assumere le medicine e che la scarsa aderenza alle terapie rendesse impossibile la guarigione. I nuovi risultati però, secondo l’autore dello studio Steven Douglas, suggeriscono invece che il problema non sta nell’aderenza alle cure: anche quando un paziente depresso si sottopone regolarmente alle cure, la sua probabilità di guarigione è di gran lunga inferiore a quella di un paziente non depresso. Nella ricerca gli esperti hanno preso in esame 103 casi di pazienti che ricevevano interferone-alfa-2b e ribavirina. Tutti i pazienti sono stati sottoposti a indagini psichiatriche, prima, durante e dopo la cura e gli esperti si sono assicurati che tutti assumessero le medicine.
Così è emerso che, mentre solo il 34 per cento dei pazienti che hanno manifestato segni depressivi evidenti è guarito, il 59-69 per cento di pazienti che hanno mostrato segni meno evidenti di depressione si è giovato del successo delle terapie. Questi risultati dimostrano la necessità di tenere sotto controllo il paziente con epatite C sia sotto il profilo medico che psichico ed eventualmente la necessità di un supporto psicologico nel caso alla terapia faccia seguito il manifestarsi di una evidente sintomatologia depressiva.
Fonte: Douglas SD et al. Hepatitis C, depressive symptoms, viral load, and therapy: interactions and reactions. Brain, Behavior and Immunity 2005; 19:20-2

farmacia.it 03 Febbraio 2005 - 09:23
DEPRESSIONE, PALESTRA RIDUCE 50% SINTOMI NON GRAVI


La depressione si può curare in palestra con risultati comparabili a quelli offerti da terapie farmacologiche e cognitive. Infatti uno studio condotto su pazienti dalla University of Texas Southwestern Medical Center di Dallas, pubblicato sul Journal of Preventive Medicine ha dimostrato che in individui con depressione non grave tra i 20 e i 45 anni i sintomi depressivi si riducono quasi del 50 per cento partecipando a 30 minuti di ginnastica aerobica 3-5 volte a settimana.
''L'effetto prodotto dall'attivita' fisica da sola nel trattamento della depressione clinica - ha dichiarato il coordinatore dello studio Madhukar Trivedi - è simile a quello offerto dagli antidepressivi e la chiave del successo della ginnastica sta nell'intensità degli esercizi svolti, non è certo una terapia per deboli di cuore''.

Marco Bellocchio
il set a Bagheria

LaSicilia.it 3.2.05
Bagheria
Bellocchio e Castellitto gireranno
nel salone di Villa Palagonia
di Giuseppe Fumia

A fine mese avranno inizio a Villa Palagonia e a Villa Inguaggiato, le riprese di un film di Marco Bellocchio. Sulla trama (il primo ciak sarà dato a Roma il 14 febbraio) tutti abbottonatissimi. Siamo riusciti tuttavia a sapere che il protagonista sarà Sergio Castellitto, già diretto da Bellocchio ne "L'ora di religione" del 2002. Interpreterà il personaggio di un principe francese decaduto che ha sperperato in donne e gioco tutti i suoi averi ed è alle prese con una crisi esistenziale. A tal proposito, il famoso salone degli specchi di Villa Palagonia, oggi completamente spoglio e con alle pareti soltanto i busti in marmo degli antenati, resterà vuoto e sarà lo specchio fedele della solitudine del protagonista. Per il ruolo femminile sono stati fatti svariati provini, ancora senza esito. Si tratterà comunque di una giovane attrice.

sinistra
un'intervista di Fausto Bertinotti sul Corsera

Corriere della Sera 3.2.05
Il leader del Prc: non voglio distruggerli, ma tra noi ci sono confini mobili
«La Quercia? Metodi da Dc. No a un loro vicepremier»
Bertinotti: c’è la Fed, questo sarà l’ultimo congresso ds
di Massimo Franco


ROMA - Boccia l’accoppiata fra Prodi e un diessino a palazzo Chigi. Prevede che oggi si apra a Roma l’ultimo congresso dei Ds. Annuncia un futuro con due sinistre alleate ma in competizione. E giura che lui, Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, non ha come obiettivo «delenda Carthago», e cioè la distruzione dei Ds. Ma non gli piace la «tentazione diessina a occupare tutta l’opposizione», con metodi da «vecchia Dc» . Comincia l’ultimo congresso dei Ds?
«Sì. Mi pare la tappa di un cammino magari non lineare, ma che ha come elemento prevalente la spinta verso la costruzione di un soggetto politico forte: una federazione che tendenzialmente si configura come un partito».
Lei ne farà parte, magari nel segno di Romano Prodi?
«Penso proprio di no. È un’ipotesi spiazzata dai processi in atto in tutta Europa. Ormai nascono forze che possiamo definire di sinistra radicale in diversi Paesi. E non più come avveniva nel dopoguerra, e neppure dopo la caduta del Muro di Berlino. Allora c’era l’Internazionale dei partiti socialisti e ciò che resisteva dei partiti comunisti. Oggi in Germania, Portogallo, Gran Bretagna, e qui in Italia, è in atto un’evoluzione di questi partiti. Il vero spartiacque è la nascita dei movimenti».
Non vale anche per il partito di Fassino?
«Direi di no. La linea di tendenza dei diessini è un soggetto federativo dotato di autorità forte, con una delega anche sulla politica internazionale. Ma bisogna ricordare che è sulla politica internazionale che nel movimento operaio sono avvenute scissioni e unificazioni: è un elemento fondativo. Per noi, tutto cominciò con il voto differenziato in Parlamento sulla prima guerra del Golfo, nel 1991: un voto che anticipò la rottura».
Prc nasce dopo il congresso nel quale il Pci cambiò nome, nel 1991. In seguito, i Ds sono stati accusati di avere favorito la scissione subìta dal suo partito. Può rassicurare Fassino che lei non cova vendette?
«Verso i Ds la mia non è una strategia da «delenda Carthago», non voglio distruggere niente. Dico solo che in Europa esistono da tempo due sinistre; e che questa realtà non ha come confine l’appartenenza ai Ds: sarebbe una visione statica e sbagliata».
L’impressione, segretario, è che la Cartagine diessina lei non voglia distruggerla, ma magari svuotarla.
«La storia delle due sinistre comincia al G8 di Genova. Da allora, c’è un ridislocarsi di forze che spostano lo spartiacque, lo rendono mobile. Non voglio distruggere i Ds, anzi. Ma le due sinistre si debbono liberare da uno dei paradigmi del Novecento: quello secondo il quale l’altro è o traditore, o provocatore. Al fondo, ha resistito la logica del "mors tua vita mea". La sinistra italiana non si è ancora emancipata del tutto da quel vizio antico».
Ma quando lei parla di un nuovo contenitore per la sinistra antagonista, pensa anche a pezzi dei ds?
«La risposta è impraticabile. Se rispondo sì, darei l’idea di una pulsione scissionista. Se dico no, sembrerei indifferente».
Provi a essere sincero.
«E allora rispondo: non lo so. Mussi ha detto - cito a memoria e potrei sbagliare - : "Se fosse quel tipo di partito, non ci starei". Dunque, non lo auspico. Auspico lo spostamento a sinistra dei Ds».
Saprà che Liberazione, quotidiano del Prc, paragona i Ds alla vecchia Dc. Dice che inseguono la centralità ed evitano di scegliere le scelte. Non è ingeneroso, come giudizio?
«Intanto, alla luce della Seconda Repubblica, i giudizi sulla vecchia Dc sottolineano che di quell’esperienza non tutto è da buttare, anzi».
Quello di Liberazione non sembrava un complimento.
«Credo sia vera una cosa: che i Ds spesso covano la tentazione di occupare lo spettro più ampio possibile nel campo dell’opposizione. E assumono una configurazione politica nella quale la discriminante programmatica è così sfumata da consentire diverse politiche. Hanno puntato a rivitalizzare il partito: operazione riuscita. Ma hanno ridefinito il campo riformista invece del profilo del riformismo. I diessini sono forti, grandi, ma è difficile dire quale sia il loro progetto di società. Questo fa emergere propensioni di una formazione liberale di sinistra, non di un partito riformatore».
Questo magari è un complimento.
«Magari per qualcuno di loro lo è. Ma la mia impressione è che i Ds seguano una scia da Anni 80 e 90 del secolo scorso, e non si confrontino con i problemi nuovi posti dal Terzo millennio».
Secondo certi suoi oppositori di Prc, anche lei è un po’ democristiano.
«Touché . In alcune cose, come sull’esigenza di ricostituire l’Iri, posso dire di essere un po’ democristiano: in quanto antiliberista, sì, lo sono. Ma in questo schema, invece, a mancare sono i Ds. Non ci stanno perché hanno subìto l’idea che per liberarsi dal bagaglio comunista bisogna approdare a ciò che il comunismo ha avversato, e cioè il mercato. Attenti, però: o col mercato fai i conti criticamente, o non esisti».
Non crede che anche sull’Iraq la vostra unità apparente sia un po’ una soluzione alla democristiana, con l’Onu come alibi?
«Non direi. Certo, riconosco che quella posizione non ha tutti i crismi della nitidezza. Ma ha il merito di essere una proposta aperta. Indica un’esigenza primaria: mettere fine alla guerra e far ritirare truppe».
Non è una risposta un po’ parziale?
«Forse. Ma dinamica, non si ferma al presente».
È evasiva. Glissa sulla data del ritiro delle truppe, e tace le divergenze sulle elezioni irachene.
«La data del ritiro non si cancella: ma nella gerarchia delle priorità si mette al primo posto l’essere tutti contro la guerra. E poi - so che non piace ricordarlo -, l’opposizione ha già votato il ritiro delle nostre truppe. Quanto alle elezioni irachene, la discussione è aperta. Solo nella sinistra alternativa ci sono tre opinioni diverse. È un campo di ricerca. Guardo con rispetto a chi ha preso la scheda malgrado la guerra».
Il governo Allawi è legittimato dal voto?
«Legittimato dal voto no. Non lo dico solo io: è opinione diffusa che ciò che è emerso dal voto non sia democrazia. Oltre alla guerra, pesa l’astensione dei sunniti».
Presenterete la mozione per il ritiro immediato o no?
«Già l’altra volta è stata presentata la mozione con il ritiro, che non era definito immediato. Si tratta di riproporre quella mozione».
Inutile chiederle se si candiderà alle primarie. Ma lei si sentirebbe più garantito se un diessino affiancasse Prodi come vicepremier?
«Non credo che un diessino sposterebbe molto. In sé, il cosiddetto ticket non è una garanzia. Non mi convincerebbe nemmeno Bertinotti. E poi, o i Ds scelgono di essere un elemento dialettico rispetto alla componente moderata, oppure scelgono di essere interni alla Federazione: ma in questo secondo caso non capirei la figura di un loro candidato vicepremier».

APCOM 3.2.05 - 14:35
"Sicuro di portare tutto il partito su questa posizione"


Roma, 3 feb. (Apcom) - "Il passaggio del Governo per Rifondazione è obbligatorio in un paese governato da Berlusconi". Lo sottolinea il segretario del Prc Fausto Bertinotti in un'intervista all'Espresso, in edicola domani. In vista del sesto congresso nazionale a marzo, il segretario del Prc si dice "certo di portare tutto il partito su questa posizione perché non cambia la nostra priorità: il cambiamento della società".
Con i Ds "siamo alleati impegnativi - dice Bertinotti -. Le discriminanti programmatiche sono la nostra stella polare. Non siamo il residuo di un'altra storia per cui stare al governo o la presa del palazzo di inverno era un valore in sé. Andare al governo non sostituisce il nostro obiettivo: il cambiamento della società".
Bertinotti non si esprime alla domanda se questo sarà il suo ultimo congresso da leader. "Ho il dovere morale di non fare annunci prima del congresso. Ma non è vero che nella direzione politica l'età sia irrilevante. Ci sono leggi fisiche alle quali non voglio sottrarmi. Anzi, intendo assecondarle". Del resto, continua il segretario di Rifondazione, "a Palermo, a Napoli, a Firenze, in Puglia i segretari di federazione hanno meno di trent'anni. Sta facendo esperienza di direzione la generazione che si è formata attorno a Genova. La prima generazione interamente di Rifondazione Comunista: non di ex del Pci. Una generazione che deve rapidamente prendere il testimone".
copyright @ 2005 APCOM

referendum sulla fecondazione
il professor Vescovi si asterrà

Corriere della Sera 3.2.05
IL PROFESSOR VESCOVI
«L’embrione è vita ma pensiamo all’uso di quelli congelati»
«Ipotizziamo un arco di tempo oltre il quale considerarli donabili alla scienza»
di Franca Porciani


Angelo Vescovi, 42 anni, biologo, ricercatore di punta sulle cellule staminali nervose, condirettore dell’Istituto di ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele di Milano e docente all’Università Milano-Bicocca, approva - anzi sottoscrive - le posizioni espresse da don Luigi Verzé nell’intervista di ieri al Corriere. L’embrione non si tocca, la vita è tale fin dal concepimento e la ricerca deve accettare questo limite invalicabile. Propone, però, una possibile strada per l’impiego degli embrioni congelati, dimenticati nei centri di fecondazione assistita (circa 30.000 in Italia, 300.000 nel mondo). Dottor Vescovi, il rapporto fra Chiesa cattolica e scienza è sempre stato difficile. Senza scomodare il fantasma di Galileo, basta ricordare l’opposizione alla contraccezione e, ora, quella alla ricerca sull’embrione. Due punti di vista inconciliabili?
«Che nel passato ci siano state frizioni pesanti è innegabile. Ma se guardiamo al percorso storico degli ultimi decenni, da parte della Chiesa certe rigidità sono andate scemando. Ricordo, ad esempio, la posizione di apertura del Papa nei confronti degli Ogm. E’ ovvio che la frizione diventa muro contro muro quando è in gioco l’embrione. Si minaccia qualcosa di essenziale, la vita stessa. E, badi, io sono un ricercatore e, soprattutto, un laico».
E come ricercatore laico qual è il suo punto di vista riguardo all’impiego degli embrioni per la ricerca, soprattutto per ricavarne cellule staminali?
«Per me l’embrione è vita fin dal momento della fusione dei due gameti, maschile e femminile. E lo è proprio sotto il profilo biologico, indipendentemente da considerazioni religiose o filosofiche. Noi ricercatori dobbiamo essere onesti e rifuggire da ragionamenti semplicistici che riducono l’embrione nei primissimi stadi di sviluppo a "un grumo di cellule", sacrificabile all’altare della ricerca. E’ un’opinione diffusa nel mondo anglosassone, ma i nostri presupposti culturali ed etici sono diversi. Le teorie, in voga oggi, che cercano di portare acqua all’idea che prima di un certo momento - quando si profila l’abbozzo degli organi - l’embrione sia solo una vita potenziale, una non-ancora-vita, sono mistificatorie, soprattutto sotto il profilo scientifico».
Per lei non è lecito nemmeno sacrificare l’embrione per curare malattie gravi come l’Alzheimer, il Parkinson o la sclerosi multipla?
«Come ha detto don Verzé, lo sarebbe se fosse possibile estrarre da lui cellule staminali senza distruggerlo o ferirlo. Ma per ora questo non riusciamo a farlo. Diversi gruppi di ricerca nel mondo stanno tentando di produrre queste cellule senza "scomodare" l’embrione. Ian Wilmut, il padre della prima clonazione, quella della pecora Dolly, sta lavorando sulla partenogenesi (senza il seme maschile, si stimola artificialmente la cellula uovo a dividersi come se fosse stata fecondata, n.d.r ) che sicuramente non dà luogo a un embrione capace di sopravvivere, ma può essere una fonte di cellule staminali. Si tratta di ricerche, comunque, ancora lontane da risultati tangibili. Possiamo continuare a lavorare sulle staminali adulte, quelle del midollo osseo, ad esempio, o della pelle, con le quali sono stati già raggiunti risultati importanti. O su quelle estratte da feti abortiti spontaneamente».
È contrario anche all’utilizzo degli embrioni che giacciono abbandonati nei centri di fecondazione assistita?
«Devo premettere che sono contrario al congelamento degli embrioni e approvo, quindi, l’impostazione della legge 40. Ne abbiano creati a migliaia in tutto il mondo: è ora di dire basta. La vita umana, lo ripeto, merita rispetto. Esiste la possibilità di congelare gli ovociti: dobbiamo lavorare in questa direzione. Resta il fatto che gli embrioni congelati ormai esistono. Si potrebbe ipotizzare un arco di tempo "soglia" dal congelamento oltre il quale considerarli morti, donabili alla ricerca. Ma quest’ipotesi può essere presa in considerazione solo dopo aver raggiunto un accordo sul fatto che non si producano più embrioni in sovrannumero».
Come voterà al referendum?
«Sono per l’astensione».
La legge le va bene così com’è?
«No. Credo che sia migliorabile in due punti: il primo, come ho appeno detto, è l’impiego degli embrioni "scartati". Il secondo riguarda la fecondazione eterologa, che dovrebbe essere ammessa. Ad una condizione, però: che le banche del seme non siano anonime e il figlio possa, se vuole, conoscere l’identità del padre genetico. Mi rendo conto che si aprono problemi giuridici e psicologici complessi, ma la ritengo l’unica strada corretta».
L’ipotesi dell’astensione non sembra condivisa dalla maggior parte dei ricercatori in Italia. Una voce fuori dal coro, la sua?
«Molti dei miei colleghi voteranno a favore dei referendum perché la passione per la ricerca è più forte di tutto. Per me non è così: la scienza deve porsi dei limiti».

l'onesto Sirchia... /2

Corriere della Sera 3.2.05
L’inchiesta di Milano. Ammanco misterioso nei conti dell’azienda
«Pagammo Sirchia»
Il verbale del manager. Il ministro: mai fatto
di Luigi Ferrarella


MILANO - Il professor Girolamo Sirchia ha svolto consulenze scientifiche per Immucor, e per questa attività Immucor lo ha compensato: parola dell’indagato e dimissionario presidente della divisione italiana della multinazionale americana, Nino De Chirico, che in un verbale «segretato» di metà gennaio ha contraddetto quanto dichiarato l’altra sera al Corriere dall’allora primario del Policlinico di Milano e oggi ministro della Salute. Mai svolte consulenze per Immucor, assicurava il ministro nello smentire alla radice di aver ricevuto alcun compenso dalla società che produce macchine per i test del sangue: mai, tantomeno in 4 assegni (per 70 milioni di lire) della divisione tedesca, intestati nel 1998/1999 a suo nome, spediti via corriere postale in Svizzera, all’indirizzo di un funzionario dell’Ubs di Lugano che risulta averli ritirati.
Sul percorso dei soldi saranno le indagini a districarsi tra la smentita (a valle) del ministro, che ieri ha inviato in Procura il suo difensore Corso Bovio, e la consegna (a monte) delle fotocopie degli assegni portate in Procura da una Immucor messa alle strette in patria dall’autorità di controllo della Borsa (la Sec).
Ma a contraddire Sirchia sul presupposto delle consulenze è invece la deposizione di De Chirico. Premette che non era lui, impegnato con le strategie, a occuparsi della contabilità spicciola. Ma di fronte al carteggio che la sua ex casa madre ha portato in Procura, e alle schede della contabilità aziendale recanti la motivazione «consulting fees», dice di ritenere si trattasse dei compensi erogati a Sirchia per sue attività (senza accordi scritti, ma orali come è possibile nel diritto civile) di consulenza scientifica, interventi a convegni e pubblicazioni. Su cosa? Su questioni di interesse per l’azienda, che produce macchine diagnostiche (come il sistema Galileo) la cui penetrazione commerciale sul mercato risente molto del parere (in termine tecnico: validazione) che i pochi luminari del settore esprimono sui protocolli d’uso ai fini della prevedibilità del margine di errore nella diagnosi.
In Immucor, intanto, spunta un altro «giallo»: un ammanco aziendale di 120mila euro, usciti dai conti ufficiali della società e finiti sul conto di una addetta all’amministrazione, collaboratrice di De Chirico e del consulente esterno Straziota. Il nuovo corso dell’azienda l’ha licenziata e denunciata per appropriazione indebita; ma la donna, nella causa di lavoro, ha laconicamente fatto presente che tutto sarebbe passate al vaglio della gerarchia e dal consiglio di amministrazione. Di qui una ridda di ipotesi alternative, dal ricatto interno all’azienda (l’ammanco come prezzo per tenere il silenzio su prassi disinvolte) fino a un modo per creare disponibilità extracontabili affidate in custodia alla dipendente.
Nel frattempo non manca la polemica politica. «Le notizie sono così gravi - ritiene il verde Alfonso Pecoraro Scanio -- che necessitano di un chiarimento totale da parte del ministro: se rispondessero anche parzialmente al vero, avrebbe il dovere di dimettersi». «Confermo la mia fiducia nel ministro che conosco come persona integra -ribatte il presidente della Commissione Sanità del Senato, Antonio Tomassini -. Col tempo si chiarirà tutto a favore di Sirchia».

L'Unità 3.2.05
Quegli strani assegni per il dottor Sirchia
I pm di Milano scoprono che il ministro ha preso soldi da un'industria Usa. «Non è indagato» dice l'avvocato
Un'inchiesta che scotta In ottobre, il professor Romanelli, agli arresti domiciliari, si tolse la vita poco prima di essere interrogato dagli stessi pm
LUCA FAZIO


MILANO. Se è una bomba deve ancora scoppiare. «La procura sta indagando, ma non mi risulta che il professor Girolamo Sirchia sia formalmente indagato». La precisazione dell'avvocato Corso Bovio del resto non fa che confermare la clamorosa svolta dell'indagine sugli appalti in sanità condotta dai pm milanesi Maurizio Romanelli e Eugenio Fusco. I due magistrati, durante una trasferta americana, si sono imbattuti quasi per caso nel potente ministro della salute Girolamo Sirchia. Il suo nome figura su quattro assegni che la filiale tedesca della Immucor, una multinazionale di sistemi diagnostici, avrebbe versato su un conto svizzero intestato al ministro tra il 1998 e il 1999 (15 mila dollari il 4 giugno 1998, 9 mila dollari il 9 settembre 1998, 6 mila dollari il 24 novembre 1999 e altri 10 milioni delle vecchie lire sotto la voce «viaggio-staff»). In quel periodo, Sirchia era primario del Centro transfusionale del Policlinico e assessore alle politiche sociale del comune di Milano. Secondo le prime indiscrezioni, altri novanta medici sarebbero stati sul libro paga della multinazionale americana. Il ministro Sirchia, sentito dal Corriere della Sera, ha detto di non ricordare alcun contatto con la Immucor. «In base a quello che avranno meditato - ha aggiunto il suo avvocato - i pm mi diranno se è il caso che il ministro si presenti per chiarimenti o per dare indicazioni». Considerate le gravi notizie diffuse dalla stampa, risulta strano che il ministro Sirchia non sia formalmente iscritto nel registro degli indagati. La procura però mantiene il più stretto riserbo su tutto, anche su questo aspetto.
In attesa di nuovi sviluppi si capisce dal basso profilo delle dichiarazioni, anzi, dalla quasi totale assenza di dichiarazioni, che in queste ore prevale la massima prudenza. Solo i Verdi abbozzano un attacco frontale. «Sulle verifiche relative alle tangenti sui farmaci - dice Alfonso Pecoraro Scanio - il ministro della salute Girolamo Sirchia venga immediatamente a riferire in Parlamento. Le notizie apparse su un importante quotidiano italiano sono così gravi che necessitano un chiarimento totale da parte del ministro e dell'intero governo». Il verde Francesco Carella, presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale, dice che prima di trarre conclusioni bisogna attendere l'esito delle indagini. Per poi aggiungere: «Se quanto si legge sui giornali fosse vero, sarebbe di una gravità enorme, con ricadute sul piano politico». Carella, messo Sirchia tra parentesi, sottolinea comunque la deprecabile consuetudine che emerge dall'inchiesta milanese: «E' grave che continuino a verificarsi casi di pagamento di medici da parte di industrie farmaceutiche o di apparecchi elettromedicali». Stefano Inglese, segretario generale del Tribunale dei diritti del malato, preferisce non sbilanciarsi. Esprime fiducia nei giudici e si augura che il ministro contribuisca a fare chiarezza.
Antonio Tomassini (Forza Italia), presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, invece è l'unico a non nutrire alcun dubbio. «Ci sono alcuni elementi che sono tra loro in contraddizione e difficilmente spiegabili - dice - e non si capirebbe il perché di un'operazione così complicata a fronte dell'entità esigua della somma di cui si parla. E' come se si volesse uccidere qualcuno usando la pistola a tappo».
Certo è che con elementi di poco conto difficilmente i magistrati milanesi si sarebbero spinti fino a mandare poliziotti e finanzieri nel reparto di Immunoematologia del Policlinico di Milano per farsi aprire i cassetti e cercare tutti i documenti degli appalti assegnati dal 1994 al 2001. Quello è l'ospedale dove regna ancora sovrano il ministro per la salute Girolamo Sirchia, e quel reparto è il luogo da dove il potente ministro ha costruito la sua lunghissima carriera.
Non è la prima volta che questa complicata inchiesta della procura milanese assume risvolti clamorosi: il dottor Francesco Mercuriali, agli arresti domiciliari, il 4 ottobre scorso si uccise con un colpo al cuore poco prima di essere interrogato dagli inquirenti Il ministro Sirchia lo ha sempre considerato un suo «allievo e collaboratore validissimo». Quel giorno, a casa di Mercuriali, disse «si è ucciso di sicuro per la frustata dell'inchiesta».

donne
un dibattito

Corriere della Sera 3.2.05
Corpo e libertà: a confronto le riflessioni di Silvia Vegetti Finzi, Anna Bravo, Lea Melandri, Chiara Valentini, Franca Fossati
Le donne di sinistra e i limiti del desiderio
di Cristina Taglietti


Il corpo e la maternità, la vita e la morte, la libertà e il diritto. Le donne tornano a riflettere su se stesse e sui loro territori, ripensano al percorso, rivedono gli esiti delle loro battaglie, stimolano riflessioni sul presente. È un dibattito che si svolge su giornali di vari schieramenti, stimolato dalla discussione sulla procreazione assistita a cui si lega, fatalmente, il tema dell’aborto. Sul terreno della fecondazione artificiale, superata la scontata dicotomia tra laici e cattolici, emergono posizioni problematiche che vanno oltre anche la roccaforte de «il corpo è mio e lo gestisco io», costringendo le femministe storiche e di nuova generazione a distinguo e precisazioni. Così Silvia Vegetti Finzi sul Corriere di ieri, pur partendo da un netto rifiuto dell’attuale legge sulla procreazione assistita, invita a una riflessione sulla necessità di porre dei limiti al desiderio personale e di confrontare l’urgenza del singolo con la sensibilità morale della collettività, con l’idea condivisa del bene comune: «La psicoanalisi ha messo in guardia dall’onnipotenza dell’inconscio - scrive - che spinge le donne a chiedere un figlio a tutti i costi e la tecnica a offrire un figlio in qualsiasi modo».
E la storica Anna Bravo, con un passato da militante di Lotta continua, in un saggio sul numero di Genesis , la rivista della Società delle storiche, di cui dà conto Simonetta Fiori su Repubblica di ieri, parla dell’«immaturità» con cui negli anni Settanta le donne si misuravano sulla questione dell’aborto. Una posizione che, lungi dal mettere in discussione la legge sull’interruzione di gravidanza («in Italia gli attacchi contro l’aborto hanno toni non meno odiosi di trent’anni fa» dice), fa notare come allora si tendesse a sorvolare su molte cose, per esempio sulla «sofferenza del feto», sul fatto che fosse non vita ma comunque «materia vivente» o sul fatto che «non sempre la donna era una vittima» e poteva scegliere l’aborto «per rifiuto della maternità, perché non si sentiva pronta, per ostilità alla propria madre, perché c’erano altre possibilità». Una riflessione, quella della Bravo, che lega questa omissione a un’altra di cui si sono a suo parere rese colpevoli le femministe e cioè una certa indulgenza nei confronti della violenza.
Una posizione che non piace a una femminista storica come Lea Melandri, animatrice, insieme ad altri, su Liberazione e sul sito www.universitadelledonne.it, del dibattito sulla fecondazione assistita: «Viene fuori un’immagine a effetto di un femminismo violento che non corrisponde alla realtà. Mi sembra un falso storico: tende ad appiattire i movimenti femminili su posizioni schematiche dove tutta la sinistra degli anni Settanta era colpevole di un atteggiamento ambiguo sulla violenza. Sull’aborto in particolare c’è sempre stata un’analisi approfondita che teneva conto sia della violenza insita in una sessualità coattivamente procreativa sia della violenza connaturata a un atto, l’interruzione della gravidanza, che si esercita proprio sul corpo della donna».
Il corpo, il desiderio sono oggi il terreno su cui si gioca la partita del confronto: «Non sono d’accordo sull’idea che si debbano porre dei limiti al desiderio di maternità - dice Chiara Valentini, autrice di un vera inchiesta sul campo, La fecondazione proibita (Feltrinelli) -. Mi sembra un discorso pericoloso dove l’altra faccia della medaglia è l’aborto e il rischio di rimettere tutto in discussione. Oltretutto lo trovo anche un po’ anacronistico, un atteggiamento che mette la donna sotto libertà vigilata. Ci devono essere delle regole, naturalmente, proprio per evitare che la donna venga spossessata della maternità, che venga usata come cavia. Oggi semmai la sfida più interessante è capire quali percorsi si possono affrontare, quali spazi si possono creare. Per esempio sull’adozione, che per anni è stata vista come una doppia vergogna, da parte di chi era sterile e da parte di chi era stato abbandonato».
Ciò che è chiaro è che la discussione non può che avere come protagoniste le donne e proprio su una loro eccessiva ritrosia a entrare in gioco si è interrogata sul Foglio Nicoletta Tiliacos qualche tempo fa, dando vita a un lungo dibattito che continua ancora oggi: «Più che ripensamenti, sulla fecondazione assistita forse c’è stata un po’ di autocensura, una paura, ingiustificata, di affrontare temi che possono essere oggetto di strumentalizzazione. L’intervento di Anna Bravo mi sembra positivo da questo punto di vista. Quello della fecondazione è un tema che coinvolge moltissimi aspetti e soggetti. Lo rappresenta bene un libro come Un’appropriazione indebita (Baldini Castoldi Dalai, ndr ), composto da moltissimi contributi che propongono un pensiero molto complesso. Le donne non possono chiamarsi fuori».
Non si è sottratta neanche Franca Fossati, che è stata la direttrice del giornale femminista Noi donne: «Mi fa arrabbiare la tracotanza con cui gli uomini parlano di queste cose, come se appartenessero solo a loro, senza tener contro del nostro vissuto, della nostra esperienza. Forse la colpa è stata anche della nostra generazione che non ha tenuto conto dell’esperienza delle più giovani, che non ha saputo prendere in mano e gestire il dibattito. Ci siamo limitate alla nostra esperienza. In questo senso anche il saggio di Anna Bravo mi sembra un filo di riflessione intelligente, che si può portare avanti. Quanto al desiderio, è una componente fondamentale della maternità e non mi sembra un vero pericolo, anzi forse il rischio è la sua demonizzazione. Insomma non vedo tutto questo delirio di onnipotenza, i casi estremi, tipo la madre di settant’anni, sono avvenimenti isolati».

linguaggi

Come nasce un linguaggio? Quali sono i suoi elementi essenziali?
Il caso di un linguaggio creato in un piccolo villaggio del deserto del Neghev, in Israele.
Il linguaggio dei segni dei beduini di Al-Sayyid è nato spontaneamente, e senz'alcun intervento esterno.

http://www.sciencedaily.com/releases/2005/02/050201101836.htm

ScienceDaily.com 3.2.05
New Language Points To Foundations Of Human Grammar
How is a language born? What are its essential elements?
Linguists are gaining new insights into these age-old conundrums from a language created in a small village in Israel's Negev Desert.

Al-Sayyid Bedouin Sign Language signer telling a story.
by Shai Davidi, Sign Language Research Lab, University of Haifa


The Al-Sayyid Bedouin Sign Language (ABSL), which serves as an alternative language of a community of about 3,500 deaf and hearing people, has developed a distinct grammatical structure early in its evolution, researchers report, and the structure favors a particular word order: verbs after objects.
The study – the first linguistic analysis of a language arising naturally with no outside influence – is being published online in the Proceedings of the National Academy of Sciences the week of Jan. 31 to Feb. 4.
The authors are Mark Aronoff from Stony Brook University, Irit Meir and Wendy Sandler from the University of Haifa and Carol Padden from the University of California, San Diego.
By watching native signers tell stories and describe actions, the researchers found that the language goes beyond a list of words for actions, objects, people, characteristics and so on, to establish systematic relations among those elements. Sentences in ABSL follow a Subject-Object-Verb order, such as in "woman apple give," rather than the Subject-Verb-Object order found in English – or, more significantly, in other languages in the region.
"The grammatical structure of the Bedouin sign language shows no influence from either the dialect of Arabic spoken by hearing members of the community or the predominant sign language in the surrounding area, Israeli Sign Language," said study coauthor Carol Padden, professor of communication at UC San Diego. "Because ABSL developed independently, it may reflect fundamental properties of language in general and provide insight into basic questions about the way in which human language develops from the very beginning."
ABSL arose in the last 70 years and is now in its third generation of use. Remarkably, the fixed word order of ABSL emerged within a generation after the inception of the language.
"Our findings support the idea that word order is one of the first features of a language, and that it appears very early," Padden said.
The research also supports the notion that languages can and do evolve quickly.
"When we first came to Al-Sayyid, I expected to see a lot of gesture and miming, but I was impressed immediately by how sophisticated the language was. This is not an ad hoc, spur of the moment communication. It is a complex language capable of relating information beyond the here and now," said Padden.
Although other new languages such as creoles and Nicaraguan Sign Language have been reported, their unusual social and linguistic environments were not characteristic of typical languages, the study authors observe. Creoles are the product of interactions between existing languages. And Nicaraguan Sign Language, the creation of a group of deaf children, evolved in a school setting.
What distinguishes ABSL is that it grew – as presumably did most languages of the world – within a socially stable, existing community.
The Al-Sayyid village was founded about 200 years ago and today numbers some 3,500 members. Approximately 150 individuals with congenital deafness, all of them descendants of two of the founders' sons, have been born into the community in the past three generations.
A pattern of marrying within the village is the norm. Combined with deafness that is recessive – recessive traits manifest only when two carriers have a child – the marriage practice has ensured that deaf people are well distributed throughout the group's population.
As a consequence, the researchers say, many of the signers in the community are hearing, a highly unusual situation for a sign language but one that can be predicted in a tightly-knit group which fully integrates its deaf members.
"It is a language of the entire community, both hearing and deaf ," said Padden, who, with Tom Humphries, is co-author of the newly published Inside Deaf Culture (Harvard University Press, 2005). "ABSL is transmitted within families across generations, and children learn it without explicit instruction. It is the best analogue we have for studying how any new language is born and grows."
The Al-Sayyid group, the researchers point out, in some ways resembles the 19th-century whaling community in Massachusetts that produced the now-extinct Martha's Vineyard Sign Language. But that language died out before it could be recorded.
For the present study, the researchers focused on the second generation of ABSL signers. Further work will document the evolution of the language in the third generation.