La Gazzetta del Mezzogiorno (Bari) 12.9.03
Cocente delusione il film di Bellocchio su Moro
Ho visto il film di Bellocchio «Buongiorno notte» sul sequestro dell'on. Aldo Moro e ne ho avuto una cocete delusione. È questo il film così osannato dalla stampa in occasione del Festiva del Cinema di Venezia da ritenerlo meritevole del «Leone d'oro»? È questo il film del regista assiduo frequentatore di seminari oceanici di un noto psicanalista a Roma negli Anni '80/'90? È questo il film che, giunto dopo tanti anni da un evento che ha sconvolto psicologicamente, emotivamente e politicamente il nostro Paese, avrebbe potuto essere l'occasione per una serena e matura riflessione su quegli anni?
Ho assistito ad un film esile, niente affatto emozionante, perfino noioso. Bellissimi invece gli articoli che parlano del film; l'ultimo in ordine di tempo che ho letto è quello, pubblicato sulla Gazzetta di martedì 9, dell'amico Pino Pisicchio che con linguaggio forbito ed immaginifico ha elogiato in maniera così appassionata e convincente l'ultima fatica di Bellocchio, da farmi dubitare che si trattasse della stessa insipida pellicola da me vista domenica scorsa.
A pensarci bene, forse mi ha infastidito vedere la dura e cruda realtà di quegli anni di follia ideologica? Ma erano davvero così come li rappresenta Bellocchio i brigatisti che hanno assassinato Moro? Sprovveduti, superficiali, infantili... È quel manipolo di ragazzi che ha tenuto in scacco lo Stato per tanti anni, rapinando, uccidendo, terrorizzando un intero Paese e traumatizzando un'intera generazione? Non è che siamo davanti al solito tentativo, così frequente nella patria del revisionismo, di ridimensionare la gravità e la tragicità di quel movimento, edulcorando tutto in una visione buonista e confidando nella paterna comprensione e nel perdono cristiano?
Quando il recupero della dimensione umana e psicologica di Hitler?
Giuliana Perrotta
Bari
Chi ha visto il film e vuole discutere ci scriva: questa è in fondo la terra di Moro. Una materia molto emotiva e opinabile, come dimostrano gli articoli sul film che lei giudica molto più belli del film.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 12 settembre 2003
Ottaviano Del Turco sul Corsera, Mario Pirani su Repubblica
Corriere della Sera 12.9.03
LETTERE_AL_CORRIERE
risponde Paolo Mieli
Del Turco, il film di Bellocchio e la guerra di Piero
Piero Fassino ha ingaggiato la sua personale battaglia contro quell'«idra» tutta particolare che è la storia recente del Pci. Lui, meglio di altri, sa che le molte «teste» che la compongono sono tanti rospi difficili da vomitare. Teste che ricrescono anche quando il colpo inferto loro sembra quello definitivo. Prendiamo il Festival di Venezia come metafora di questa «guerra di Piero». Due film italiani in concorso. Uno, «Segreti di Stato», caricatura rivelatrice di un'idea della storia che non sembra morire mai: la strage di Portella della Ginestra opera di una congiura internazionale che metteva insieme Pio XII, la Cia, Iunio Valerio Borghese e la X Mas sotto l'abile regia del furbo ed eterno Giulio Andreotti e del cattivissimo Scelba. Applausi interminabili, segue dibattito.
L'altro, «Buongiorno, notte» che Walter Veltroni giudica «... opera bellissima e coraggiosa», e riconosce a Marco Bellocchio il coraggio di entrare in quel «buco nero» costituito dal rifiuto della letteratura e del cinema di guardare dentro la «bestia terrorista» e la sua genesi ideologica. Applausi interminabili anche a questo film. Al primo però è stato assegnato un informale «Leone d'oro» dei girotondini, con tanto di serata di gala al Sacher Cinema. All'altro, con il rifiuto del premio, una sorta di monito: quel mostro, quel «buco nero» non può essere vomitato tranquillamente ed in pubblico. La burocrazia parastatale che partorisce queste «cosacce» sopravvive a Cinecittà, si esalta nei Festival. Non sopporta, meglio, non tollera, una tensione artistica libera e coraggiosa che esca da questo codice di censura. E' una genia sempre politicamente corretta, attenta ai canoni, alle regole non scritte. Pronta a partorire con tranquilla intolleranza tanti borghesi, giovanotti e nonni, tutti piccoli piccoli, accomunati, però, da una gran voglia di farsi giustizia da sé.
So da che parte stanno Piero Fassino e Walter Veltroni. Ma allora, perché non dirlo? Perché non dire apertamente che quelle considerazioni sul Berlinguer di vent'anni fa vanno tradotte in una battaglia coraggiosa, aperta e senza cedimenti contro la dietrologia d'oggidì?
Ottaviano Del Turco
La Repubblica 12-09-03, pagina 1, sezione PRIMA PAGINA
LA POLEMICA
Il film su Moro e la retorica della trattativa
di MARIO PIRANI
Se un film è tutto politico - e quello di Bellocchio lo è anche quando evoca i sentimenti e le intime emozioni dei protagonisti - esso legittima, oltre ad una valutazione sotto il profilo dello «specifico filmico», per dirla con un grande teorico del cinema, Umberto Barbaro, anche un giudizio politico. A questo aspetto limiterò le mie osservazioni avendo tanti altri, più competenti di me sul piano critico, già scritto ampiamente sul valore di un' opera che legge il delitto Moro secondo l' ottica claustrofobica dei quattro carcerieri-giudici e della innocente vittima sacrificale. Il merito indiscusso di "Buongiorno, notte" sta, a parer mio, nell' aver rifiutato e vanificato la versione dietrologica di quel crimine che aveva viceversa ispirato sia precedenti cinematografici sia una interminabile proliferazione mass-mediologica, cara a una parte non secondaria della sinistra. Secondo questa interpretazione, reiterata quanto priva del minimo elemento di prova, la mano dei brigatisti venne guidata da qualche Grande Vecchio, da Kissinger, da Andreotti, dalla Cia, dai Servizi sovietici e dai nostrani, dal Mossad e chi più ne ha più ne metta, a turno impegnati a manovrare il terrorismo in odio all' incombente «compromesso storico». Tutto, pur di non riconoscere che il brigatismo e la scia di sangue che si lasciò alle spalle, andavano purtroppo ricondotti a quell' album di famiglia, esattamente individuato da Rossana Rossanda, da cui era scaturita una propaggine delle giovani generazioni di sinistra, intossicate dal fallace mito della Liberazione tradita e da altri cascami ideologici, una devianza estremistica parossistica.
I troppi che ne divennero preda credevano giunto il momento di scatenare la lotta armata contro i simboli dello Stato borghese e, ad un tempo, contro "l' opportunismo" della Cgil di Lama, del Pci di Berlinguer, della Dc di Moro. Non per niente si ispiravano a uno slogan esplicitamente anti riformista - «Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia!» - in cui poteva riconoscersi un bacino d' udienza più vasto e variegato degli stessi gruppi terroristici. Or bene, la radiografia di Bellocchio non lascia campo ad equivoci. I quattro di via Montalcini non hanno dietro segreti burattinai, se non i loro compagni e coetanei delle altre colonne e «direzioni strategiche» brigatiste. E sono loro e solo loro i «compagni che sbagliano», figli putativi che disconoscono e mistificano la loro ascendenza, rappresentata nella pellicola dagli anziani partigiani che cantano "Bella ciao". Tesi limpida e coraggiosa, una vera e propria sfida ad un universo politico e culturale aduso a darsi spiegazioni dietrologiche in luogo di quelle logiche. Meno convincente è l' altra caratteristica del film, da molti privilegiata come la più apprezzabile: quella di mostrarci i terroristi nei loro sentimenti, personali emozioni, incubi e sogni contraddittori. Ambigua operazione non perché Mario Moretti, Prospero Gallinari, Germano Maccari e, in primo piano l' ispiratrice dell' opera, Anna Laura Braghetti, non possedessero una loro umanità degna di essere scandagliata e in una certa misura bisognosa di pietas, ma per l' esito raggiunto. Forse occorreva il Dostoevskij de "I demoni" per tracciare un profilo verosimile anche degli odierni nichilisti e non è un caso se quel romanzo, apparso nel 1871, venne definito da Berdjaev, «non dell' epoca contemporanea, ma di quella futura». Comunque non è, neanche in questo caso, la resa estetica che mi induce a qualche perplessità ma il risvolto politico: quei carcerieri, giudici e, al termine, carnefici, finiscono per apparire allo spettatore, sovente ignaro o dimentico, come poveri diavoli, abitati sì da qualche idea balzana, ma pur sempre tormentati da dubbi irrisolti, in bilico tra un privato di buoni cristiani e un operare pratico segnato dalla P38 e dalla mitraglietta Skorpion. Un dramma compassionevole che culmina addirittura nella buona volontà, ancorché frustrata, di liberare il prigioniero, tanto che il sogno della Braghetti in proposito, si traduce nella pellicola in un Aldo Moro che apre la porta dell' appartamento in cui è rinchiuso ed esce a passeggio per le strade di Roma. Il che andrebbe anche bene se allo spettatore venisse in qualche modo fornita una postilla, ricordando che la vivandiera di via Montalcini, la quale oggi con encomiabile sincerità dice di se stessa «da quella persona lì sono lontana anni luce... ero inorridita dall' esecuzione ma è comodo dirlo adesso, a quei tempi non ho agito, ho immaginato di lasciar andare Moro ma non l' ho fatto, ho lasciato che accadesse e sono rimasta nelle Br», ebbene se si rammentasse che quella stessa Braghetti, due anni dopo, partecipò all' agguato sulle scale dell' Università di Roma che costò la vita al professor Vittorio Bachelet, ucciso perché simbolo del Csm di cui era vice presidente, come rivendicarono le Br. Questo gli spettatori non lo sanno. Poco male se il sogno salvifico che conclude idealmente il film - dove non si vede, invece, il momento della uccisione - fosse una licenza della fantasia. Ma invece non è così o solo così: quel Moro «libero», secondo il sogno della brigatista, è una ipotesi politica che viene riproposta, ancora una volta, come una soluzione possibile. Se non si è avverata la responsabilità non è di chi ha rapito, giudicato e ucciso la vittima dopo 55 giorni di sequestro, ma di coloro i quali non hanno accettato il compromesso, lo scambio richiesto dallo stesso Moro nelle sue strazianti lettere (le quali, peraltro, nella loro tragicità avevano una chiave etica opposta a quella delle "Lettere dei condannati a morte della Resistenza", che il film invece impropriamente richiama, come se quei martiri avessero anch' essi impetrato salvezza ai loro carnefici e non, invece, accettato l' estremo sacrificio in nome degli ideali di Patria e libertà). I "colpevoli" veri vengono viceversa rappresentati con le loro facce impietrite. Sono gli uomini della Dc e del Pci, del governo e delle istituzioni: Andreotti e Berlinguer, Ingrao e Zaccagnini, Cossiga e Lama che assistono muti alla messa funebre senza cadavere. E lo stesso Paolo VI compare in sedia gestatoria, simbolo di una liturgia vuota, visto che anche lui si è allineato al fronte della fermezza, quando, qualche fotogramma prima, viene mostrato mentre scrive ai brigatisti chiedendo loro, niente meno, di rilasciare l' ostaggio «senza condizioni». La tesi che il film fa propria non è nuova. Marcò quei giorni drammatici e cupi del ' 78 e trovò la sua espressione sia sul piano politico, da Craxi a Pannella e ai movimenti extra parlamentari, sia sul piano culturale fra quegli intellettuali che si trinceravano dietro la parola d' ordine «né con lo Stato né con le Br». Rivista al giorno d' oggi - ma per taluni anche allora - quell' idea di uno "scambio" che salvasse la vita dello statista rapito può apparire ragionevole mentre la fermezza, rappresentata in primo luogo, ma non solo, dalla Dc e dal Pci, sembrare disumana ragion di Stato. è proprio su questa falsa rappresentazione, psicologicamente suadente, che si è andata, del resto, elaborando la dietrologia del grande complotto, ordito ben più in alto, per assassinare l' incomodo leader del cattolicesimo democratico, il cui atlantismo non era inoltre del tutto inossidabile. Ma la situazione non si presentava affatto come gli "scambisti" preconizzavano. In via Fani la scorta era stata falciata e cinque agenti erano restati sul terreno. Si sarebbero dovuti graziare in partenza gli assassini ed, anzi, liberarne altri, incarcerati per precedenti delitti, in nome della salvezza di un uomo politico? Con quali effetti sui principi generali della Giustizia e sul morale delle forze dell' ordine, duramente impegnate quotidianamente in prima persona? Inoltre riconoscere le Br come interlocutrici di uno Stato arrendevole non sarebbe servito per fermare la spirale di attentati che mieteva vittime tra magistrati, poliziotti, insegnanti, giornalisti, dirigenti politici e sindacali ma solo per avallare, con una conferma clamorosa, l' allucinato teorema terrorista che presupponeva una riscossa rivoluzionaria del proletariato, risvegliato dall' azione di una avanguardia armata e combattente. Una tattica che pur quando adombrò confusamente, durante il rapimento di Moro, un possibile compromesso riduttivo, quale la liberazione di qualche carcerato, non preannunciava alcuna rinuncia alla lotta armata ma continui ricatti per indebolire lo Stato e le istituzioni, demoralizzare l' opinione pubblica, debellare la capacità di tenuta delle forze politiche. Una conferma la avemmo anche noi di Repubblica che, sotto la direzione di Eugenio Scalfari, tenevamo ben salda la linea della fermezza, quando, nel gennaio del 1981, dopo aver ucciso il generale Galvaligi, i terroristi rapirono il magistrato Giovanni D' Urso e lo sequestrarono per 21 giorni, annunciando la sua condanna a morte a meno che il nostro giornale non avesse pubblicato, in prima pagina, un loro lunghissimo e farneticante proclama, specificando persino le caratteristiche tipografiche da osservare. Si levò anche in quella occasione il coro dei propugnatori del cedimento, le tv e radio radicali trasmisero i numeri di telefono del nostro quotidiano e del domicilio del direttore, invitando i lettori a chiamare personalmente per ottenere la stampa, infine la disperata moglie del rapito si rivolse personalmente a Scalfari, sottoposto a una tensione personale lacerante, per ottenerne il placet. Ma il direttore scrisse un editoriale in cui, pur confessando di passare ore tra le più angosciose della sua vita, respingeva il diktat perché, accettandolo, una nuova catena di ricatti avrebbe avuto inizio e, da allora in poi, avremmo avuto organi di informazione «requisiti per ragioni umanitarie, a simboleggiare la potenza dei terroristi e a diffonderne i messaggi». La vicenda fortunatamente si chiuse bene: le Br si accontentarono di vedere la loro prosa su l' Avanti! e Lotta continua, malgrado la loro esigua diffusione, e due giorni dopo liberarono D' Urso. Abbiamo ricordato tutto ciò per dare contezza ai lettori di oggi di quale fosse l' atmosfera e quali dilemmi allora si ponessero, così che il messaggio trasmesso dal film di Bellocchio sia inteso in quello che, almeno a nostro giudizio, ha di buono e di non accettabile. Non solo la corretta interpretazione del passato ci ha, però, spinto ad esprimere la nostra opinione ma anche il convincimento che quei dilemmi, anche se con formulazioni in parte diverse, sono destinati a riprodursi. Il giudizio sul terrorismo, in Italia e nel mondo, seguita purtroppo ad incombere e sarebbe ipocrita non vedere come, anche oggi, la risposta resta sovente incerta e titubante, proprio perché si fatica a coglierne la radice inaccettabile, quali che ne siano le motivazioni: il massacro di uomini e donne innocenti, assunti come «simbolo» o come strumento di ricatto, da parte di gruppi politici e religiosi che si immaginano una realtà illusoria e perseguono deliri di distruzione. Come quei giovani delle Br, raccontati da Marco Bellocchio.
LETTERE_AL_CORRIERE
risponde Paolo Mieli
Del Turco, il film di Bellocchio e la guerra di Piero
Piero Fassino ha ingaggiato la sua personale battaglia contro quell'«idra» tutta particolare che è la storia recente del Pci. Lui, meglio di altri, sa che le molte «teste» che la compongono sono tanti rospi difficili da vomitare. Teste che ricrescono anche quando il colpo inferto loro sembra quello definitivo. Prendiamo il Festival di Venezia come metafora di questa «guerra di Piero». Due film italiani in concorso. Uno, «Segreti di Stato», caricatura rivelatrice di un'idea della storia che non sembra morire mai: la strage di Portella della Ginestra opera di una congiura internazionale che metteva insieme Pio XII, la Cia, Iunio Valerio Borghese e la X Mas sotto l'abile regia del furbo ed eterno Giulio Andreotti e del cattivissimo Scelba. Applausi interminabili, segue dibattito.
L'altro, «Buongiorno, notte» che Walter Veltroni giudica «... opera bellissima e coraggiosa», e riconosce a Marco Bellocchio il coraggio di entrare in quel «buco nero» costituito dal rifiuto della letteratura e del cinema di guardare dentro la «bestia terrorista» e la sua genesi ideologica. Applausi interminabili anche a questo film. Al primo però è stato assegnato un informale «Leone d'oro» dei girotondini, con tanto di serata di gala al Sacher Cinema. All'altro, con il rifiuto del premio, una sorta di monito: quel mostro, quel «buco nero» non può essere vomitato tranquillamente ed in pubblico. La burocrazia parastatale che partorisce queste «cosacce» sopravvive a Cinecittà, si esalta nei Festival. Non sopporta, meglio, non tollera, una tensione artistica libera e coraggiosa che esca da questo codice di censura. E' una genia sempre politicamente corretta, attenta ai canoni, alle regole non scritte. Pronta a partorire con tranquilla intolleranza tanti borghesi, giovanotti e nonni, tutti piccoli piccoli, accomunati, però, da una gran voglia di farsi giustizia da sé.
So da che parte stanno Piero Fassino e Walter Veltroni. Ma allora, perché non dirlo? Perché non dire apertamente che quelle considerazioni sul Berlinguer di vent'anni fa vanno tradotte in una battaglia coraggiosa, aperta e senza cedimenti contro la dietrologia d'oggidì?
Ottaviano Del Turco
La Repubblica 12-09-03, pagina 1, sezione PRIMA PAGINA
LA POLEMICA
Il film su Moro e la retorica della trattativa
di MARIO PIRANI
Se un film è tutto politico - e quello di Bellocchio lo è anche quando evoca i sentimenti e le intime emozioni dei protagonisti - esso legittima, oltre ad una valutazione sotto il profilo dello «specifico filmico», per dirla con un grande teorico del cinema, Umberto Barbaro, anche un giudizio politico. A questo aspetto limiterò le mie osservazioni avendo tanti altri, più competenti di me sul piano critico, già scritto ampiamente sul valore di un' opera che legge il delitto Moro secondo l' ottica claustrofobica dei quattro carcerieri-giudici e della innocente vittima sacrificale. Il merito indiscusso di "Buongiorno, notte" sta, a parer mio, nell' aver rifiutato e vanificato la versione dietrologica di quel crimine che aveva viceversa ispirato sia precedenti cinematografici sia una interminabile proliferazione mass-mediologica, cara a una parte non secondaria della sinistra. Secondo questa interpretazione, reiterata quanto priva del minimo elemento di prova, la mano dei brigatisti venne guidata da qualche Grande Vecchio, da Kissinger, da Andreotti, dalla Cia, dai Servizi sovietici e dai nostrani, dal Mossad e chi più ne ha più ne metta, a turno impegnati a manovrare il terrorismo in odio all' incombente «compromesso storico». Tutto, pur di non riconoscere che il brigatismo e la scia di sangue che si lasciò alle spalle, andavano purtroppo ricondotti a quell' album di famiglia, esattamente individuato da Rossana Rossanda, da cui era scaturita una propaggine delle giovani generazioni di sinistra, intossicate dal fallace mito della Liberazione tradita e da altri cascami ideologici, una devianza estremistica parossistica.
I troppi che ne divennero preda credevano giunto il momento di scatenare la lotta armata contro i simboli dello Stato borghese e, ad un tempo, contro "l' opportunismo" della Cgil di Lama, del Pci di Berlinguer, della Dc di Moro. Non per niente si ispiravano a uno slogan esplicitamente anti riformista - «Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia!» - in cui poteva riconoscersi un bacino d' udienza più vasto e variegato degli stessi gruppi terroristici. Or bene, la radiografia di Bellocchio non lascia campo ad equivoci. I quattro di via Montalcini non hanno dietro segreti burattinai, se non i loro compagni e coetanei delle altre colonne e «direzioni strategiche» brigatiste. E sono loro e solo loro i «compagni che sbagliano», figli putativi che disconoscono e mistificano la loro ascendenza, rappresentata nella pellicola dagli anziani partigiani che cantano "Bella ciao". Tesi limpida e coraggiosa, una vera e propria sfida ad un universo politico e culturale aduso a darsi spiegazioni dietrologiche in luogo di quelle logiche. Meno convincente è l' altra caratteristica del film, da molti privilegiata come la più apprezzabile: quella di mostrarci i terroristi nei loro sentimenti, personali emozioni, incubi e sogni contraddittori. Ambigua operazione non perché Mario Moretti, Prospero Gallinari, Germano Maccari e, in primo piano l' ispiratrice dell' opera, Anna Laura Braghetti, non possedessero una loro umanità degna di essere scandagliata e in una certa misura bisognosa di pietas, ma per l' esito raggiunto. Forse occorreva il Dostoevskij de "I demoni" per tracciare un profilo verosimile anche degli odierni nichilisti e non è un caso se quel romanzo, apparso nel 1871, venne definito da Berdjaev, «non dell' epoca contemporanea, ma di quella futura». Comunque non è, neanche in questo caso, la resa estetica che mi induce a qualche perplessità ma il risvolto politico: quei carcerieri, giudici e, al termine, carnefici, finiscono per apparire allo spettatore, sovente ignaro o dimentico, come poveri diavoli, abitati sì da qualche idea balzana, ma pur sempre tormentati da dubbi irrisolti, in bilico tra un privato di buoni cristiani e un operare pratico segnato dalla P38 e dalla mitraglietta Skorpion. Un dramma compassionevole che culmina addirittura nella buona volontà, ancorché frustrata, di liberare il prigioniero, tanto che il sogno della Braghetti in proposito, si traduce nella pellicola in un Aldo Moro che apre la porta dell' appartamento in cui è rinchiuso ed esce a passeggio per le strade di Roma. Il che andrebbe anche bene se allo spettatore venisse in qualche modo fornita una postilla, ricordando che la vivandiera di via Montalcini, la quale oggi con encomiabile sincerità dice di se stessa «da quella persona lì sono lontana anni luce... ero inorridita dall' esecuzione ma è comodo dirlo adesso, a quei tempi non ho agito, ho immaginato di lasciar andare Moro ma non l' ho fatto, ho lasciato che accadesse e sono rimasta nelle Br», ebbene se si rammentasse che quella stessa Braghetti, due anni dopo, partecipò all' agguato sulle scale dell' Università di Roma che costò la vita al professor Vittorio Bachelet, ucciso perché simbolo del Csm di cui era vice presidente, come rivendicarono le Br. Questo gli spettatori non lo sanno. Poco male se il sogno salvifico che conclude idealmente il film - dove non si vede, invece, il momento della uccisione - fosse una licenza della fantasia. Ma invece non è così o solo così: quel Moro «libero», secondo il sogno della brigatista, è una ipotesi politica che viene riproposta, ancora una volta, come una soluzione possibile. Se non si è avverata la responsabilità non è di chi ha rapito, giudicato e ucciso la vittima dopo 55 giorni di sequestro, ma di coloro i quali non hanno accettato il compromesso, lo scambio richiesto dallo stesso Moro nelle sue strazianti lettere (le quali, peraltro, nella loro tragicità avevano una chiave etica opposta a quella delle "Lettere dei condannati a morte della Resistenza", che il film invece impropriamente richiama, come se quei martiri avessero anch' essi impetrato salvezza ai loro carnefici e non, invece, accettato l' estremo sacrificio in nome degli ideali di Patria e libertà). I "colpevoli" veri vengono viceversa rappresentati con le loro facce impietrite. Sono gli uomini della Dc e del Pci, del governo e delle istituzioni: Andreotti e Berlinguer, Ingrao e Zaccagnini, Cossiga e Lama che assistono muti alla messa funebre senza cadavere. E lo stesso Paolo VI compare in sedia gestatoria, simbolo di una liturgia vuota, visto che anche lui si è allineato al fronte della fermezza, quando, qualche fotogramma prima, viene mostrato mentre scrive ai brigatisti chiedendo loro, niente meno, di rilasciare l' ostaggio «senza condizioni». La tesi che il film fa propria non è nuova. Marcò quei giorni drammatici e cupi del ' 78 e trovò la sua espressione sia sul piano politico, da Craxi a Pannella e ai movimenti extra parlamentari, sia sul piano culturale fra quegli intellettuali che si trinceravano dietro la parola d' ordine «né con lo Stato né con le Br». Rivista al giorno d' oggi - ma per taluni anche allora - quell' idea di uno "scambio" che salvasse la vita dello statista rapito può apparire ragionevole mentre la fermezza, rappresentata in primo luogo, ma non solo, dalla Dc e dal Pci, sembrare disumana ragion di Stato. è proprio su questa falsa rappresentazione, psicologicamente suadente, che si è andata, del resto, elaborando la dietrologia del grande complotto, ordito ben più in alto, per assassinare l' incomodo leader del cattolicesimo democratico, il cui atlantismo non era inoltre del tutto inossidabile. Ma la situazione non si presentava affatto come gli "scambisti" preconizzavano. In via Fani la scorta era stata falciata e cinque agenti erano restati sul terreno. Si sarebbero dovuti graziare in partenza gli assassini ed, anzi, liberarne altri, incarcerati per precedenti delitti, in nome della salvezza di un uomo politico? Con quali effetti sui principi generali della Giustizia e sul morale delle forze dell' ordine, duramente impegnate quotidianamente in prima persona? Inoltre riconoscere le Br come interlocutrici di uno Stato arrendevole non sarebbe servito per fermare la spirale di attentati che mieteva vittime tra magistrati, poliziotti, insegnanti, giornalisti, dirigenti politici e sindacali ma solo per avallare, con una conferma clamorosa, l' allucinato teorema terrorista che presupponeva una riscossa rivoluzionaria del proletariato, risvegliato dall' azione di una avanguardia armata e combattente. Una tattica che pur quando adombrò confusamente, durante il rapimento di Moro, un possibile compromesso riduttivo, quale la liberazione di qualche carcerato, non preannunciava alcuna rinuncia alla lotta armata ma continui ricatti per indebolire lo Stato e le istituzioni, demoralizzare l' opinione pubblica, debellare la capacità di tenuta delle forze politiche. Una conferma la avemmo anche noi di Repubblica che, sotto la direzione di Eugenio Scalfari, tenevamo ben salda la linea della fermezza, quando, nel gennaio del 1981, dopo aver ucciso il generale Galvaligi, i terroristi rapirono il magistrato Giovanni D' Urso e lo sequestrarono per 21 giorni, annunciando la sua condanna a morte a meno che il nostro giornale non avesse pubblicato, in prima pagina, un loro lunghissimo e farneticante proclama, specificando persino le caratteristiche tipografiche da osservare. Si levò anche in quella occasione il coro dei propugnatori del cedimento, le tv e radio radicali trasmisero i numeri di telefono del nostro quotidiano e del domicilio del direttore, invitando i lettori a chiamare personalmente per ottenere la stampa, infine la disperata moglie del rapito si rivolse personalmente a Scalfari, sottoposto a una tensione personale lacerante, per ottenerne il placet. Ma il direttore scrisse un editoriale in cui, pur confessando di passare ore tra le più angosciose della sua vita, respingeva il diktat perché, accettandolo, una nuova catena di ricatti avrebbe avuto inizio e, da allora in poi, avremmo avuto organi di informazione «requisiti per ragioni umanitarie, a simboleggiare la potenza dei terroristi e a diffonderne i messaggi». La vicenda fortunatamente si chiuse bene: le Br si accontentarono di vedere la loro prosa su l' Avanti! e Lotta continua, malgrado la loro esigua diffusione, e due giorni dopo liberarono D' Urso. Abbiamo ricordato tutto ciò per dare contezza ai lettori di oggi di quale fosse l' atmosfera e quali dilemmi allora si ponessero, così che il messaggio trasmesso dal film di Bellocchio sia inteso in quello che, almeno a nostro giudizio, ha di buono e di non accettabile. Non solo la corretta interpretazione del passato ci ha, però, spinto ad esprimere la nostra opinione ma anche il convincimento che quei dilemmi, anche se con formulazioni in parte diverse, sono destinati a riprodursi. Il giudizio sul terrorismo, in Italia e nel mondo, seguita purtroppo ad incombere e sarebbe ipocrita non vedere come, anche oggi, la risposta resta sovente incerta e titubante, proprio perché si fatica a coglierne la radice inaccettabile, quali che ne siano le motivazioni: il massacro di uomini e donne innocenti, assunti come «simbolo» o come strumento di ricatto, da parte di gruppi politici e religiosi che si immaginano una realtà illusoria e perseguono deliri di distruzione. Come quei giovani delle Br, raccontati da Marco Bellocchio.
Il Gazzettino
Il Gazzettino di Venezia Venerdì, 12 Settembre 2003
La rivincita di Bellocchio
Vincitore morale, per molti, della Mostra del Cinema, il film di Marco Bellocchio sul caso Moro "Buongiorno, notte" si sta prendendo la sua rivincita nelle sale, salutato da un pubblico numeroso anche al Giorgione di Venezia, dove prosegue per tutta la settimana (sala A, ore 18/20/22)
(...)
un convegno a Parma
La Gazzetta di Parma 12.9.03
Pubblico e privato in psichiatria Nuovi orizzonti
di Isabella Spagnoli
«Il rapporto pubblico/privato in psichiatria. Organizzazione dei Servizi e strategie di trattamento» è il titolo del convegno che si svolgerà domani e sabato alla aula convegni Unione Industriali (Palazzo Soragna). L'incontro organizzato dalla Società italiana di psichiatria (sezione regionale Emilia Romagna), Villa Maria Luigia e Aiop (Associazione italiana ospedaliera privata) ha avuto il patrocinio di: Regione Emilia Romagna, Comune e Provincia di Parma, Azienda Unità sanitaria locale di Parma, Ordine dei medici di Parma e Unione parmense degli Industriali. Il convegno si inaugurerà domani alle 9 con gli interventi di Cesare Azzali (direttore Unione parmense industriali), Lorenzo Orta (presidente Aiop Emilia Romagna) e Giuliano Turrini (Direttore sanitario ospedale privato accreditato «Villa Maria Luigia»). La giornata di apertura prevede un ricco programma. Saranno numerosi e autorevoli i relatori e moderatori che tratteranno temi quali: «Diritti degli utenti e organizzazione dei servizi», «Trattamento delle situazioni cliniche complesse», «Psichiatria e aree di confine». Dalle 17 alle 18,45, a conclusione della giornata, si svolgerà un Forum che vedrà varie esperienze a confronto. Sabato si inaugurerà la mattina alle 9 parlando di «Residenzialità e percorsi di cura». Seguirà una tavola rotonda a tema: «Il modello di rete in psichiatria: accreditamento e integrazione degli interventi». La chiusura dei lavori è prevista per le 13, 15 circa. Giuliano Turrini spiega la finalità del convegno: «Queste due giornate hanno come primo obiettivo quello di fare il punto della situazione che vede l'integrazione tra erogatori pubblici e privati al servizio di utenti con disturbi psichiatrici. Le realtà pubbliche e private del nostro territorio si completano collaborando in un modello di rete complessivo che mira a offrire servizi sanitari sempre migliori. All'ottica di competizione è subentrato, da qualche anno, il concetto di collaborazione che sta portando ottimi frutti. Durante il convegno verranno esaminate aree specialistiche della psichiatria come disturbi dell' alimentazione, alcologia, e doppia diagnosi che maggiormente hanno beneficiato dei modelli di trattamento integrati fra strutture pubbliche e private. Negli ultimi tre o quattro anni gli accordi fra le diverse realtà stanno migliorando, offrendo percorsi terapeutici e modelli di intervento sempre più efficaci».
Pubblico e privato in psichiatria Nuovi orizzonti
di Isabella Spagnoli
«Il rapporto pubblico/privato in psichiatria. Organizzazione dei Servizi e strategie di trattamento» è il titolo del convegno che si svolgerà domani e sabato alla aula convegni Unione Industriali (Palazzo Soragna). L'incontro organizzato dalla Società italiana di psichiatria (sezione regionale Emilia Romagna), Villa Maria Luigia e Aiop (Associazione italiana ospedaliera privata) ha avuto il patrocinio di: Regione Emilia Romagna, Comune e Provincia di Parma, Azienda Unità sanitaria locale di Parma, Ordine dei medici di Parma e Unione parmense degli Industriali. Il convegno si inaugurerà domani alle 9 con gli interventi di Cesare Azzali (direttore Unione parmense industriali), Lorenzo Orta (presidente Aiop Emilia Romagna) e Giuliano Turrini (Direttore sanitario ospedale privato accreditato «Villa Maria Luigia»). La giornata di apertura prevede un ricco programma. Saranno numerosi e autorevoli i relatori e moderatori che tratteranno temi quali: «Diritti degli utenti e organizzazione dei servizi», «Trattamento delle situazioni cliniche complesse», «Psichiatria e aree di confine». Dalle 17 alle 18,45, a conclusione della giornata, si svolgerà un Forum che vedrà varie esperienze a confronto. Sabato si inaugurerà la mattina alle 9 parlando di «Residenzialità e percorsi di cura». Seguirà una tavola rotonda a tema: «Il modello di rete in psichiatria: accreditamento e integrazione degli interventi». La chiusura dei lavori è prevista per le 13, 15 circa. Giuliano Turrini spiega la finalità del convegno: «Queste due giornate hanno come primo obiettivo quello di fare il punto della situazione che vede l'integrazione tra erogatori pubblici e privati al servizio di utenti con disturbi psichiatrici. Le realtà pubbliche e private del nostro territorio si completano collaborando in un modello di rete complessivo che mira a offrire servizi sanitari sempre migliori. All'ottica di competizione è subentrato, da qualche anno, il concetto di collaborazione che sta portando ottimi frutti. Durante il convegno verranno esaminate aree specialistiche della psichiatria come disturbi dell' alimentazione, alcologia, e doppia diagnosi che maggiormente hanno beneficiato dei modelli di trattamento integrati fra strutture pubbliche e private. Negli ultimi tre o quattro anni gli accordi fra le diverse realtà stanno migliorando, offrendo percorsi terapeutici e modelli di intervento sempre più efficaci».
Vincenzo Cerami a Bobbio
Libertà 12.9.03
FARE CINEMA
Parla lo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, ospite dei corsi diretti da Bellocchio
Carpisco l'anima delle immagini
Dal libro al cinema: ciò che conta è la figura del narratore
Sono iniziate ieri a Bobbio, nei chiostri di San Francesco, le riprese per il cortometraggio attorno a cui si impernia l'edizione 2003 di Fare Cinema, il laboratorio diretto da Marco Bellocchio. Dall'ipotesi di lavoro assegnata dal grande regista piacentino - elaborare per immagini La cavallina storna di Giovanni Pascoli - il gruppo degli allievi, coordinato da Daniela Ceselli, ha ricavato una sceneggiatura: il disperato delirio della vedova di un assassinato, che interroga la cavalla “testimone” del delitto per strapparle il nome dell'omicida, visto dagli occhi del figlio-poeta, ancora bambino. Sono arrivati tecnici-docenti di primo piano come Remo Ugolinelli, Corrado Volpicelli, William Santero, Matteo Fago. E' arrivata da Roma la protagonista: la giovane Simona Nobili, un volto importante del teatro di ricerca capitolino che in Buongiorno, notte (l'ultimo, bellissimo film di Bellocchio) ha il ruolo della vicina di casa della vivandiera delle Brigate Rosse. Ed è arrivato un ospite-docente d'eccezione: lo scrittore Vincenzo Cerami, autore di molte delle più belle sceneggiature del cinema italiano degli ultimi 30 anni, che ieri sera al cinema bobbiese Le Grazie è stato protagonista della prima delle Lezioni d'autore della rassegna Incontri con gli autori presentando la proiezione di Salto nel vuoto, film di Bellocchio del 1980 («La mia sceneggiatura preferita - dice Cerami - con quelle di Porte aperte di Gianni Amelio e di La vita è bella di Roberto Benigni»), dopo aver tenuto un'importante lezione sulla sceneggiatura agli allievi di Fare Cinema. Memore della formula affidata da Hitchcock al celebre libro-intervista di François Truffaut «gli ingredienti per la riuscita di un film sono tre: una buona sceneggiatura, una buona sceneggiatura e una buona sceneggiatura». Qual è la cosa più importante per una sceneggiatura? «Occorre ricordare che il racconto deve creare immagini: lo sceneggiatore deve cercare di andare non verso la superficie dell'immagine, ma verso la sua anima, il suo senso profondo». Lei ha iniziato con Pasolini: un buon allenamento in questo senso. «Sì. Feci l'aiuto regista nella cosiddetta Trilogia di Totò e lavorai, senza, firmarla, alla sceneggiatura di Teorema. Ho sempre lavorato a quattro mani coi registi, in un rapporto simbiotico che ha toccato le sue punte con Amelio e Benigni: l'idea di La vita è bella è venuta, letteralmente, a tutt'e due insieme». Mi ha affascinato, nel vostro «Pinocchio» la sua lettura nera, cupa, del libro di Collodi. Perché, secondo lei, il film non ha avuto il successo che ci si attendeva? «Il film è stato danneggiato in Italia da polemiche politiche e dal fatto che Roberto faceva un personaggio “vero” invece di “fare Benigni”. In Usa, dai tagli e dal doppiaggio». Un suo libro, «Consigli a un giovane scrittore», ha avuto una fortuna enorme in libreria ed è stato persino adottato come testo di studio in varie università. A cosa attribuisce questo successo? «Al fatto che affronta ogni tipo di medium letterario: pagina scritta, teatro, cinema, radiofonia. Ricordo a tutti che, al fondo di ciascuna di queste quattro forme, c'è una figura che le unifica: quella del narratore. Dico “narratore” e non “scrittore”, memore della distinzione di Walter Benjamin: narratore è chi compie l'atto primordiale di raccontare una storia. Io dico: “Narro, ergo sum”. E il mio “comandamento” fondamentale è quello di essere artisti prima che scrittori: occorre imparare le regole della “macchina” narrativa, ma prima ancora occorre imparare a guardare le cose da un punto di vista nuovo, vedendo ciò che altri non vedono». Ha mai avuto paura che il suo sguardo potesse essere frainteso? Dal suo primo romanzo, «Un borghese piccolo piccolo» fu tratto un film di cui molti, identificandosi emotivamente col padre-giustiziere interpretato da Alberto Sordi, non compresero il lato grottesco. «Il fatto è che il regista Mario Monicelli voleva realizzare una pellicola ferocemente satirica, mentre Sordi, con tipica reazione da grande attore, fece l'impossibile per “salvare” il suo personaggio, per renderlo credibile fino all'ultimo. Questa tensione è alla base della bellezza di un film che fu la campana a morto della commedia all'italiana: mostrò l'inferno che avevano dentro tutti questi volgari ometti senza qualità che il cinema era abituato a mostrarci come “simpatici”». Sua figlia Aisha è un'attrice già affermata. L'ha incoraggiata a intraprendere questa carriera? «Al contrario: ho fatto il possibile per dissuaderla. E ora che la vedo così brava mi dispiace di averlo fatto, perché avrebbe potuto cominciare prima. Sono orgoglioso che sia stata scelta dal regista Eimuntas Nekrosius per il suo recente Ivanov, perché considero Nekrosius il più grande artista teatrale vivente». A proposito: continua la sua carriera di autore teatrale? «Sì: sta per debuttare il mio Il comico e la spalla con una grande coppia di attori siciliani, Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina». Oliviero Marchesi
FARE CINEMA
Parla lo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, ospite dei corsi diretti da Bellocchio
Carpisco l'anima delle immagini
Dal libro al cinema: ciò che conta è la figura del narratore
Sono iniziate ieri a Bobbio, nei chiostri di San Francesco, le riprese per il cortometraggio attorno a cui si impernia l'edizione 2003 di Fare Cinema, il laboratorio diretto da Marco Bellocchio. Dall'ipotesi di lavoro assegnata dal grande regista piacentino - elaborare per immagini La cavallina storna di Giovanni Pascoli - il gruppo degli allievi, coordinato da Daniela Ceselli, ha ricavato una sceneggiatura: il disperato delirio della vedova di un assassinato, che interroga la cavalla “testimone” del delitto per strapparle il nome dell'omicida, visto dagli occhi del figlio-poeta, ancora bambino. Sono arrivati tecnici-docenti di primo piano come Remo Ugolinelli, Corrado Volpicelli, William Santero, Matteo Fago. E' arrivata da Roma la protagonista: la giovane Simona Nobili, un volto importante del teatro di ricerca capitolino che in Buongiorno, notte (l'ultimo, bellissimo film di Bellocchio) ha il ruolo della vicina di casa della vivandiera delle Brigate Rosse. Ed è arrivato un ospite-docente d'eccezione: lo scrittore Vincenzo Cerami, autore di molte delle più belle sceneggiature del cinema italiano degli ultimi 30 anni, che ieri sera al cinema bobbiese Le Grazie è stato protagonista della prima delle Lezioni d'autore della rassegna Incontri con gli autori presentando la proiezione di Salto nel vuoto, film di Bellocchio del 1980 («La mia sceneggiatura preferita - dice Cerami - con quelle di Porte aperte di Gianni Amelio e di La vita è bella di Roberto Benigni»), dopo aver tenuto un'importante lezione sulla sceneggiatura agli allievi di Fare Cinema. Memore della formula affidata da Hitchcock al celebre libro-intervista di François Truffaut «gli ingredienti per la riuscita di un film sono tre: una buona sceneggiatura, una buona sceneggiatura e una buona sceneggiatura». Qual è la cosa più importante per una sceneggiatura? «Occorre ricordare che il racconto deve creare immagini: lo sceneggiatore deve cercare di andare non verso la superficie dell'immagine, ma verso la sua anima, il suo senso profondo». Lei ha iniziato con Pasolini: un buon allenamento in questo senso. «Sì. Feci l'aiuto regista nella cosiddetta Trilogia di Totò e lavorai, senza, firmarla, alla sceneggiatura di Teorema. Ho sempre lavorato a quattro mani coi registi, in un rapporto simbiotico che ha toccato le sue punte con Amelio e Benigni: l'idea di La vita è bella è venuta, letteralmente, a tutt'e due insieme». Mi ha affascinato, nel vostro «Pinocchio» la sua lettura nera, cupa, del libro di Collodi. Perché, secondo lei, il film non ha avuto il successo che ci si attendeva? «Il film è stato danneggiato in Italia da polemiche politiche e dal fatto che Roberto faceva un personaggio “vero” invece di “fare Benigni”. In Usa, dai tagli e dal doppiaggio». Un suo libro, «Consigli a un giovane scrittore», ha avuto una fortuna enorme in libreria ed è stato persino adottato come testo di studio in varie università. A cosa attribuisce questo successo? «Al fatto che affronta ogni tipo di medium letterario: pagina scritta, teatro, cinema, radiofonia. Ricordo a tutti che, al fondo di ciascuna di queste quattro forme, c'è una figura che le unifica: quella del narratore. Dico “narratore” e non “scrittore”, memore della distinzione di Walter Benjamin: narratore è chi compie l'atto primordiale di raccontare una storia. Io dico: “Narro, ergo sum”. E il mio “comandamento” fondamentale è quello di essere artisti prima che scrittori: occorre imparare le regole della “macchina” narrativa, ma prima ancora occorre imparare a guardare le cose da un punto di vista nuovo, vedendo ciò che altri non vedono». Ha mai avuto paura che il suo sguardo potesse essere frainteso? Dal suo primo romanzo, «Un borghese piccolo piccolo» fu tratto un film di cui molti, identificandosi emotivamente col padre-giustiziere interpretato da Alberto Sordi, non compresero il lato grottesco. «Il fatto è che il regista Mario Monicelli voleva realizzare una pellicola ferocemente satirica, mentre Sordi, con tipica reazione da grande attore, fece l'impossibile per “salvare” il suo personaggio, per renderlo credibile fino all'ultimo. Questa tensione è alla base della bellezza di un film che fu la campana a morto della commedia all'italiana: mostrò l'inferno che avevano dentro tutti questi volgari ometti senza qualità che il cinema era abituato a mostrarci come “simpatici”». Sua figlia Aisha è un'attrice già affermata. L'ha incoraggiata a intraprendere questa carriera? «Al contrario: ho fatto il possibile per dissuaderla. E ora che la vedo così brava mi dispiace di averlo fatto, perché avrebbe potuto cominciare prima. Sono orgoglioso che sia stata scelta dal regista Eimuntas Nekrosius per il suo recente Ivanov, perché considero Nekrosius il più grande artista teatrale vivente». A proposito: continua la sua carriera di autore teatrale? «Sì: sta per debuttare il mio Il comico e la spalla con una grande coppia di attori siciliani, Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina». Oliviero Marchesi
Le Scienze, edizione italiana dello Scientific American
10.09.2003
L’espressione dei geni è stata studiata con una tecnica di reazione a catena della polimerasi
Gli autori di uno studio pubblicato sulla rivista “The Lancet” (http://www.thelancet.com/) forniscono forti prove a sostegno della tesi secondo cui la schizofrenia e il disturbo bipolare avrebbero una causa genetica simile, provocata dall’espressione ridotta di alcuni geni responsabili per la produzione della mielina del sistema nervoso centrale.
Le due malattie psicotiche colpiscono circa il due per cento della popolazione. Ricerche precedenti sulla schizofrenia avevano mostrato anormalità nell’espressione di geni collegati ai lipidi e alla mielina. Gli oligodendrociti producono le guaine di mielina che isolano i neuroni. La mielina contiene all’80 per cento lipidi e al 20 per cento proteine, e consente una conduzione efficiente degli impulsi elettrici lungo l’assone.
Sabine Bahn e colleghi dell’Università di Cambridge, in Inghilterra (http://www.cam.ac.uk/), hanno studiato l’espressione dei geni specifici degli oligodendrociti e associati alla mielinizzazione nella schizofrenia e nel disturbo bipolare. I ricercatori hanno usato tecniche basate sull’mRNA (reazione a catena della polimerasi, o PCR, e analisi con i microarray) per confrontare l’espressione dei geni nei cervelli di alcuni pazienti deceduti: 15 soffrivano di schizofrenia, 15 di disturbo bipolare e 15 costituivano un gruppo di controllo.
Nei pazienti delle due malattie era presente una chiara riduzione dei geni collegati agli oligodendrociti e alla mielina. I cambiamenti nell’espressione dei geni per entrambe le malattie mostravano un alto grado di sovrapposizione. C’era un’alta correlazione fra i risultati ottenuti con l’analisi con i microarray e quelli ottenuti con la PCR quantitativa.
10.09.2003
Come il cervello dei neonati risponde al linguaggio
L’asimmetria fra i lati del cervello è presente fin dalla nascita
Il lato sinistro del cervello di un neonato risponde alle parole proprio come quello di un adulto. Lo afferma uno studio di un team di ricercatori guidato da Jacques Mehler della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA, www.sissa.it) di Trieste, pubblicato sulla versione online della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (http://www.pnas.org/).
Gli scienziati sanno da tempo che l’emisfero sinistro del cervello di un adulto è predominante nel riconoscimento del linguaggio. Tuttavia, non è chiaro se questa prevalenza è presente dalla nascita o se l’asimmetria è il risultato dell’esposizione al linguaggio durante l’infanzia.
Per verificare la prevalenza dell’emisfero sinistro nei neonati, Mehler e colleghi hanno usato la topografia ottica, un metodo silenzioso e non invasivo per stimare i cambiamenti nel flusso del sangue all’interno del cervello. Gli investigatori hanno registrato la voce di donne che leggevano storie ai loro bambini e hanno poi riprodotto le registrazioni a 12 neonati di 2-5 giorni mentre dormivano.
Il flusso del sangue nel cervello ha mostrato che l’emisfero sinistro dei neonati si attivava più del destro in risposta alle parole registrate. Durante il silenzio o quando le registrazioni venivano riprodotte alla rovescia, invece, il lato sinistro non era prevalente.
I risultati suggeriscono che i bambini umani nascano con aree del cervello già dedicate all’elaborazione del linguaggio.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
L’espressione dei geni è stata studiata con una tecnica di reazione a catena della polimerasi
Gli autori di uno studio pubblicato sulla rivista “The Lancet” (http://www.thelancet.com/) forniscono forti prove a sostegno della tesi secondo cui la schizofrenia e il disturbo bipolare avrebbero una causa genetica simile, provocata dall’espressione ridotta di alcuni geni responsabili per la produzione della mielina del sistema nervoso centrale.
Le due malattie psicotiche colpiscono circa il due per cento della popolazione. Ricerche precedenti sulla schizofrenia avevano mostrato anormalità nell’espressione di geni collegati ai lipidi e alla mielina. Gli oligodendrociti producono le guaine di mielina che isolano i neuroni. La mielina contiene all’80 per cento lipidi e al 20 per cento proteine, e consente una conduzione efficiente degli impulsi elettrici lungo l’assone.
Sabine Bahn e colleghi dell’Università di Cambridge, in Inghilterra (http://www.cam.ac.uk/), hanno studiato l’espressione dei geni specifici degli oligodendrociti e associati alla mielinizzazione nella schizofrenia e nel disturbo bipolare. I ricercatori hanno usato tecniche basate sull’mRNA (reazione a catena della polimerasi, o PCR, e analisi con i microarray) per confrontare l’espressione dei geni nei cervelli di alcuni pazienti deceduti: 15 soffrivano di schizofrenia, 15 di disturbo bipolare e 15 costituivano un gruppo di controllo.
Nei pazienti delle due malattie era presente una chiara riduzione dei geni collegati agli oligodendrociti e alla mielina. I cambiamenti nell’espressione dei geni per entrambe le malattie mostravano un alto grado di sovrapposizione. C’era un’alta correlazione fra i risultati ottenuti con l’analisi con i microarray e quelli ottenuti con la PCR quantitativa.
10.09.2003
Come il cervello dei neonati risponde al linguaggio
L’asimmetria fra i lati del cervello è presente fin dalla nascita
Il lato sinistro del cervello di un neonato risponde alle parole proprio come quello di un adulto. Lo afferma uno studio di un team di ricercatori guidato da Jacques Mehler della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA, www.sissa.it) di Trieste, pubblicato sulla versione online della rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” (http://www.pnas.org/).
Gli scienziati sanno da tempo che l’emisfero sinistro del cervello di un adulto è predominante nel riconoscimento del linguaggio. Tuttavia, non è chiaro se questa prevalenza è presente dalla nascita o se l’asimmetria è il risultato dell’esposizione al linguaggio durante l’infanzia.
Per verificare la prevalenza dell’emisfero sinistro nei neonati, Mehler e colleghi hanno usato la topografia ottica, un metodo silenzioso e non invasivo per stimare i cambiamenti nel flusso del sangue all’interno del cervello. Gli investigatori hanno registrato la voce di donne che leggevano storie ai loro bambini e hanno poi riprodotto le registrazioni a 12 neonati di 2-5 giorni mentre dormivano.
Il flusso del sangue nel cervello ha mostrato che l’emisfero sinistro dei neonati si attivava più del destro in risposta alle parole registrate. Durante il silenzio o quando le registrazioni venivano riprodotte alla rovescia, invece, il lato sinistro non era prevalente.
I risultati suggeriscono che i bambini umani nascano con aree del cervello già dedicate all’elaborazione del linguaggio.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
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