il manifesto 27.5.03
Ma la 180 è davvero già finita?
RIFORMA DELLA PSICHIATRIA - INCHIESTA Il progetto di controriforma che avrebbe dovuto smantellare la 180 è fermo e trova sempre meno sostenitori, anche dentro la maggioranza di governo. Il suo obiettivo, garantire ai privati una fonte di profitto con soldi pubblici a spese dei malati, è impresentabile
M. Grazia Giannichedda
Dati i dissensi interni, l'impopolarità e le disavventure parlamentari di questi due anni di vita, si potrebbe credere destinato all'oblio il disegno di legge n.174 del 30 maggio 2001, di cui la deputata di Forza Italia Maria Burani Procaccini è sola firmataria, nato con l'intento di smantellare l'impianto della legge 180 come neppure i progetti degli anni `80 avevano pensato di fare. «La legge che nessuno vuole», la definisce Ernesto Muggia, presidente della Unasam, la più grossa rete di associazioni di familiari che fin dall'inizio si è mobilitata per contrastarla. E in effetti questo sembra essere vero, se mettiamo una dietro l'altra le ripetute opposizioni della Società italiana di psichiatria, che raccoglie la gran maggioranza degli psichiatri, della Caritas e persino della Conferenza episcopale italiana, oltre che di Psichiatria democratica, della Cgil, di Cittadinanzattiva, dell'Arci e di numerose realtà della cooperazione sociale e del privato non profit. Gli operatori, gli utenti e la società civile impegnata nella salute mentale dunque non vogliono la riforma dei principi che da venticinque anni hanno riformulato il rapporto tra il cittadino e lo stato in tema di trattamenti psichiatrici. Vogliono altre cose, e se non è detto che siano le stesse è però vero che tutti sono convinti di poterle e doverle conseguire reiterando o modificando il Progetto obiettivo, che è lo strumento con cui il governo orienta le scelte delle regioni.
Questa generale accettazione del quadro di principi in vigore è forse il dato più importante del cambiamento avvenuto in Italia, davvero vasto e trasversale rispetto agli schieramenti politici.
Così anche dalla maggioranza parlamentare e dal governo vengono ostacoli espliciti alla controriforma. Nella Commissione affari sociali della camera, oltre ai parlamentari del centrosinistra anche quelli di Alleanza nazionale hanno fatto un'opposizione forte, che il 18 dicembre dello scorso anno è sfociata in un convegno che ha ribadito le ragioni del dissenso e ha annunciato la presentazione di un progetto proprio, ancora non depositato. Del resto già durante la scorsa legislatura An aveva sostenuto la politica di chiusura dei manicomi, e il deputato Carlesi era stato un attivo presidente della commissione bicamerale che la seguiva. Nel governo della sanità l'opposizione più netta è quella di Antonio Guidi, sottosegretario con delega alla psichiatria, mentre il ministro Sirchia ha piuttosto mostrato perplessità e insofferenza, nei dibattiti e nelle interviste, all'idea di un progetto che si propone di far crescere ulteriormente i letti psichiatrici, con quali risorse non si sa. Radicale infine l'opposizione delle regioni, che in un documento del 28 febbraio 2002 hanno ribadito la «validità del Progetto obiettivo» e la «esclusiva competenza regionale in tema di salute e di salute mentale in particolare».
Così la prima sconfitta parlamentare di questo disegno di legge è venuta indirettamente dalle regioni, le cui obiezioni hanno di fatto fermato, lo scorso 22 novembre, i lavori del comitato ristretto di parlamentari che doveva istruire il testo base per la discussione in Commissione affari sociali.
In queste settimane l'on. Burani Procaccini ha preparato un testo nuovo che tuttora non ha ricevuto il parere della Conferenza stato-regioni, a cui è stato previamente inviato, né è stato ufficialmente depositato in Commissione, dove attualmente figurano numerosi testi (vedi scheda) ma la salute mentale non è iscritta nel calendario dei lavori. Questo nuovo testo, che circola informalmente, è più snello del precedente ma non dissimile, per quanto riguarda i principi. Ripropone infatti l'accertamento sanitario obbligatorio, il trattamento sanitario obbligatorio (tso) di urgenza, che è una sorta di «fermo psichiatrico» di 72 ore richiesto da un medico, convalidato dallo psichiatra pubblico ed eventualmente eseguito con la polizia. Resta infine quella che è la vera e propria riedizione del manicomio, il tso «della durata massima di due mesi rinnovabile senza limiti», che «può essere svolto in strutture residenziali assistenziali (sra) private accreditate».
Intendiamoci: anche oggi è possibile fare tso di lunga durata, dato che la legge non fissa un tempo massimo. Tuttavia, dice la legge 180, o meglio l'articolo 35 comma 4 della legge 833/78, «nei casi in cui il tso debba protrarsi oltre il settimo giorno, e in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico è tenuto a formulare in tempo utile una proposta motivata al sindaco e al giudice tutelare, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento obbligatorio». Insomma, oggi la struttura pubblica, sola competente sul tso, deve dare spiegazioni se pensa di dover obbligare a lungo un cittadino a un trattamento sanitario che non vuole, o in altre parole, il medico deve spiegare in non molte righe come mai non è riuscito a ottenere il consenso al trattamento da parte di una persona seriamente ammalata. La quale per via della sua malattia può certamente avere una visione discutibile delle cose, ma si può anche pensare che ci sia anche qualcosa che non va, qualcosa da tenere sotto controllo se uno specialista, con le tecniche di cui dispone, non riesce a far accettare la cura a qualcuno che ne ha «urgente bisogno».
Così la legge oggi tiene sotto osservazione, per così dire, la struttura sanitaria a cui ha dato un potere che ha a che fare con la libertà delle persone, valore che invece non sembra interessare una parte almeno di quella che si chiama «Casa delle libertà». Che per di più vuole consegnare i tso rinnovabili a un privato che vive sui posti letto, e che potrebbe avere perciò un qualche interesse a mantenerli occupati. Con questi elementi, è più facile capire chi vuole questa controriforma, e capire anche la vastità dei dissensi. «Oggi non servono altri posti letto, bisogna invece spendere nella ricerca», diceva qualche settimana fa, nel salotto televisivo di Bruno Vespa, Giovanni Battista Cassano, cattedratico di Pisa, uomo di punta della psichiatria biologica, di certo non «basagliano» come non lo sono la gran maggioranza degli psichiatri italiani. Che però non sono interessati a riprendere il ruolo di custodi della cronicità, consapevoli del fatto che spendere in contenitori assistenziali significa dire addio a qualunque genere di innovazione.
Questa controriforma, come giustamente notava in dicembre il responsabile sanità di An, l'on. Conti, «lascerebbe spazi non definiti all'imprenditoria privata» e quindi a trattative, fuori da ogni quadro e regola, tra i privati e le amministrazioni locali. La situazione della Calabria dove, come la nostra inchiesta ha documentato, i posti letto privati hanno fagocitato la quasi totalità delle risorse pubbliche per la salute mentale, potrebbe così diventare regola, nelle regioni in cui, come è il caso della Sicilia e della Puglia, i servizi territoriali sono stati tenuti in condizioni di debolezza a fronte di un privato mantenuto dalla spesa pubblica. Mentre nelle regioni in cui i servizi territoriali hanno segnato punti a proprio favore, come nel Lazio, che abbiamo documentato nella prima puntata, e nelle regioni in cui è ancora aperta la lotta tra pubblico e privato, come in Lombardia e Piemonte ma anche Emilia e Toscana, il cambio di legge in progetto potrebbe regalare ai privati una forza che sul campo non sono stati capaci di conquistare. Il privato vecchio e nuovo che abbiamo visto in psichiatria vive infatti non di successi terapeutici sulla disperazione dei familiari senza alternative.
Certo, c'è da capire perché questo privato non abbia mai voluto trasformarsi, seguendo le indicazioni della ricerca internazionale e della Organizzazione mondiale della sanità, che forniscono dati e indicazioni del tutto a favore dei sistemi territoriali, che del resto in Italia mostrano da tempo di saper conseguire successi terapeutici e consenso sociale.
La risposta sta verosimilmente nel fatto che questi nuovi modelli di servizio, i cui costi sono quasi del tutto assorbiti da un personale numeroso e variamente specializzato, non sono interessanti per chi ha l'obiettivo del profitto, che invece il posto letto può assicurare, dato che la custodia è una prestazione «labour saving», come dicono gli studiosi di organizzazione: fa risparmiare sul lavoro umano, e magari anche su altri costi dato che abbiamo a che fare con «clienti» che ben poco possono protestare o «uscire dal sistema», per usare i concetti di un lavoro famoso di Albert O. Hirschmann, Lealtà, defezione, protesta (Bompiani, 1982). E ancora meno potrebbero protestare e uscire se passasse la controriforma prospettata.
Anche in questo angolo della sanità dunque, che tanto piccolo non è se sono oltre 600mila i cittadini italiani che soffrono di disturbi mentali gravi, l'attuale maggioranza parlamentare, con le contraddizioni interne che abbiamo visto, appare mossa da gruppi di privi di ogni capacità innovativa e perciò parassitariamente dipendenti dalle risorse pubbliche, tutto il contrario insomma dell'abito che questa maggioranza cerca di indossare. Per questo non è possibile alcun dialogo sul testo che Burani Procaccini vuole offrire come base di discussione. Anche qui, come per la scuola, l'informazione e la giustizia, le libertà dei cittadini vengono pesantemente offese in nome degli interessi privati di alcuni gruppi di potere, in barba a ogni evidenza scientifica e persino contro la maggioranza degli operatori e degli utenti. Se mai battaglia parlamentare ci sarà, non potrà esserci alcuno spazio di compromesso.
(articoli sullo stesso tema sono apparsi il 3 e il 17 maggio, non più reperibili in rete)
«Psicoriforme» nel cassetto
Alla data di oggi risultano depositati presso la Commissione affari sociali della camera i seguenti disegni di legge. Il progetto n. 152 presentato il 30 maggio 2001 dal capogruppo della Lega Nord, Cè, che riorganizza in senso custodialistico il trattamento obbligatorio, analogamente al più complesso testo Burani Procaccini. Sempre nel 2001, il 14 giugno, è stato presentato il progetto n. 844 del deputato verde Cento, che vuole istituire «comunità socio-terapeutiche per il trattamento volontario e obbligatorio», poste sotto la responsabilità del Dipartimento di salute mentale. Del 9 luglio 2002 il disegno di legge n. 2998 della deputata Moroni, del Nuovo Psi, che riorganizza il tso e vorrebbe istituire un «Sistema informativo nazionale di vigilanza dei pazienti a rischio (Sinvip) costituito da un programma centralizzato di telemedicina psichiatrica, utilizzabile anche per pazienti geriatrici e portatori di handicap, dotato di un sintonizzatore-decodificatore, ( ..) finalizzato all'individuazione dell'identità del paziente e dei suoi parametri sanitari». Ultimo arrivato il disegno di legge n.3547 presentato il 16 gennaio 2003 dai deputati Bertinotti, Valpiana, Giordano e altri di Rifondazione comunista. Questo testo contiene «disposizioni per la determinazione dei Livelli essenziali di assistenza delle prestazioni sanitarie a favore dei soggetti non autosufficienti e dei soggetti affetti da malattia mentale, e per l'incremento delle pensioni in favore dei soggetti svantaggiati».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 27 maggio 2003
Jack Nicholson
L'Espresso
CINEMA: Jack il gigione: "E ora divento psichiatra"
"Nel prossimo film sarò uno strizzacervelli. Improbabile e un po' cialtrone..." . L'ultima commedia di Nicholson. Raccontata dal protagonista
Silvia Bizio
Dopo la rabbia contenuta nel crepuscolare "A proposito di Schmidt", con cui si è conquistato la sua dodicesima candidatura all'Oscar (oltre alle tre statuette già avute), Jack Nicholson gigioneggia alla grande, giocando sulla rabbia come caso clinico nella commedia "Terapia d'urto" firmata dal regista Peter Segal. Da spalla gli fa un grande Adam Sandler.
A 66 anni, Nicholson si conferma non solo il grande vecchio, ma pure il grande originale del cinema americano. Nel film interpreta lo psichiatra dai metodi eterodossi, un caso clinico di par suo, cui viene dato in cura il personaggio di Sandler. Gli somministra dosi massicce di "gestione della rabbia" ("Anger management", il titolo originale), usando tecniche invereconde per «tirar fuori l'arrabbiato che è in te».
Un film fatto di gag, scene assurde ed esagerazioni, e che gioca sulle personalità sopra le righe di entrambi, Nicholson e Sandler (il cui stereotipo del represso passivo-aggressivo è stato ben usato dal regista Paul Thomas Anderson nel recente "Punch-Drunk Love").
Con 60 film alle spalle, Nicholson ha recitato una vasta gamma di archetipi del maschio americano, dall'avvocato che sogna la fuga in "Easy Rider" al paziente rinchiuso in manicomio in "Qualcuno volò sul nido del cuculo" al marito che dà fuori di testa in "Shining" al folle Joker del primo "Batman". "Terapia d'urto" è invece la sua prima commedia "demenziale", recitata, dice, per «puro spirito di sfida». Aggiunge di aver accettato di farla, tra la perplessità dei suoi più cari amici, anche per lavorare con Sandler, di cui si sostiene un ammiratore («Mi piacciono i suoi film», confida).
Abbiamo incontrato Nicholson a Los Angeles. È un uomo di modi gentili, riflessivo, riservato: «Tutti pensano che sia sfrenato: invece sono un gattone», dice alzando le sopracciglia.
"Terapia d'urto" sembra prendere in giro i gruppi terapeutici. Chi può credere che vengano condotti in maniera così stravagante?
«Esistono terapisti come quelli del film. Ho fatto una ricerca, ne ho incontrati. Per prepararmi ho seguito gruppi di "anger management", cioè, mi ci hanno buttato dentro».
Aveva mai provato la terapia, prima?
«Certo, soprattutto al tempo del "Nido del cuculo", che venne girato dentro un manicomio. Fui uno dei primi a sperimentare l'Lsd negli anni '60: mi usavano all'Università, alla Ucla in California, come cavia. Nel corso degli anni ho fatto terapia tradizionale: ho un'amica psichiatra a New York, e un altro amico qui a Los Angeles che si divertono a vedermi. Fare terapia è come prendere lezione di recitazione».
Le serve?
«Eccome. Un terapista una volta mi ha detto: "Jack, sei il migliore paziente che uno si possa augurare: ti dico qual è il tuo problema e cosa devi fare; poi tu torni dopo una settimana e hai fatto esattamente quello che ti ho detto". Anche ai terapisti piace vedere i risultati. Io dò loro grandi soddisfazioni».
Crede che l'America faccia troppo affidamento sulla terapia?
«No. Oddio, ci sono tanti disonesti in giro, ed è vero che spesso l'accozzaglia di teorie oscura la materia. Ma la terapia onesta è come una medicina onesta: se sei malato, ti può curare».
Considera l'America un paese arrabbiato?
«Non conosco le statistiche, ma credo che vi sia una componente passivo-aggressiva nel nostro genoma. Io ho avuto i miei scatti di rabbia: mi sono analizzato e, spero, curato».
Non aveva problemi con lo humor particolare di Adam Sandler?
«No, perché lui è un originale. Ed essere originali non significa essere diverso dagli altri, significa essere te stesso e basta. Lui è così. Unico. Ha un modo di essere e una sensibilità molto particolari, che trascina gli altri. Mi ricorda James Dean».
Ma non temeva quel suo umore spesso giovanilistico, goliardico?
«Cerco di cancellare quel tipo di censura dalla mia mentalità. Bisogna rimanere aperti, anche in tarda età. È vero, ho avuto attacchi di panico pensando a questa parte. Dicevo: ecco mi sputtano. Ma ho trovato l'aggancio: il mio personaggio mi ricordava un po' Orson Welles nel "Terzo uomo". È così che lo avrei recitato: meno Jack, più Orson. All'inizio tutti pensano che questo terapista sia un ciarlatano, no? Beh, risulta che non lo è affatto. Questa è la base drammatica che mi ha consentito di non ritrovarmi col culo per terra».
Lei lavora moltissimo: dove trova l'energia?
«L'energia la trovo non uscendo più come prima. Faccio film e basta, il resto del tempo mi riposo».
Perfino Stanley Kubrick rimase sbalordito dal suo dinamismo e dalla voglia di divertirsi quando avete girato insieme "Shining", nel 1980.
«Chi lo nega? Andai a Londra per le riprese dicendo: adesso gliela faccio vedere io a questa gente. Ero così, un vero scatenato. Finì che dopo otto settimane caddi da un muro e rimasi fuori gioco per varie settimane. Capii che dovevo stare più attento al mio lavoro e non cadere dai muri. Fu allora che cominciai a calmarmi. È stato un processo lento: solo ora posso dire di essere entrato nella fase di appagato rincoglionimento. Non ho più la forza di fare troppa festa».
Cosa fa nel tempo libero?
«In verità ho una vita molto attiva che si svolge intorno alla mia casa, ho molti amici. Il lato divertimento è attentamente pianificato nella nostra società: il tennis quando hai 30 anni; lo sci a 40; il golf a 50. E a 60? Gli scacchi, naturalmente. E passo molto tempo con i miei figli. Dipingiamo insieme, e loro si divertono tanto».
Lei pianifica?
«Ho sempre un piano, ma niente va in accordo. Quel che conta è che sono una fonte inesauribile di energia e felicità, a volte, totalmente inaspettata».
CINEMA: Jack il gigione: "E ora divento psichiatra"
"Nel prossimo film sarò uno strizzacervelli. Improbabile e un po' cialtrone..." . L'ultima commedia di Nicholson. Raccontata dal protagonista
Silvia Bizio
Dopo la rabbia contenuta nel crepuscolare "A proposito di Schmidt", con cui si è conquistato la sua dodicesima candidatura all'Oscar (oltre alle tre statuette già avute), Jack Nicholson gigioneggia alla grande, giocando sulla rabbia come caso clinico nella commedia "Terapia d'urto" firmata dal regista Peter Segal. Da spalla gli fa un grande Adam Sandler.
A 66 anni, Nicholson si conferma non solo il grande vecchio, ma pure il grande originale del cinema americano. Nel film interpreta lo psichiatra dai metodi eterodossi, un caso clinico di par suo, cui viene dato in cura il personaggio di Sandler. Gli somministra dosi massicce di "gestione della rabbia" ("Anger management", il titolo originale), usando tecniche invereconde per «tirar fuori l'arrabbiato che è in te».
Un film fatto di gag, scene assurde ed esagerazioni, e che gioca sulle personalità sopra le righe di entrambi, Nicholson e Sandler (il cui stereotipo del represso passivo-aggressivo è stato ben usato dal regista Paul Thomas Anderson nel recente "Punch-Drunk Love").
Con 60 film alle spalle, Nicholson ha recitato una vasta gamma di archetipi del maschio americano, dall'avvocato che sogna la fuga in "Easy Rider" al paziente rinchiuso in manicomio in "Qualcuno volò sul nido del cuculo" al marito che dà fuori di testa in "Shining" al folle Joker del primo "Batman". "Terapia d'urto" è invece la sua prima commedia "demenziale", recitata, dice, per «puro spirito di sfida». Aggiunge di aver accettato di farla, tra la perplessità dei suoi più cari amici, anche per lavorare con Sandler, di cui si sostiene un ammiratore («Mi piacciono i suoi film», confida).
Abbiamo incontrato Nicholson a Los Angeles. È un uomo di modi gentili, riflessivo, riservato: «Tutti pensano che sia sfrenato: invece sono un gattone», dice alzando le sopracciglia.
"Terapia d'urto" sembra prendere in giro i gruppi terapeutici. Chi può credere che vengano condotti in maniera così stravagante?
«Esistono terapisti come quelli del film. Ho fatto una ricerca, ne ho incontrati. Per prepararmi ho seguito gruppi di "anger management", cioè, mi ci hanno buttato dentro».
Aveva mai provato la terapia, prima?
«Certo, soprattutto al tempo del "Nido del cuculo", che venne girato dentro un manicomio. Fui uno dei primi a sperimentare l'Lsd negli anni '60: mi usavano all'Università, alla Ucla in California, come cavia. Nel corso degli anni ho fatto terapia tradizionale: ho un'amica psichiatra a New York, e un altro amico qui a Los Angeles che si divertono a vedermi. Fare terapia è come prendere lezione di recitazione».
Le serve?
«Eccome. Un terapista una volta mi ha detto: "Jack, sei il migliore paziente che uno si possa augurare: ti dico qual è il tuo problema e cosa devi fare; poi tu torni dopo una settimana e hai fatto esattamente quello che ti ho detto". Anche ai terapisti piace vedere i risultati. Io dò loro grandi soddisfazioni».
Crede che l'America faccia troppo affidamento sulla terapia?
«No. Oddio, ci sono tanti disonesti in giro, ed è vero che spesso l'accozzaglia di teorie oscura la materia. Ma la terapia onesta è come una medicina onesta: se sei malato, ti può curare».
Considera l'America un paese arrabbiato?
«Non conosco le statistiche, ma credo che vi sia una componente passivo-aggressiva nel nostro genoma. Io ho avuto i miei scatti di rabbia: mi sono analizzato e, spero, curato».
Non aveva problemi con lo humor particolare di Adam Sandler?
«No, perché lui è un originale. Ed essere originali non significa essere diverso dagli altri, significa essere te stesso e basta. Lui è così. Unico. Ha un modo di essere e una sensibilità molto particolari, che trascina gli altri. Mi ricorda James Dean».
Ma non temeva quel suo umore spesso giovanilistico, goliardico?
«Cerco di cancellare quel tipo di censura dalla mia mentalità. Bisogna rimanere aperti, anche in tarda età. È vero, ho avuto attacchi di panico pensando a questa parte. Dicevo: ecco mi sputtano. Ma ho trovato l'aggancio: il mio personaggio mi ricordava un po' Orson Welles nel "Terzo uomo". È così che lo avrei recitato: meno Jack, più Orson. All'inizio tutti pensano che questo terapista sia un ciarlatano, no? Beh, risulta che non lo è affatto. Questa è la base drammatica che mi ha consentito di non ritrovarmi col culo per terra».
Lei lavora moltissimo: dove trova l'energia?
«L'energia la trovo non uscendo più come prima. Faccio film e basta, il resto del tempo mi riposo».
Perfino Stanley Kubrick rimase sbalordito dal suo dinamismo e dalla voglia di divertirsi quando avete girato insieme "Shining", nel 1980.
«Chi lo nega? Andai a Londra per le riprese dicendo: adesso gliela faccio vedere io a questa gente. Ero così, un vero scatenato. Finì che dopo otto settimane caddi da un muro e rimasi fuori gioco per varie settimane. Capii che dovevo stare più attento al mio lavoro e non cadere dai muri. Fu allora che cominciai a calmarmi. È stato un processo lento: solo ora posso dire di essere entrato nella fase di appagato rincoglionimento. Non ho più la forza di fare troppa festa».
Cosa fa nel tempo libero?
«In verità ho una vita molto attiva che si svolge intorno alla mia casa, ho molti amici. Il lato divertimento è attentamente pianificato nella nostra società: il tennis quando hai 30 anni; lo sci a 40; il golf a 50. E a 60? Gli scacchi, naturalmente. E passo molto tempo con i miei figli. Dipingiamo insieme, e loro si divertono tanto».
Lei pianifica?
«Ho sempre un piano, ma niente va in accordo. Quel che conta è che sono una fonte inesauribile di energia e felicità, a volte, totalmente inaspettata».
ultime sulla "mamma di Cogne"
La Stampa 27.5.03
L'avvoato Taormina sostiene di non essere intenzionato a presentare le controdeduzioni difensive.
«Se vogliono processino la Franzoni»
Da domani possibile la richiesta di rinvio a giudizio
di Enrico Marcoz
AOSTA E' già pronta negli uffici della procura di Aosta la richiesta di rinvio a giudizio per Anna Maria Franzoni, la mamma del piccolo Samuele Lorenzi ucciso il 30 gennaio 2002 a Cogne. Il sostituto procuratore Stefania Cugge potrebbe depositare l'atto già domani nella cancelleria del giudice per l'udienza preliminare Eugenio Gramola. Il condizionale è d'obbligo perché non sono escluse sorprese dell'ultima ora da parte dell'avvocato Carlo Taormina, difensore della Franzoni. «Avevo annunciato la presentazione di una memoria difensiva - ha detto ieri il legale - ma ci ho ripensato. Ora la procura può fare quello che vuole, come peraltro ha sempre fatto. Possiamo anche andare al processo tra una settimana». Se oggi l'avvocato non depositerà le sue controdeduzioni, come previsto dall'articolo 415 bis del codice di procedura penale, scadranno i termini a disposizione della difesa e la procura potrà chiudere definitivamente l'inchiesta a quasi 500 giorni dal delitto. Nei giorni scorsi Taormina aveva chiesto una nuova integrazione all'avviso di conclusione delle indagini per ottenere un rinvio dei termini. Nell'istanza si chiedeva che venisse inserita nel fascicolo processuale una videocassetta registrata dai carabinieri del Ris di Parma nella villetta di Cogne dove è avvenuto il delitto. Per gli inquirenti quella videocassetta non esiste, perciò la richiesta è stata respinta dalla procura. «Non ci saranno ulteriori integrazioni all'avviso di conclusione delle indagini» è l'unico commento del procuratore capo Maria Del Savio Bonaudo. Una volta presentata la richiesta di rinvio a giudizio, da indagata Anna Maria Franzoni diventerà imputata. L'accusa nei suoi confronti è omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela. Secondo la procura, è stata lei ad uccidere il figlioletto con un'oggetto contundente che risulta scomparso. Samuele Lorenzi era stato trovato in fin di vita, nel letto dei genitori, con 17 ferite sul capo. In base alla perizia psichiatrica Anna Maria Franzoni è capace di intendere e volere, lo era al momento del fatto ed è pienamente in grado di partecipare al processo. I periti psichiatrici nominati dal gip Fabrizio Gandini hanno anche escluso disturbi dissociativi. Contro di lei pesano le ricostruzioni tecnico-scientifiche del Ris, il cui operato è stato più volte criticato dall'avvocato Taormina. La difesa ha anche nominato consulenti di fama internazionale per realizzare una controperizia da opporre a quella dei carabinieri. I risultati, però, non sono ancora stati resi noti.
L'avvoato Taormina sostiene di non essere intenzionato a presentare le controdeduzioni difensive.
«Se vogliono processino la Franzoni»
Da domani possibile la richiesta di rinvio a giudizio
di Enrico Marcoz
AOSTA E' già pronta negli uffici della procura di Aosta la richiesta di rinvio a giudizio per Anna Maria Franzoni, la mamma del piccolo Samuele Lorenzi ucciso il 30 gennaio 2002 a Cogne. Il sostituto procuratore Stefania Cugge potrebbe depositare l'atto già domani nella cancelleria del giudice per l'udienza preliminare Eugenio Gramola. Il condizionale è d'obbligo perché non sono escluse sorprese dell'ultima ora da parte dell'avvocato Carlo Taormina, difensore della Franzoni. «Avevo annunciato la presentazione di una memoria difensiva - ha detto ieri il legale - ma ci ho ripensato. Ora la procura può fare quello che vuole, come peraltro ha sempre fatto. Possiamo anche andare al processo tra una settimana». Se oggi l'avvocato non depositerà le sue controdeduzioni, come previsto dall'articolo 415 bis del codice di procedura penale, scadranno i termini a disposizione della difesa e la procura potrà chiudere definitivamente l'inchiesta a quasi 500 giorni dal delitto. Nei giorni scorsi Taormina aveva chiesto una nuova integrazione all'avviso di conclusione delle indagini per ottenere un rinvio dei termini. Nell'istanza si chiedeva che venisse inserita nel fascicolo processuale una videocassetta registrata dai carabinieri del Ris di Parma nella villetta di Cogne dove è avvenuto il delitto. Per gli inquirenti quella videocassetta non esiste, perciò la richiesta è stata respinta dalla procura. «Non ci saranno ulteriori integrazioni all'avviso di conclusione delle indagini» è l'unico commento del procuratore capo Maria Del Savio Bonaudo. Una volta presentata la richiesta di rinvio a giudizio, da indagata Anna Maria Franzoni diventerà imputata. L'accusa nei suoi confronti è omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela. Secondo la procura, è stata lei ad uccidere il figlioletto con un'oggetto contundente che risulta scomparso. Samuele Lorenzi era stato trovato in fin di vita, nel letto dei genitori, con 17 ferite sul capo. In base alla perizia psichiatrica Anna Maria Franzoni è capace di intendere e volere, lo era al momento del fatto ed è pienamente in grado di partecipare al processo. I periti psichiatrici nominati dal gip Fabrizio Gandini hanno anche escluso disturbi dissociativi. Contro di lei pesano le ricostruzioni tecnico-scientifiche del Ris, il cui operato è stato più volte criticato dall'avvocato Taormina. La difesa ha anche nominato consulenti di fama internazionale per realizzare una controperizia da opporre a quella dei carabinieri. I risultati, però, non sono ancora stati resi noti.
istinto materno?
Il Mattino di Padova 27.5.03
L'istinto materno non è innato e neppure scontato
di Adina Agugiaro
La nuda realtà dei fatti: una giovane donna di 32 anni, da tre mesi madre del suo primo figlio, con una vita in apparenza normale a livello affettivo, economico e lavorativo, si chiude nel garage di casa, si cosparge di benzina, si dà fuoco e muore carbonizzata. La diagnosi psichiatrica, già elaborata e per la quale la ragazza era in cura: depressione puerperale; meglio, data la gravità della risposta emotiva: psicosi puerperale.
Tentiamo una riflessione più articolata sull'evento-vita per eccellenza, la nascita, cui la madre risponde con l'evento morte per eccellenza: il suicidio (anche se non è affatto rara l'alternativa dell'infanticidio). In passato l'interpretazione predominante di queste patologìe era di tipo «biologico», legata cioè allo stress endocrino-vegetativo che la gravidanza procura al corpo femminile. Oggi, pur con attenzione massima verso questi aspetti, che risente in modo spesso spettacolare dell'intervento farmacologico, si preferisce guardare più globalmente alla situazione della donna nei suoi rapporti con «l'evento materno». Per chiederci: quando comincia realmente la maternità in lei? Al momento della fecondazione? Al momento del parto? O non piuttosto nella prima infanzia quando la bambina, nel rapporto con la propria madre e nelle fantasie di essere madre a sua volta dà forma al primo nucleo psicologico della maternità?
Nel processo di somiglianza e differenziazione con la propria madre, che dura tutta la vita, la prima gravidanza è un evento sconvolgente, chiamiamolo pure «una crisi» che rimette in gioco tutto il lavorio psicologico compiuto sino a quel momento; dando origine o a un nuovo, più maturo equilibrio o a un trauma anche definitivo, qual è la distruzione della madre o del figlio. Nei nove mesi di coabitazione si realizza tra i due una serie di scambi, che fa rivivere alla donna la fusione psicologica con la propria madre; in un rapporto intricato di vecchie e nuove identificazioni, che mettono in gioco ben tre generazioni: la nonna, la figlia, il neonato. Subito dopo il parto, la neo-mamma deve realizzare il salto dalla gravidanza alla maternità, tollerando lo scarto inevitabile tra bambino immaginato e neonato reale, tra fantasia e realtà, ed accettando inoltre l'avvenuta separazione fisica dal figlio. La madre sana tollera questo spazio vuoto fisico-psicologico e, ponendosi in sintonia coi bisogni del bambino, realizza con lui la necessaria simbiosi dei primi mesi.
La psicosi puerperale è invece un tentativo - in alcuni casi riuscito - di sfuggire al contatto profondo col neonato. Troppo complesso spiegare qui perché una madre si sottragga - anche a prezzo della propria vita - a un compito che la società considera innato in lei, sacrale. Di certo uno degli elementi determinanti per il fallimento relazionale mamma-bambino è l'identificazione negativa che la puerpera ha realizzato in passato con la propria madre, vissuta come minacciante. Una latente aggressività, mai prima da lei percepita, irrompe all'interno del rapporto col figlio, facendo prevalere terribili fantasie di vicendevole distruzione su quelle di amore e di riparazione.
Bisognosi come siamo di sentirci rassicurati tutti, in quanto genitori e in quanto figli, di fronte a questi tragici fatti di cronaca, preferiamo nasconderci dietro l'alibi della follia. Troppo semplice e in fondo vigliacco. L'istinto materno non è in realtà né innato né scontato; solo un'autentica protezione del rapporto madre-bambino, dal primo istante in cui esso si realizza, costituisce garanzia di prevenzione contro una sofferenza mentale che arriva sino alla morte.
L'istinto materno non è innato e neppure scontato
di Adina Agugiaro
La nuda realtà dei fatti: una giovane donna di 32 anni, da tre mesi madre del suo primo figlio, con una vita in apparenza normale a livello affettivo, economico e lavorativo, si chiude nel garage di casa, si cosparge di benzina, si dà fuoco e muore carbonizzata. La diagnosi psichiatrica, già elaborata e per la quale la ragazza era in cura: depressione puerperale; meglio, data la gravità della risposta emotiva: psicosi puerperale.
Tentiamo una riflessione più articolata sull'evento-vita per eccellenza, la nascita, cui la madre risponde con l'evento morte per eccellenza: il suicidio (anche se non è affatto rara l'alternativa dell'infanticidio). In passato l'interpretazione predominante di queste patologìe era di tipo «biologico», legata cioè allo stress endocrino-vegetativo che la gravidanza procura al corpo femminile. Oggi, pur con attenzione massima verso questi aspetti, che risente in modo spesso spettacolare dell'intervento farmacologico, si preferisce guardare più globalmente alla situazione della donna nei suoi rapporti con «l'evento materno». Per chiederci: quando comincia realmente la maternità in lei? Al momento della fecondazione? Al momento del parto? O non piuttosto nella prima infanzia quando la bambina, nel rapporto con la propria madre e nelle fantasie di essere madre a sua volta dà forma al primo nucleo psicologico della maternità?
Nel processo di somiglianza e differenziazione con la propria madre, che dura tutta la vita, la prima gravidanza è un evento sconvolgente, chiamiamolo pure «una crisi» che rimette in gioco tutto il lavorio psicologico compiuto sino a quel momento; dando origine o a un nuovo, più maturo equilibrio o a un trauma anche definitivo, qual è la distruzione della madre o del figlio. Nei nove mesi di coabitazione si realizza tra i due una serie di scambi, che fa rivivere alla donna la fusione psicologica con la propria madre; in un rapporto intricato di vecchie e nuove identificazioni, che mettono in gioco ben tre generazioni: la nonna, la figlia, il neonato. Subito dopo il parto, la neo-mamma deve realizzare il salto dalla gravidanza alla maternità, tollerando lo scarto inevitabile tra bambino immaginato e neonato reale, tra fantasia e realtà, ed accettando inoltre l'avvenuta separazione fisica dal figlio. La madre sana tollera questo spazio vuoto fisico-psicologico e, ponendosi in sintonia coi bisogni del bambino, realizza con lui la necessaria simbiosi dei primi mesi.
La psicosi puerperale è invece un tentativo - in alcuni casi riuscito - di sfuggire al contatto profondo col neonato. Troppo complesso spiegare qui perché una madre si sottragga - anche a prezzo della propria vita - a un compito che la società considera innato in lei, sacrale. Di certo uno degli elementi determinanti per il fallimento relazionale mamma-bambino è l'identificazione negativa che la puerpera ha realizzato in passato con la propria madre, vissuta come minacciante. Una latente aggressività, mai prima da lei percepita, irrompe all'interno del rapporto col figlio, facendo prevalere terribili fantasie di vicendevole distruzione su quelle di amore e di riparazione.
Bisognosi come siamo di sentirci rassicurati tutti, in quanto genitori e in quanto figli, di fronte a questi tragici fatti di cronaca, preferiamo nasconderci dietro l'alibi della follia. Troppo semplice e in fondo vigliacco. L'istinto materno non è in realtà né innato né scontato; solo un'autentica protezione del rapporto madre-bambino, dal primo istante in cui esso si realizza, costituisce garanzia di prevenzione contro una sofferenza mentale che arriva sino alla morte.
depressione «post partum»
Il Mattino di Padova 27.5.03
Lo psichiatra Luigi Pavan
«Ne soffrono tutte le mamme ma spesso nessuno le capisce»
L'analisi dello specialista
Simonetta Zanetti
PADOVA. Si manifesta con debolezza, insonnia, disinteresse per la realtà, ma soprattutto con quei pianti troppo spesso sottovalutati, se non addirittura derisi. In una puerpera questi sono i segnali inequivocabili della depressione «post partum», un problema clinico reale che troppo spesso le convinzioni popolari relegano tra i capricci delle neomadri, da curare con buone dosi di tolleranza e sorrisi di circostanza. Dietro a questi sintomi c'è invece il malessere reale di una persona soggetta a mutazioni psico-fisiche continue, che causano un vortice di problematiche sia a livello mentale che biologico: «Dal punto di vista prettamente fisico, il corpo di una donna che ha appena partorito si trova coinvolto in una trasformazione in cui gli ormoni sono alla ricerca di un nuovo assetto. Parallelamente inoltre la donna passa da uno stato di pienezza e soddisfazione a una sensazione di separazione e perdita» spiega il professor Luigi Pavan, direttore della Clinica psichiatrica dell'Azienda ospedaliera, nonché presidente dell'Associazione italiana per lo studio e la prevenzione del suicidio, secondo il quale l'80% dei gesti estremi coinvolge persone che soffrono o hanno sofferto di depressione.
Sebbene quindi secondo l'opinione comune per una donna il massimo del benessere si verifichi nell'incontro tra madre e figlio, diversamente a livello psico-fisico il parto per la puerpera segna un momento di distacco, che nelle primipare è ancora più doloroso rispetto alle donne che hanno già avuto un figlio: «La depressione post partum è un problema culturale, poiché sia la gente comune che i medici sono portati a stigmatizzarne i sintomi, sottovalutando disagi reali che richiedono invece una grande sensibilità nell'approccio» prosegue lo specialista. In realtà infatti tutte le neo mamme nei primi sei mesi dopo il parto soffrono di depressione, che può essere più o meno accentuata: «In certe situazioni bisogna prestare grande attenzione alle sfumature, poiché a volte intervenire quando il problema è conclamato può essere troppo tardi - sottolinea il professor Pavan - Quando si assiste a un cambiamento della personalità, è necessario rivolgersi immediatamente al medico di base o, se la situazione appare particolarmente compromessa, direttamente allo psichiatra. A quel punto noi interveniamo con un approccio che è al tempo stesso ambientale, psicologico e medico, che può contemplare anche un trattamento farmacologico. Solitamente il primo passo è quello di sospendere l'allattamento, per deresponsabilizzare la madre». Tuttavia, di fronte a una malattia subdola, anche il tentativo di alleggerire la puerpera dalle proprie responsabilità può rivelarsi un'arma a doppio taglio: «La maggior parte delle donne che non allattano il figlio sono portate a sentirsi in colpa nei confronti del piccolo. Inoltre alcune di loro mascherano consapevolmente il malessere, proprio per non essere considerate persone deboli» commenta il medico, ancora sconcertato per le modalità con cui la giovane madre di Carmignano si è tolta la vita: «Solitamente le donne per suicidarsi prediligono l'overdose di farmaci e l'annegamento, mentre il darsi fuoco è caratteristico del suicidio simbolico tipico della protesta politica - conclude il professor Pavan - Almeno, diversamente da come avviene nella maggior parte delle tragedie di questo tipo, la madre non ha scelto la formula dell'omicidio-suicidio, laddove molte donne uccidono il figlioletto per salvarlo da quella stessa sofferenza che loro provano».
Lo psichiatra Luigi Pavan
«Ne soffrono tutte le mamme ma spesso nessuno le capisce»
L'analisi dello specialista
Simonetta Zanetti
PADOVA. Si manifesta con debolezza, insonnia, disinteresse per la realtà, ma soprattutto con quei pianti troppo spesso sottovalutati, se non addirittura derisi. In una puerpera questi sono i segnali inequivocabili della depressione «post partum», un problema clinico reale che troppo spesso le convinzioni popolari relegano tra i capricci delle neomadri, da curare con buone dosi di tolleranza e sorrisi di circostanza. Dietro a questi sintomi c'è invece il malessere reale di una persona soggetta a mutazioni psico-fisiche continue, che causano un vortice di problematiche sia a livello mentale che biologico: «Dal punto di vista prettamente fisico, il corpo di una donna che ha appena partorito si trova coinvolto in una trasformazione in cui gli ormoni sono alla ricerca di un nuovo assetto. Parallelamente inoltre la donna passa da uno stato di pienezza e soddisfazione a una sensazione di separazione e perdita» spiega il professor Luigi Pavan, direttore della Clinica psichiatrica dell'Azienda ospedaliera, nonché presidente dell'Associazione italiana per lo studio e la prevenzione del suicidio, secondo il quale l'80% dei gesti estremi coinvolge persone che soffrono o hanno sofferto di depressione.
Sebbene quindi secondo l'opinione comune per una donna il massimo del benessere si verifichi nell'incontro tra madre e figlio, diversamente a livello psico-fisico il parto per la puerpera segna un momento di distacco, che nelle primipare è ancora più doloroso rispetto alle donne che hanno già avuto un figlio: «La depressione post partum è un problema culturale, poiché sia la gente comune che i medici sono portati a stigmatizzarne i sintomi, sottovalutando disagi reali che richiedono invece una grande sensibilità nell'approccio» prosegue lo specialista. In realtà infatti tutte le neo mamme nei primi sei mesi dopo il parto soffrono di depressione, che può essere più o meno accentuata: «In certe situazioni bisogna prestare grande attenzione alle sfumature, poiché a volte intervenire quando il problema è conclamato può essere troppo tardi - sottolinea il professor Pavan - Quando si assiste a un cambiamento della personalità, è necessario rivolgersi immediatamente al medico di base o, se la situazione appare particolarmente compromessa, direttamente allo psichiatra. A quel punto noi interveniamo con un approccio che è al tempo stesso ambientale, psicologico e medico, che può contemplare anche un trattamento farmacologico. Solitamente il primo passo è quello di sospendere l'allattamento, per deresponsabilizzare la madre». Tuttavia, di fronte a una malattia subdola, anche il tentativo di alleggerire la puerpera dalle proprie responsabilità può rivelarsi un'arma a doppio taglio: «La maggior parte delle donne che non allattano il figlio sono portate a sentirsi in colpa nei confronti del piccolo. Inoltre alcune di loro mascherano consapevolmente il malessere, proprio per non essere considerate persone deboli» commenta il medico, ancora sconcertato per le modalità con cui la giovane madre di Carmignano si è tolta la vita: «Solitamente le donne per suicidarsi prediligono l'overdose di farmaci e l'annegamento, mentre il darsi fuoco è caratteristico del suicidio simbolico tipico della protesta politica - conclude il professor Pavan - Almeno, diversamente da come avviene nella maggior parte delle tragedie di questo tipo, la madre non ha scelto la formula dell'omicidio-suicidio, laddove molte donne uccidono il figlioletto per salvarlo da quella stessa sofferenza che loro provano».
psicosomatica
L'Espresso
Che mal di matrimonio
Allergie. Gastriti. Disturbi cardiocircolatori. Asma. La biochimica svela che cosa succede quando l'amore diventa consuetudine
di Maria Serena Palieri
Asma, pruriti, eczemi,vene varicose, ulcera, gastrite, cefalea, insonnia cronica, anoressia, bulimia. Qual è il filo che lega queste malattie? Sono le più frequenti sindromi da matrimonio: le patologie, cioè, che colpiscono mogli e mariti che nutrono un'infelicità affettiva. Soffri di problemi circolatori? Chiediti se, sotto sotto, non ti senti abbandonato o poco amato dal tuo coniuge. Poi ci sono i disturbi che vanno dritti al bersaglio, quelli che impediscono di condividere l'intimità di una vita sessuale felice: impotenza per lui; anorgasmie, vaginismi o dispareunie per lei. Col progredire di alcuni studi, in particolare quelli sulla biochimica delle emozioni, ci si avvicina alla dimostrazione scientifica della verità intuitiva: un matrimonio infelice può far ammalare, e un'unione serena aiuta a stare bene, a superare meglio le malattie.
Se il matrimonio ci crea problemi di salute è per una ragione biochimica, spiega Alessandra Graziottin, ginecologa e oncologa: la caduta della serotonina, cui seguono depressione e abbassamento dei ritmi vitali, dal desiderio sessuale alle difese immunitarie. Un circolo vizioso simile è quello provocato dall'aumento della prolattina, in caso di stress cronico: nell'uomo il testosterone si abbassa, e con esso la libido e l'energia vitale. Mentre è sempre un ormone a nutrirci di felicità: l'ossitocina, il neuro-ormone che è il mediatore più importante dei nostri legami affettivi e che non a caso viene abbondantemente liberato dal nostro corpo durante l'orgasmo. Insomma, le neuroscienze stanno dimostrando che cervello, sistema immunitario e sistema endocrino sono un triumvirato che governa quel tutt'uno che noi siamo: corpo, psiche e mente. E che le malattie psicosomatiche non sono un'invenzione: hanno basi oggettive. Più che mai nel matrimonio, dove la materia prima del legame sono, o dovrebbero essere, proprio le emozioni e il sentimento.
Che il matrimonio agisca sulla salute, lo dicono anche degli studi sperimentali. Uno screening undicennale, da poco concluso al Royal Free Hospital di Londra, sulle malattie cardiovascolari, ha seguito 7 mila pazienti sopra i quarant'anni e ha dimostrato che l'infarto colpisce in percentuale doppia gli uomini scapoli rispetto agli ammogliati: l'uomo sposato gode (di solito) della cura e della regolarità di vita che la moglie gli regala.
Può anche accadere il contrario: che il matrimonio faccia ammalare. Racconta Piero Parietti, medico-psichiatra, presidente della Società italiana di medicina psicosomatica, che ha raccolto un'ampia casistica di mali da matrimonio: «La prima distinzione da fare è questa: esistono risposte fisiologiche alle emozioni ed esistono risposte patologiche, siano disturbi o siano, se più gravi, lesioni. Se squilla il telefono, io rispondo e, ascoltando una voce femminile particolarmente dolce, sento che mi batte il cuore, questo è fisiologico. Ma se il mio cuore ha un battito troppo accelerato senza causa diretta, questo è un disturbo. E se ho l'ulcera, questa è una lesione. Ci sono una serie di disturbi e lesioni che svelano spesso un'origine psicosomatica: malattie della pelle, disturbi circolatori e respiratori, malattie dell'apparato digerente».
E cosa c'entra il matrimonio? «Il matrimonio è un patto che implica, per definizione, delle valenze affettive ed emotive. Nella norma, se questo patto non funziona, dà origine a disturbi, più che lesioni», continua Parietti: «Per esempio, la stitichezza: può corrispondere a un desiderio di tenersi per sé l'affetto, di non dare amore all'altro. Prendiamo l'asma bronchiale: respirare significa mettere aria dentro e mandarla fuori, e l'asma è una perfetta somatizzazione per chi sente di dipendere da una persona ma, contemporaneamente, si sente soffocare e vorrebbe essere indipendente. Eczemi e psoriasi, invece, possono rivelarsi una strategia difensiva per evitare il contatto fisico. Nelle coppie, per lo più, si parla poco: si grida o si tace. È diffusa l'alessitimia, la sindrome che consiste nel non conoscere le parole che esprimono le emozioni. Nelle coppie si "manda giù". Questa è una delle origini delle malattie da matrimonio».
La lingua dei litigi coniugali è infarcita di espressioni che rimandano a un disagio corporeo: «Sei come un mattone sullo stomaco»; «Questo comportamento non lo digerisco»; «Mi dai l'allergia». E a volte l'allergia arriva davvero. Allora, spiega Parietti, per rimediare agli effetti di un disagio «occorre ripristinare, attraverso tecniche di rilassamento e movimento, un rapporto col corpo armonioso, meno strumentale. Spesso la psicosomatica ricorre all'ipnosi e utilizza stati di coscienza modificati per far affiorare non solo i problemi del paziente, ma anche le sue fantasie inconsce e le sue risorse interiori». Il medico racconta un caso clinico emblematico: quello di una giovane donna che, appena sposata, cominciò a soffrire di pruriti diffusi e insopportabili che scomparivano quando il marito si allontanava da casa qualche giorno per lavoro. I medici ipotizzarono una forma di inibizione sessuale. Curata, la ragazza sembrò guarire e riuscì a mettere e al mondo una bambina. Che, poche settimane dopo la nascita, si ammalò di crosta lattea: il disturbo della mamma non era sessuale in senso stretto, era un'incapacità profonda al contatto fisico.
«Ho il mal di testa»; «Sono stanco»: anche le classiche scuse , di lei e di lui, per evitare il sesso, possono avere un fondamento obiettivo. In chiave psicosomatica questi disturbi si rivelano come un'arma usata per evitare l'intimità sessuale. La stessa psicosomatica ammette che sono disturbi veri: lei, quando si avvicina il momento di fare l'amore, ha una cefalea reale, lui ha davvero una stanchezza cronica.
E questa può diventare la molla per altre sindromi da matrimonio, quelle che fioriscono più specificamente nella sfera sessuale. Ma c'è una premessa indispensabile, avvertono gli specialisti. Quando si parla di sessualità bisogna ricordare che questa, in una coppia, agisce in due direzioni: da un lato, a seconda che funzioni o no, il sesso è un motore di intesa o di dissidio sul piano affettivo; dall'altro è nella sessualità che la coppia esprime la propria intesa amorosa o scarica il proprio disagio sentimentale. Insomma, quello del sesso è un linguaggio che è, per definizione, a doppia faccia, ambiguo. Una donna anorgasmica può esprimere, con la sua freddezza, ostilità e sfiducia nei confronti del marito. La stessa anorgasmia può mettere in circolo nella coppia irritazione e aggressività.
Giorgio Rifelli, che dirige a Bologna il Centro italiano di sessuologia, racconta che i disagi sessuali a volte si esprimono per via metaforica: un'ulcera, una gastrite, una colite o un mal di testa ricorrente sono, in alcune donne, il sintomo di un rapporto insoddisfacente con il proprio corpo, una difesa da se stesse quando si vive il desiderio, appunto, come una fonte di disagio; ma sono anche il modo per allontanare un marito che manda richieste sessuali ossessive. Così le coppie mascherano il disamore a cui corrisponde la mancanza di desiderio. Che però può manifestarsi in maniera molto più diretta. Così il disamore prende la forma esplicita dell'impossibilità al coito, «per gli uomini con la mancanza di erezione; per le donne, con il vaginismo e la dispareunia prima, e poi l'anorgasmia. La vera patologia di oggi, però, è la mancanza di desiderio. E questo, per una società che teorizza la libertà sessuale, è un paradosso. Nel mondo femminile la patologia è meno conclamata, più nascosta. Ma i maschi, che sono legati a un'idea di virilità intesa come effervescenza, irruenza, vengono da noi perché non hanno nessuna voglia di avere rapporti».
Purtroppo il più delle volte il sessuologo non ha molto da offrire: «In un matrimonio l'assenza di desiderio è sinonimo di disperazione. La curiamo con trattamenti psicoterapeutici per il singolo o per la coppia. Ma senza molte chance, perché spesso il disagio erotico può essere la rappresentazione di ostilità profonde». Che certo non si risolvono con Viagra e pillole. «Un farmaco può agevolare un rapporto sessuale in senso meccanico, ma non restituisce il desiderio. E chi non desidera, non vuole neppure aiutarsi con un farmaco», osserva Rifelli. Una pillola non basta ad agire sul continente profondo dove nascono la libido e le fantasie erotiche.
Libido in picchiata e mancanza di dialogo, dunque, scatenano processi ormonali, neurologici e immunitari del tutto incontrollabili. Su cui pesa il ritmo frenetico, imposto dalla vita fuori dalle mura domestiche, che crea distanze affettive. Margaret Carlson, commentatrice del settimanale americano "Time", osserva che, specie per le donne, oggi la vera soddisfazione erotica è nel dormire: per gli workalcoholics, i drogati da lavoro, abbandonarsi nelle braccia di Morfeo è un piacere molto più bramato che fare l'amore con il partner. E questo naturalmente non giova all'intesa matrimoniale.
Alessandra Graziottin usa il fattore sonno tutto al contrario: il sonno - dice - è un ottimo indicatore della salute affettiva della coppia. «Chi dorme bene, quanto gli serve e profondamente, probabilmente ha una vita sessuale e affettiva serena. Il sonno più rigenerante non è quello che ci coglie dopo un rapporto sessuale appagante?», osserva. Se è così, alle coppie italiane va male: ben 12 milioni di persone, nel nostro paese, dormono cronicamente poco e male, stando allo studio "Morfeo 2" dell'Associazione italiana di medicina del sonno.
Il matrimonio, osservano Eugenia Scabini e Raffaella Efrate in un libro appena uscito per la casa editrice il Mulino, "Psicologia dei legami familiari", è sempre più "di coppia", invece che "coniugale". Le autrici intendono dire che è costruito su sentimento e intesa a due, invece che su un progetto. Certamente è più romantico, ma, ammoniscono le studiose, è anche più effimero. E quando il sentimento evapora, va in pezzi. Allora ci si lascia sempre più spesso, ma, anche, ci si ammala: del dolore che dà un amore finito, di dire addio o essere abbandonati.
A meno che, come suggerisce in conclusione Alessandra Graziottin, non si reimpari a sposarsi «bene»: a scegliere un partner non facendosi ispirare da logiche d'immagine, o dall'infantilismo, o dal narcisismo, le grandi malattie psicologiche di questi anni, ma in modo sano, perché quel lui o quella lei ci "fanno bene". Allora potremo scoprire che, se il matrimonio infelice fa ammalare di asma e di eczemi, fa diventare scheletrici oppure obesi, quello felice è la migliore terapia per il corpo e per l'anima.
Che mal di matrimonio
Allergie. Gastriti. Disturbi cardiocircolatori. Asma. La biochimica svela che cosa succede quando l'amore diventa consuetudine
di Maria Serena Palieri
Asma, pruriti, eczemi,vene varicose, ulcera, gastrite, cefalea, insonnia cronica, anoressia, bulimia. Qual è il filo che lega queste malattie? Sono le più frequenti sindromi da matrimonio: le patologie, cioè, che colpiscono mogli e mariti che nutrono un'infelicità affettiva. Soffri di problemi circolatori? Chiediti se, sotto sotto, non ti senti abbandonato o poco amato dal tuo coniuge. Poi ci sono i disturbi che vanno dritti al bersaglio, quelli che impediscono di condividere l'intimità di una vita sessuale felice: impotenza per lui; anorgasmie, vaginismi o dispareunie per lei. Col progredire di alcuni studi, in particolare quelli sulla biochimica delle emozioni, ci si avvicina alla dimostrazione scientifica della verità intuitiva: un matrimonio infelice può far ammalare, e un'unione serena aiuta a stare bene, a superare meglio le malattie.
Se il matrimonio ci crea problemi di salute è per una ragione biochimica, spiega Alessandra Graziottin, ginecologa e oncologa: la caduta della serotonina, cui seguono depressione e abbassamento dei ritmi vitali, dal desiderio sessuale alle difese immunitarie. Un circolo vizioso simile è quello provocato dall'aumento della prolattina, in caso di stress cronico: nell'uomo il testosterone si abbassa, e con esso la libido e l'energia vitale. Mentre è sempre un ormone a nutrirci di felicità: l'ossitocina, il neuro-ormone che è il mediatore più importante dei nostri legami affettivi e che non a caso viene abbondantemente liberato dal nostro corpo durante l'orgasmo. Insomma, le neuroscienze stanno dimostrando che cervello, sistema immunitario e sistema endocrino sono un triumvirato che governa quel tutt'uno che noi siamo: corpo, psiche e mente. E che le malattie psicosomatiche non sono un'invenzione: hanno basi oggettive. Più che mai nel matrimonio, dove la materia prima del legame sono, o dovrebbero essere, proprio le emozioni e il sentimento.
Che il matrimonio agisca sulla salute, lo dicono anche degli studi sperimentali. Uno screening undicennale, da poco concluso al Royal Free Hospital di Londra, sulle malattie cardiovascolari, ha seguito 7 mila pazienti sopra i quarant'anni e ha dimostrato che l'infarto colpisce in percentuale doppia gli uomini scapoli rispetto agli ammogliati: l'uomo sposato gode (di solito) della cura e della regolarità di vita che la moglie gli regala.
Può anche accadere il contrario: che il matrimonio faccia ammalare. Racconta Piero Parietti, medico-psichiatra, presidente della Società italiana di medicina psicosomatica, che ha raccolto un'ampia casistica di mali da matrimonio: «La prima distinzione da fare è questa: esistono risposte fisiologiche alle emozioni ed esistono risposte patologiche, siano disturbi o siano, se più gravi, lesioni. Se squilla il telefono, io rispondo e, ascoltando una voce femminile particolarmente dolce, sento che mi batte il cuore, questo è fisiologico. Ma se il mio cuore ha un battito troppo accelerato senza causa diretta, questo è un disturbo. E se ho l'ulcera, questa è una lesione. Ci sono una serie di disturbi e lesioni che svelano spesso un'origine psicosomatica: malattie della pelle, disturbi circolatori e respiratori, malattie dell'apparato digerente».
E cosa c'entra il matrimonio? «Il matrimonio è un patto che implica, per definizione, delle valenze affettive ed emotive. Nella norma, se questo patto non funziona, dà origine a disturbi, più che lesioni», continua Parietti: «Per esempio, la stitichezza: può corrispondere a un desiderio di tenersi per sé l'affetto, di non dare amore all'altro. Prendiamo l'asma bronchiale: respirare significa mettere aria dentro e mandarla fuori, e l'asma è una perfetta somatizzazione per chi sente di dipendere da una persona ma, contemporaneamente, si sente soffocare e vorrebbe essere indipendente. Eczemi e psoriasi, invece, possono rivelarsi una strategia difensiva per evitare il contatto fisico. Nelle coppie, per lo più, si parla poco: si grida o si tace. È diffusa l'alessitimia, la sindrome che consiste nel non conoscere le parole che esprimono le emozioni. Nelle coppie si "manda giù". Questa è una delle origini delle malattie da matrimonio».
La lingua dei litigi coniugali è infarcita di espressioni che rimandano a un disagio corporeo: «Sei come un mattone sullo stomaco»; «Questo comportamento non lo digerisco»; «Mi dai l'allergia». E a volte l'allergia arriva davvero. Allora, spiega Parietti, per rimediare agli effetti di un disagio «occorre ripristinare, attraverso tecniche di rilassamento e movimento, un rapporto col corpo armonioso, meno strumentale. Spesso la psicosomatica ricorre all'ipnosi e utilizza stati di coscienza modificati per far affiorare non solo i problemi del paziente, ma anche le sue fantasie inconsce e le sue risorse interiori». Il medico racconta un caso clinico emblematico: quello di una giovane donna che, appena sposata, cominciò a soffrire di pruriti diffusi e insopportabili che scomparivano quando il marito si allontanava da casa qualche giorno per lavoro. I medici ipotizzarono una forma di inibizione sessuale. Curata, la ragazza sembrò guarire e riuscì a mettere e al mondo una bambina. Che, poche settimane dopo la nascita, si ammalò di crosta lattea: il disturbo della mamma non era sessuale in senso stretto, era un'incapacità profonda al contatto fisico.
«Ho il mal di testa»; «Sono stanco»: anche le classiche scuse , di lei e di lui, per evitare il sesso, possono avere un fondamento obiettivo. In chiave psicosomatica questi disturbi si rivelano come un'arma usata per evitare l'intimità sessuale. La stessa psicosomatica ammette che sono disturbi veri: lei, quando si avvicina il momento di fare l'amore, ha una cefalea reale, lui ha davvero una stanchezza cronica.
E questa può diventare la molla per altre sindromi da matrimonio, quelle che fioriscono più specificamente nella sfera sessuale. Ma c'è una premessa indispensabile, avvertono gli specialisti. Quando si parla di sessualità bisogna ricordare che questa, in una coppia, agisce in due direzioni: da un lato, a seconda che funzioni o no, il sesso è un motore di intesa o di dissidio sul piano affettivo; dall'altro è nella sessualità che la coppia esprime la propria intesa amorosa o scarica il proprio disagio sentimentale. Insomma, quello del sesso è un linguaggio che è, per definizione, a doppia faccia, ambiguo. Una donna anorgasmica può esprimere, con la sua freddezza, ostilità e sfiducia nei confronti del marito. La stessa anorgasmia può mettere in circolo nella coppia irritazione e aggressività.
Giorgio Rifelli, che dirige a Bologna il Centro italiano di sessuologia, racconta che i disagi sessuali a volte si esprimono per via metaforica: un'ulcera, una gastrite, una colite o un mal di testa ricorrente sono, in alcune donne, il sintomo di un rapporto insoddisfacente con il proprio corpo, una difesa da se stesse quando si vive il desiderio, appunto, come una fonte di disagio; ma sono anche il modo per allontanare un marito che manda richieste sessuali ossessive. Così le coppie mascherano il disamore a cui corrisponde la mancanza di desiderio. Che però può manifestarsi in maniera molto più diretta. Così il disamore prende la forma esplicita dell'impossibilità al coito, «per gli uomini con la mancanza di erezione; per le donne, con il vaginismo e la dispareunia prima, e poi l'anorgasmia. La vera patologia di oggi, però, è la mancanza di desiderio. E questo, per una società che teorizza la libertà sessuale, è un paradosso. Nel mondo femminile la patologia è meno conclamata, più nascosta. Ma i maschi, che sono legati a un'idea di virilità intesa come effervescenza, irruenza, vengono da noi perché non hanno nessuna voglia di avere rapporti».
Purtroppo il più delle volte il sessuologo non ha molto da offrire: «In un matrimonio l'assenza di desiderio è sinonimo di disperazione. La curiamo con trattamenti psicoterapeutici per il singolo o per la coppia. Ma senza molte chance, perché spesso il disagio erotico può essere la rappresentazione di ostilità profonde». Che certo non si risolvono con Viagra e pillole. «Un farmaco può agevolare un rapporto sessuale in senso meccanico, ma non restituisce il desiderio. E chi non desidera, non vuole neppure aiutarsi con un farmaco», osserva Rifelli. Una pillola non basta ad agire sul continente profondo dove nascono la libido e le fantasie erotiche.
Libido in picchiata e mancanza di dialogo, dunque, scatenano processi ormonali, neurologici e immunitari del tutto incontrollabili. Su cui pesa il ritmo frenetico, imposto dalla vita fuori dalle mura domestiche, che crea distanze affettive. Margaret Carlson, commentatrice del settimanale americano "Time", osserva che, specie per le donne, oggi la vera soddisfazione erotica è nel dormire: per gli workalcoholics, i drogati da lavoro, abbandonarsi nelle braccia di Morfeo è un piacere molto più bramato che fare l'amore con il partner. E questo naturalmente non giova all'intesa matrimoniale.
Alessandra Graziottin usa il fattore sonno tutto al contrario: il sonno - dice - è un ottimo indicatore della salute affettiva della coppia. «Chi dorme bene, quanto gli serve e profondamente, probabilmente ha una vita sessuale e affettiva serena. Il sonno più rigenerante non è quello che ci coglie dopo un rapporto sessuale appagante?», osserva. Se è così, alle coppie italiane va male: ben 12 milioni di persone, nel nostro paese, dormono cronicamente poco e male, stando allo studio "Morfeo 2" dell'Associazione italiana di medicina del sonno.
Il matrimonio, osservano Eugenia Scabini e Raffaella Efrate in un libro appena uscito per la casa editrice il Mulino, "Psicologia dei legami familiari", è sempre più "di coppia", invece che "coniugale". Le autrici intendono dire che è costruito su sentimento e intesa a due, invece che su un progetto. Certamente è più romantico, ma, ammoniscono le studiose, è anche più effimero. E quando il sentimento evapora, va in pezzi. Allora ci si lascia sempre più spesso, ma, anche, ci si ammala: del dolore che dà un amore finito, di dire addio o essere abbandonati.
A meno che, come suggerisce in conclusione Alessandra Graziottin, non si reimpari a sposarsi «bene»: a scegliere un partner non facendosi ispirare da logiche d'immagine, o dall'infantilismo, o dal narcisismo, le grandi malattie psicologiche di questi anni, ma in modo sano, perché quel lui o quella lei ci "fanno bene". Allora potremo scoprire che, se il matrimonio infelice fa ammalare di asma e di eczemi, fa diventare scheletrici oppure obesi, quello felice è la migliore terapia per il corpo e per l'anima.
origini del totalitarismo cristiano
La Stampa 27.5.03
La crociata di Innocenzo III contro i Catari mise a punto uno strumento destinato a fare strada: l'accusa di uno storico cattolico
1209, la Chiesa inventa il totalitarismo
di Mario Baudino
E’ il solo caso, nella storia, di un grande movimento religioso e di una sanguinosa sconfitta militare trasformati in industria turistica. Parliamo del «Pays Cathar», il «paese cataro» che si distende in Linguadoca, tra Tolosa e i Pirenei, con i suoi vigneti, le strette valli boscose e i dirupi calcarei, i castelli sui picchi e, ossessivo, il marchio ufficiale che segue ovunque il visitatore, garantendo ristorazione, vino, trekking cataro e persino «pompe funebri catare». Non manca la «bistecca catara», deliziosa contraddizione visto che gli eretici cui si fa riferimento erano rigorosamente vegetariani. Per loro il mondo della materia era il male, creato da un dio malvagio, e il corpo una prigione da cui liberarsi. Tutto ciò che aveva a che fare con la riproduzione era perciò da evitare, anche se poi la vita quotidiana trascorreva tra preghiere, semplicità, molto lavoro manuale, solidarietà, amicizia e nonviolenza. In Linguadoca vennero massacrati e dispersi dalla «crociata» bandita da Innocenzo III nel 1209, che si concluse con la distruzione della fiera aristocrazia locale, filocatara (quando non apertamente catara) per scelta politica o per necessità contingente, e l’integrazione del Midi nel regno di Francia. Nella loro terra, quegli eretici che erano stati difesi anche dai loro concittadini cattolici divennero un mito popolare a partire dall’Ottocento, e infine, dopo la seconda guerra mondiale, un fenomeno turistico di grande successo. La loro epopea, tuttavia, fu anche italiana, ed ebbe a Verona il momento più tragico e sublime: proprio nell’arena fu innalzato il più grande rogo dell’umanità, sul quale vennero dati alle fiamme almeno trecento eretici. Ma, a differenza che nel Midi, noi li abbiamo dimenticati. Ora un’opera affascinante di Michel Roquebert, in libreria per le edizioni San Paolo, ci ripropone un antico passato che in buona parte ci appartiene. I Catari ricostruisce in 500 pagine una delle grandi tragedie d’Europa. È il punto d’arrivo di un lavoro durato trent’anni, sfociato in una ricostruzione storica di 5 mila pagine. Questo libro ne è una versione «compatta», dove lo studioso restituisce i catari al loro dramma storico, quando l’Europa del Medioevo pose alcuni presupposti importanti della sua successiva modernità. Nacque in quegli anni feroci la prima idea di totalitarismo. E c’è una grande verità catara che ancora ci riguarda, al di là del recente mito che ha fatto di Montségur un simbolo esoterico, castello del Graal e tempio solare, ma non ha nulla da spartire con la verità storica. «L’aspetto più importante è che quella catara fu un’epopea di resistenza - ci dice Roquebert -. È la prima volta nella storia che un movimento religioso perseguitato si affida a reti di solidarietà, grazie all’appoggio della popolazione». In molti casi, nemmeno eretica. «È un fatto nuovo. Di lì in poi quel modello si sarebbe replicato fino ai giorni nostri, fino alla resistenza contro i totalitarismi del XX secolo». Ma quell’antica, feroce repressione, ha fatto entrare nella nostra storia un altro elemento importante: il controllo ideologico. «L’Inquisizione fu inventata per debellare l’eresia catara, ed ebbe come obiettivo il controllo ideologico di tutta la popolazione. Un fenomeno nuovo». Un’alba della modernità? «Esatto. Tutti i regimi totalitari si sono basati sullo stesso strumento, che hanno trovato già pronto, perché inventato dalla Chiesa». Detto da uno storico cattolico potrebbe suonare scandaloso... «Io non faccio dell’anticlericalismo. L’Inquisizione è stata sì demonizzata al di là delle efferatezze che ha compiuto, ma il suo scopo non era solo di bruciare gli eretici. Era più sottile: destabilizzare la società, creare un sistema di delazioni, ottenere cioè il controllo ideologico totale». Ci riuscì, e non solo tra Tolosa e Carcassonne, visto che la storia dei catari è anche italiana. Nel nostro paese sono stati trovati alcuni fra i loro testi religiosi più importanti (pubblicati da Francesco Zambon nella Cena segreta, Adelphi ). Tra Cuneo e Mantova fino a Sirmione, la «nuova Montségur», fiorirono le loro chiese e si rifugiarono molti semplici fedeli o ministri del culto occitani (i «perfetti») in fuga dalla Linguadoca, protetti dai liberi Comuni e dal partito ghibellino. L’Italia sembrò per qualche decennio un porto naturale, fino a quando l’argine si ruppe anche da noi e, nella seconda metà del Duecento, suonò per quegli eretici l’ora della fine. Si alzarono i roghi, e scese l’oblio. Perché? «Ci sono molte ragioni - risponde Francesco Zambon -. Ma in generale direi che nel Sud della Francia la vicenda catara è collegata a fatti politici decisivi, come l’unificazione statuale del paese, e a luoghi riconoscibili, mentre da noi non ci sono legami con eventi storici importanti, che siano rimasti nella memoria o nel mito». E poi c’è un problema storiografico. «In Francia e Germania già agli albori della storiografia moderna ci fu un forte interesse da parte dei protestanti. In Italia gli storici che se ne sono occupati sono stati in gran maggioranza di impronta cattolica, portati quindi a sminuire importanza e ruolo storico dei catari». Luigi Pirandello, cercando un argomento che suonasse astruso per una novella dove un vecchio professore si riduce a tener lezione a una fila di cappotti, non ebbe difficoltà a trovarlo: L’eresia catara, si intitolò il racconto. Era il 1905. Sono passati quasi cent’anni, la situazione è cambiata. Ma di quanto?
La crociata di Innocenzo III contro i Catari mise a punto uno strumento destinato a fare strada: l'accusa di uno storico cattolico
1209, la Chiesa inventa il totalitarismo
di Mario Baudino
E’ il solo caso, nella storia, di un grande movimento religioso e di una sanguinosa sconfitta militare trasformati in industria turistica. Parliamo del «Pays Cathar», il «paese cataro» che si distende in Linguadoca, tra Tolosa e i Pirenei, con i suoi vigneti, le strette valli boscose e i dirupi calcarei, i castelli sui picchi e, ossessivo, il marchio ufficiale che segue ovunque il visitatore, garantendo ristorazione, vino, trekking cataro e persino «pompe funebri catare». Non manca la «bistecca catara», deliziosa contraddizione visto che gli eretici cui si fa riferimento erano rigorosamente vegetariani. Per loro il mondo della materia era il male, creato da un dio malvagio, e il corpo una prigione da cui liberarsi. Tutto ciò che aveva a che fare con la riproduzione era perciò da evitare, anche se poi la vita quotidiana trascorreva tra preghiere, semplicità, molto lavoro manuale, solidarietà, amicizia e nonviolenza. In Linguadoca vennero massacrati e dispersi dalla «crociata» bandita da Innocenzo III nel 1209, che si concluse con la distruzione della fiera aristocrazia locale, filocatara (quando non apertamente catara) per scelta politica o per necessità contingente, e l’integrazione del Midi nel regno di Francia. Nella loro terra, quegli eretici che erano stati difesi anche dai loro concittadini cattolici divennero un mito popolare a partire dall’Ottocento, e infine, dopo la seconda guerra mondiale, un fenomeno turistico di grande successo. La loro epopea, tuttavia, fu anche italiana, ed ebbe a Verona il momento più tragico e sublime: proprio nell’arena fu innalzato il più grande rogo dell’umanità, sul quale vennero dati alle fiamme almeno trecento eretici. Ma, a differenza che nel Midi, noi li abbiamo dimenticati. Ora un’opera affascinante di Michel Roquebert, in libreria per le edizioni San Paolo, ci ripropone un antico passato che in buona parte ci appartiene. I Catari ricostruisce in 500 pagine una delle grandi tragedie d’Europa. È il punto d’arrivo di un lavoro durato trent’anni, sfociato in una ricostruzione storica di 5 mila pagine. Questo libro ne è una versione «compatta», dove lo studioso restituisce i catari al loro dramma storico, quando l’Europa del Medioevo pose alcuni presupposti importanti della sua successiva modernità. Nacque in quegli anni feroci la prima idea di totalitarismo. E c’è una grande verità catara che ancora ci riguarda, al di là del recente mito che ha fatto di Montségur un simbolo esoterico, castello del Graal e tempio solare, ma non ha nulla da spartire con la verità storica. «L’aspetto più importante è che quella catara fu un’epopea di resistenza - ci dice Roquebert -. È la prima volta nella storia che un movimento religioso perseguitato si affida a reti di solidarietà, grazie all’appoggio della popolazione». In molti casi, nemmeno eretica. «È un fatto nuovo. Di lì in poi quel modello si sarebbe replicato fino ai giorni nostri, fino alla resistenza contro i totalitarismi del XX secolo». Ma quell’antica, feroce repressione, ha fatto entrare nella nostra storia un altro elemento importante: il controllo ideologico. «L’Inquisizione fu inventata per debellare l’eresia catara, ed ebbe come obiettivo il controllo ideologico di tutta la popolazione. Un fenomeno nuovo». Un’alba della modernità? «Esatto. Tutti i regimi totalitari si sono basati sullo stesso strumento, che hanno trovato già pronto, perché inventato dalla Chiesa». Detto da uno storico cattolico potrebbe suonare scandaloso... «Io non faccio dell’anticlericalismo. L’Inquisizione è stata sì demonizzata al di là delle efferatezze che ha compiuto, ma il suo scopo non era solo di bruciare gli eretici. Era più sottile: destabilizzare la società, creare un sistema di delazioni, ottenere cioè il controllo ideologico totale». Ci riuscì, e non solo tra Tolosa e Carcassonne, visto che la storia dei catari è anche italiana. Nel nostro paese sono stati trovati alcuni fra i loro testi religiosi più importanti (pubblicati da Francesco Zambon nella Cena segreta, Adelphi ). Tra Cuneo e Mantova fino a Sirmione, la «nuova Montségur», fiorirono le loro chiese e si rifugiarono molti semplici fedeli o ministri del culto occitani (i «perfetti») in fuga dalla Linguadoca, protetti dai liberi Comuni e dal partito ghibellino. L’Italia sembrò per qualche decennio un porto naturale, fino a quando l’argine si ruppe anche da noi e, nella seconda metà del Duecento, suonò per quegli eretici l’ora della fine. Si alzarono i roghi, e scese l’oblio. Perché? «Ci sono molte ragioni - risponde Francesco Zambon -. Ma in generale direi che nel Sud della Francia la vicenda catara è collegata a fatti politici decisivi, come l’unificazione statuale del paese, e a luoghi riconoscibili, mentre da noi non ci sono legami con eventi storici importanti, che siano rimasti nella memoria o nel mito». E poi c’è un problema storiografico. «In Francia e Germania già agli albori della storiografia moderna ci fu un forte interesse da parte dei protestanti. In Italia gli storici che se ne sono occupati sono stati in gran maggioranza di impronta cattolica, portati quindi a sminuire importanza e ruolo storico dei catari». Luigi Pirandello, cercando un argomento che suonasse astruso per una novella dove un vecchio professore si riduce a tener lezione a una fila di cappotti, non ebbe difficoltà a trovarlo: L’eresia catara, si intitolò il racconto. Era il 1905. Sono passati quasi cent’anni, la situazione è cambiata. Ma di quanto?
scontri tra civiltà
La Stampa 27.5.03
Con la caduta di Costantinopoli, il 29 maggio di 550 anni fa, si apriva il grande scontro di civiltà fra Islam e Occidente
di Silvia Ronchey
IL 29 maggio di 550 anni fa nelle strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l'acqua dopo un temporale e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale. Lo racconta nel suo diario Niccolò Barbaro, un testimone veneziano della conquista turca, che in questi giorni i bizantinisti e gli ottomanisti di tutto il mondo ricordano con un nutrito programmi di convegni (vedi scheda). Il giovane sultano Mehmet II, in sella a un cavallo bianco, guadò il lago di sangue e attraversò lo scenario spettrale della città in rovina per recarsi a Santa Sofia, la cattedrale della Divina Sapienza costruita 900 anni prima da Giustiniano. I cittadini che a centinaia si erano rifugiati sotto l'immensa cupola di Santa Sofia venivano sottoposti a inaudite violenze. Le dame dell'aristocrazia erano trascinate a piedi nudi, legate tra loro con una fune al collo, riferisce Isidoro di Kiev, in harem di militari di infimo rango. I ragazzi delle migliori famiglie venivano brutalizzati e sodomizzati, alcuni uccisi. Mehmet II aveva appena vent'anni, era un grande lettore di classici persiani, greci, latini. Vedendo il massacro, racconta lo storico turco quattrocentesco Tursun Beg, rifletté sulla caducità di ogni gloria terrena e pregò Allah. Ma quando scorse uno dei suoi soldati smantellare con l'ascia l'antico pavimento di marmo della basilica, gli fermò il braccio: «Accontentati del denaro e dei prigionieri, gli edifici della Città lasciali a me». Poi il sultano salì silenzioso, in mistica contemplazione, sulla cupola di Santa Sofia: «Accanto alle rovine dell'Aya Sofya, alle costruzioni ridotte a giardini di pietra, neppure un vestibolo era rimasto in piedi». Dalla cima della cupola, scorgendo la città ridotta a macerie e deserto, il Conquistatore, narra Tursun Beg, meditò che il destino di ogni impero è cadere in rovina. Poi recitò i versi di un poeta persiano: «Il ragno fa da portinaio nel palazzo di Cosroe. / Il gufo suona la musica di guardia nella fortezza di Afrâsijâb». Le macerie degli altissimi edifici di Costantinopoli contemplate da Mehmet il Conquistatore possono assumersi a simbolo visibile del primo grande scontro di civiltà fra Islam e Occidente, alla vigilia dell'evo moderno. Da quel momento la guerra dei nuovi popoli nel nome di Allah acquistò una forza d'urto senza precedenti. Se proviamo a figurarci che cosa abbia rappresentato, per il mondo di allora, la caduta di Costantinopoli del 1453, dobbiamo pensare all'effetto prodotto dalla caduta delle Twin Towers e moltiplicarlo molte volte. Bisanzio era stata la superpotenza del Medioevo. Per secoli, la sua egemonia militare, la sua forza economica, il suo prestigio erano stati paragonabili solo a quelli degli Stati Uniti di oggi. «Il dollaro del Medioevo» viene chiamato dagli storici il solido aureo bizantino. Nel 1453, il mondo assistette incredulo al crollo non solo di una città ma di una civiltà, di un primato e di un modo di vita. Quella che Enea Silvio Piccolomini chiamò «la seconda morte di Omero e di Platone» avrebbe, profetizzò il Papa umanista, cambiato la geografia politica del globo. Aveva ragione. Non solo il bacino del Mediterraneo, ma quello che Fernand Braudel ha chiamato il Mediterraneo Maggiore, l'area d'irradiazione dell'impero romano e della sua più che millenaria ipòstasi bizantina, dall'Asia Minore all'Egitto, dai Balcani alla Bosnia, furono islamizzati. Non solo. Lo furono da un Islam molto diverso da quello conosciuto nei lunghi secoli di convivenza bizantina con gli arabi. Con la penetrazione dei turchi Osmanli erano entrate nel vecchio mondo una considerazione più scarsa della vita umana e un'intolleranza prima sconosciuta al grande impero multietnico. Le frontiere dell'Occidente furono percorse da un nuovo tipo di guerra, più feroce, la guerra etnica. Le popolazioni furono esposte a violenze di un genere più atroce. Ancora oggi, nella presenza islamica al centro del Mediterraneo così come in pieno Adriatico, nelle perenni collisioni delle faglie etniche da questa generate dopo l’affermazione degli Stati nazionali, l'Occidente continua a scontare la nemesi della storia per avere perso la culla della sua stessa civiltà. «Noi l’impero bizantino l’abbiamo smembrato da vivo, proprio come prescrivono i libri di cucina quando dicono: “Il coniglio deve essere spellato vivo”! Noi abbiamo pelato viva Bisanzio», ha sintetizzato Braudel. Furono in effetti gli intricati conflitti commerciali e finanziari del protocapitalismo occidentale, nonché i tragici errori di valutazione del papato di Roma, della repubblica di Venezia e delle altre potenze occidentali, a permettere che Mehmet II conquistasse Costantinopoli. La straordinaria cultura bizantina si trasmise agli umanisti europei e diede vita a quello che chiamiamo il Rinascimento: in realtà l'ultima della serie di rinascenze che avevano scandito il millennio di Bisanzio. Ma l'ideologia politica e la tradizione ecclesiastica dell'impero che aveva riunito potere temporale e spirituale nella sola persona dell'imperatore si eclissarono dall'Europa dei Papi e passarono alla nascente Russia. Già dalla fine del Quattrocento si creò una sorta di cortina di ferro oltre la quale insieme all'ortodossia si perse, per cinque secoli, la memoria dello Stato in cui dai tempi di Costantino si era perpetuata l'eredità dell'impero romano.
È stato così che il modello della Seconda Roma sconfitta dai turchi ha continuato a persistere nella Terza Roma di Mosca, impoverendosi e degradandosi nell'isolamento e nel distacco dalla cultura occidentale. Chissà, magari Bisanzio non è veramente caduta nel XV secolo ma nel XX, quando, insieme al muro di Berlino, è crollato il sistema che ne aveva raccolto l'eredità, quando la «fuga da Bisanzio» auspicata da Josif Brodskij si è infine realizzata. Quel che è certo è che il fantasma vendicativo di una Bisanzio scheletrita e dissanguata dall'esilio totalitario si aggira ancora sull'Europa e sui suoi conflitti. Ancora oggi le zone in ebollizione e incandescenza, le faglie di attrito e le soglie di crisi del nuovo secolo appartengono, e non è un caso, al territorio su cui irradiò il suo dominio l'impero multinazionale bizantino, prolungato in quello zarista e poi sovietico. Ancora oggi, dai Balcani al Mar Nero, dal Kurdistan al Caucaso all'Asia Centrale, le ferite create dalla caduta di Costantinopoli restano aperte.
Con la caduta di Costantinopoli, il 29 maggio di 550 anni fa, si apriva il grande scontro di civiltà fra Islam e Occidente
di Silvia Ronchey
IL 29 maggio di 550 anni fa nelle strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l'acqua dopo un temporale e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale. Lo racconta nel suo diario Niccolò Barbaro, un testimone veneziano della conquista turca, che in questi giorni i bizantinisti e gli ottomanisti di tutto il mondo ricordano con un nutrito programmi di convegni (vedi scheda). Il giovane sultano Mehmet II, in sella a un cavallo bianco, guadò il lago di sangue e attraversò lo scenario spettrale della città in rovina per recarsi a Santa Sofia, la cattedrale della Divina Sapienza costruita 900 anni prima da Giustiniano. I cittadini che a centinaia si erano rifugiati sotto l'immensa cupola di Santa Sofia venivano sottoposti a inaudite violenze. Le dame dell'aristocrazia erano trascinate a piedi nudi, legate tra loro con una fune al collo, riferisce Isidoro di Kiev, in harem di militari di infimo rango. I ragazzi delle migliori famiglie venivano brutalizzati e sodomizzati, alcuni uccisi. Mehmet II aveva appena vent'anni, era un grande lettore di classici persiani, greci, latini. Vedendo il massacro, racconta lo storico turco quattrocentesco Tursun Beg, rifletté sulla caducità di ogni gloria terrena e pregò Allah. Ma quando scorse uno dei suoi soldati smantellare con l'ascia l'antico pavimento di marmo della basilica, gli fermò il braccio: «Accontentati del denaro e dei prigionieri, gli edifici della Città lasciali a me». Poi il sultano salì silenzioso, in mistica contemplazione, sulla cupola di Santa Sofia: «Accanto alle rovine dell'Aya Sofya, alle costruzioni ridotte a giardini di pietra, neppure un vestibolo era rimasto in piedi». Dalla cima della cupola, scorgendo la città ridotta a macerie e deserto, il Conquistatore, narra Tursun Beg, meditò che il destino di ogni impero è cadere in rovina. Poi recitò i versi di un poeta persiano: «Il ragno fa da portinaio nel palazzo di Cosroe. / Il gufo suona la musica di guardia nella fortezza di Afrâsijâb». Le macerie degli altissimi edifici di Costantinopoli contemplate da Mehmet il Conquistatore possono assumersi a simbolo visibile del primo grande scontro di civiltà fra Islam e Occidente, alla vigilia dell'evo moderno. Da quel momento la guerra dei nuovi popoli nel nome di Allah acquistò una forza d'urto senza precedenti. Se proviamo a figurarci che cosa abbia rappresentato, per il mondo di allora, la caduta di Costantinopoli del 1453, dobbiamo pensare all'effetto prodotto dalla caduta delle Twin Towers e moltiplicarlo molte volte. Bisanzio era stata la superpotenza del Medioevo. Per secoli, la sua egemonia militare, la sua forza economica, il suo prestigio erano stati paragonabili solo a quelli degli Stati Uniti di oggi. «Il dollaro del Medioevo» viene chiamato dagli storici il solido aureo bizantino. Nel 1453, il mondo assistette incredulo al crollo non solo di una città ma di una civiltà, di un primato e di un modo di vita. Quella che Enea Silvio Piccolomini chiamò «la seconda morte di Omero e di Platone» avrebbe, profetizzò il Papa umanista, cambiato la geografia politica del globo. Aveva ragione. Non solo il bacino del Mediterraneo, ma quello che Fernand Braudel ha chiamato il Mediterraneo Maggiore, l'area d'irradiazione dell'impero romano e della sua più che millenaria ipòstasi bizantina, dall'Asia Minore all'Egitto, dai Balcani alla Bosnia, furono islamizzati. Non solo. Lo furono da un Islam molto diverso da quello conosciuto nei lunghi secoli di convivenza bizantina con gli arabi. Con la penetrazione dei turchi Osmanli erano entrate nel vecchio mondo una considerazione più scarsa della vita umana e un'intolleranza prima sconosciuta al grande impero multietnico. Le frontiere dell'Occidente furono percorse da un nuovo tipo di guerra, più feroce, la guerra etnica. Le popolazioni furono esposte a violenze di un genere più atroce. Ancora oggi, nella presenza islamica al centro del Mediterraneo così come in pieno Adriatico, nelle perenni collisioni delle faglie etniche da questa generate dopo l’affermazione degli Stati nazionali, l'Occidente continua a scontare la nemesi della storia per avere perso la culla della sua stessa civiltà. «Noi l’impero bizantino l’abbiamo smembrato da vivo, proprio come prescrivono i libri di cucina quando dicono: “Il coniglio deve essere spellato vivo”! Noi abbiamo pelato viva Bisanzio», ha sintetizzato Braudel. Furono in effetti gli intricati conflitti commerciali e finanziari del protocapitalismo occidentale, nonché i tragici errori di valutazione del papato di Roma, della repubblica di Venezia e delle altre potenze occidentali, a permettere che Mehmet II conquistasse Costantinopoli. La straordinaria cultura bizantina si trasmise agli umanisti europei e diede vita a quello che chiamiamo il Rinascimento: in realtà l'ultima della serie di rinascenze che avevano scandito il millennio di Bisanzio. Ma l'ideologia politica e la tradizione ecclesiastica dell'impero che aveva riunito potere temporale e spirituale nella sola persona dell'imperatore si eclissarono dall'Europa dei Papi e passarono alla nascente Russia. Già dalla fine del Quattrocento si creò una sorta di cortina di ferro oltre la quale insieme all'ortodossia si perse, per cinque secoli, la memoria dello Stato in cui dai tempi di Costantino si era perpetuata l'eredità dell'impero romano.
È stato così che il modello della Seconda Roma sconfitta dai turchi ha continuato a persistere nella Terza Roma di Mosca, impoverendosi e degradandosi nell'isolamento e nel distacco dalla cultura occidentale. Chissà, magari Bisanzio non è veramente caduta nel XV secolo ma nel XX, quando, insieme al muro di Berlino, è crollato il sistema che ne aveva raccolto l'eredità, quando la «fuga da Bisanzio» auspicata da Josif Brodskij si è infine realizzata. Quel che è certo è che il fantasma vendicativo di una Bisanzio scheletrita e dissanguata dall'esilio totalitario si aggira ancora sull'Europa e sui suoi conflitti. Ancora oggi le zone in ebollizione e incandescenza, le faglie di attrito e le soglie di crisi del nuovo secolo appartengono, e non è un caso, al territorio su cui irradiò il suo dominio l'impero multinazionale bizantino, prolungato in quello zarista e poi sovietico. Ancora oggi, dai Balcani al Mar Nero, dal Kurdistan al Caucaso all'Asia Centrale, le ferite create dalla caduta di Costantinopoli restano aperte.
a Mlano: Severino, Veca, Celli, Canfora sulla libertà
Il corriere della Sera, 27.5.03
Alla Biblioteca Ambrosiana le lezioni di quattro studiosi
A proposito di libertà...
«Libertà va cercando - diceva Virgilio (parlando di Dante) a Catone l’Uticense posto a guardia del Purgatorio - ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta». E sensibile era certamente Catone a quel valore che reputò più alto della vita stessa, poiché non esitò a suicidarsi in nome della libertà. Dalle pagine di Dante alle parole lette sui quotidiani in questi giorni, il passo non è poi così lungo: quanta parte del pensiero universale, dall’antichità ai nostri giorni, è stata dedicata al concetto di libertà, con mille sfumature e contraddizioni, mille campi di applicazione e visuali possibili ma un’unica forza, capace di muovere idee e passioni. Ma cosa vuol dire libero? Il dizionario etimologico se la cava elegantemente con un bel «di origine incerta». E quando l’etimologia ci abbandona, comincia il pensiero. Emanuele Severino, Salvatore Veca, Giorgio Celli e Luciano Canfora, studiosi autorevoli di provenienza e formazione diversissima tra loro, sono i protagonisti del ciclo di incontri promosso dalla Fondazione Corriere della Sera «Libertà vo’ cercando...»: quattro lezioni volte a portare alla luce tutta la complessità del concetto di libertà.
«Bisogna comprendere - spiega il filosofo Emanuele Severino, docente all’Università di Venezia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e primo relatore di oggi con " Vincoli e libertà" - che i molti sensi della libertà, politico, economico, sociologico, psicologico, religioso e artistico, sono i molti rami di un unico tronco, le cui radici affondano nel più antico pensiero filosofico».
Per l’entomologo Giorgio Celli, invece, la parola libertà si confronta con il problema della ricerca scientifica e delle sue possibili applicazioni: «Credo che la ricerca scientifica debba essere libera - spiega lo studioso che il 10 giugno terrà un incontro dal titolo "Il treno per Auschwitz: qualche considerazione sulla libertà della ricerca scientifica" - ma quando questa tocca questioni che possono avere gravi ripercussioni sulla società, come la vivisezione o la clonazione, è doveroso sottoporre la questione all’opinione pubblica. In fondo, non bisogna dimenticare l’insegnamento di Hegel: la nostra libertà termina là dove inizia quella degli altri».
Il filosofo della politica Salvatore Veca, docente all’Università di Pavia, interverrà il 4 giugno per parlare di «Grammatiche della libertà», mentre il 17 giugno ci sarà l’ultimo appuntamento con uno dei più famosi antichisti europei, Luciano Canfora, docente all’Università di Pavia dove insegna Filologia Classica. Nella sua relazione, «La libertà degli antichi e dei moderni», traccerà la differenza tra libertà e democrazia. Tutti gli incontri si tengono alla Sala delle Accademie della Biblioteca Ambrosiana. Durante la lezione, di 45 minuti circa, Giorgio Dongiovanni eseguirà delle letture sceniche.
Alla Biblioteca Ambrosiana le lezioni di quattro studiosi
A proposito di libertà...
«Libertà va cercando - diceva Virgilio (parlando di Dante) a Catone l’Uticense posto a guardia del Purgatorio - ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta». E sensibile era certamente Catone a quel valore che reputò più alto della vita stessa, poiché non esitò a suicidarsi in nome della libertà. Dalle pagine di Dante alle parole lette sui quotidiani in questi giorni, il passo non è poi così lungo: quanta parte del pensiero universale, dall’antichità ai nostri giorni, è stata dedicata al concetto di libertà, con mille sfumature e contraddizioni, mille campi di applicazione e visuali possibili ma un’unica forza, capace di muovere idee e passioni. Ma cosa vuol dire libero? Il dizionario etimologico se la cava elegantemente con un bel «di origine incerta». E quando l’etimologia ci abbandona, comincia il pensiero. Emanuele Severino, Salvatore Veca, Giorgio Celli e Luciano Canfora, studiosi autorevoli di provenienza e formazione diversissima tra loro, sono i protagonisti del ciclo di incontri promosso dalla Fondazione Corriere della Sera «Libertà vo’ cercando...»: quattro lezioni volte a portare alla luce tutta la complessità del concetto di libertà.
«Bisogna comprendere - spiega il filosofo Emanuele Severino, docente all’Università di Venezia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e primo relatore di oggi con " Vincoli e libertà" - che i molti sensi della libertà, politico, economico, sociologico, psicologico, religioso e artistico, sono i molti rami di un unico tronco, le cui radici affondano nel più antico pensiero filosofico».
Per l’entomologo Giorgio Celli, invece, la parola libertà si confronta con il problema della ricerca scientifica e delle sue possibili applicazioni: «Credo che la ricerca scientifica debba essere libera - spiega lo studioso che il 10 giugno terrà un incontro dal titolo "Il treno per Auschwitz: qualche considerazione sulla libertà della ricerca scientifica" - ma quando questa tocca questioni che possono avere gravi ripercussioni sulla società, come la vivisezione o la clonazione, è doveroso sottoporre la questione all’opinione pubblica. In fondo, non bisogna dimenticare l’insegnamento di Hegel: la nostra libertà termina là dove inizia quella degli altri».
Il filosofo della politica Salvatore Veca, docente all’Università di Pavia, interverrà il 4 giugno per parlare di «Grammatiche della libertà», mentre il 17 giugno ci sarà l’ultimo appuntamento con uno dei più famosi antichisti europei, Luciano Canfora, docente all’Università di Pavia dove insegna Filologia Classica. Nella sua relazione, «La libertà degli antichi e dei moderni», traccerà la differenza tra libertà e democrazia. Tutti gli incontri si tengono alla Sala delle Accademie della Biblioteca Ambrosiana. Durante la lezione, di 45 minuti circa, Giorgio Dongiovanni eseguirà delle letture sceniche.
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