domenica 16 gennaio 2005

In concorso a Trieste
il film «Adisa o la storia dei mille anni»
del regista Massimo D'Orzi

una segnalazione di Elisabetta Amalfitano

il manifesto venerdì 7.1.05
DOCUMENTARIO
Una notte tra i rom in Bosnia
In concorso a Alpe Adria Cinema di Trieste il film
«Adisa o la storia dei mille anni» del regista Massimo D'Orzi

di SILVIA ANGRISANI

la pagina del manifesto è QUESTA

«Ci rendemmo conto che in Jugoslavia qualcosa di tragico sarebbe avvenuto quando gli zingari cominciarono a partire. Così, capimmo che la guerra stava terminando quando li vedemmo tornare». È una donna bosniaca che parla, introducendoci al viaggio di Adisa o la storia dei mille anni, il film che il regista fiorentino Massimo D'Orzi ha realizzato in una piccola comunità rom in Bosnia e che ora sarà in concorso a Alpe Adria Cinema di Trieste (20-27 gennaio). Si è mai sentito parlare degli zingari, durante le guerre dei Balcani? Eppure, da più di cinquecento anni la loro presenza agita l'Europa, in particolare i paesi dell'Est. Il cinema ci ha restituito spesso immagini stereotipate di questo popolo che sfugge ai tentativi di definizione: un popolo disperso nel mondo ma che non rivendica uno Stato; un popolo probabilmente originario dell'India, ma la cui memoria storica si costruisce più nel rapporto conflittuale con i non rom, con i quali vive fianco a fianco ogni giorno, che nel ricordo di origini affidate alla sola tradizione orale. Un popolo che ha una lingua, il romanès, ma declinata in una pluralità di dialetti che a volte impediscono la comprensione reciproca. Un popolo di viaggiatori? Non sempre, perché non tutti gli zingari sono nomadi, e certamente non lo sono i rom kaloperi protagonisti di Adisa.
È notte quando la macchina da presa ci fa entrare per la prima volta in una casa che sembra dispersa nel nulla. Una donna attizza il fuoco. Tutt'intorno i volti di bambini, donne, uomini, emergono a sprazzi dall'oscurità, illuminati da una luce calda come in un quadro del Seicento. La scelta della luce è indizio di un'estetica più vicina al cinema di finzione che al documentario e il lavoro sul sonoro sembra confermarlo. I rumori domestici si confondono con un mormorio di parole indistinte e quando l'intervista comincia, né l'intervistatore né l'intervistato sono in campo: la macchina da presa esplora la casa, sorprende da lontano i bambini acquattati in altre stanze, si sofferma sugli sguardi intimiditi, mentre la voce di un uomo racconta l'esperienza di una guerra di cui più di altri, forse, i rom dell'ex-Jugoslavia sono vittime.
Rom anche lui, l'intervistatore indaga il rapporto di queste famiglie con la lingua madre e con la propria storia. Due generazioni hanno già perso memoria del romanès, perché chi non ha imparato dai genitori la lingua dei rom, non ha potuto neppure insegnarla ai propri figli. E tra i figli più grandi, difficile da confessare, serpeggia la vergogna della propria appartenenza.
Nella conversazione con Adisa, la bambina che dà il titolo al film, la conduzione dell'intervista assume un tono improvvisamente «direttivo»: se non possiamo essere certi, in questo caso, della spontaneità delle risposte, possiamo tuttavia sentire la pressione che pesa sull'intervistatore, per il quale il film costituisce un'occasione per denunciare la discriminazione culturale e sociale dei rom e la scomparsa progressiva della memoria storica tra la sua gente. Vergogna e orgoglio coesistono nella stessa famiglia. Ecco un uomo che racconta il cambiamento delle condizioni di vita dopo la guerra in Bosnia: «Noi abbiamo inventato molti mestieri e sappiamo fare qualunque lavoro. Ci piace lavorare, e solo chi è malato deve ricevere l'aiuto dell'assistenza sociale. (...). Qui da noi c'è una nuova legge, non possiamo più spostarci come nell'ex Jugoslavia, dove potevamo piantare una tenda ovunque, si viveva di ciò che si aveva, ognuno aveva un mestiere. Nessuno ci chiamava zingari né ci dava del ladro». Sorge spontaneo il ricordo di un monologo analogo in Gadjo dilo, il film di Tony Gatlif in cui il vecchio zingaro Izidor si esibisce in un'involontaria performance davanti agli avventori rumeni del bar del villaggio, raccontando che in Francia gli zingari non vengono additati come ladri ma, al contrario, sono tenuti in grande considerazione perché sanno riparare meglio di chiunque altro ogni sorta di oggetti ed esercitano tutti i mestieri. E quando Gatlif racconta che questo monologo non era previsto dalla sceneggiatura ma che è nato dall'improvvisazione del protagonista, il cerchio in qualche modo si chiude: la finzione ritrova il documentario, e Adisa, facendo risuonare altre storie, si carica di un forte potenziale simbolico.
Per combattere lo stereotipo romantico dello zingaro libero come il vento (Johnny Depp in Chocolat?) e della gitana selvaggia e ammaliatrice (Esmeralda nel cartone della Disney Il Gobbo di Notre-Dame?), c'è bisogno di immagini che diano corpo agli zingari di casa nostra, quelli descritti da Soldini in Un'anima divisa in due o da Gatlif in L'uomo perfetto. O da Adisa o la storia dei mille anni, che nel rifiuto coraggioso della logica narrativa e nella consapevolezza della difficoltà di spogliarsi del punto di vista del «gadjo» (il non zingaro), lascia ai rom il diritto di testimoniare la propria presenza nella Storia.

americani
i nuovi barbari

Repubblica 16.1.05
La denuncia di un esperto del British Museum "Dalle truppe Usa danni a Babilonia"
il caso


LONDRA - Le truppe americane e polacche di stanza in Iraq hanno danneggiato le rovine di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico. La denuncia, lanciata ieri a tutta pagina dal quotidiano inglese Guardian, arriva dal British Museum e dalla sua missione di esperti in trasferta in Iraq. Il responsabile del dipartimento per l'Antico e Vicino Oriente del museo, John Curtis, scrive nel suo rapporto che i veicoli militari di Washington e Varsavia hanno provocato la frantumazione di lastricati vecchi di 2.600 anni. Frammenti importanti sotto il profilo storico e artistico sono stati mischiati con sabbia e detriti e usati per riempire i sacchi di sabbia usati nelle barriere di sicurezza. Ampie aree del sito sono state ricoperte di ghiaia, compattate e in alcuni casi trattate chimicamente per costruire piste d´atterraggio per elicotteri e parcheggi. «È come se si fosse installato un accampamento intorno alle piramidi d'Egitto o a Stonehenge», conclude l'esperto. Ma non basta. L'andirivieni di persone avrebbe permesso ai ladri di rubare preziosi reperti: l'archeologo cita fenditure, crepe e buchi fatti dai ladri nella celebre porta di Ishtar per portare via i mattoni decorati che la compongono. Interrogato dal Guardian il colonnello Steven Boylan, portavoce militare americano a Bagdad, si è difeso dicendo che i lavori erano stati discussi con il responsabile del museo di Babilonia.

Lancet denuncia le scorrettezze delle multinazionali del tabacco

una segnalazione di Loredana Riccio

il manifesto 15.1.05
Scienza al servizio del fumo
«Medici corrotti dalle industrie per screditare studi sulle malattie causate dalle sigarette»
Inchiesta-denuncia Secondo la rivista medica inglese Lancet le multinazionali del tabacco hanno tentato di alterare i risultati delle ricerche sul cancro almeno fino al 2001
ORSOLA CASAGRANDE


«Università e altri ricercatori dovrebbero smetterla di prendere soldi dall'industria del tabacco per minimizzare il grave danno all'integrità del processo scientifico». Si conclude così l'articolo firmato dal professor Stanton Glantz (università della California) pubblicato sull'ultimo numero della rivista medica Lancet. L'appello si riferisce alla prassi, almeno fino al 2001, di prestigiosi scienziati e università di accettare finanziamenti dalle multinazionali del tabacco. In cambio di ricerche compiacenti o che comunque mitigavano gli effetti devastanti del fumo sull'organismo umano. In altre parole, sostiene Glantz, la ricerca sul cancro è stata rallentata proprio da questa disponibilità di ricercatori e consulenti a stilare - dietro lauto compenso - rapporti che indicavano nel fumo un nemico molto meno pericoloso di quanto non sia in realtà. Il professor Glantz lancia la sua accusa al mondo medico ma anche a quello dell'industria del tabacco che non ha badato a spese per dimostrare che il fumo non fa poi così male. Alla base dello studio pubblicato dalla prestigiosa rivista Lancet, c'è l'analisi di documenti fino ad oggi confidenziali. Stando alle conclusioni cui è giunto Glantz, le multinazionali del tabacco avrebbero tentato di alterare i risultati degli studi che fin dal 1996 dimostravano la responsabilità delle sigarette nella mutazione di un gene antitumorale, il p53. Si tratta di una mutazione che favorisce il cancro e che è stata rilevata nel 60% dei malati di tumore ai polmoni. Una mutazione che è responsabile della proliferazione `anarchica' delle cellule.

La denuncia della rivista ha provocato reazioni immediate nel mondo della scienza. Il direttore dell'agenzia internazionale sui tumori dell'Oms, Peter Boyle ha definito «vili, uomini di paglia I consulenti che omettono di dichiarare la loro associazione all'industria del tabacco, per pubblicare critiche prezzolate alle ricerche scientifiche. Se l'industria del tabacco è sincera - ha aggiunto Boyle - nel proposito recentemente dichiarato di lavorare per le istanze della salute pubblica, non può aspettarsi alcune collaborazione se continuerà a perseguire questo tipo di attività».

La ricerca, che sarà pubblicata oggi su Lancet, si è basata sugli archivi sul tabacco tra cui la Legacy Tobacco Documents Library and la Tobacco Documents Online, ma anche sugli archivi di multinazionali come Philip Morris e R J Reynolds.Proprio qualche mese fa, in novembre, una delle più grandi multinazionali del tabacco, la Philip Morris si era sentita in dovere di contestare le accuse che la stessa rivista Lancet le aveva rivolto. Allora Lancet aveva detto che Philip Morris aveva volontariamente nascosto le prove della dannosità del fumo passivo. La multinazionale aveva risposto che le accuse erano «false, inaccurate e altamente fuorvianti». Ma Lancet aveva proseguito sostenendo che negli anni `70 la multinazionale aveva nascosto i risultati di una compagnia di ricerca tedesca sui danni del fumo passivo. Gli autori dell'articolo avevano scoperto che i ricercatori incaricati dalla multinazionale del tabacco di condurre le indagini avevano selezionato accuratamente i risultati, censurando nei fatti quelli riguardanti il fumo passivo che era stato identificato come più dannoso ancora di quello attivo. «Gli scienziati coinvolti in questa ricerca - aveva detto allora il professor Martin McKee, uno dei curatori dell'inchiesta - hanno pubblicato soltanto una piccola parte della loro ricerca. E quello che hanno scelto di rendere pubblico appare molto diverso da quello che invece è stato tenuto nascosto. In particolare - aveva detto ancora McKee - quello che non è stato pubblicato erano le prove della dannosità del fumo passivo, una scoperta assai rilevante visto il continuo negare da parte delle multinazionali del tabacco della sua pericolosità». Allora il direttore di Lancet, Richard Horton aveva sottolineato «il continuo dibattito sul modo in cui il governo dovrebbe rispondere alla richiesta di vietare il fumo nei luoghi pubblici». In Gran Bretagna le politiche sul fumo dovrebbero essere rese note nelle prossime settimane. Intanto la Scozia ha annunciato che fumare nei luoghi pubblici sarà vietato dalla primaveraIn Italia lo scontro sulla legge antifumo nei locali pubblici entrata in vigore nei giorni scorsi ieri ha registrato una nuova presa di posizione del presidente della Confcommercio SergioBillè, che, confermando un ricorso al Tar contro la normativa, ha lanciato un «appello alle forze dell'ordine perché evitino multe salate ai commercianti». «Accendiamoci tutti una sigaretta», ha aggiungo - denunciando il fatto che gestori di locali subiscono multe anche per un cartello appeso male - «e attendiamo l'esito del ricorso al Tar». Sul fronte dei danni che provocherebbe invece il fumo è intervenuto, in un convegno a Taormina, il presidente dell'associazione Mediterranea Pneumologi, Salvatore Privitera, secondo il quale in Italia «il fumo di sigaretta è responsabile di circa il 90% delle neoplasie polmonari, ma è soprattutto la causa della progressione invalidante di malattie croniche come la broncopolmonite ostruttiva».


l'occhio e l'orecchio
estetica dei sensi

LA STAMPA TUTTOLIBRI 15.1.05
L’occhio e l’orecchio sono due filosofi che non ingannano
Tradotta l’ultima opera di Mikel Dufrenne, il principale teorico dell’estetica francese di scuola fenomenologica nel secondo Novecento: l’esplorazione del mondo attraverso il corpo
Marco Vozza


MIKEL Dufrenne è stato indubbiamente il principale studioso e teorico dell'estetica francese novecentesca, caratterizzata dall'elaborazione del paradigma fenomenologico, introdotto da Husserl e perfezionato da Merleau-Ponty, autore con il quale oggi sembra inevitabile confrontarsi, anche per i rilevanti contributi estetologici dedicati a Cézanne e a Proust. Nonostante l'importanza del suo contributo filosofico, Dufrenne non è mai entrato nel novero dei pensatori transalpini à la page, quelli di cui si traduce ogni minimo e trascurabile saggio, come se si trattasse di una imprescindibile traccia del pensiero filosofico. In tal senso, appare davvero meritoria la pubblicazione della sua ultima opera, L'occhio e l'orecchio, che risale al 1987, pochi anni prima della morte del suo autore: essa è ospitata in una bella collana del Castoro diretta da Elio Franzini e si avvale di una illuminante prefazione redatta dal traduttore Claudio Fontana, capace di spiegare altresì le ragioni del relativo isolamento patito dall'intellettuale francese, un umanista destinato ad apparire un po' anacronistico in un'epoca caratterizzata prima dalla corrente strutturalista, poi dall'ontologia negativa post-heideggeriana che sfocia nell'ultimo Derrida; in realtà, suggerisce Fontana, «il suo pensiero brilla di luce propria, è creazione che illumina luoghi e ambiti del nostro esperire». Quello di Dufrenne è un pensiero permeato di amor mundi, di tenerezza per le cose del mondo, colte nella loro vibrante tessitura carnale; così, questo libro appare come una esaustiva e appassionata esplorazione del sensibile, attraverso la puntuale individuazione dell'attività plurale degli organi sensoriali e, al contempo, la ricerca inesausta dell'aspetto unitario che soggiace a tale eterogeneità. Partendo dal presupposto che - contrariamente a quanto riteneva la tradizione metafisica di matrice cartesiana - i sensi non ci ingannano, si tratterà di restituire dignità filosofica all'orecchio, organo inerte della passività, orfano di soggettività, privo di interiorità, traccia residua di animalità inconsapevole, subordinato allo sguardo attivo dell'occhio. Sulla traccia indicata da Erwin Straus, Dufrenne si propone allora di sviluppare una fenomenologia del sentire, intesa come analisi della modalità di comunicazione tra un soggetto e il mondo esterno, esperienza psichica e pratica che precede ogni forma di sapere razionalmente formalizzata. L'occhio e l'orecchio sono organi di senso che assolvono a funzioni differenti ma che, nell'esercizio delle loro rispettive competenze, manifestano una solidarietà di fondo che pone l'esigenza di pensare la loro unità, di risalire cioè alla genesi dei sensi, estendendo anche all'orecchio l'indicazione capitale formulata da Klee di render visibile l'invisibile, accolta da tutta la fenomenologia come un vero e proprio programma di ricerca filosofico. Non vi è più opposizione tra il corpo e lo spirito: all'origine dello spirito vi sono i sensi; la fenomenologia tenterà di descrivere l'emergere dello spirito dai sensi, con la loro straordinaria ricchezza percettiva, innanzitutto dalla vista ma anche dal tatto e dall'udito poiché, mentre «l'occhio si apre all'infinitamente grande o all'infinitamente piccolo, l'orecchio raccoglie il canto dei delfini dalle profondità marine oppure il rumore della linfa che risale al cuore dei vegetali». Così i sensi formano un io naturale che precede ogni astratta identità; i sensi coabitano nel corpo, comunicano tra loro, cooperano all'esplorazione del mondo che si raccoglie nella singolarità della carne, allacciano sorprendenti relazioni, accolgono solidali molteplicità e differenza. Come già sapeva Locke, ogni riflessione poggia sul dettato delle sensazioni; come dirà poi Nietzsche, è il corpo che pensa (es denkt), che produce una grande ragione mentre all'intelletto rimane soltanto una piccola ragione; il corpo - aggiunge la fenomenologia - ci mette in relazione con il mondo: non tanto mediante la percezione quanto attraverso un'affettività incarnata. La mia esperienza scaturisce da un corpo a corpo con il mondo; i sensi sono come fessure attraverso le quali il corpo si apre al mondo lasciandolo penetrare nella carne viva dell'emozione, accogliendone l'impurità, la mescolanza, disponendosi ad una perenne eteroaffezione. Si configura così un soggetto ospitale, generoso, sensuale, intimo con l'altro, come accade nell'erotismo, esperienza elettiva in cui si manifesta la «carne di un corpo che è tutto zona erogena, carne che si esperisce illimitandosi nel dono che offre e, insieme, che riceve; infatti, la mano o la bocca che si fanno strumenti della carezza non si appartengono più, la loro attività diviene passività e la passione dell'uno suscita quella dell'altro. In una simile reversibilità, di pelle contro pelle, chi tocca e chi è toccato? E' veramente una sola carne, agitata da una stessa onda, trasportata da uno stesso piacere». Come già scriveva Valéry, la profondità dell'uomo è la sua pelle. Per Dufrenne tuttavia, la pluralità dei registri sensoriali non è la parola definitiva della fenomenologia del sentire; ben più ambiziosa si presenta invece - dopo Straus e Merleau-Ponty - l'autentica posta in palio filosofica di quest'opera: «Siamo in grado di pensare l'unità di questo plurale?», siamo cioè capaci di comprendere «l'unità della carne prima della sua differenziazione e di avvicinarci all'idea dell'originario?». Mettendo tra parentesi il paradigma entro il quale viene formulata, potremmo domandarci se tale sfida ontologica (ogni volta sospesa e differita perché inafferrabile o virtuale) sia davvero così cruciale da apparire quasi imprescindibile. Un altro percorso teorico potrebbe essere indicato: quello che depone ogni residua quanto tenace istanza di pervenire all'unità originaria e prelogica dell'essere, considerandola finalmente irrilevante, nella consapevolezza che essa appare soltanto nel mondo dei fenomeni, sempre differenziata, così come il sensibile si manifesta soltanto nella pluralità di visibile, udibile e tangibile, condizione di feconda molteplicità che talvolta gli artisti sanno rappresentare con efficaci sinestesìe, composizioni armoniche, affinità ricreate a posteriori, che non necessariamente attestano l'omogeneità primordiale del sensibile.

sinistra
l'assemblea della Fiera di Roma lancia la "camera di consultazione"

APCOM 15/01/2005 - 19:00
SINISTRA
ASOR ROSA CONVINCE, OK ALLA "CAMERA DI CONSULTAZIONE"
Oggi primo passo per contributo stabile a programma Gad
di Angela Mauro


Roma, 15 gen. (Apcom) - Alla fine Alberto Asor Rosa ha convinto. La sua proposta di creare una camera di consultazione permanente della sinistra radicale (partiti e società civile) ha riscosso il consenso entusiasta dei tremila partecipanti (la stima è degli organizzatori) intervenuti all'assemblea "Verso sinistra" promossa dal Manifesto alla Fiera di Roma. Tra i tremila, i leader politici Bertinotti, Cossutta, Diliberto, Pecoraro Scanio, Muzzi, Salvi, Occhetto, Ingrao; i leader sindacali, Cremaschi e Rinaldini della Fiom, Nerozzi della Cgil, Beni dell'Arci, i professor Sylos Labini e Paul Ginsborg, militanti di partiti e associazioni, femministe e pacifisti e naturalmente i volti storici del Manifesto, da Valentino Parlato e Rossana Rossanda.
È stata la Rossanda a tirare le fila del ragionamento verso termini organizzativi più dettagliati della camera di consultazione permanente. La Rossanda la immagina come un organismo strutturato per commissioni tematiche, che organizzi assemblee periodiche. Un organismo "plurimo e aperto", l'ha descritto il suo ideatore Alberto Asor Rosa, che sia capace di "contribuire al programma della Gad".
Il nodo è proprio quello di pesare di più, come schieramento di sinistra radicale, all'interno della Grande alleanza democratica. Il concetto è stato ripetuto un po' da tutti i relatori che hanno così dato voce ad una visibile voglia di aggregazione "a sinistra del centrosinistra". La "camera" non sarà un partito e avrà soltanto funzioni propositive e non decisionali.
Per la verità, c'è qualcuno come Oliviero Diliberto che ha provato a spingere per la formazione di una vera e propria federazione radicale da affiancare alla federazione riformista. Soprattutto, Diliberto ha rivolto i propri ammiccamenti al Prc di Fausto Bertinotti che su questo terreno gli ha risposto picche: ("No a rimettere insieme i cocci spezzati del passato").
Prevale comunque un senso di unità tra i radicali come testimoniano le battute di Fabio Mussi sul no del correntone Ds alla formazione di un partito riformista ("Nel caso non ci saremo", ha detto). Forse non è un caso che le parole di Rutelli sulla necessità di superare i concetti di socialdemocrazia e uguaglianza siano arrivate proprio oggi, nel giorno di un inedito appuntamento per la sinistra radicale. Ma bisogna aspettare: "La camera di consultazioone" è solo al primo passo: prossimo apuntamento, da tutti gli intervenuti riconosciuto, sarà la manifestazione lanciata da L'Unità che prima delle Regionali intende chiamare di nuovo in piazza (c'è chi prevede San Giovanni a Roma) la sinistra italiana.
copyright @ 2005 APCOM

Repubblica 16.1.05
Prc, Pdci, correntone ds, girotondi: tremila con "il manifesto"
La relazione di Asor Rosa, la filastrocca di Ginsborg
Sinistra radicale più unita
niente lista, sì a Prodi
di GOFFREDO DE MARCHIS

ROMA - Paul Ginsborg canta dal palco la filastrocca del vecchio stupido duca di York e la platea gli va dietro battendo le mani. Diliberto ci riprova con il listino della sinistra radicale e Bertinotti gli risbatte la porta in faccia. Pietro Ingrao fa un rapido passaggio mentre la Rossanda si prende la scena facendo la sintesi di un dibattito lungo otto ore. Asor Rosa trova il minimo comun denominatore proponendo una "camera di consultazione" della sinistra radicale, il rifondarolo Alberto Burgio dal palco la chiama "camera di compensazione" strappando risate, il disobbediente e irriverente Francesco Caruso la definisce la "camera mortuaria": "Con tutto il rispetto, ma l'età media è piuttosto avanzata...".

E' un piccolo miracolo che l'assemblea promossa dal Manifesto per una sinistra diversa da quella della federazione dell'Ulivo, non sia finita con un litigio o una mini-scissione, ma con l'idea di convocare al più presto un tavolo di lavoro, protagonisti gli "attori" di ieri, dove mettere giù un'agenda di lavoro e poi ritrovarsi in nuove assemblee tematiche.

E' stata la fondatrice del Manifesto Rossana Rossanda a tirare le fila del discorso, a offrire una conclusione, uno sbocco alla voglia di partecipazione delle tremila persone della Fiera di Roma. E non era solo vecchia sinistra, come dice il poco generoso Caruso, c'erano anche giovani. Lontani dalle prime file, occupate dai soliti noti, ma c'erano. Ginsborg è stato soprattutto in fondo alla sala: "E' più interessante, il parterre invece fa impressione, c'è la necessità di apparire in televisione, di farsi vedere. Ma il narcisismo non dovrebbe essere una cosa di sinistra".

Polemiche marginali. Allo storico inglese trapiantato a Firenze oggi piace questa unità, "emergenziale", dice, ma indispensabile per battere Berlusconi. Conta solo non perdersi di vista, come disse una volta Nanni Moretti (ieri assenti, ma i Girotondi erano in sala). Ginsborg lo spiega in un intervento cantato con la filastrocca dello stupido duca di York che portò i suoi diecimila uomini "sulla cima della montagna solo per il gusto di farli scendere. Non deve succedere la stesso oggi", dice molto applaudito, anche per aver alleggerito la discussione al momento giusto.

Mandare a casa Berlusconi, dicono tutti. "La cricca di Berlusconi", attacca Asor Rosa all'inizio dando il là a tutti gli interventi successivi. Quella che qualche mese fa sarebbe stata una guerra con la federazione, con i riformisti, con i "moderati" dell'Ulivo, oggi è solo una presa di distanza e il più duro con il progetto dei Ds e di Prodi è proprio un diessino, Fabio Mussi: "Se si farà il partito riformista io non ci sarò" e giù applausi.

Scenografia povera, uno striscione "Verso sinistra" dietro il palco, a colorare l'ambiente ci pensano i tanti maglioni al posto delle grisaglie classiche dei congressi di partito. "Occorre fare un discorso chiaro con la Gad, la mancanza di chiarezza va risolta", dice la Rossanda. E denuncia "una scollatura tra società civile e società politica più forte da noi che nel Polo".

Però il sostegno a Prodi non si discute, il tempo delle liti sembra davvero finito, almeno da qui. Tutti prodiani, dunque, da Giuliano Giuliani (che attacca i Carabinieri "vero nucleo del fascismo armato") a Valentino Parlato, Aldo Tortorella. Diliberto propone a Bertinotti un tavolo di confronto tra i due partiti dopo il congresso di Rifondazione. La risposta è una chiusura: "Faccia prima una proposta". Anche il Verde Pecoraro Scanio è contrario a una "forza del 15 per cento. Valiamo molto di più".

sinistra
«Laicità, una battaglia da fare»

il manifesto 15 GENNAIO
Laicità, una battaglia da fare
Crocifisso nelle scuole, procreazione assistita vietata, ma anche preti in televisione e santi dappertutto. Sono centinaia le occasioni per difendere la libertà di pensiero e di coscienza. Che è il migliore argine al fanatismo. Un tema che non può mancare nell'agenda della sinistra radicale
VERA PEGNA

Lo scorso ottobre i capi di stato e di governo dei 25 paesi membri dell'Unione europea hanno approvato all'unanimità la bozza di trattato costituzionale per l'Europa. In questo testo non esiste la parola «laicità». Né poteva esistere poiché sarebbe stata in contraddizione con l'articolo 52 che dà alle chiese le garanzie da esse richieste. La prima garanzia è l'impegno delle istituzioni comunitarie a non interferire nei rapporti esistenti fra stati e chiese. La seconda è contenuta nella frase«L'Unione mantiene un dialogo regolare con tali chiese ed organizzazioni, riconoscendone l'identità e il contributo specifico». Il significato di questa formula ambigua è precisato in un documento riservato del giugno 2002 che la Comece (Commissione episcopale europea) ha inviato al Gopa (Gruppo dei consiglieri politici del presidente della Commissione europea). Per dialogo regolare le chiese intendono la possibilità di intervenire in fase pre-legislativa sui progetti di legge e su ogni documento ufficiale che riguardi le questioni che le chiese reputano di loro interesse e che si riservano, volta per volta, di indicare; il documento indica altresì la necessità di istituire un ufficio di rappresentanza all'interno della Commissione, nonché un partenariato fra chiese e UE.

Per chi non l'avesse capito, si tratta di una forma di concordato.

Sono stati rarissimi i parlamentari che lo hanno denunciato, che hanno capito che prima di riguardare le religioni l'articolo 52 riguarda la laicità; che mentre la religiosità dei singoli va tutelata sempre e ovunque, il riconoscere alle chiese un ruolo ufficiale nel processo democratico europeo equivale a un'abdicazione, da parte del parlamento, di una parte del proprio ruolo. La medesima inerzia - o calcolo - rispetto alle questioni che riguardano la Chiesa cattolica, si riscontra nel comportamento degli eletti al parlamento italiano, i quali - generalizzo volutamente nonostante ci siano gradi diversi di acquiescenza verso il Vaticano - moltiplicano le loro attenzioni e i loro favori alle gerarchie ecclesiastiche mentre la società si secolarizza e i cittadini seguono sempre meno i precetti indicati dalle gerarchie ecclesiastiche. Scrive bene Gianni Ferrara sul manifesto del 7 gennaio che la questione della rappresentanza politica «si identifica con un pilastro della democrazia... (la quale) è proclamata ma non è verificata».

Alcuni esempi fra i tanti: gli insegnanti di religione stipendiati dallo stato ma confermabili e revocabili dalla diocesi, la legge sulla procreazione medicalmente assistita, quella sul divorzio breve, i finanziamenti ingenti alla Chiesa cattolica e al suo indotto, finanziamenti che non sono altro che la conferma del mercimonio esistente fra la Chiesa cattolica e i politici al potere, anche a livello locale, la presenza ubiquitaria e sempre più politicizzata delle gerarchie ecclesiastiche nella nostra vita politica (al funerale dei soldati caduti a Nassiriya, Ruini dichiara: in Iraq ci siamo e ci resteremo), la visita del papa al parlamento a camere riunite. È interessante la lettura che ne dà l'on. Giorgio Bogi al Convegno «Costituzione europea: la laicità indispensabile per l'uguaglianza dei cittadini davanti alle istituzioni», organizzato dall'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti a Roma nel novembre 2003: «Non era mai accaduto prima d'ora che il capo della confessione religiosa parlasse a camere riunite in parlamento. Io ne do una lettura politica. In quel momento c'è un grande scontro politico sui problemi della pace e della guerra e il papa sta sul versante della pace. Naturalmente gli uomini politici che se ne servono prescindono dal fatto che la pace del papa è diversa dalla pace politica. Fare la pace politica è più difficile che enunciare l'esigenza della pace. Ma lo scontro politico fa usare strumentalmente anche la posizione del papa. Per cui perfino le componenti che tradizionalmente avevano atteggiamenti di difesa della laicità delle istituzioni accettano strumentalmente la visita del pontefice, come è accaduto nel 45-46 per l'articolo 7 della Costituzione che accoglie i Patti lateranensi... e l'accoglienza è anche imbarazzante, tanto era l'entusiasmo. E gli applausi cominciavano in un settore, quello più interessato, e si estendeva agli altri. Io l'ho visto dalla tribuna. Ancora una volta la presenza del pontefice veniva accolta come fatto strumentalmente utilizzabile, indipendentemente dal fatto che si creava un precedente di portata gigantesca. Perché non è immaginabile che il capo di una confessione religiosa parli senza dibattito, dando un suo messaggio al parlamento italiano convocato a camere riunite».

La responsabilità è di tutta la classe politica? Si, ma soprattutto di quella di sinistra che troppo raramente si distingue dal centro e dalla destra quando si tratta di difendere la laicità dello stato e di dispiacere alle gerarchie ecclesiastiche. E che troppo fa, anche a livello personale, per ingraziarsele (vedi un Rutelli che, eletto sindaco di Roma, risposa - ma in chiesa - la stessa moglie o un D'Alema che va in piazza S. Pietro alla canonizzazione di Escrivà de Balaguer). Sono fatti gravi che ottundono il senso stesso della laicità e contribuiscono allo sbandamento dei cittadini laici. Sono convinta che è qui, a questo varco dove si gioca la rettitudine morale e la coerenza fra pensiero e azione, che ci aspetta la maggioranza dei cittadini, compresi quelli cattolici che i partiti di centro sinistra certo non dimostrano di rispettare se pensano di ottenere i loro voti compiacendo alle gerarchie ecclesiastiche.

Per noi sinistra alternativa questo tema è qualificante e richiede che ci si rifletta a fondo incominciando col decidere, quando parliamo del consenso cattolico, da quale principio partiamo. Se da quello della rappresentanza democratica e della ragione o da quello della religione e della fede per la quale cattolico è colui cui è stato imposto il battesimo alla nascita. Chiarito che partiamo dal principio della rappresentanza democratica, diremo chiaramente due cose: la prima è che la Chiesa cattolica, papa compreso, non rappresenta i cattolici ma solo se stessa poiché non ha ricevuto nessuna delega da parte dei suoi fedeli. Ne consegue, per quanto riguarda il discorso sulla laicità, che il rapporto con le istituzioni, in primo luogo quello finanziario, va rimesso in questione. Iniziamo a parlarne come ha fatto Zapatero affinché, come dice un grande filosofo francese, il pensabile diventi dicibile e il dicibile fattibile.

La seconda cosa che diremo chiaramente è che sappiamo di non piacere a chi, cattolico o non, accetta la definizione di laicità data ufficialmente dal Vaticano, la quale dice sì alla separazione della sfera statale da quella ecclesiastica «in tutto salvo per le questioni morali» (Nota dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede, novembre 2002). Perché è proprio sulle questioni morali che ciascuno deve sentirsi libero di ascoltare la propria coscienza per decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, anziché accettare che altri annuncino ciò che è permesso e ciò che è proibito. In questo secondo caso la coerenza fra pensiero e azione è ancora più difficile da raggiungere.

Sgombriamo il campo da possibili malintesi: non si tratta di fare dell'anticlericalismo che non riguarda noi atei e agnostici. La nostra battaglia ha un orizzonte diverso. Noi difendiamo la laicità dello stato, consapevoli che ogni concessione fatta dalle istituzione alla rappresentanze religiose mina lo stato di diritto, erode la democrazia. Non è accettabile che lo stato deleghi la morale alla Chiesa come fa quando il ministro della pubblica istruzione nomina un cardinale come consulente per le questioni etiche, o che il presidente della Repubblica nel suo discorso di capodanno saluti «Sua Santità, il Santo Padre», né che dica «Non possiamo non dirci cristiani». Non è accettabile che, per una circolare del 1929 che imponeva l'esposizione del crocifisso nelle scuole accanto all'effigie del re e di cui nessuno osa chiedere l'abrogazione neanche dopo che il cattolicesimo non è più religione di stato, si continui ad avere ovunque dei crocifissi. Ma l'esempio peggiore, anche perché quotidiano e incessante, ci è dato dalla televisione di stato la quale ci informa dei miracoli di Fatima o di padre Pio come se fossero fatti veri, alla stessa stregua di uno sciopero dei metalmeccanici. E soprattutto che fa passare in trasmissioni popolari come Domenica In il messaggio che credere è bello e giusto. Mai che si chiami un ateo o un agnostico o un libero pensatore o un indifferente alla religione per dimostrare che chi non crede in Dio può avere valori altrettanto alti e vivere altrettanto serenamente.

Io credo che se cogliessimo le istanze laiche che esistono in molte lotte portate avanti da associazioni, gruppi, singoli cittadini, ci accorgeremmo che esiste un ampio fronte laico. Penso alla lotta dell'Arcidonna di Palermo affinché si possa abortire negli ospedali pubblici, alla iniziativa della famiglia Albertin di Padova disposta ad andare in tribunale pur di rimuovere il crocifisso dalle classi dei figli, o dallo scrutatore che chiede sia tolto dal seggio. Sono centinaia le associazioni che si occupano di eutanasia, di Ivg, di contraccezione, che lottano contro l'ora di religione nella scuola, per dei libri di testo laici, che contestano la presenza di ecclesiastici e la messa nelle aziende ecc. ecc. Sono lotte che dobbiamo imparare a chiamare con il loro nome: lotte per la laicità dello stato. Per farlo, dobbiamo essere convinti che il messaggio della laicità ha una valenza profonda che va oltre la separazione fra chiesa e stato, sua imprescindibile condizione e garanzia.

Laicità significa libertà di coscienza e di pensiero quindi l'argine migliore contro l'oscurantismo e il fanatismo, significa non discriminazione e rispetto di tutte le concezioni del mondo, di quelle dei credenti come di quelle degli atei, degli agnostici e degli indifferenti alle religioni, significa uguaglianza e costituisce dunque la base più sicura e duratura della convivenza civile e l'essenza dello stato di diritto. Legare la lotta per la laicità alle lotte sociali ci farebbe fare un bel passo avanti nell'attuazione della nostra democrazia.

Carlo Alberto Redi, genetista ed embriologo

Corriere della Sera 15.1.04
«Sbagliato frenare la scienza Ecco cosa potremmo curare»
Redi
All’estero si stanno ottenendo risultati importanti
F. P.


Carlo Alberto Redi, genetista ed embriologo, dirige il laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’università di Pavia. Nell’ambito del progetto nazionale staminali ha ricevuto un finanziamento per le sue ricerche sulle cellule staminali embrionali di topo. Solo animali, perciò. A Redi, ricercatore dichiaratamente laico, chiediamo se condivide il divieto del fronte cattolico alla manipolazione dell’embrione.
«Io credo che qualsiasi argomentazione religiosa sia rispettabile. Sia quella cattolica che considera l’embrione in ogni suo stadio, anche quello primordiale, già una vita compiuta, sia quella ebraica che ritiene le prime fasi della vita embrionale prive ancora di un’identità, di un’anima. Ma queste problematiche attengono più alla filosofia che alla scienza. Per noi ricercatori la vita è, piuttosto, una materia, una realtà biologica. Però, nel caso italiano, bisogna stare attenti a non confondere le acque. Qui non si sta discutendo dell’ipotesi di autorizzare la creazione di embrioni a scopo di ricerca, come è avvenuto nel Regno Unito, ma di utilizzare gli embrioni "scartati" e dimenticati da anni in frigorifero nei centri di fecondazione assistita. Sotto il profilo etico, è più accettabile buttarli via o far sì che queste cellule continuino a vivere in un altro modo e per scopi utili alla scienza? In altri termini, bisogna porsi il problema del destino di queste vite non vite, senza ipocrisie».
Ma vale veramente la pena di «sacrificarli» alla ricerca? Queste potenzialità terapeutiche delle staminali embrionali esistono o sono ancora da dimostrare?
«Esistono, eccome. Ci sono ormai prove scientifiche certe che le staminali embrionali hanno una straordinaria capacità di moltiplicarsi e di differenziarsi in cellule mature di vari tessuti. Basta ricordare un solo esperimento, quello di Tiziano Barbieri al Memorial Sloan-Kettering Center di New York che ha dimostrato (e pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences ) come da una sola staminale embrionale si possa ricavare un milione di neuroni specializzati, che producono dopamina, un mediatore cerebrale. Il problema oggi è, piuttosto, quello di governare la crescita di queste cellule, evitando che producano tumori. Ma d’altra parte il loro studio ci darà anche informazioni importanti su come si sviluppa una malattia come il cancro. Intanto in Inghilterra si sta già lavorando, a Newcastle, a una possibile terapia sperimentale per il diabete. E molto altro è in gestazione in tutto il mondo».
Da noi, come è stato detto, il via libera è stato dato solo alle staminali adulte. Che cosa ne pensa?
«Non si tratta certo di risorse sprecate. Noi ricercatori siamo solo felici quando lo Stato finanzia studi. Non succede spesso. Ci sono cervelli brillanti impegnati sul fronte delle staminali adulte e i risultati sono lusinghieri. Ma non condivido la pregiudiziale ideologica: non si può privilegiare un ambito di ricerca e metterne in cantina un altro. È una scelta antiscientifica: la ricerca ha una sua circolarità, ogni scoperta è il tassello di un puzzle che si va via via componendo fino a chiarire alcuni punti chiave. Per questo deve poter spaziare, non avere steccati, né essere oggetto di proibizionismo».
I referendum potranno mettere un correttivo allo stato di cose che lei denuncia? Crede che serviranno a rendere più libera la ricerca?
«Mi scusi, ma io sono pessimista. Questa legge sulla fecondazione assistita non è emendabile perché il suo impianto di base è sbagliato. Lo Stato non può dettare regole eugenetiche, in questo caso poi rigidissime, su scelte individuali che attengono a una questione così personale come avere un figlio. Ha il dovere, piuttosto, di mettere a punto un regolamento che definisca i requisiti che qualificano la "bontà" dei centri a cui rivolgersi e di garantire un controllo sul loro operato. Il cittadino ha diritto a non trovarsi in un giungla. È un terreno di garanzie che è mancato in tutti questi anni. Poi alcune norme del vivere civile vanno rispettate: l’utero in affitto non è ammesso a pagamento nemmeno in Inghilterra».

un nuovo libro, di taglio non freudiano
sul mito di Edipo

La Stampa TuttoLibri 15.1.05
Il folle sogno di Edipo: sottomettere il mondo alla nostra ragione

Una guida al celebre mito ne ripercorre significati interpretazioni e figure: la sua grandezza consiste nella permanente interrogazione, nulla di definitivo può essere detto sull’uomo
Augusto Romano

CERTAMENTE non sbagliava C. Levi-Strauss quando osservava che Freud, piuttosto che interpretare il mito di Edipo, ne aveva in realtà scritto un nuovo capitolo. Se è vero che i miti raccontano noi a noi stessi, certamente quello di Edipo è tra i più evocativi, giacché possiede la capacità di espandersi in tutte le direzioni partendo da un nucleo narrativo apparentemente semplice. La sua esemplarità sta nella sua inesauribilità, nella sua naturale disponibilità a sollecitare nuove immagini e riflessioni, a tracciare nuovi percorsi interiori. La sua struttura sembra essere quella del disvelamento, tanto che scherzosamente la tragedia di Sofocle è stata definita un precursore del romanzo poliziesco. In verità, si tratta di un disvelarsi mai definitivo, mai pienamente soddisfatto di sé: un disvelarsi che non rinnega l'enigma cui dovrebbe dare soluzione, e così mostra la natura essenzialmente ambigua e irriducibile della nostra esperienza. Il mondo di oggi, malato di false certezze, può trovare nel mito di Edipo una puntuale confutazione. Non è tanto la fantasia freudiana sull'Edipo (tra l'altro, scarsamente fondata sugli elementi del mito) a commuoverci, quanto piuttosto la riflessione che esso ha sollecitato nel mitologo e grecista J.P. Vernant, cui si deve l'aver attirato l'attenzione sul fatto che, primariamente, la tragedia di Edipo è la tragedia dell'orgoglio, della ubris, e della inconsapevolezza. Edipo il chiaroveggente, il decifratore di enigmi, ignora la parte di ombra che rappresenta il sinistro riflesso della sua gloria, e perciò non sa di essere anche un mostro di impurità, che la città dovrà espellere come capro espiatorio per poter tornare pura. A un livello più profondo, Edipo è il testimone della insondabilità divina, e dunque della costitutiva duplicità della natura umana. Non viene qui sottolineato tanto il tema della colpa morale quanto l'impossibilità di dare dell'uomo una lettura univoca, e perciò la necessità di accettare che egli sia un plesso di contraddizioni insolubili. In Edipo, che è insieme il segnato e l'eletto, gli opposti si incontrano. E dunque, quando l'uomo, sulle orme di Edipo, tenta una domanda radicale su di sé, si scopre senza un'essenza definita, oscillante tra l'eguale a dio e l'eguale a nulla. Cosicché Vernant può concludere che «la sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura di enigma: l'interrogazione». E' questa una conclusione cui, per altra via, giunge lo scrittore F. Dürrenmatt quando, nel racconto La morte della Pizia, Tiresia, rivolgendosi alla Pizia, dice: «Come io, che ho voluto sottomettere il mondo alla mia ragione, ho dovuto affrontare te che hai provato a dominare il mondo con la tua fantasia, così per tutta l'eternità coloro che reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo ritengono un mostruoso caos». Come certe stoffe, siamo cangianti e nulla di definitivo può essere detto su di noi. Alla luce di questi pensieri, anche l'interpretazione freudiana del mito, che si ispira a un certo positivistico ottimismo, si ridimensiona da sé. Certo, l'oracolo (il cieco Tiresia o, per noi moderni, i sogni in quanto veicoli dell'inconscio) ci dà dei suggerimenti, che però sono di incerta comprensione. In questo consiste però la loro ricchezza, a condizione di riconoscere la valenza positiva della frase di Eraclito, secondo cui «il signore, cui appartiene l'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna». Del resto la cecità, cui anche Edipo approderà, indica l'appartenenza a un mondo di segni non riconoscibili dallo sguardo superficiale che appartiene alla vita diurna, quotidiana.
Consiglio vivamente il bel libro di Bettini e Guidorizzi, Il mito di Edipo. Si tratta - e mi riferisco soprattutto al contributo di Guidorizzi - di un saggio assai accattivante, proprio perché capace di restituire l'intreccio vertiginoso di temi che il mito evoca. Sebbene lo stile piano e comunicativo faccia pensare a un intento divulgativo, in realtà la grande competenza e la sottigliezza con cui i dati offerti dalla mitologia e i problemi antropologici che vi sono connessi vengono analizzati, fanno di questo libro una sintesi efficace e molto nutriente dei tanti significati che, sullo sfondo della cultura greca, possono essere attribuiti al mito di Edipo e delle funzioni che svolgono le figure che lo abitano. Non ultimo motivo di interesse è l'apparato dei rimandi testuali alle fonti, la ricca bibliografia, l'appendice dedicata alle incarnazioni moderne del mito e, infine, l'iconografia (curata da S. Chiodi e C. Franzoni). Quanto istruttiva la differenza tra l'ex libris di Freud inciso da Luigi Kasimir, in cui Edipo fronteggia con ingenua determinazione una Sfinge che lo guarda con l'atteggiamento intento di chi conosce il futuro che lo attende, e i quadri di G. Moreau o di F. Khnopff, in cui una Sfinge-femme fatale sembra alludere a un femminile divorante e a un maschile inquieto e debole. Brividi della modernità, finis Austriae: Edipo perde la sostanza eroica, e noi possiamo immaginarlo frastornato e insieme risucchiato dai tonfi definitivi dell'orchestra malheriana.
Peccato per gli errori di stampa.

Edoardo Boncinelli
Titano

Corriere della Sera 16.1.05
I NUOVI MARZIANI
di EDOARDO BONCINELLI


Per giungere ai nostri occhi la luce della Luna, «solinga, eterna peregrina», impiega poco più di un secondo; quella del Sole otto minuti circa; quella di Titano un’ora. Questi numeri danno l’idea di quanto lontano è riuscito a spingersi l’uomo, inviando una capsula telecomandata a «ficcare il naso» nelle cose di questo scontroso satellite di Saturno, il pianeta degli anelli. La sonda madre, Cassini, ha dovuto viaggiare per ben più di un miliardo di chilometri per andare a posizionare la capsula Huygens in vista di Titano e Huygens si è andata poi a posare con dolcezza su questo remoto corpo celeste.
«Dal legno storto dell’umanità non si è mai cavata una cosa dritta» dice Kant. Non c’è dubbio; ma ne ha fatte di cose questo legno storto! Ha inviato qualcuno sulla Luna, si è sillabato il proprio genoma, ha mandato un mezzo cingolato su Marte e adesso un ragnetto portante una ricetrasmittente su Titano, oltre a creare cose meravigliose come il quartetto con pianoforte K478 che sto ascoltando. Se l’uomo singolo è nella sua essenza un grumo di contraddizioni, il collettivo umano quando vuole riesce a fare cose da lasciare di sasso.
La superficie di Titano sembra una versione on the rocks, 180 gradi sotto zero, di quella che doveva esserci sulla nostra Terra prima che sbocciassero le prime forme viventi. Qualcuno pensa che queste potrebbero essere le condizioni ideali per l’originarsi di forme di vita. E questa volta ci sarebbero degli spettatori interessati: ci saremmo noi. Non so se sia vero, ma è una prospettiva eccitante.
A renderla ancora più eccitante c’è la registrazione sonora, in diretta, che ci offre un silenzio agghiacciante rotto da qualche tuono. Il famoso esperimento di Miller di cinquant’anni fa mostrò come si potessero generare in laboratorio aminoacidi e anche qualche nucleotide facendo passare una scarica elettrica attraverso una miscela di gas molto simile a quella presente su Titano oggi e forse sulla Terra quattro miliardi di anni fa. Se oltre al tuono ci fosse qualche fulmine, avrà pensato qualcuno, chissà che non si ripeta il miracolo della formazione di molecole organiche. Da qui alla vita, il passaggio potrebbe poi essere breve.
Tutta l’eccitazione dei mesi scorsi per aver individuato tracce di acqua nel passato di Marte, era motivata dalla possibilità che anche sul pianeta rosso ci sia stata un tempo la vita. Certo, per Marte è probabilmente tardi, mentre per Titano è troppo presto, ma l’idea di incontrarsi prima o poi con qualche forma di vita sembra un po’ un’ossessione dei progettisti di imprese spaziali. E chissà che non succeda...
L’incontro con una forma di vita aliena, magari intelligente, è stato un tema obbligato della fantascienza. Non credo però che nessuno ci abbia mai pensato veramente. Sembrava e sembra troppo lontano, ma sarebbe un modo eccezionale di rispecchiarsi e confrontarsi, sarebbe un modo di ottemperare al comandamento «Conosci te stesso!» guardando fuori, invece che guardandoci dentro. Mi vengono i brividi solo a pensarci.
Come mi vengono i brividi a guardare fuori della finestra, in questo uggioso pomeriggio di nebbia. Qui non si vede al di là della strada, mentre ci arrivano da un’ora-luce di distanza le immagini della superficie di Titano. E non c’è contraddizione. Le cose quaggiù sulla Terra sono nebbiose, umidicce, incerte, complesse e contorte, perché queste sono le condizioni per la vita. Lo spazio è puro e adamantino: non ci sono attriti, resistenze viscose e fastidiose mucillagini. Ma se qualche corpo celeste vorrà un giorno ospitare la vita, dovrà anch’esso scendere a compromessi, sporcarsi e problematizzarsi. Per condurre magari alla comparsa di altri giunchi pensanti, che, sono pronto a scommettere, saranno anche altri legni storti. Oppure puri cristalli.

democrazia e trasformazione

il manifesto 13 gennaio 2005
Il pregiudizio degli uguali
di MAURIZIO RICCIARDI
«Oltre la democrazia», un libro collettivo su un concetto aperto alla storia e all'azione collettiva. Dai greci a Marsilio da Padova, da Thomas Hobbes a Alexis Tocqueville, da Spinoza a Marx un'analisi rigorosa dell'opera di alcuni classici del pensiero politico e delle forme istituzionali che riconducono all'unità del popolo l'azione della moltitudine. Ma anche un volume che evidenzia la possibilità di andare oltre la democrazia a partire dalle pratiche politiche delle donne e del movimento operaio
La democrazia è un enigma che viene sempre risolto. Divenuta ormai un significante universale, sembra avviata a un destino di autentica confusione. Basta considerare le vicende irachene, l'ultima campagna elettorale statunitense o il più modesto scenario italiano. Tutti i protagonisti o aspiranti tali pretendono di agire in nome della democrazia. Ma vi è di più. Tutti pretendono di agire in nome di un deficit di democrazia: un rapporto democratico c'è sempre; di democrazia non ce n'è mai abbastanza. E non è detto che i luoghi geografici di queste considerazioni coincidano: è noto, infatti, che si può pensare di esportare la democrazia. Essa, tuttavia, può non coincidere con il suo stesso luogo politico: una corrente di pensiero, inaugurata da Chantal Mouffe e da Ernest Laclau, propone infatti di radicalizzare il concetto e pensare la democrazia come spazio aperto di continua inclusione istituzionale di quei soggetti che, con i loro conflitti, prendono la parola e impongono la loro presenza nello spazio pubblico politico. Democrazia, ancora, può essere intesa, come fanno Michael Hardt e Toni Negri, come il progetto e l'azione costituenti della moltitudine, quest'ultima da considerare una novità assoluta nel panorama delle forme politiche moderne, anzi un movimento politico che, risolvendo finalmente se non definitivamente l'enigma, segna il superamento e la fine della modernità stessa. Democrazia dimostra così di essere uno di quei significanti vuoti che, come ha sottolineato recentemente ne il manifesto Slavoj Zizek, possono essere riempiti di contenuti differenti da soggetti diversi. Ma è proprio questa caratteristica che garantisce la loro capacità di attraversare i secoli per essere sempre di nuovo utilizzati.

Rapporti di dominio

Un quadro consolidato di riferimento alla democrazia mostra così i segni di un'innegabile crisi, sia del popolo sul quale si fondano tanto la legittimità quanto l'identità democratica, sia della rappresentanza, in quanto meccanismo istituzionale che unifica ed esprime la volontà popolare. Da più parti, e con maggior forza e autorità da parte dei movimenti sociali di questi ultimi anni, è stata posta la necessità di andare oltre la democrazia nei suoi attuali assetti istituzionali, di andare cioè oltre la democrazia come rapporto politico di dominio. Pur richiamando nel titolo la possibilità di un oltrepassamento, il volume collettivo Oltre la democrazia (Carocci, pp. 272, € 19,60) curato da Giuseppe Duso propone un viaggio alla ricerca della genealogia del concetto, partendo da una acuta riflessione su alcuni classici che hanno stabilito il «dispositivo logico» che ha permesso l'instaurazione della moderna pratica istituzionale democratica.

Democrazia è un termine antico, ma il suo significato moderno si discosta radicalmente da quelli precedenti, al punto che è difficile se non impossibile stabilire una linea di continuità tra l'uso che ne facevano i classici greci e latini o i maestri medievali e quello che si afferma in particolare a partire dalle rivoluzioni atlantiche del tardo Settecento. Da questo punto di vista i saggi su Erodoto e Aristotele, così come il bel saggio su Marsilio da Padova, servono a mostrare l'inconsistenza delle dottrine che stabiliscono una continuità tra la democrazia degli antichi e quella dei moderni. Quest'ultima è cosa nuova perché pone come suo fondamento un soggetto formato da individui uguali, uniti in un popolo nel quale non sono riconosciute partizioni e gerarchie prestabilite. Questo approccio non serve solo a rendere giustizia al passato, cioè a individuare i criteri propri con cui l'antichità classica intendeva il proprio vocabolario e le proprie istituzioni politiche. Esso serve a mostrare il carattere radicalmente storico dei concetti politici moderni, i quali, ben lungi dall'essere eterni, hanno avuto una genesi determinata e sono di conseguenza legati al contesto storico che li ha espressi.

Questo insieme di concetti (popolo, legittimazione, rappresentanza costituzione) consente la vigenza dell'ordine sovrano democratico e di un «potere» politico che, come viene ribadito in gran parte dei contributi, è profondamente diverso dal «governo» premoderno, perché in esso nessuno obbedisce a un altro individuo, ma solo alla volontà generale che ha contribuito a formare. Il potere democratico non è dunque solo una relazione politica, ma è uno strumento che dà forma anche a un rapporto sociale, non stabilendo solo il rapporto tra rappresentante e rappresentati, ma anche la disciplina dei rapporti tra gli individui. I rapporti di dominio non gli sono perciò estranei, ma vengono dislocati più in profondità e viene loro negata ogni valenza politica.

È senz'altro vero che la democrazia ci consegna la seducente immagine di rapporti tra individui, in cui «i vincoli di dipendenza personale, le differenze di sangue, di educazione sono saltati, sono spezzati», così come per Marx avviene anche nei rapporti di denaro. I singoli, proprio perché sono liberi e fanno uso della loro libertà, si sottomettono al potere comune. Presi individualmente essi sono una moltitudine indifferenziata. Questa moltitudine è sì una «grandezza ideale», ma produce problemi pratici, essendo l'elemento dinamico che impone la sua continua messa in forma come popolo. Essa è il principio dinamico del sistema democratico. La sua continua presenza ha imposto la costante riforma dello stato, con la sua costituzionalizzazione nel tardo Settecento e poi con i nuovi attributi che gli sono stati imposti: di diritto, amministrativo, sociale. Si può intendere la moltitudine come parte del «dispositivo logico» che presiede al dispiegamento della democrazia quale forma politica della modernità, oppure la si può intendere come esito eccentrico del pensiero politico moderno così come essa appare nell'opera di Spinoza. Anche in questo volume, così come in una tradizione interpretativa oramai consolidata, Spinoza figura infatti come unica voce fuori dal coro che si oppone alle simmetrie unificatrici della sovranità moderna, voce di colui che grida nel deserto: la moltitudine non può essere unificata artificialmente nel popolo, non può esaurire la sua potenza nella sua istituzionalizzazione. Il problema storico di rappresentare questa moltitudine è stato peraltro solo aggirato quando si è pensato di risolverlo con la «democrazia diretta», lasciando però inalterata la contrapposizione tra i singoli e la «volontà generale» alla quale essi si devono sottomettere alla fine del processo decisionale. E allo stesso modo si può dire che non contribuisce alla risoluzione dell'enigma democratico la figura di un potere costituente, destinato a esistere come antefatto del potere costituito e a tacere per sempre da quando e finché quest'ultimo esiste.

Quelle che dal punto di vista logico-filosofico appaiono giustamente come delle aporie, sono state nella realtà storica i punti di irruzione in cui si sono manifestate figure non completamente inscrivibili nel paradigma politico della modernità. L'irrappresentabilità della differenza sessuale, come pure del lavoro all'interno del rapporto di dominio democratico della moderna società capitalistica e della sua sovranità, non rimandano solo a un «oltre», inteso come un prima o un dopo. Esse esprimono anche le contraddizioni che quei soggetti hanno fatto esplodere dentro e durante la modernità politica. In altri termini le aporie del discorso filosofico-politico possono essere colte solo quando si confrontano con la loro negazione. Per restare all'epoca della rivoluzione francese, la Dichiarazione dei diritti della donna di Olympe de Gouges non rappresenta infatti l'opposto simmetrico della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Mentre i diritti previsti da quest'ultima, come rileva giustamente Duso, promanano dal popolo tanto quanto il potere politico che contribuiscono a istituire, la prima è letteralmente inconcepibile tanto per il popolo che per il potere statale e patriarcale.

Un pregiudizio popolare

È indiscutibile che l'uguaglianza degli individui è uno dei criteri fondativi del concetto di popolo. Lo stesso Marx d'altra parte ha scritto che il concetto di uguaglianza si impone «con la forza di un pregiudizio popolare», stabilendo la condizione di possibilità della commensurabilità di tutti i lavori. La domanda tuttavia è: dobbiamo rinunciare alla rivendicazione dell'uguaglianza, o piuttosto dobbiamo intensificare la critica della pretesa universalistica dei moderni concetti politici? Non tutti i soggetti che si sono presentati sulla scena pubblica politica hanno preteso di essere universali. Alcuni di loro, come appunto le donne e, in determinanti momenti, la classe operaia hanno affermato la loro parzialità e su questo terreno hanno sfidato il rapporto democratico di dominio.

Allo stesso modo è indiscutibile che il soggetto politico moderno è l'individuo libero e uguale che trova la propria rappresentazione nel sovrano, l'unico autorizzato a fare politica. Questa invenzione seicentesca di Thomas Hobbes è però subito «corretta» da John Locke che prevede, in uno schema che si colloca anch'esso nella genesi del moderno pensiero democratico, degli individui sì liberi e uguali ma gerarchizzati in base al sesso, all'attività lavorativa, al colore della pelle. Ed è probabilmente questa antropologia politica più ancora di quella hobbesiana che stabilisce le pratiche del moderno pensiero democratico. Ciò è senz'altro vero, per esempio, negli Stati uniti, dove la democrazia ha conosciuto uno sviluppo e una realtà solo in parte colti dallo sguardo europeo di Alexis Tocqueville. Basti pensare al modo con cui hanno pensato i diritti Thomas Paine o i movimenti degli anni Sessanta del secolo scorso. È possibile ricostruire il concetto di democrazia senza tener conto di queste svolte, di questi movimenti di apertura, delle pratiche democratiche che non sono diventate né diritto né istituzione? Forse non siamo più solo di fronte a un problema di ricostruzione filosofica, ma alle necessità di una pratica della trasformazione.

off topic
i parenti di Bossi

una segnalazione di Sergio Grom

notizia del 10/01/05, contenuta nell'elenco ufficiale pubblicato dall'Europarlamento e facile da controllare sul QUESTO sito internet

Franco Bossi (il fratello del senatur) e Riccardo Bossi (il figlio primogenito) sono stati assunti presso il Parlamento europeo con la qualifica di assistenti accreditati.
Stipendio mensile 12.750 euro, pari a 24 milioni e mezzo di vecchie lirette al mese (più eventuali bonus/benefit, ecc...).
Gian Antonio Stella sul Corriere si è precipitato a stilare l'elenco delle competenze di questi due miracolati (in attesa che crescano gli altri eredi del Senatur: Renzo, Roberto Libertà ed Eridanio).
Franco Bossi manda avanti infatti un negozio di autoricambi a Fagnano Olona. Sa tutto sulle marmitte, retrovisori, filtri dell'olio e pini aromatici. Di Riccardo Bossi, figlio della prima moglie si sa molto poco: che ha 23 anni, che è un ragazzone grande e grosso, che va matto per le auto ed è fuori corso all'università.
Ad ognuno la valutazione del "fatto" in sé, certo molti non si meraviglieranno, per altro questo è proprio lo spessore di questa classe dirigente minuscola ed imbrogliona. Liberiamocene democraticamente al più presto!
Vi invito a diffondere la notizia.