domenica 25 maggio 2003

Il Resto del Carlino 25.5.03
Bellocchio guest star della serata finale

Giunge oggi al suo epilogo con un ospite d'eccezione, il regista Marco Bellocchio (foto), il “Reggio Film Festival”, maratona di cortometraggi al cinema Rosebud (via Medaglie d'oro della Resistenza) dedicata al tema del Riciclo.
Bellocchio aprirà la serata: alle 20,30 il regista, oltre ad incontrare il pubblico, mostrerà uno suo “corto” ormai introvabile, “Abbasso lo zio”. Seguirà un incontro con Ro Marcenaro, il presidente della giuria, che presenterà alcuni cortometraggi realizzati per un progetto Rai.
Poi si passerà alla proiezione dei video che hanno vinto i premi e a visione finita si passerà alla consegna dei riconoscimenti ai cortometraggi giudicati migliori dalle varie giurie impegnate in questi giorni.
Il premio ReMIDa andrà al miglior “corto” della sezzione riciclo. Il premio cartoon Tetra Pak al miglior video d'animazione. Una targa Arci-Ucca sarà consegnata all'autore dell'opera che risulterà avere spunti zavattiniani.
Il premio scuola verrà fornito da Borsari, mentre la facoltà di Scienze della Comunicazione ha assegnato alcuni riconoscimenti.

L’Arena 25.5.03
Il direttore artistico della Mostra Internazionale del Cinema de Hadeln, si è «mosso» molto sulla Croisette in previsione della rassegna che inizierà il 27 agosto. Sarebbero certi Kusturica, Bellocchio, Altman e Bertolucci Indiscrezioni su Venezia

Cannes . Moritz de Hadeln, (nella foto) , direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, sarebbe a un buon punto nella selezione dei film per la 60 ª edizione del festival veneziano, che si terrà dal 27 agosto al 6 settembre. Riluttante a confermare le indiscrezioni, il direttore artistico non si sbilancia sulle voci che darebbero come ormai sicuri al Lido i nuovi film di Bernardo Bertolucci, Emir Kusturica, Marco Bellocchio, Robert Altman, Theo Angelopoulos, Jacques Rivette e Catherine Breillat
(...)

Corriere della Sera, 25.5.03
La fisica teorica non smette di ipotizzare situazioni naturali o eventualmente artificiali per percorrere una quarta dimensione: la durata
La scienza ha un sogno eretico
di Giulio Giorello

C’era una signorina di nome Bice / che poteva viaggiare molto più veloce della luce; / partì un giorno / in modo relativo, / e tornò a casa la notte precedente. Così un limerick (poesiola umoristica) pubblicato sul Punch del 19 dicembre 1923 alludeva al sospetto che la Relatività rendesse possibile un vecchio sogno: i viaggi nel tempo. Del resto, «vi sono in realtà quattro dimensioni: lunghezza, larghezza, altezza e... durata. Ma permane una tendenza a stabilire una distinzione fittizia tra le prime tre e l’ultima». E tutto questo per «un’infermità naturale» del nostro cervello. Non sono parole di Albert Einstein. Qualche anno prima che questi formulasse la teoria della relatività speciale (1905) e generale (1915), Herbert George Wells così presentava in «La macchina del tempo» (1895) il punto di vista di un singolare Viaggiatore, il quale, mentre «il fuoco brucia allegramente e la pallida luce delle lampade a incandescenza si riflette nelle bollicine d’aria che luccicano e svaniscono nei bicchieri dei commensali», spiega ai frequentatori di un tipico club inglese che «là fuori» ci attendono passato e futuro come nuovi continenti da esplorare.
Fin qui la fantascienza. Ma negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale il logico e matematico Kurt Gödel, di solito schivo e taciturno, ma che amava «provocare» l’amico Einstein, doveva confidargli che era perfettamente compatibile con la relatività generale pensare orbite nello spazio che, avvolgendosi a spirale, potevano risalire nel passato, purché «l’intero Universo fosse in rotazione». Così illustra la cosa il noto fisico e divulgatore Paul Davies nel suo libretto appropriatamente intitolato «Come costruire una macchina del tempo»: «Se un intrepido astronauta si avventura in questo vortice gravitazionale, viene a sua volta catturato e trascinato nel moto di rotazione - e poiché anche la luce è coinvolta in tale moto, l’astronauta viene a trovarsi nella condizione della signorina Bice rispetto a un osservatore lontano». Anche se a livello locale non si supera mai la velocità della luce (come prescrive appunto la fisica relativistica), a livello globale «l’astronauta sembra raggiungere una velocità superluminare».
Già prima che Gödel, nel 1949, pubblicasse la sua idea, Einstein aveva confessato di sentirsi «profondamente a disagio» di fronte alla semplice eventualità che le eleganti equazioni della sua teoria potessero ammettere soluzioni «patologiche» che «legalizzavano» i viaggi nel tempo. Oggi i cosmologi tendono a escludere un universo in rotazione come quello ipotizzato da Gödel (e qualche storico pensa che lo scenario immaginato dal grande logico non fosse altro che un’apparentemente razionale consolazione alla «irrazionale e insana» ossessione per la morte che lo travagliava). Tuttavia, fisici audaci non smettono di evocare situazioni naturali o eventualmente artificiali (le macchine del tempo) che dovrebbero consentire ciò che più turbava Einstein ma insieme confermava la sua stessa concezione del tempo.
Ma allora, potremmo davvero accalcarci tra le colonne del palazzo senatoriale per spiare l’uccisione di Cesare o magari sul Golgota per assistere alla passione di Gesù? Viaggiare fino alla fine del mondo e tornare indietro a raccontare l’Apocalisse? Oppure, più modestamente, tornare indietro a incontrare madri, nonne, bisnonne e, magari senza volerlo, interrompere quel corso di eventi grazie al quale noi stessi siamo nati? In tal caso, da dove mai verremmo? Vi sono scienziati e filosofi che temono non meno di Einstein questa anarchia e che si sbizzarriscono a congetturare una «censura cronologica» che dovrebbe vietare evenienze del genere. Altri scrivono addirittura dei testi letterari, come per esempio il cosmologo di Cambridge John Barrow (uno dei creatori del cosiddetto «Principio Antropico»), il cui «Infinities» viene messo in scena da Luca Ronconi alla Bovisa di Milano. E forse ha un qualche fondamento la speranza (o il timore) che qualcosa come una macchina del tempo si possa davvero costruire - anche se personalmente non sono così ottimista (o pessimista) come Paul Davies.
Si dovrebbe comunque riconoscere che una macchina del tempo già l’abbiamo: è lo splendido, misterioso e affascinante universo che osserviamo. Poiché la finitezza della velocità della luce fa sì che per guardare indietro nel tempo dobbiamo guardare lontano nello spazio, le ultime sofisticate tecnologie ci permettono di «vedere» lo stato dell’Universo solo «a poche migliaia di anni» dal Big Bang.
Vi sembra poco? A qualche Wells o a qualche Gödel probabilmente sì. Ma è anche grazie a questa «insana» curiosità che la scienza va avanti.

La Stampa, 25.5.03
Anticipatore di Nietzsche ci aiuta a capirlo meglio
Gianni Vattimo

QUANDO, nei giorni più bui della recente crisi dell'Iraq (e dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa), abbiamo cercato di ripensare alla «America che amiamo», e che non si potrebbe mai confondere con i «falchi» di Bush, un nome che ci è venuto in mente è stato quello di Ralph Waldo Emerson. Uno spirito amico di altri grandi americani autentici come Henry David Thoreau o Walt Whitman. Uno che, nelle prime pagine dei suoi famosissimi Saggi (1841-44), ci viene incontro con una rivendicazione di libertà («Chiunque vuol essere un uomo deve essere non conformista») assai poco in armonia con la progressiva militarizzazione a cui la lotta al terrorismo sta costringendo la società statunitense. Già, si potrebbe osservare, ma come mai allora Nietzsche, ritenuto il profeta del nazismo e di tutte le ideologie violente del Novecento, lo considerava così affine a sé da non poterne nemmeno parlare per lodarlo, tanto vi si identificava? Certo, anche Nietzsche faceva del non conformismo (peraltro più teorizzato che praticato, nella sua vita di professore precocemente in pensione) una bandiera. Ma, come ha osservato Richard Rorty che è anche uno dei più coerenti eredi dello spirito emersoniano, Nietzsche amava Emerson soprattutto in quanto teorico della creatività individuale, così accentuata da prendere spesso la forma di un individualismo anarchico, mentre non ne condivideva certo l'impegno per l'abolizione della schiavitù e per una politica in generale «progressista». Tuttavia, l'affinità con Emerson, che Nietzsche rivendicava così intensamente, può aiutare sia a capire meglio certi tratti meno «nazisti» del suo pensiero, sia certe contraddizioni dell'individualismo con cui ancora oggi ci troviamo a fare i conti. Ciò che Nietzsche chiamava (senza spiegarlo tanto) l'eterno ritorno dell'uguale, si può ben leggere come la fede emersoniana nella «grande anima» (o «superanima»), l'idea cioè che ogni individuo porti in sé, e metta in gioco nelle sue decisioni imprevedibili, il tutto dell'essere. Non c'è un senso già dato nell'essere, sicché siamo liberi; ma quello che facciamo è anche sempre espressione della nostra appartenenza a questo tutto. Romanticismo, eredità dell'idealismo, ma anche pragmatismo (la verità è quella che riusciamo a «fare»), sono una versione, anzi un'anticipazione, americana del pensiero di Nietzsche che forse può aiutarci a guardare a lui con meno sospetto. Naturalmente, a patto che anche Emerson non venga tradito da qualche forma di rigurgito «nietszchiano» nei suoi illegittimi eredi.

La Stampa, 25.5.03
L'intervista. Parla Silvia Vegetti Finzi
«Milano è una città divorata dalla fretta dove i professionisti si curano col lavoro»
di Fiorella Minervino

CAPELLI biondi, aspetto fragile ed elegante, parrebbe una di quelle signore casa e famiglia un po’ intimidite dal mondo. Invece Silvia Vegetti Finzi è una donna decisa, volitiva, studiosa di successo come poche altre. E’ tra i maggiori storici della psicoanalisi, ha una cattedra a Pavia, vanta numerose pubblicazioni, collabora con il «Corriere della Sera» che l’ha interpellata per i casi più drammatici: dalla nevrosi alla follia, al comportamento femminile. Ha appena pubblicato un libro fortunato, accettato anche dalla difficile comunità dei suoi colleghi più severi. Il titolo è «Parlar d'amore - le donne e le stagioni dell'amore», edito da Rizzoli, e raccoglie le lettere che la studiosa riceve in una rubrica per il femminile del «Corriere». Silvia Vegetti ha parecchio da offrire, il suo buonsenso e la scienza che l'accompagnano. Ha selezionato le lettere per argomento, scrivendo un capitolo per ogni gruppo con titoli come «ombre sul matrimonio». Ne è nato un trattatello gradevole, ma saggio e colto sui dolori, la difficoltà di vivere sole e tanti altri problemi che affliggono l'esistenza al femminile ai giorni nostri.
Che cosa pensa di Milano?
«Ha subito una grande involuzione rispetto alle aspettative che la mia generazione aveva nutrito (Silvia Vegetti ha superato i 50 anni n.d.r.) nei confronti di questa città. Speravamo fosse internazionale, penso alle grandi Triennali, alla città degli architetti, dei mobili che lanciavano uno stile estetico che era anche morale, alla Milano di Strehler. Era un polo internazionale con personaggi quali Musatti, Banfi, Paci, Cantoni, Fornari. Sono invece stati mancati appuntamneti importanti. Dal Piccolo sembra stia risorgendo qualcosa. Ma è anche vero che è troppo facile essere ipercritici, bisogna anche vedere i miglioramenti. Milano dà speranze, segnali che il teatro risorge, qualche mostra importante come il Modigliani a Palazzo Reale, l'attenzione ai musei, la passione in crescita per la musica; c'è un ritorno di concerti seguitissimi al Conservatorio, poi la nuova Scala, gli Arcimboldi. Io vedo importanti iniziative come Vidas, tipico segnale della solidarietà milanese. Un ospedale che accoglie gli ultimi attimi della vita, mescola l'efficacia alla pietà, significa non solo dare soldi, ma avere progetti per incidere sulla qualità della vita delle persone. Esistono poi progetti di umanizzazione come al reparto oncologico dell'Ospedale San Carlo, dove ci sono segnali diversi di terapia, oltre che sulla cura».
E quanto a urbanistica e traffico?
«Sembra sia stata fatta una buona cosa con il cavalcavia di Famagosta. Abbiamo bisogno di fare e portare a termine cose importanti, come il passante ferroviario che ristagna. Il problema inquinamento è specialmente sentito dai bambini. I bimbi di Milano sono molto più malati, noi nonne vediamo che sono più sofferenti dei nostri figli nella parte respiratoria. La qualità dell'aria a Milano è problema primo da affrontare: bisogna scoraggiare il traffico privato a favore di un buon trasporto pubblico».
Milano è città per lavorare bene?
«E' la città dove si lavora meglio. Sono nata per caso a Brescia, perché i miei genitori si trovavano là, ma mi considero milanese e ne sono contenta perché i rapporti sono diretti, sobri, ci si incontra e basta. Non esistono troppe incrostazioni di rapporti di cortesia, sovente ci si basa su affinità di lavori condivisi. Nel mio esiste parecchia attenzione da parte degli editori. L'editoria è a Milano tuttora un polo culturale che regge, non ancora completamente commercializzato. Esistono piccole o medie case editrici ottime, come Mazzotta, Skira, Electa».
Dunque come si vive, secondo lei, qui?
«Bene anche se ci sono parecchie contraddizioni. E’ una città a macchia di leopardo: esiste ad esempio una comunità di sociologi, medici ecc., ma manca il tessuto connettivo delle polis, il momento in cui esce l'elemento strutturale e la politica. Con la caduta della politica, nel gruppo privato non c’è dialogo o confronto tra le parti, non riescono a confrontarsi».
Come mai un'autorevole studiosa di psicoanalisi come lei ha scritto un libro con le lettere ricevute in una rubrica?
«Mi è stato chiesto dalle lettrici che le ritagliavano e raccoglievano, per salvarle dalla precarietà dello spazio d'una settimana. Poi mi sono messa a leggere tante lettere, oltre 1000. C'è competenza teorica con la psicoanalisi, c'è un codice della lettura del mondo e anche rapporto con i giovani. Io insegno all'Università dal 1975, circa 30 anni. A scrivere sono soprattutto donne d'ogni età, dai 12 anni in su. Scrivono bene, hanno capacità di autoanalisi, di mettersi in crisi, c'è una grande maturità raggiunta dalle donne, molte lavorano su di sé, si interrogano sulle crisi, l'uomo si butta tutto dietro di sé per incapacità di tollerare il dolore. Le donne sono capaci di “abitare” la sofferenza anche per superarla, l'uomo la rifugge».
Quali problemi emergono con maggior intensità?
«La solitudine, la maternità che diventa rovello, ha perso la spontaneità, è tormentone. Poi i tradimenti, non più subiti, bensì attuati dalla donna: è una cosa nuova. Negli Anni Settanta le lettere erano scritte perché le donne venivano lasciate, ora sono loro le più inquiete, non hanno più né senso del peccato né della colpa, si interrogano sulle conseguenze. Le quarantenni di oggi sono irrequiete, meno bloccate dal moralismo delle generazioni precedenti, l'adulterio era privilegio maschile, ora c'è la parità, la fedeltà vale per tutti e due o per nessuno. Mi stupisce che ci sia poca lealtà e solidarietà fra donne, il tradimento distrugge un'amicizia, c'è spietatezza nei rapporti erotici. L'uomo ha più remore nel tradire le persone con cui si hanno legami d'amicizia, le donne no. Quanto alla carriera è avvertita come contraddittoria rispetto agli affetti, pesa sulle donne. Sono poche le superdonne che riescono davvero nel lavoro, nella vita di coppia, la cura degli affetti è compito femminile. Vita affettuosa e carriera sono una coperta corta, tirano da una parte e dall'altra. Molte giovani rinunciano alla carriera, hanno visto che la dedizione costa troppo, verso i 35 anni scelgono la maternità. Puntano di più sulla vita privata».
Milano è città di donne sole?
«Assai più che in altre parti d'Italia. Cercano amicizie femminili e interessi comuni. Ai concerti, al cinema, a teatro, alle conferenze si vedono donne con donne in nuove reti di solidarietà femminile che rendono meno pesante la vita da sola. Hanno più voglia, più apertura al mondo, più curiosità di prima, così per non essere sole si alleano ad altre. Gli uomini soli sono più tristi, anche giovani, non hanno alternative al lavoro professionale per contrastare il vuoto che li atterrisce».
Come mai parecchi si affidano a Internet per conoscersi?
«C'è questo nuovo modo di stabilire nuove relazioni: conoscersi via chat. Non ci si espone né esprime con il corpo, con sguardi, gesti, parole, ma si presenta un'identità simulata, si cade nel delirio di onnipotenza. Ci sono ragazzine di 12 anni che fingono di essere bellissime donne bionde di 24 anni, in conflitto con la realtà. Quando si conoscono è la delusione. Un uomo dall'appartamento a casa sua ha visto arrivare una donna piccola, modesta, brutta, l'ha buttata giù dalle scale. Il contatto con la realtà diventa persecutorio. Ti aspetti un principe azzurro o una Claudia Schiffer, sogni, pensi. Allora la delusione diventa frustrazione violenta. Basta pensare al recente caso del ragazzo Andrea Calderini che ha ucciso la moglie Helietta, la vicina, una passante e sparato su altri. Si erano conosciuti chattando. Lei era sì anoressica, ma bella, di buona famiglia, aveva tutto. Lui aveva la psicologia del malato mentale. Come lei sia caduta nel tranello dell'illusione del sogno d'amore è un mistero. E' assai più interessante, dal punto di vista psicologico, la personalità della ragazza che non quella del marito. Le ragazze che studiano e viaggiano hanno l'identica attesa del primo amore d'un tempo, è un appuntamento che non si può mancare, lo si crea artificialmente se non accade».
Qual è il peggior difetto di questa metropoli?
«E' frenata dalla fretta, le nostre esistenze sono scandite dal tempo. Il vero problema è non sapersi più ritagliare del tempo, molti professionisti lavorano curandosi con il lavoro. Le feste, le domeniche sono un momento significativo: il contenitore lavoro è anche contenitore delle ansie, per cui i problemi devono essere rimandati poi, se non c'è possibilità di rinvio si cade nell'angoscia. A Milano un tempo il weekend era d'obbligo, ora non più. Le donne schizzano dalla città alla campagna al mare, ma non si fermano più 3 mesi come un tempo, ma 2-3 giorni. Si continua a saltare dal luogo di villeggiatura alla città. Questo specialmente a Milano. Si ha paura della libertà, l'arte dell'esercizio piacevole nel tempo libero, come nelle “Affinità elettive” di Goethe non esiste, si cerca la contrazione del tempo, se non c'è la si produce».
Come è stato recepito il suo libro dalla comunità scientifica?
«Con buone reazioni sia da donne comuni sia da esigenti psicoanalisti colleghi. Non ci sono state chiusure, nulla è spacciato per terapia. Il consiglio è un invito a pensare, un processo di autoterapia, non faccio che riprendere l'antico insegnamento socratico: conosci te stesso».
Infine, che consigli può offrire a questa città malata di fretta e di altro?
«Di ascoltare i bambini, sono cartine di tornasole del disagio d'una città, ecologisti spontanei in questi anni, ogni volta che c'è una proposta di quartiere, anche un giardinetto. Se si riesce a parlare con loro e non solo di loro, ci si rende conto che non solo soffrono di più i malanni di questa città, ma ci danno la direzione degli interventi. Se la maestra è brava, loro indicano i giochi, così come va migliorato il quartiere».

La Repubblica Salute, 22.5.03
La parola più dei farmaci aiuta chi è "disturbato"
Sondaggi AltroconsumoSalutest e DoxaMens sulle terapie. A 25 anni dall’approvazione della legge 180
di Maurizio Pieganelli

Terapie psichiatriche, paure, costi: ne parlano due sondaggi, uno con criteri scientifici classici (DoxaMens: mille intervistati over 15), l’altro con risposte ponderate per essere rappresentative degli italiani (AltroconsumoSalutest: 2500 questionari ritornati).
CHI CURA Nell’indagine Doxa, presentata nell’ambito del progetto Mens, che unisce Associazioni pazientifamiliari e Società Scientifiche, a 25 anni dal varo della legge sulla Psichiatria (la "180", che chiuse i manicomi), il 30% degli intervistati pensa che chi ha disturbi mentali debba consultare uno psichiatra; il 25% uno psicologo; il 6% uno psicoterapeuta o psicanalista; il 20% un medico di famiglia, il 14% un "medico in generale" e il 24% "persone esperte". Dal sondaggio di Altroconsumo, che appare sulla rivista dell’associazione, solo il 25% è spinto a "cercare un aiuto psicologico professionale". La metà si rivolge al medico di famiglia.
LE TERAPIE Dall’inchiesta di Altroconsumo emerge positivo il ruolo di psichiatra e psicologo (risoluzione del sintomo, soddisfazione: vedi tabella). Nel 56% dei casi il medico di famiglia non ha indicato, a chi ha difficoltà emotive e psichiche, lo psicoterapeuta. La terapia vincente, per gli intervistati, risulta il mix farmacidialogo. Le risposte Doxa: per disturbi non gravi colloqui con specialisti (65%), uso di farmaci (32%). Per disturbi gravi il 77% indica l’uso di psicofarmaci. In generale il 77% pensa che il mix efficace sia farmacodialogo.
PSICOFARMACI L’indagine Doxa segnala che il 14% degli intervistati considera utile l’uso esclusivo degli psicofarmaci; il 32% ne vede solo vantaggi, il 34% sia vantaggi che svantaggi e il 24% più svantaggi. Il 71% crede nella dipendenza da psicofarmaco. L’indagine Altroconsumo segnala un dato allarmante: il 36% di chi assume psicofarmaci lo fa senza controllo medico. I farmaci da soli non danno alcun risultato per il 22% degli interpellati.
COSTI E STIGMA Costo medio di un’ora dallo psichiatra 64 euro, da uno psicologo 54 (indagine Altroconsumo). Il costo alto è un ostacolo (13%), l’abbandono è al 17%. Andare dal medico di famiglia è per metà delle persone "meno imbarazzante". Doxa: se un familiare ha problemi psichiatrici non se ne parla (67%). Oltre il 53%, in caso di sintomi gravi, crede che le autorità sanitarie possano imporre la cura. Il 34% pensa che debba decidere la persona. In epoca di revisione di Trattamento sanitario obbligatorio (proposta all’esame del Parlamento) non è da sottovalutare.

La Repubblica Salute 22.5.03
Ma quanto costa la depressione?
Un progetto di valutazione della Bocconi
di Silvia Baglioni

La depressione si avvia ad essere una delle più gravi e diffuse malattie: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2020 essa costituirà la seconda ragione di disabilità nel mondo. Questa patologia ad altissimo impatto sociale ha oggi una prevalenza stimata fra il 3 ed il 6,4% della popolazione, con una maggiore frequenza tra le donne (510% contro il 25% degli uomini). La qualità della vita può peggiorare a tal punto che i pazienti hanno un rischio maggiore di ammalarsi e morire anzitempo. Ma la depressione può diventare anche un’emergenza economica: la maggior parte dei pazienti cronici è in età lavorativa e subisce importanti ripercussioni economiche legate alla perdita di produttività.
Il progetto "Valutazione economica della depressione in Medicina Generale in Italia", disegnato dal Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria dell’Università Bocconi, in collaborazione con la Lundbeck Italia SpA e la FIMMGSIMeF (Federazione Italiana Medici di Medicina GeneraleSocietà italiana medici di famiglia), vuole essere uno studio "osservazionale" che intende stimare i costi complessivi della Depressione in Medicina Generale.
«I dati epidemiologici relativi alla depressione nel nostro Paese sono molto scarsi», spiega Rosanna Tarricone, del CeRGAS, «la letteratura internazionale riporta che almeno il 50% della popolazione depressa si rivolge al medico di famiglia. Da ciò emerge che la prevalenza della malattia tra i pazienti della medicina di base è equivalente a circa il 10%. Oltre 5 casi su dieci rimangano non diagnosticati per cause diverse: atipicità dei quadri clinici (incapacità di ricondurre i disturbi somatici alla loro origine); scarsa intesa tra medico e paziente; insufficiente conoscenza della patologia; poco tempo per ogni singola visita. Un medico di medicina generale vede in media 40 pazienti al giorno e può individuare un disturbo d’ansia o di depressione in almeno 8 casi, mentre non riconoscerà l’esistenza di questi disturbi in altrettanti pazienti. Ciò che risulta evidente è che una incidenza della depressione così elevata tra i pazienti trattati in medicina generale impone al medico di base un ruolo di protagonista nella gestione di questa patologia».
Nei prossimi sei mesi il CeRGAS – Bocconi elaborerà e analizzerà i dati raccolti da circa 40 medici di famiglia. Lo scopo principale è quello di valutare i costi legati alla depressione, sia riconosciuta e trattata, sia non riconosciuta o non trattata adeguatamente. «In tal modo» conclude la Tarricone, «si intendono stimare i costi legati alla depressione in medicina generale in tutto il complesso della patologia stessa (obiettivo mai perseguito finora sia a livello nazionale sia internazionale), al fine di fornire i dati e le informazioni rilevanti per istruire un processo di formazione e sensibilizzazione dei medici di famiglia circa la depressione».

La Repubblica Salute, 22.5.03
Europa e salute mentale
"Preparare i medici di base"
Conferenza a Bruxelles: "educare" i sanitari, aiutare le famiglie mal sostenute. La questione dei farmaci
di Giuseppe Del Bello

Bruxelles Nei Paesi occidentali l’85 per cento dei pazienti che soffre di disturbi mentali non ha accesso alle terapie. Lo rivela l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Bisogna fare di più ed elaborare una strategia comune perché le problematiche mentali devono essere considerate una patologia. Curabile, ma che ha bisogno di un approccio farmacologico e assistenziale programmato. Il messaggio arriva dalla conferenza che, dedicata alla "Salute mentale e alla schizofrenia in Europa" e presieduta dal parlamentare greco Antonios Trakatellis, si è tenuta nella sede del Parlamento Europeo di Bruxelles. Migliaia di diagnosi trascurate o mai formulate e cure poco praticate (qualora siano state prescritte) tra le conseguenze della scarsa formazione di base e della mancata collaborazione dei medici di famiglia. Dice il professor Pier Maria Furlan, ordinario di psichiatria dell’università di Torino e direttore del Dipartimento di Salute mentale della II facoltà di medicina: «Il medico di base ha un rapporto privilegiato col paziente e dovrebbe, almeno nella fase successiva, essere messo in grado di seguire la sua situazione. In Europa è attiva l’Unione dei medici di base che dipendono dagli ordini professionali delle varie nazioni: da questi organismi dovrebbe arrivare l’indicazione alla formazione e alla collaborazione con lo specialista». Gli fa eco Horst Kloppenburg, rappresentante della Commissione europea: «Non sempre serve lo specialista per problemi, come depressione e stress, che toccano una volta nella vita un quarto della popolazione europea. La Commissione e il Parlamento europei sono vicini a medici e famiglie: i problemi mentali vanno considerati alla stessa stregua di quelli fisici». Sanitari da "educare", famiglie poco preparate e mal sostenute. Se ne lamenta Begone Arino, presidentessa dell’Eufami (Associazione europea familiari dei pazienti con problemi mentali): «Abbiamo bisogno di aiuto per reggere lo stress e per poter essere utili a nostra volta». Ma Furlan spiega che colmare il vuoto è possibile: «Soprattutto le famiglie non "invischiate" potrebbero dare un supporto se aiutate dai servizi assistenziali. Per esempio, io ho creato un "centro crisi": non è ospedale e non è un ambulatorio. Qui i pazienti possono dormire qualche notte anche con due familiari, se ne hanno bisogno per superare il trauma della separazione, ma allontanando le problematiche della propria casa». Importante è, pure, abbattere lo stigma, cioè quella che viene definita la "vergogna" della malattia mentale: «è vero che agisce negativamente, che c’è il timore di essere messi alla berlina, ma per combattere queste situazioni è fondamentale rendere "visibili" i servizi di psichiatria: la gente non sa che esistono e, soprattutto, non conosce il percorso da fare». Tutt’altro che trascurabile il problema terapia: i moderni farmaci. Ancora Furlan: «Oltre a mirare di più ai recettori, le molecole di oggi riescono a salvaguardare la qualità della vita consentendo maggiore autonomia e una diminuzione di quei disturbi secondari che un tempo inducevano ad abbandonare la terapia. Ma c’è troppa burocrazia: spesso ci vogliono due anni e più prima che un prodotto, già approvato, venga messo in vendita. L’Europa dovrebbe amministrare gli standard qualitativi per orientare i governi e dare una mano a ridurre gli aspetti burocratici». E in Italia il ritardo fa registrare un fenomeno discriminatorio: chi ha amicizie influenti e possibilità economiche si procura farmaci altrove, dove sono già in farmacia. Ultimo esempio, l’olanzapina iniettabile. È un antipsicotico di recente generazione che ha scarsissimi effetti collaterali: c’è chi se lo procura dal Vaticano attraverso amicizie influenti o chi se lo fa arrivare direttamente dalla Svizzera. Chi può.