il manifesto 13 gennaio 2005
Il pregiudizio degli uguali
di MAURIZIO RICCIARDI
«Oltre la democrazia», un libro collettivo su un concetto aperto alla storia e all'azione collettiva. Dai greci a Marsilio da Padova, da Thomas Hobbes a Alexis Tocqueville, da Spinoza a Marx un'analisi rigorosa dell'opera di alcuni classici del pensiero politico e delle forme istituzionali che riconducono all'unità del popolo l'azione della moltitudine. Ma anche un volume che evidenzia la possibilità di andare oltre la democrazia a partire dalle pratiche politiche delle donne e del movimento operaio
La democrazia è un enigma che viene sempre risolto. Divenuta ormai un significante universale, sembra avviata a un destino di autentica confusione. Basta considerare le vicende irachene, l'ultima campagna elettorale statunitense o il più modesto scenario italiano. Tutti i protagonisti o aspiranti tali pretendono di agire in nome della democrazia. Ma vi è di più. Tutti pretendono di agire in nome di un deficit di democrazia: un rapporto democratico c'è sempre; di democrazia non ce n'è mai abbastanza. E non è detto che i luoghi geografici di queste considerazioni coincidano: è noto, infatti, che si può pensare di esportare la democrazia. Essa, tuttavia, può non coincidere con il suo stesso luogo politico: una corrente di pensiero, inaugurata da Chantal Mouffe e da Ernest Laclau, propone infatti di radicalizzare il concetto e pensare la democrazia come spazio aperto di continua inclusione istituzionale di quei soggetti che, con i loro conflitti, prendono la parola e impongono la loro presenza nello spazio pubblico politico. Democrazia, ancora, può essere intesa, come fanno Michael Hardt e Toni Negri, come il progetto e l'azione costituenti della moltitudine, quest'ultima da considerare una novità assoluta nel panorama delle forme politiche moderne, anzi un movimento politico che, risolvendo finalmente se non definitivamente l'enigma, segna il superamento e la fine della modernità stessa. Democrazia dimostra così di essere uno di quei significanti vuoti che, come ha sottolineato recentemente ne il manifesto Slavoj Zizek, possono essere riempiti di contenuti differenti da soggetti diversi. Ma è proprio questa caratteristica che garantisce la loro capacità di attraversare i secoli per essere sempre di nuovo utilizzati.
Rapporti di dominio
Un quadro consolidato di riferimento alla democrazia mostra così i segni di un'innegabile crisi, sia del popolo sul quale si fondano tanto la legittimità quanto l'identità democratica, sia della rappresentanza, in quanto meccanismo istituzionale che unifica ed esprime la volontà popolare. Da più parti, e con maggior forza e autorità da parte dei movimenti sociali di questi ultimi anni, è stata posta la necessità di andare oltre la democrazia nei suoi attuali assetti istituzionali, di andare cioè oltre la democrazia come rapporto politico di dominio. Pur richiamando nel titolo la possibilità di un oltrepassamento, il volume collettivo Oltre la democrazia (Carocci, pp. 272, € 19,60) curato da Giuseppe Duso propone un viaggio alla ricerca della genealogia del concetto, partendo da una acuta riflessione su alcuni classici che hanno stabilito il «dispositivo logico» che ha permesso l'instaurazione della moderna pratica istituzionale democratica.
Democrazia è un termine antico, ma il suo significato moderno si discosta radicalmente da quelli precedenti, al punto che è difficile se non impossibile stabilire una linea di continuità tra l'uso che ne facevano i classici greci e latini o i maestri medievali e quello che si afferma in particolare a partire dalle rivoluzioni atlantiche del tardo Settecento. Da questo punto di vista i saggi su Erodoto e Aristotele, così come il bel saggio su Marsilio da Padova, servono a mostrare l'inconsistenza delle dottrine che stabiliscono una continuità tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni. Quest'ultima è cosa nuova perché pone come suo fondamento un soggetto formato da individui uguali, uniti in un popolo nel quale non sono riconosciute partizioni e gerarchie prestabilite. Questo approccio non serve solo a rendere giustizia al passato, cioè a individuare i criteri propri con cui l'antichità classica intendeva il proprio vocabolario e le proprie istituzioni politiche. Esso serve a mostrare il carattere radicalmente storico dei concetti politici moderni, i quali, ben lungi dall'essere eterni, hanno avuto una genesi determinata e sono di conseguenza legati al contesto storico che li ha espressi.
Questo insieme di concetti (popolo, legittimazione, rappresentanza costituzione) consente la vigenza dell'ordine sovrano democratico e di un «potere» politico che, come viene ribadito in gran parte dei contributi, è profondamente diverso dal «governo» premoderno, perché in esso nessuno obbedisce a un altro individuo, ma solo alla volontà generale che ha contribuito a formare. Il potere democratico non è dunque solo una relazione politica, ma è uno strumento che dà forma anche a un rapporto sociale, non stabilendo solo il rapporto tra rappresentante e rappresentati, ma anche la disciplina dei rapporti tra gli individui. I rapporti di dominio non gli sono perciò estranei, ma vengono dislocati più in profondità e viene loro negata ogni valenza politica.
È senz'altro vero che la democrazia ci consegna la seducente immagine di rapporti tra individui, in cui «i vincoli di dipendenza personale, le differenze di sangue, di educazione sono saltati, sono spezzati», così come per Marx avviene anche nei rapporti di denaro. I singoli, proprio perché sono liberi e fanno uso della loro libertà, si sottomettono al potere comune. Presi individualmente essi sono una moltitudine indifferenziata. Questa moltitudine è sì una «grandezza ideale», ma produce problemi pratici, essendo l'elemento dinamico che impone la sua continua messa in forma come popolo. Essa è il principio dinamico del sistema democratico. La sua continua presenza ha imposto la costante riforma dello stato, con la sua costituzionalizzazione nel tardo Settecento e poi con i nuovi attributi che gli sono stati imposti: di diritto, amministrativo, sociale. Si può intendere la moltitudine come parte del «dispositivo logico» che presiede al dispiegamento della democrazia quale forma politica della modernità, oppure la si può intendere come esito eccentrico del pensiero politico moderno così come essa appare nell'opera di Spinoza. Anche in questo volume, così come in una tradizione interpretativa oramai consolidata, Spinoza figura infatti come unica voce fuori dal coro che si oppone alle simmetrie unificatrici della sovranità moderna, voce di colui che grida nel deserto: la moltitudine non può essere unificata artificialmente nel popolo, non può esaurire la sua potenza nella sua istituzionalizzazione. Il problema storico di rappresentare questa moltitudine è stato peraltro solo aggirato quando si è pensato di risolverlo con la «democrazia diretta», lasciando però inalterata la contrapposizione tra i singoli e la «volontà generale» alla quale essi si devono sottomettere alla fine del processo decisionale. E allo stesso modo si può dire che non contribuisce alla risoluzione dell'enigma democratico la figura di un potere costituente, destinato a esistere come antefatto del potere costituito e a tacere per sempre da quando e finché quest'ultimo esiste.
Quelle che dal punto di vista logico-filosofico appaiono giustamente come delle aporie, sono state nella realtà storica i punti di irruzione in cui si sono manifestate figure non completamente inscrivibili nel paradigma politico della modernità. L'irrappresentabilità della differenza sessuale, come pure del lavoro all'interno del rapporto di dominio democratico della moderna società capitalistica e della sua sovranità, non rimandano solo a un «oltre», inteso come un prima o un dopo. Esse esprimono anche le contraddizioni che quei soggetti hanno fatto esplodere dentro e durante la modernità politica. In altri termini le aporie del discorso filosofico-politico possono essere colte solo quando si confrontano con la loro negazione. Per restare all'epoca della rivoluzione francese, la Dichiarazione dei diritti della donna di Olympe de Gouges non rappresenta infatti l'opposto simmetrico della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Mentre i diritti previsti da quest'ultima, come rileva giustamente Duso, promanano dal popolo tanto quanto il potere politico che contribuiscono a istituire, la prima è letteralmente inconcepibile tanto per il popolo che per il potere statale e patriarcale.
Un pregiudizio popolare
È indiscutibile che l'uguaglianza degli individui è uno dei criteri fondativi del concetto di popolo. Lo stesso Marx d'altra parte ha scritto che il concetto di uguaglianza si impone «con la forza di un pregiudizio popolare», stabilendo la condizione di possibilità della commensurabilità di tutti i lavori. La domanda tuttavia è: dobbiamo rinunciare alla rivendicazione dell'uguaglianza, o piuttosto dobbiamo intensificare la critica della pretesa universalistica dei moderni concetti politici? Non tutti i soggetti che si sono presentati sulla scena pubblica politica hanno preteso di essere universali. Alcuni di loro, come appunto le donne e, in determinanti momenti, la classe operaia hanno affermato la loro parzialità e su questo terreno hanno sfidato il rapporto democratico di dominio.
Allo stesso modo è indiscutibile che il soggetto politico moderno è l'individuo libero e uguale che trova la propria rappresentazione nel sovrano, l'unico autorizzato a fare politica. Questa invenzione seicentesca di Thomas Hobbes è però subito «corretta» da John Locke che prevede, in uno schema che si colloca anch'esso nella genesi del moderno pensiero democratico, degli individui sì liberi e uguali ma gerarchizzati in base al sesso, all'attività lavorativa, al colore della pelle. Ed è probabilmente questa antropologia politica più ancora di quella hobbesiana che stabilisce le pratiche del moderno pensiero democratico. Ciò è senz'altro vero, per esempio, negli Stati uniti, dove la democrazia ha conosciuto uno sviluppo e una realtà solo in parte colti dallo sguardo europeo di Alexis Tocqueville. Basti pensare al modo con cui hanno pensato i diritti Thomas Paine o i movimenti degli anni Sessanta del secolo scorso. È possibile ricostruire il concetto di democrazia senza tener conto di queste svolte, di questi movimenti di apertura, delle pratiche democratiche che non sono diventate né diritto né istituzione? Forse non siamo più solo di fronte a un problema di ricostruzione filosofica, ma alle necessità di una pratica della trasformazione.