sabato 6 marzo 2004

Harold Kroto, un Nobel «ateo militante»

una segnalazione di Sergio Grom

IL CHIMICO E IL MECCANICO
intervista al premio Nobel Harold Kroto

"Internet è senza dubbio il più efficace dei media per divulgare la scienza"
"Una volta mi sono definito ateo. Oggi lo sono diventato in modo militante"
Ha scoperto "la molecola dell´anno". Ma l'inizio delle sue ricerche è legato al celebre giocattolo
di PIERGIORGIO ODIFREDDI


Torino. Nel 1985 Harold Kroto scoprí che una struttura da lui osservata in una nebulosa era costituita da sessanta atomi di carbonio disposti come sui vertici degli esagoni e dei pentagoni che costituiscono un pallone da calcio. Nel 1991 la struttura, chiamata C60, fu riprodotta in laboratorio: il mensile Science la elesse a "molecola dell´anno", ed essa fu ribattezzata buckminsterfullerene in onore dell´architetto Buckminster Fuller, che aveva usato strutture analoghe per la costruzione di cupole geodesiche.
Kroto, al quale la sua scoperta ha fruttato il premio Nobel per la chimica del 1996, si trova a Torino per la consegna del Premio Italgas 2004, e qui l´abbiamo intervistato.
Lei ha dichiarato una sorta di debito "intellettuale" verso il Meccano. Come mai?
«Da bambino mi divertivo semplicemente a giocarci, ma poi mi sono reso conto che col Meccano ho imparato a muovere con destrezza le dita: mi ha insegnato un´abilità quasi ingegneristica. Cosa che, ad esempio, non fa il Lego. Ho scritto un articolo per le pagine culturali del Times, un paio di Natali fa, suggerendo di regalare ai bambini il Meccano, invece che il Lego».
Che ruolo ha invece giocato la matematica, nel suo sviluppo?
«Mi piaceva abbastanza, benché la mia natura fosse manuale e pratica, e il mio principale interesse fosse la grafica. Ma mi divertiva risolvere problemi, geometrici e analitici. Fui molto colpito quando imparai le proprietà della funzione esponenziale: il fatto che non cambia derivandola, o la bellezza e l´eleganza del suo sviluppo in serie».
Il suo lavoro sul carbonio C60, però, fu più sperimentale che teorico.
«Be´, l´esperimento originario era di radioastronomia. All´epoca fu molto sorprendente trovare del carbonio nello spazio, e io congetturai che si originasse nelle parti più fredde delle stelle, dove i processi atomici possono lasciare il posto a quelli chimici di formazione delle molecole. Cercammo di riprodurre condizioni stellari analoghe a quelle che avevamo osservato, e scoprimmo che c´era qualcosa di speciale nel numero 60. Sulla base del fatto che le forme stabili del carbonio sono esagonali, trovammo una possibile soluzione geometrica introducendo dodici pentagoni. Quindi si trattò di una congettura in parte matematica, e in parte empirica.
Dal punto di vista geometrico, la struttura del carbonio C60 è un solido semiregolare. È possibile realizzarne chimicamente anche altri?
«Non saprei. Certamente ci sono strutture cubiche e prismatiche, e vari tipi di fullerene. Si può congetturare che la maggior parte dei solidi regolari si possano formare col carbonio, almeno in maniera approssimativa. Il dodecaedro è certamente possibile, ma non so se qualcuno ha provato a farne altri: sono difficili da realizzare, e probabilmente non sarebbero utili».
E non si presentano in natura?
«Non credo. Ma ci sono altre strutture reticolari: in fondo, i solidi regolari o semiregolari sono molto particolari».
Lei si è molto impegnato sul fronte della divulgazione scientifica, dai giornali e la televisione al suo sito (www.vega.org.uk). Quale medium considera più efficace per questo scopo?
«Internet è senza dubbio il migliore. Supera di molti ordini di grandezza qualunque sistema di comunicazione che sia mai esistito. Si trovano testi, immagini, filmati nel giro di qualche secondo, su qualunque argomento. Cosa può esserci di paragonabile?»
È dunque finita l´era del libro?
«No, ma è rafforzata dai nuovi media. Qualcuno preferisce i libri, qualcun altro i film: gli uni non rimpiazzano gli altri. E poi ci sono le lezioni, che oggi possiamo vedere registrate in rete anche dopo la morte di chi le ha tenute, come nel caso di Feynman».
Qualche tempo fa ha scritto un articolo per il Sunday Times intitolato: «Gli scienziati non meritano critiche». La scienza non solleva problemi etici?
«Il titolo era editoriale, ma il problema è sottile. Naturalmente io credo che gli scienziati abbiano la responsabilità di far sì che il progresso tecnologico venga usato per il benessere dell´umanità. D´altra parte, qualunque tecnologia può essere usata o abusata, per fare del bene o del male: col coltello si può tagliare il cibo a tavola, o la gola del vicino».
E per rimanere, più specificamente, nella chimica?
«L´esempio più tipico è la dinamite, che può essere usata per scavare un canale o per fare una mina. La scienza è conoscenza, e il problema è come la società debba usare questa conoscenza. In realtà, però, io sono ateo: per me l´etica si riduce al fare il minor male possibile al prossimo, e a volte bisogna prendere delle decisioni al riguardo».
Una volta lei ha detto di essere un ateo "devoto".
«Appunto, una volta. Oggi sono un ateo militante. E se le cose peggiorano, diventerò un ateo fondamentalista».
Perché?
«Perché credo che ci siano due tipi di persone al mondo: quelli che hanno credenze mistiche, e quelli che non ce l'hanno. Questi ultimi credono che la vita sia tutto ciò che abbiamo, che dobbiamo godercela e aiutare gli altri a godersela. Gli altri pensano che la vita futura sia più importante di quella presente, e temo che faranno saltare in aria il mondo. Non ho dubbi sul fatto che il maggior pericolo per l´umanità oggi sia ...»
il fondamentalismo religioso.
«No, peggio. È che l'uno per cento dell'umanità ha seri problemi mentali, e una buona parte di questi matti trova giustificazioni religiose per la propria pazzia. Altri la trovano nel nazionalismo e nel patriottismo, il che è altrettanto pericoloso».

È per questo che lei lavora per Amnesty International?
«Non ho tempo di lavorarci veramente, e vorrei fare di più per loro. Ma sono iscritto all´associazione e ne condivido gli obiettivi. Credo che dobbiamo cercare di sradicare la disumanità dell´uomo verso l´uomo, e il caso peggiore è quando lo stato prende il sopravvento e cerca di giustificare le sue azioni sulla base di motivazioni religiose, nazionaliste o patriottiche. È estremamente pericoloso, soprattutto ora che è facile procurarsi tecnologia avanzata: c´è il rischio di una fine dell´umanità».
Lei non crede che si possa essere religiosi in un senso più alto, vedendo Dio nelle leggi della natura?
«Einstein credeva nel Dio di Spinoza, che si rivela nell´armonia del creato, ma non in un Dio che si interessa delle fedi e delle azioni dell´uomo: per me questo è ateismo. Il vero problema è che la maggioranza della gente vive una vita miserabile, e ha un bisogno disperato di aggrapparsi a qualcosa: io credo che questo sia un meccanismo biologico di difesa, senza il quale l´umanità forse non sarebbe sopravvissuta. Solo una minoranza riesce a uscirne e accettare che questa vita è tutto ciò che c´è, e che quando è finita, è finita. Ma questo, più che una risposta, è soltanto un tentativo di dirle cosa penso: a certe domande, in realtà, non si può rispondere».

il prof. Ernesto Longobardi a proposito del concordato fiscale:
una lettera al Sole 24 Ore

ricevuta da Tonino Scrimenti

Lettera di Ernesto Longobardi al Sole 24 ore di giovedi 4 marzo 2004

Fine di un istituto mai nato. E’ la politica dei dispetti, un titolo per l’ultima puntata della storia infinita del concordato preventivo, vero e proprio fisco-tormentone nostrano. Un istituto nuovo che fin dalla prima fase di elaborazione «è stato sottoposto a scossoni a seconda della “linea” che è risultata di volta in volta prevalente». Così scriveva questo giornale il 26 febbraio  scorso. La linea che sembra vincere ora è, appunto, quella dell’azzeramento del nuovo istituto prima ancora che veda la luce. Non c’è dubbio, infatti, e credo che tutti ne siano consapevoli, che questa sarebbe la conseguenza di una mancata proroga dei termini. Le adesioni al concordato rimarrebbero con ogni probabilità ferme alle poche migliaia che sono state finora presentate. Con buona pace per le prospettive di un istituto che se pure nella versione attuale - evidentemente frutto di un compromesso tra le diverse linee di cui si diceva - lascia molti scontenti, è in grado di viaggiare in direzioni ben più elevate, che ne potrebbero fare la più importante innovazione nelle relazioni fiscali dall’entrata in vigore della riforma tributaria dei primi anni ’70. 

E’ evidente che a regime, dovesse il concordato sopravvivere ed evolversi nella sua versione “alta”, che è quella individuale, il patto tra il fisco e i contribuenti dovrà essere siglato a priori: non potrà essere consentito, secondo un’espressione attribuita al Ministro, “giocare la schedina la domenica sera”. Ed è proprio nel suo carattere “preventivo” che stanno tutte le potenzialità dello strumento, prima fra tutte quella di incentivo alla produzione di nuova ricchezza o, almeno, all’emersione di ricchezza non nuova ma occulta. Una prospettiva nella quale diventerebbe un non senso bollare come sconfitta per il fisco, e qualificare come perdita di gettito, l’eventuale constatazione, a posteriori, di fatturati e imponibili superiori a quelli concordati: un non senso perché sarebbe uno degli obiettivi primi del patto proprio quello di spingere alla produzione e favorire l’emersione.

Nell’attuale contingenza, tuttavia, il discorso è un altro. Si è partiti, in via sperimentale, con un concordato “di massa” e non individuale; ci si è attestati su un periodo corto, un biennio; si sapeva fin dall’inizio che il provvedimento sarebbe entrato in vigore con il primo anno già chiuso e il secondo inoltrato. Si tratta di uno strumento nuovo, non solo nel panorama italiano. E’ evidente che l’informazione, l’acquisizione di una adeguata conoscenza dei meccanismi e della logica del nuovo istituto, di un’abitudine mentale alla nuova prospettiva, richiedono tempo e pazienza. Circolare ministeriale e modulistica sono stati diramati a poco più di un mese dalla scadenza del 16 marzo (i modelli sono usciti il 4  e la circolare il 13 febbraio).  I software per il calcolo delle singole posizioni non sono ancora disponibili. E’ stato detto che uno studio professionale di medie dimensioni abbisogna di un periodo tra i 30 e i 45 giorni per lo screening delle posizioni individuali.

Questi sono i  tempi e le necessità di uno strumento che si è voluto “di massa”. Ma la politica ad un certo punto scarta, rifugge dalle esigenze di massa. I quindici giorni devono rimanere tali. Quindici giorni che non servono a nessuno, che terranno la massa lontana dal concordato, che trasformeranno l’istituto di massa in un istituto per pochi: i pochi che non hanno avuto difficoltà a verificare immediatamente la propria convenienza ad aderire, i pochi quindi che di sicuro non portano gettito. Gli altri, i molti, gli incerti, coloro che avrebbero avuto bisogno del giusto tempo per pesare i costi e i benefici, coloro che, a fronte della tranquillità e della certezza, sarebbero stati forse disposti a pagare anche qualcosa di più, e che quindi avrebbero alimentato il gettito,  saranno tenuti  lontani. Alle categorie del lavoro autonomo, si è fatto vedere il giocattolo, se ne è mostrato il funzionamento, ma poi il giocattolo è stato fatto improvvisamente sparire. La politica dei dispetti.

donne in Iran

Liberazione 6.3.04
«L'Iran cambia nonostante i conservatori
E le donne non torneranno più indietro»
L'emancipazione a Teheran. Parla la sociologa iraniana Azadeh Kian Thiebaut
di Lucia Manassi


La società iraniana attende i primi segnali della nuova rotta che i conservatori vorranno imprimere al paese dopo la vittoria truccata alle elezioni parlamentari. Una società complessa, articolata e profondamente cambiata negli ultimi quindici anni. Come cambierà la condizione della donna in Iran, è già possibile prevederlo? Ne abbiamo parlato con Azadeh Kian Thiebaut, sociologa e ricercatrice del Monde Iranien, al Cnrs di Parigi. Di origine iraniana, Azadeh Kian Thiebaut conosce bene il paese e ha pubblicato in Francia un libro (Les femmes iraniennes entre Islam, Etat et famille) frutto di una sua lunga e profonda ricerca sul campo. Le donne sono estremamente attive e presenti nella società iraniana, ma il loro statuto legale è rimasto quasi invariato rispetto al 1979, quando si applicò la legge islamica che sancisce l'inferiorità assoluta della donna. Quindi accanto alla presenza femminile massiccia nelle università e nel mondo del lavoro resta l'obbligo del velo così come la poligamia e la limitazione per le donne nella richiesta del divorzio. In Iran la donna vale metà di un uomo: nel diritto ereditario, nel valore della sua testimonianza in tribunale, nel prezzo di sangue stabilito nel codice penale.

Quali sono stati i cambiamenti più eclatanti per le donne nei 7 anni di presidenza Khatami?

Il cambiamento più importante ha coinvolto le loro attività sociali, culturali, politiche ed economiche. E' stato anche grazie alla mobilitazione delle donne che Khatami è stato eletto nel 1997 e poi nel 2000, dunque sotto la presidenza si è attuata una politica di incoraggiamento delle Organizzazioni non governative (Ong) e delle associazioni, che sono attive in molte città, tentano di mobilitare e organizzare le donne, facendo pressione dal basso. Tuttavia se si fa un bilancio della presidenza Khatami si constata che ci sono stati pochi cambiamenti legislativi introdotti nello statuto delle donne. I conservatori hanno fatto resistenza. Il sesto parlamento, a maggioranza riformista, ha promulgato diverse leggi che puntavano al miglioramento dello statuto legale, ma il Consiglio dei Guardiani le ha bloccate. Per questo le donne iraniane, entusiaste nel 1997, ora sono disilluse e si organizzano sempre più nell'associazionismo per fare pressione ai vertici dello stato.

Quali sono le leggi che sono state votate dai riformisti?

Un esempio è l'innalzamento a 15 dell'età minima delle ragazze per il matrimonio e per la responsabilità penale, che prima erano a 9 anni. Il Consiglio dei Guardiani ha bocciato la legge come contraria all'Islam, infine il Consiglio delle Scelte ha deciso per l'età di 13 anni. Un'altra legge importante riguarda l'affidamento dei bambini dopo il divorzio. I tribunali infatti nella maggior parte dei casi affidavano i figli al padre, ora il diritto è ugualmente accordato alla madre o comunque l'affidamento all'uomo non è più automatico. L'opinione comune tra le donne iraniane è che, anche se è responsabilità del Consiglio dei Guardiani, non ci sono stati grandi cambiamenti per loro. Bisogna anche dire che durante la presidenza Khatami il numero delle studentesse ha superato quello degli studenti nelle università, in tutte le facoltà. E man mano che finiscono gli studi le ragazze entrano nel mondo del lavoro, acquistando indipendenza economica, fondamentale nel percorso di autonomia dal padre o dal marito. Il tasso di occupazione ufficiale delle donne è del 10%, ma ho fatto ricerche sul terreno che dimostrano che è molto più alto.

Quali saranno le conseguenze della vittoria dei conservatori per le donne?

Nessuna deputata riformatrice è stata eletta. Loro avevano presentato i progetti di legge sulle donne. Non bisogna attendersi cambiamenti importanti nello statuto della donna. Occorre aspettare comunque il secondo turno delle elezioni questo mese. Nella circoscrizione di Teheran sono state elette cinque donne, ma nelle liste dei conservatori. Le donne iraniane continueranno comunque la loro attività, le loro rivendicazioni e ci sono degli imam che dagli anni Novanta lavorano con loro, pensano che l'islam non è contro l'eguaglianza dei diritti. Penso che questi sforzi intellettuali e sociali continueranno.

Le donne non torneranno nelle case?

Non è immaginabile. Le donne che sono attive nella sfera pubblica da molti anni e contano di restarci. D'altra parte una gran parte dei conservatori eletti non avevano nel programma di far rientrare le donne nella sfera domestica. Tutti ora sono d'accordo nel dire che il lavoro delle donne e le loro attività nella sfera pubblica sono importanti. Venticinque anni fa certi ayatollah erano contrari, ma oggi sono tutti concordi e nella sfera pubblica ci sono in gran parte donne musulmane, anche le figlie degli ayatollah. No, non c'è alcun modo di far rientrare le donne iraniane nella sfera domestica.

Perché le donne hanno sostenuto la rivoluzione del 1979?

Ci sono diverse categorie sociali e culturali di donne che hanno partecipato alla rivoluzione. C'erano donne che a quel tempo venivano definite islamiste che rivendicavano l'applicazione della sharia, altre invece laiche contrarie alla legge islamica e al governo religioso. Ma era una società allora prettamente rurale e solo una piccola minoranza di donne aveva beneficiato, per esempio, della legge per la protezione della famiglia o del diritto di voto concesso dallo Scià nel '63. Lo Scià aveva imposto una sorta di femminismo di stato, aveva proibito tutte le organizzazioni indipendenti delle donne, lasciandone solo una presieduta da sua sorella. Le donne non avevano così ottenuto l'eguaglianza e neppure sviluppato un'identità sociale femminile. Per cui, al momento della rivoluzione, il malcontento generale della popolazione ha coinvolto anche le donne. Nell'Iran post rivoluzionario, con l'applicazione della legge islamica, le donne hanno capito di cosa si trattava, hanno capito che stavano perdendo i loro diritti. Dopo la rivoluzione la società iraniana nel suo insieme è molto evoluta, è paradossale, ma è così e le rivendicazioni ora sono generalizzate tra la popolazione femminile anche dei villaggi. Il tasso di scolarizzazione è aumentato considerevolmente dai tempi dello Scià e ora l'80% delle donne iraniane è alfabetizzato e quasi il 100% tra le giovani tra i 16 e i 25 anni.

Ci sono donne nel movimento studentesco?

Certamente. Sono meno rispetto agli uomini. ma quando alle manifestazioni aderiscono molte giovani studentesse. E' vero, l'associazionismo studentesco resta ancora molto maschile, ma le ragazze ci sono, manifestano, hanno delle rivendicazioni.

Si possono prevedere manifestazioni nei prossimi mesi contro il nuovo parlamento conservatore?

Dipenderà da come agiranno i conservatori. Se reprimeranno, se continueranno a chiudere giornali, ad arrestare intellettuali o studenti, allora ci si possono effettivamente aspettare delle mobilitazioni. Ma i conservatori non sono omogenei. Alcuni sono moderati e vogliono continuare il programma di riforme di Khatami perché sanno che sono inevitabil. Ci sono invece dei conservatori radicali che sono per la repressione politica e sociale. Dunque dipenderà dal rapporto di forze che si svilupperà tra conservatori moderati e radicali.

violenza contro le donne

il manifesto 6.3.04
Una su tre subisce violenza
Amnesty presenta a Roma il rapporto sugli abusi contro le donne nel mondo
di TIZIANA BARRUCCI


ROMA. Madina è stata condannata alla lapidazione dalla Corte penale di Nahud, in Sudan, per aver avuto un rapporto sessuale con un uomo che non è suo marito e dal quale ha ora un bambino. Aveva già quattro figli quando, nel 2003, è stata denunciata per adulterio ed è finita nella prigione di El Obeid. E' trascorso un anno e Madina ancora attende, assieme al suo figlioletto di dieci mesi, la decisione della Corte suprema a cui è stato inviato un appello contro la condanna a morte. La storia di Madina è un po' il simbolo di tutte le donne - siano africane, asiatiche, statunitensi o europee - che ogni giorno subiscono violenza. La sua vita è uno dei pezzi di verità raccontati ieri in occasione del lancio della nuova campagna biennale di Amnesty international «Mai più violenza sulle donne» presentata in contemporanea in oltre 150 paesi del mondo, alla vigilia dell'8 marzo. In Italia a dar voce a una realtà così drammatica e sconosciuta sono stati, in Campidoglio, il sindaco di Roma Walter Veltroni, l'assessore alle pari opportunità Mariella Gramaglia, il vice presidente di Amnesty Italia Cecilia Nava e l' avvocata di Amina Lawal e Safiya Husseini (le due donne salvate dalla lapidazione in Nigeria), Hauwa Ibrahim.

Del comune è l'idea dell'iniziativa «Rome for Women» una tre giorni - da oggi alle 17 fino a lunedì, - di sensibilizzazione dei diritti delle donne, mentre Amnesty ha presentato il suo rapporto «Mai più! Fermiamo la violenza sulle donne» (edizioni Ega) con una prefazione di Rita Levi Montalcini.

Diverse ricerche denunciano che nel mondo oggi almeno una donna su tre è stata picchiata, costretta a rapporti sessuali o ha subito altri tipi di abusi, solitamente perpetrati da familiari. Secondo l'Oms almeno il 70 per cento delle donne vittime di omicidio sono state uccise dai propri partner, mentre l'Onu calcola in 120 milioni il numero delle donne che hanno subito mutilazioni genitali. Il rapporto di Amnesty raccoglie queste molteplici forme di violenza - di stato o private - passando dagli abusi avvenuti nei conflitti armati a quelli legati alle tradizioni che vogliono controllare la sessualità femminile (alcuni dati li riportiamo nella scheda a destra).

«La violenza - scrive l'associazione internazionale - colpisce in più modi. Nelle guerre le bambine soldato vengono regolarmente stuprate dai propri commilitoni, le donne e le bambine estranee ai combattimenti vengono mutilate, stuprate e uccise come se si trattasse di un'arma di guerra, mentre il rientro dei soldati a casa dopo una guerra spesso produce un aumento delle violenze domestiche». E la situazione non migliora in condizioni di pace, quando «proprio tra le mura di casa si consumano stupri e violenze di ogni genere perpetrate da compagni e mariti». Spesso le donne hanno paura o si vergognano di denunciare e se trovano la forza di farlo, raramente vengono prese sul serio. «Anche nei paesi in cui esistono leggi per prevenire e punire la violenza domestica le autorità evitano di applicarle e in alcune zone sistemi paralleli di giustizia religiosa o comunitaria permettono che la violenza prosegua senza ostacoli». Come è accaduto a Juliette che per paura - spiega sempre il dossier Amnesty - è stata anni senza raccontare ai suoi amici e alla famiglia che il suo compagno la picchiava. Ospitata in una casa d'accoglienza a Bruxelles, Juliette però decide di presentare denuncia: ma fino ad oggi non ha saputo di nessun procedimento aperto dalle autorità.

Insomma, la situazione è pessima: sui campi di battaglia come nelle camere da letto ogni donna rischia di subire violenza. E nessun paese si salva: se in Africa ogni 23 secondi una donna è oggetto di violenza sessuale, negli Stati uniti una signora viene picchiata ogni quarto di minuto mentre in Europa 500.000 donne sono vittime di tratta per essere destinate al mercato della prostituzione. A dimostrazione però che qualcosa si può fare contro tutti questi abusi, gli operatori di Amnesty raccontano l'esito positivo dell'ultima loro campagna: la scarcerazione avvenuta ieri di Mu'eyna Muhammad Yusef Sa'adu, condannata in Siria per l'attività politica del marito, militante dei Fratelli musulmani.

i "giovani-adulti"

una segnalazione di Daniele Balduzzi

Repubbica, edizione di Roma 6.3.04
L'INDAGINE
Gli operatori di Salute mentale
Post-adolescenti sono in crisi i giovani-adulti
Colpiti 16 ragazzi su mille, ma il dato non tiene conto del sommerso
di CECILIA GENTILE


Li chiamano "giovani-adulti". Sono i post adolescenti dai 18 ai 26 anni, categoria ad alto rischio psicologico, spesso inconsapevole dei propri disturbi. «Ne soffrono 16 ragazzi su 1000 - racconta Andrea Gaddini, responsabile del dipartimento di Salute mentale dell'Agenzia di Sanità pubblica del Lazio - ma il dato non tiene conto del sommerso, fotografa solo i pazienti passati per i centri di salute mentale delle Asl». Nel 2002, per esempio, gli utenti sono stati 4082, 1945 uomini e 2137 donne.
«Invece - continua Gaddini - proprio in questa fascia d'età è importante intervenire, per prevenire tempestivamente il manifestarsi di disturbi più gravi». Per favorire l'accesso ai servizi pubblici, il Coordinamento degli operatori delle Asl impegnato in questo settore ha prodotto la prima "Guida ai servizi per giovani adulti". L'assessorato alle Politiche sociali ne ha stampate 10.000 copie che verranno distribuite a tutti i medici di base perché sappiano indirizzare i giovani pazienti.
I giovani tra i 18 e i 26 anni sono il 12% dell'utenza complessiva dei centri di salute mentale. Le diagnosi vanno dalla lieve depressione alla schizofrenia e ai disturbi della personalità, che rappresentano il 12% delle patologie. «Il 75% dei disturbi psichici si manifesta prima dei 24 anni - spiega Paolo Paolozza, della Asl RmE - Percentuale che conferma l'importanza del lavoro preventivo».
Nei servizi per giovani adulti delle Asl, cinque in tutta Roma, gli approcci sono diversificati: si va dalla consultazione con quattro-cinque incontri, alla psicoterapia breve che dura da sei mesi ad un anno, alle terapie di gruppo, al sostegno farmacologico. I sintomi del disagio: isolamento, incidenti ripetuti, comportamenti trasgressivi, guida in stato d'ebbrezza o abuso di sostanze stupefacenti, atteggiamenti antisociali.

la storia della sinistra secondo Salvadori
rivoluzione o riforme?

Repubblica 6.3.04
Storia di un concetto e delle sue divisioni interne
QUELLA SINISTRA ITALIANA PRIMA E DOPO IL CROLLO

Per circa due secoli, socialisti, anarchici e comunisti, si sono identificati con il movimento operaio e i relativi partiti
Le lotte, le scissioni, gli anatemi e poi la grande disillusione per un capitalismo che non crollava Oggi tutto questo sembra preistoria
di MASSIMO L. SALVADORI


Il destino della "sinistra" - il cui nome deriva dalla disposizione topografica assunta nel 1790 dai rivoluzionari rispetto ai difensori della monarchia collocatisi a destra nell´Assemblea nazionale francese - è stato da un lato di aver costituito una delle forze che hanno dominato la storia contemporanea, dall´altro di avere cambiato i propri connotati in relazione sia ai propri scopi sia ai mezzi per raggiungerli e di essersi divisa in diverse componenti giunte all´estremo a combattersi in maniera anche distruttiva. In vero, ogni formazione politica ha avuto la sua "sinistra"; ma a caratterizzare quest´ultima, dopo l´emergere in tutta la sua portata della "questione sociale", sono state in primo luogo le strategie di lotta nei confronti del capitalismo e della proprietà privata e la progettazione di una nuova società, con il seguito di divisioni tra i rivoluzionari di diversa corrente, uniti contro il capitalismo di cui si aspettava il crollo, e i riformisti fautori di una trasformazione graduale. Per circa due secoli la sinistra - socialisti, anarchici, comunisti - ha avuto la sua più forte identificazione con il movimento operaio e le sue organizzazioni e i suoi partiti.
Ma una cosa era la volontà di combattere il capitalismo e le sue istituzioni; un´altra trovare i mezzi appropriati; e un´altra ancora individuare il modello della società post-capitalistica. La sinistra era mossa nel suo insieme dall´ideale di una società egualitaria; sennonché anche i modi di intendere l´uguaglianza erano tutt´altro che scontati. Questi i grandi nodi da sciogliere: bisognava attendere il crollo del capitalismo oppure cercare di trasformarlo? Seguire la via della rivoluzione o quella delle riforme? Passare attraverso la dittatura dei rivoluzionari e abbattere le istituzioni parlamentari oppure mantenere l´eredità del liberalismo? Dare all´economia pianificata strutture centralizzate dominate dallo Stato oppure puntare su un sistema decentrato, cooperativistico, autogestito?
Il progetto pianificatore, centralistico, statalistico, elaborato da Marx ed Engels (che rinviarono alla realizzazione del comunismo la fine di ogni forma di costrizione politica e sociale) prevalse nella seconda metà dell´Ottocento. Ma, verso la fine del secolo, l´atteso crollo del capitalismo non arrivava; e Bernstein, il padre di tutti i riformisti socialisti, lanciò la sua sfida. Attaccato dai marxisti come un revisionista che svendeva il patrimonio di Marx, egli teorizzò che occorreva unire le forze dei socialisti e dei liberali progressisti per strappare i miglioramenti possibili, che la democrazia liberale andava preservata, che il Parlamento era la palestra positiva della lotta politica e sociale. Il confronto tra rivoluzionari e riformisti dominò la scena per un ventennio prima del 1914. Ma lo spirito rivoluzionario aveva ad Oriente una grande riserva vergine. Bernstein esortava al riformismo nei paesi economicamente sviluppati dove esistevano le libertà politiche e civili. In Russia non vi erano né un capitalismo moderno né libertà né parlamentarismo. E da quel paese il bolscevico Lenin, preso il potere nel 1917 con la rivoluzione di Ottobre, diresse il suo attacco al riformismo.
La prima guerra mondiale, la rivoluzione russa, la devastante crisi sociale ed economica in Europa, il consolidamento del potere sovietico fecero dilagare da Mosca un duplice messaggio: che la guerra imperialistica aveva dato inizio all´era del crollo del capitalismo e che la via del riformismo era fallimentare, mentre la via rivoluzionaria aveva portato al sorgere del primo Stato socialista. Il leninismo dilaniò come mai prima il movimento operaio internazionale. I socialdemocratici guardarono con avversione alla dittatura sovietica considerata una forma di dispotismo intollerabile; i comunisti e i loro sostenitori considerarono i socialdemocratici alla stregua dei più pericolosi nemici. La contrapposizione tra comunisti e socialdemocratici - con vicende che videro momenti di relativa intesa alternarsi al riaccendersi dei contrasti - è continuata per un´intera epoca storica: gli uni aventi come obiettivo principale l´espansione del "campo socialista", gli altri essendo impegnati nelle riforme e nello sviluppo della loro principale creatura: lo "Stato del benessere" (nato dalla convergenza con la sinistra liberale e cristiano-sociale e appoggiato "in via provvisoria" dai comunisti occidentali).
In questo generale contesto si è collocata la vicenda della sinistra italiana, segnata nel Novecento: prima del 1915 dal fallito tentativo della corrente riformista di assumerne la guida; tra il 1919 e il 1925 dal gonfiarsi e sgonfiarsi del massimalismo, dalle lotte intestine tra socialisti e comunisti, dalla comune sconfitta ad opera della fascismo; dopo il 1945, trascorsa la fase dell´unità "socialcomunista" conclusasi nel 1956, da un socialismo minoritario divenuto "governativo" ma incapace di elaborare una coerente e adeguata cultura riformistica di governo e da un comunismo rimasto sino al 1989 ad oscillare tra "riformismo pratico" e una tradizione rivoluzionaria sempre più stanca e inconcludente.
Ora la sinistra europea, crollato il sistema sovietico ed entrato in una crisi via via più profonda il Welfare, deve trovare le sue risposte di fronte a un´economia qualitativamente diversa da quella fondata sul capitalismo delle grandi fabbriche e sugli eserciti operai, che avevano costituito il fondamento della sua azione per due secoli; deve misurarsi con l´emergere di nuovi strati sociali, di nuove forme di produzione e di scambio e di una "questione sociale" dal volto non assimilabile a quello di un tempo. E dunque: quale sinistra? Quali i suoi compiti? Quali i suoi scopi? Quali le sue forme organizzative? Il riformismo ha vinto infine la sua battaglia. Ma anche qui: che cosa distingue il riformismo degli uni da quello degli altri?

Cina

Repubblica 6.3.04
Cina, la "rivoluzione economica"
Stop alla crescita selvaggia, spazio a chi è rimasto indietro
Il premier Wen Jiabao annuncia aiuti per i contadini e investimenti in scuole e sanità
È un cambiamento radicale in una ricetta di sviluppo finora centrata solo su bassi costi e alti profitti
di RENATA PISU


Abbandonare la cieca adorazione del Dio Prodotto Nazionale Lordo, raffreddare la crescita economica, preoccuparsi delle condizioni di vita nelle campagne, ridurre il fardello delle tasse che gravano sulle spalle dei contadini. E poi riconoscere la proprietà privata, i diritti umani. Questo ed altro ha proposto ieri a Pechino, all´apertura dei lavori dell´Assemblea Nazionale del Popolo, il premier Wen Jiabao. Un discorso lungo due ore che ha tenuta viva l´attenzione dei tremila deputati di quello che sarebbe il Parlamento della Cina, dove le sessioni si svolgono sempre senza imprevisti, in un´atmosfera sonnacchiosa e compunta, da grande messa cantata.
Ma ieri le franche parole di Wen Jiabao hanno dato la scossa, mutando l´annosa coreografia rimasta invariata dall´epoca di Mao nonostante in Cina tutto sia ormai cambiato. Sono cambiati anche i leader del partito unico che ha guidato il paese nel processo di crescita più dinamico della storia recente e Wen Jiabao, al cui fianco si trovava il presidente Hu Jintao, rappresenta la nuovissima leva, in carica da poco più di un anno, una generazione che si è fatta le ossa alla scuola dell´economia ma che si è resa conto della necessità che in Cina si tornasse a parlare concretamente anche di politica.
Riconoscere, come ha fatto Wen Jiabao, che la rapida crescita industriale ha peggiorato le condizioni di milioni e milioni di contadini nelle campagne, è, infatti, fare un discorso politico; promettere di investire nella scuola e nella sanità per anni trascurate è, ancora, parlare da politico, come lo è impegnarsi a garantire una gestione sempre più democratica, a tutti i livelli della pubblica amministrazione.
Ma come raffreddare l´economia? Come riuscire ad abbassare il tasso di sviluppo dal 9,1 per cento dell´anno scorso al 7 per cento nel 2004? La prima misura, indicata da Wen, è restringere il credito, controllare il sistema bancario assai debole, molte altre misure sono allo studio: saranno aumentati nella misura del 20 per cento gli investimenti nell´agricoltura e che la pressione fiscale sui contadini, oggi estremamente pesante e spesso aggravata dall´imposizione di stravaganti imposte da parte dei dirigenti delle zone rurali, verrà gradualmente ridotta fino a sparire nel 2009. Così i nuovi leader cinesi si aspettano di ridurre il divario sempre più oltraggioso tra città e campagne che minaccia la stabilità sociale, con settecento milioni di persone della Cina interna che arrancano dietro ai più fortunati abitanti delle fasce costiere.
Wen Jiabao non ha fatto un discorso politico diretto, non ha parlato di giustizia sociale: vi ha però alluso. I suoi consiglieri sono più espliciti. Il Quotidiano del Popolo ieri riferiva il parere di un funzionario della provincia dello Henan. «Dobbiamo pensare alla crescita economica da un altro punto di vista, dobbiamo essere fieri se il governo investe sugli anelli più deboli della società». Una volta si chiamavano "proletari", comunque sono gli stessi. E´ tuttavia significativo che Wen Jiabao nel suo discorso che per molti versi suona "rivoluzionario", abbia insistito sulla necessità di adottare il "concetto scientifico dello sviluppo" senza ricorrere a retoriche vetero o neo proletarie.
Ora non si sa se "l´economia al primo posto", modifica di un vetero-slogan maoista che suonava "la politica al primo posto", abbia fatto male o bene alla Cina. Ad ogni modo l´ha fatta crescere e maturare fino al punto in cui si può di nuovo affrontare questi temi sui quali per almeno due decenni è stata messa ufficialmente la sordina. C´è un´altra opinione che vale la pena di citare, riportata ieri dal Quotidiano del Popolo. Un funzionario del Guandong, provincia costiera dove il tasso di crescita è stato l´anno scorso del 17 per cento - e come si farà mai a ridurlo? Come si può far calare questa febbre? - ha detto: «Certo, il tasso di crescita è importante, ma mi sembra più importante cosa la gente ci guadagna, quale è la ricaduta sociale. Io direi che una crescita del 7 per cento, combinata con misure appropriate a risolvere certi problemi, sia sufficiente». Bravo. E´ stata orchestrata una campagna a favore della filosofia dello sviluppo dal volto umano che Wen Jiabao ha ieri proposto? Probabile. Ad ogni modo Wen il politico, non il burocrate, ieri ha detto quello che la maggioranza dei cinesi speravano che fosse finalmente detto.

una segnalazione di Sergio Grom:

Repubblica 6.3.04
Shangai da Mao al lusso

La città dove il Pcc tenne il primo congresso è diventata un esperimento post-industriale
Shanghai, l´Asia di domani da Mao al trionfo del lusso
Una generazione di figli unici che spesso decide di non creare una famiglia propria
Una metropoli di venti milioni di abitanti: si prepara a essere la New York del XXI secolo
Niente più biciclette, ora le vie sono intasate da automobili costose E il solo "diritto alla targa" può costare 5000 dollari al mese
DAL NOSTRO INVIATO
FEDERICO RAMPINI


SHANGAI. «HO vissuto a Los Angeles e a Parigi, oggi non ho dubbi: il centro del mondo si è spostato qui a Shanghai» dice Liu Tao, che per gli occidentali si americanizza il nome in Teddy Liu. 28 anni, giornalista del Jiefang Daily, Liu ha tutti i tratti della nuova middle class urbana che sta cambiando la storia della Cina. La moglie che lavora per una investment bank. La Chevrolet spider. La spesa all´ipermercato francese Carrefour. E l´orgoglio tipico dello "shanghainese", cittadino di una metropoli di 20 milioni di abitanti che secondo Time avrà nel XXI il ruolo che fu di New York nel secolo scorso
Dal bar panoramico all´87° piano del Grand Hyatt Hotel dove incontro Liu, non è difficile credere a quella profezia. Attorno a noi la New York dell´Asia ha già superato in audacia il modello originale. Il quartiere direzionale di Pudong con i suoi quattro milioni di metri quadri di spettacolari grattacieli elevati in soli dieci anni, fa sembrare gli Stati Uniti un continente antico. Gli stessi americani appaiono soggiogati dal fascino di questa sfida: il magazine di moda del New York Times fa indossare le nuove collezioni alla top model Qi Qi, la Linda Evangelista cinese, sullo sfondo dei paesaggi futuristici di Pudong. Il Wall Street Journal intitola il suo supplemento turistico "Shanghai Chic" ed elenca gli ultimi hotel a cinque stelle inaugurati di recente: Marriott, Four Seasons, Ritz-Carlton, St.Regis.
Armani, Bulgari, Louis Vuitton o Rolls Royce, nessuna firma del lusso può permettersi di non avere negozi a Shanghai, e gli Universal Studios per sfruttare l´afflusso turistico dal mondo intero costruiscono qui la replica del loro parco attrazioni di Hollywood. Alle ore di punta le Audi hanno sostituito le biciclette nel creare ingorghi asfissianti sulle grandi arterie metropolitane, e a pochi mesi dal suo primo Gran Premio di Formula Uno questa città deve contingentare il traffico con soluzioni audaci: le nuove immatricolazioni vengono messe all´asta, un massimo di seimila al mese. Per poter comprare una macchina nuova il solo «diritto alla targa» può salire fino a 5.000 dollari al mese. Quasi in un lampo Shanghai ha cancellato decenni di austerità comunista e si è riconquistata il posto che aveva negli anni Venti. La Parigi dell´Asia, si diceva allora (alcune tracce di quel lusso non sono mai scomparse dal quartiere coloniale francese, nel centro storico sull´altra riva del fiume Huangpu), quando la ballerina Margot Fonteyn decantava la raffinatezza dell´Astor House Hotel. Cosmopolita, raffinata, e spietata. La città delle diseguaglianze sociali più stridenti, dove il partito comunista di Mao tenne il suo primo congresso. Come ottant´anni fa, oggi Shanghai non rappresenta tutta la Cina però le indica un futuro possibile. A Pudong hanno costruito l´hotel più alto del pianeta, il grande magazzino più immenso, la torre della tv più elevata, il treno più veloce. L´obiettivo è superare il mondo, cioè l´America.
La vita privata di Teddy Liu rivela una società che si è trasformata bruciando le tappe. Un secolo di evoluzione sociale europea o americana sembra compresso nella storia di una generazione cinese, balzata in pochi anni dai problemi di un paese emergente a quelli di una società post-industriale. A cominciare dal nucleo fondamentale della vita sociale, la famiglia. Sia Liu che sua moglie sono figli unici, come molti loro coetanei. Uno sconfinato esercito di giovani cinesi non ha fratelli né sorelle. Sono il risultato di una severa politica di controllo delle nascite, quando il partito comunista dichiarò guerra all´esplosione demografica e impose sanzioni dure alle coppie che facevano più di un figlio. Ma l´economia di mercato ha fatto ancora di più. Liu e sua moglie hanno deciso, senza che nessuno li costringesse, di non avere neanche un figlio. Non sono una eccezione. Per le coppie della loro età e al loro livello di reddito, la scelta «zero figli» dilaga. Dal 1990 a oggi, in coincidenza con l´esplosione del capitalismo le nascite sono crollate del 30 per cento. In parte è una reazione speculare alla vita dei genitori cinquantenni, che la politica del figlio unico aveva reso protettivi oltre misura: troppi sacrifici, troppa dedizione al prezioso discendente. E´ anche l´altra faccia del disimpegno che ha accompagnato il decollo economico degli anni '90, dopo la repressione dei moti studenteschi della Piazza Tienanmen nel 1989. Liu ne è la prova. «Prima facevo il giornalista politico, ora preferisco scrivere di business, è più eccitante. Sì, credo che questo spostamento di interessi sia generale tra i miei coetanei». «Ho molti di questi ragazzi tra i miei collaboratori, in quella classe di età divenuta adulta dopo Tienanmen - conferma Victor Ho, un avvocato d´affari di Shanghai tornato in patria dopo anni di lavoro a Hong Kong -; la loro è una generazione di individualisti, edonisti, vogliono conquistarsi una fetta più alta del benessere materiale il più presto possibile». L´economista Liu Xin dell´università di Shanghai descrive i suoi studenti «pervasi da un cinismo profondo, perché dall´età di dieci anni hanno studiato su manuali di propaganda, arrivati a diciott´anni sanno che è tutto falso e non credono a niente, non leggono niente, vogliono solo un diploma, i soldi, la carriera».
Nella Shanghai di oggi, competitiva e ambiziosa, allevare un bambino costa caro se questo figlio deve essere un "vincitore". La scuola pubblica non garantisce un futuro di successo. Esplode il business delle istituzioni private che offrono insegnanti di inglese madrelingua e corsi intensivi di matematica fin dalla tenera infanzia, per preparare candidati ai master nelle università americane. L´iscrizione al "3+3 Kindergarten", una scuola materna privata e bilingue in un ricco sobborgo residenziale di Shanghai, costa 3.000 dollari all´anno. E´ l´intero salario di un insegnante e quasi il doppio del reddito medio degli abitanti di Shanghai. Per i super-ricchi, i tycoon del neocapitalismo che abbondano a Shanghai, sono spiccioli; ma per il ceto medio il sacrificio è serio. «Come è possibile pagare rette scolastiche simili? Semplice: sei membri di una famiglia si tassano e contribuiscono coi risparmi di una vita, per finanziare l´istruzione di un solo bambino», spiega Sam Wu, presidente del 3+3 Kindergarten, gestito da una società privata di Taiwan. Al liceo Dulwich College, proprietà di imprenditori locali e di una rinomata scuola privata di Londra, le famiglie pagano fino a 12.000 dollari di retta all´anno «e nessuno ha mai obiettato sul costo», secondo Fritz Libby, fondatore della joint venture anglo-cinese.
Chi può pagare senza difficoltà queste somme per un´istruzione di lusso abita probabilmente in un quartiere che si chiama Palm Springs o Long Beach, Park Avenue, Napa Valley. Sono i nomi dei condomini di lusso che spuntano come funghi, contendono il terreno edificabile alla speculazione immobiliare dei grattacieli per uffici. Per comprare un appartamento il prezzo medio è 800.000 dollari. Le spese di condominio includono le guardie private: protetti dalla vigilanza 24 ore su 24, i proprietari vivono dietro muri e cancelli blindati. Un esercito sottoproletario si sposta dalle campagne per venire ad accudire questi nuovi ricchi. La donna di servizio - un mestiere impensabile per l´ideologia ufficiale comunista di vent´anni fa - oggi è un piccolo lusso alla portata di molti. Con l´equivalente, in yuan, di 50 dollari al mese più vitto e alloggio una ragazza di campagna è a disposizione a casa dei padroni per sette giorni alla settimana, dieci ore al giorno.
Il divario tra le due Shanghai, quella di Armani e quella del lumpenproletariat rurale, è un metro di misura della distanza percorsa dalla nuova Cina. Ancora vent´anni fa questo era un paese austero, dai consumi razionati, ma con diseguaglianze sociali fra le più basse del mondo. Oggi gli stessi studiosi cinesi riconoscono che il dislivello di reddito tra i più ricchi e i più poveri ha superato quello degli Stati Uniti e - forse ancora più incredibile - dell´India. «Il capitalismo oggi è l´unica risposta al nostro bisogno di sviluppo, che è ancora forte - dice l´economista Liu Xin -, era sbagliato pensare che l´equità sociale potesse avere la precedenza finché eravamo un paese povero in attesa del decollo. Ma la Cina di oggi è ancora prigioniera di una sorta di illusione marxista: l´idea che l´economia è onnipotente, che lo sviluppo cura e risolve tutto. Così siamo passati dal totalitarismo comunista a un capitalismo autoritario sul modello di Singapore. Forse le aspirazioni alla giustizia sociale si prenderanno una rivincita presto, non appena saremo una società più matura». Per ora regge la tregua tra le due Shanghai, quella della Formula Uno, degli yuppies senza figli, dei college bilingui, e quella delle giovani serve venute da lontano che parlano dialetti strani: con 50 dollari di stipendio al mese, i tre milioni di lavoratori immigrati dall´entroterra riescono ancora a mandare a casa dei risparmi. Per i familiari rimasti in campagna quell´assegno che arriva dalla lontana Shanghai è il nuovo benessere cinese.
(1 - continua)

il manifesto 6.3.04
La seconda rivoluzione cinese
Rispetto dei diritti umani e inviolabilità della proprietà privata: nel suo discorso all'assemblea del popolo, il premier Wen Jiabao ufficializza la svolta della Repubblica popolare. E suggerisce: arricchitevi, ma non così in fretta
di ANGELA PASCUCCI


La necessità di mettere un freno alla corsa dell'economia, la situazione di drammatica povertà delle campagne, il divario crescente della ricchezza tra province, le diseguaglianze economiche e sociali sempre più accentuate, l'iscrizione nella Costituzione dell'inviolabilità della proprietà privata con un emendamento che parla di rispetto dei diritti umani, timidi accenni alla riforma del sistema politico. L'Assemblea del popolo cinese potrà anche non decidere nulla che non sia già stato stabilito dai vertici del Partito, ma i suoi raduni annuali diventano sempre più densi e interessanti, per l'agenda di discussione che la leadership, pressata dalla realtà, impone. E quest'anno, rischiano di non bastare ai 3.000 delegati i 10 giorni canonici dedicati alla riunione annuale plenaria annuale, che si è aperta ieri a Pechino. Il discorso di apertura del premier Wen Jiabao è di quelli destinati a far discutere per i contenuti e le proposte che prefigurano ancora una volta cambiamenti notevoli per la Cina, ma ormai anche per il resto del mondo, nel quale l'antico Impero di mezzo si è profondamente innestato, rappresentando oggi la sesta economia mondiale e l'unica che ancora avanza a tutta velocità.

Nel discorso di un'ora e 50 minuti di relazione sullo stato del paese, molti i punti di rilievo. Tra i più importanti, l'esortazione a tirare le redini all'economia che, dopo 25 anni di corsa, rischia di far venire l'infarto all'intero sistema socio-economico-ambientale, che questa velocità non regge. Tutto va dunque ridimensionato, a partire dal tasso di crescita, che per il 2004 è fissato al 7%, quando quello del 2003 aveva toccato il 9,2%. Di pari importanza, la questione dei contadini, 900 milioni di persone messe da parte dall'attuale politica economica e dal tipo di sviluppo privilegiato finora. Una forza enorme e destabilizzante, sia quando rimane nelle campagne e si ribella alla propria condizione di miseria e alle vessazioni fiscali, sia quando invade le le ricche città, delle quali sostiene la crescita ma nelle quali viene sfruttata ed emarginata.

Affrontare questo problema «è la parte più cruciale di tutto il nostro lavoro» ha detto Wen Jiabao, che non è stato reticente nel dipingere la situazione. L'economia soffre di investimenti eccessivi e decisi in modo casuale, di un settore delle costruzioni ridondante, di un sistema bancario gravato da 250 miliardi di dollari di crediti pressoché inesigibili, di scarsità di fonti di energia e di materie prime, di una caduta della produzione di grano e dell'appropriazione illegale delle terre. Nel mentre che la società è messa sotto pressione da un tiro incrociato di problemi: «i redditi rurali crescono troppo lentamente; il compito di accrescere l'occupazione e la sicurezza sociale è arduo, lo sviluppo delle differenti regioni del paese è squilibrato, il divario dei redditi tra i diversi strati sociali è troppo vasto e la pressione sulle risorse e l'ambiente sta montando». In gioco è la stessa governabilità della Cina, e la legittimità dell'attuale leadership e del Partito, anche se questo il premier non lo dice.

Il tempo a venire si preannuncia dunque duro, ma lo sarà certo di più qualora Pechino non corresse ai ripari. Di fronte alla portata delle questioni centrali, tutto il resto del discorso impallidisce. Eppure non è da poco. Wen Jiabao ha parlato di Taiwan, per dire che Pechino è ponta a riprendere il dialogo, purché si parli sotto il segno di «una Cina». Il che equivale a ribadire una posizione immutata che non tiene conto di quel che accade dall'altra parte dello Stretto, dove sta montando la fronda anti Pechino e si prepara un referendum contro i missili. Il premier ha anche promesso lotta dura contro il crimine organizzato e la corruzione interna, ma la battaglia «più profonda» sarà quella contro «i culti». E poi quell'accenno alle riforme politiche sul quale gli esperti eserciteranno il loro acume, per capire come vada tradotta la frase: «Concreti e prudenti sforzi saranno fatti per promuovere la ristrutturazione politica». Comunque è certo che, alla fine di tutto, il 14 marzo, la Costituzione cinese conterrà due novità non da poco: il rispetto e la garanzia dei diritti umani da parte dello stato e l'inviolabilità della proprietà privata ottenuta con mezzi legittimi. Con il che si apre un' ulteriore contraddizione, stavolta nominalistica, per il Partito comunista che nella sua denominazione cinese «gongchan dang» significa «partito della proprietà pubblica». Ma, quanto a contraddizioni, non è la certo prima, e non sarà l'ultima.

il manifesto 6.3.04
Contrordine compagni: «rettifichiamo» Deng
La quarta generazione lancia un nuovo modello di sviluppo «sostenibile»: una decelerazione economica per evitare la catastrofe
Fame di energia Pechino rischia il collasso da iperattività. Lo dimostrano i frequenti black out e i continui razionamenti idrici
di A. PA.


La nuova leadership cinese, quella della cosiddetta Quarta Generazione non ha certo aspettato l'Assemblea del popolo riunita a Pechino per cominciare a cambiare rotta. Già a febbraio ha organizzato una settimana di studi per gli alti quadri delle province e dei ministeri allo scopo di «rettificare» la politica di riforme che dai tempi di Deng Xiaoping, il suo architetto, non è stata mai toccata. Quale dovrebbe dunque essere la nuova direzione di marcia? Basta col restare incollati ai tassi di crescita a tutti i costi del Pil, bisogna pensare a uno sviluppo «che abbia al centro la gente, e dunque inclusivo, coordinato, sostenibile». Non è un proclama neo global, ma il discorso tenuto dal vice presidente Zeng Qinghong all'apertura del seminario, il 16 febbraio scorso (riportato dal South China Morning Post del 18 febbraio). L'enunciato non è certo farina del suo sacco, ma fa parte del cosiddetto «concetto scientifico di sviluppo» che sarebbe al centro del pensiero della nuova leadership, rappresentata dal presidente Hu Jintao e dal premier Wen Jiabao. Se così fosse, per l'economia cinese si prepara ufficialmente una fase di decelerazione dalle caratteristiche inedite, dopo la corsa a rotta di collo che, tra fasi alterne, dura ormai da 25 anni e ha cambiato faccia al paese. Una fase necessaria, avvertono ormai da mesi gli osservatori attenti di questa crescita abnorme, che suscita meraviglia, visti i tempi grami, e speranze di traino per le economie a rimorchio. Ma che produce anche preoccupazione per il malessere e le storture che genera nel corpo della società cinese e gli squilibri che induce nell'economia globale. Una sorta di bulimia da arrestare prima che tutti ne restino avvelenati. L'avvertimento lanciato ieri dal premier Wen Jiabao è stato in questo molto chiaro.

Dietro il trionfale tasso di crescita del 9,1% nel 2003, per alcuni persino sotto stimato, ci sono infatti eccessi di ogni genere. Essendo che il dio Pil è stato, almeno finora, il totem e il metro di misura universale per giudicare la validità delle azioni intraprese, per essere promossi i quadri locali si sono dati a vere follie. Più di 20 province hanno oggi nei loro piani di sviluppo impianti di assemblaggio per la produzione di automobili. Ormai si produce qualunque cosa a ruota libera senza che, nella maggior parte dei casi, sia certo lo sbocco di mercato. Con effetti devastanti, in termini di spreco di fondi e di risorse, di sovrapproduzione, di surriscaldamento dell'economia da una parte e di deflazione dall'altra, di crediti inesigibili, che ormai costituiscono una mina vagante per il sistema bancario cinese. Intanto, il paese è diventato il secondo importatore mondiale di petrolio, dopo gli Usa, e copre la metà del consumo mondiale di cemento.

Ma la sua fame insaziata di energia, rivelata dai frequenti black out elettrici e dai razionamenti di acqua nelle grandi città, gli fa toccare con mano i limiti strutturali della propria crescita. Oltre a porgli la necessità di ripensare al proprio ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale. Per non parlare del disastro ambientale che già ora si profila in tutta la sua ampiezza.

Le città invase dalle campagne

Un'iperattività che, tirate le somme finali, registra un saldo particolarmente negativo in termini di progresso sociale e ricchezza comune. Le ineguaglianze continuano ad approfondirsi. Tra le zone costiere e quelle dell'interno, fra campagna e città. Lo scorso anno, dicono i dati dell'Ufficio nazionale di statistiche, i redditi dei residenti urbani sono aumentati del 9,3% (a 1025 dollari di media) ma per gli abitanti delle campagne l'incremento è stato del 4,3% (317 dollari di media). L'uno il triplo dell'altro, dunque. Uno dei divari più grandi del mondo, come ha confermato un recente studio dell'Accademia delle Scienze sociali il cui curatore, il professor Li Shi, ammette anche che le cifre probabilmente non rendono la reale ampiezza delle diseguaglianze. Tali ormai che il governo ha deciso infine di intervenire per tamponare la falla, destinando quest'anno l'equivalente di 18 miliardi di dollari a investimenti per le zone rurali.

C'è poi la campagna che irrompe nelle città, dove la frattura si riproduce in modi anche più drammatici. La celebrazione del Capodanno è diventata in questo senso un evento rivelatorio. In quei giorni le cronache erano piene di storie di contadini migranti (ormai tra i 100 e i 200 milioni di persone) e operai che non ricevono il salario da mesi e dunque non possono tornare a casa per le feste. Secondo Feng Lanrui, esperto del lavoro dell'Accademia delle scienze sociali, i migranti, che contribuiscono al 40% del reddito rurale, devono avere oggi l'equivalente di 12 miliardi di dollari in arretrati (New York Times, 10 gennaio). Le narrazioni di abusi, violenze e prepotenze feudali sono all'ordine del giorno. Come è cronaca quotidiana quella delle rivolte e delle proteste sempre più frequenti.

Le falle del «socialismo di mercato»

E' come se il nastro della storia si stesse riavvolgendo all'indietro. Persino nel Guangdong, la «fabbrica del mondo», la provincia meridionale dei record di sviluppo (oltre 10% in media nell'ultimo decennio) il salario medio di un operaio oscilla tra 50 e 70 dollari al mese, non superiore al livello del 1993. Solo che oggi la vita è molto più cara, perché si paga tutto, dalla scuola alla casa alla sanità. La Cina produce sì una montagna di nuova ricchezza, ma il «socialismo di mercato» non la ridistribuisce equamente. Come afferma la corrente dei nuovi marxisti, che sta prendendo sempre più piede e voce in Cina e che accusa la leadership di aver colonizzato i propri cittadini.

Le contraddizioni interne si riflettono a livello internazionale. Con la sua corsa, la Cina sta trainando l'Asia fuori dal pantano del 1997. E' di alcuni giorni fa la notizia che la bilancia commerciale del Giappone ha registrato un attivo record, in aumento del 393% rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Tutto frutto dell'export verso l'Asia, in primis verso la Cina, la cui bilancia commerciale invece comincia ogni tanto a lampeggiare.

Ma se Tokyo ride, Washington piange. Al cuore della campagna elettorale per le presidenziali americane, la fuga dei posti di lavoro verso oriente infiamma i comizi, soprattutto negli stati colpiti dal declino industriale e dal ritrarsi della new economy. Concorrenza sleale, mancato rispetto degli standard di lavoro e retributivi. Tutto vero. Ma chi si è preso la briga di andare a osservare il funzionamento della realtà (come il Wall Street Journal dell'1 febbraio scorso) ne conclude che le compagnie straniere contano per più dei tre quarti dell'export d'alta tecnologia dalla Cina. Per esemplificare: la Logitech, compagnia svizzero-americana basata in California, produce a Suzhou un mouse senza fili che vende negli Stati uniti a 40 dollari, dei quali ne restano in Cina solo 3, a coprire salari, energia, trasporti. Quanto poi al profitto effettivo che le multinazionali ricavano dalle loro attività cinesi, è «difficile da accertare», afferma il breviario del capitalismo globale, visto che molte i propri guadagni li registrano «a Hong Kong o in altre destinazioni off-shore dove le imposte sono basse». La Cina invece reinveste le riserve incassate dal surplus commerciale (103 miliardi quello registrato nel 2003 verso gli Stati uniti) in buoni del Tesoro americano. Attualmente, ne detiene 120 miliardi di dollari ed è entrata a tutti gli effetti nel rango di sostenitore primario del circo americano, che si nutre di debiti.

Grande è dunque la confusione sotto il cielo. Chi semplifica, mistifica. Ma pare proprio di poter dire che le vittime del sistema, sia a Oriente che a Occidente, si trovino tutte dalla stessa parte. Non resta che aspettare che la Quarta Generazione di leader cinesi dia attuazione alla sua ultima pensata e riesca a quadrare un cerchio che, con tutta evidenza, non sta stringendo solo i cinesi.

Corriere della Sera 6.3.04
L’enorme sviluppo dell’interscambio si riflette sui trasporti. Con effetti a catena negli scali internazionali
E il boom del gigante asiatico manda in tilt i porti mondiali
Attese di mesi per caricare le merci, con i costi che si moltiplicano
di Danilo Tain


Il primo ministro cinese ha detto ieri che la crescita del Paese è troppo accelerata, che occorre rallentare. Wen Jiabao ha giustificato la scelta con ragioni interne alla Cina, ma il resto del mondo non può che essere d'accordo: il boom dell'Impero di Mezzo, infatti, è una delle forze che trascinano la crescita globale, ma allo stesso tempo è anche la ragione di distorsioni spettacolari nei meccanismi che fanno funzionare l'economia del pianeta. L'emergenza che è maturata negli ultimi mesi ed è esplosa nei giorni scorsi riguarda i porti: il volume di merci, soprattutto materie prime, dirette verso la Cina è così consistente che i principali scali internazionali sono congestionati a un livello tale da causare ritardi mai visti e una crescita dei costi senza precedenti. «Si sta creando un effetto a catena nei porti del mondo», dice Harash Channa, vicepresidente per le operazioni portuali a Hong Kong del Noble Group, uno dei maggiori trasportatori marittimi dell'Asia.
Channa sostiene che nei porti indiani, ormai, i navigli devono attendere fino a un mese per fare un carico di minerali di ferro, la base per l'acciaio che la Cina produce a ritmi impressionanti (è la numero uno al mondo). Ma la situazione è di emergenza quasi ovunque nel mondo: ovviamente negli scali cinesi ma anche nei porti australiani (dove le attese arrivano a dieci giorni), africani, sudamericani e, in qualche caso, europei. Calcoli realizzati da alcuni esperti del settore e resi noti dall'agenzia Reuters dicono che il 25% della capacità mondiale di trasporti marittimi è in questi giorni "in coda", in attesa di poter accedere alle strutture di qualche porto.
Dal momento che l'affitto di una nave da 120-200 mila tonnellate è attorno ai centomila dollari al giorno, il costo aggiuntivo di un'attesa di un mese può arrivare a tre milioni di dollari. Che vanno ad aggiungersi ai costi già in forte rialzo - sempre grazie alla domanda cinese - delle materie prime. I noli dall'America alla Cina per trasporti di grano sono passati da 18 a 70 dollari a tonnellata in due anni. E gli effetti sono pesanti anche su acciaio, soia e petrolio. Il Baltic Dry Index, un indice dei noli marittimi di cargo che trasportano grano o minerali, l'anno scorso è cresciuto del 170% e nei primi due mesi del 2004 di un altro 10%. I noli per il trasporto di container, per parte loro, sono balzati del 30% nel 2003 e di un altro 10% quest'anno.
La situazione peggiore, ovviamente, è in Cina, dove il traffico portuale complessivo è cresciuto del 18% l'anno scorso e probabilmente aumenterà ancora di più quest'anno. Allo scalo di Beilun, vicino a Shanghai, i cargo devono aspettare attorno a un mese, prima di caricare. Hong Kong è sotto pressione. Al porto di Shenzen, in una delle zone più dinamiche della Cina - la foce del Fiume delle Perle - le cose vanno un po' meglio grazie agli investimenti massicci che hanno raddoppiato la capacità portuale negli ultimi due anni. Nel complesso, comunque, la situazione è pesantissima e, soprattutto, non si vedono miglioramenti a breve: nuovi scali e nuove navi sono in costruzione, ma prima che il loro impatto si possa fare sentire bisognerà aspettare almeno un paio d'anni, durante i quali la situazione potrebbe peggiorare.
La crisi è resa più drammatica dalla situazione dei trasporti interni alla Cina. Nelle regioni costiere, le strade sono così congestionate che le centrali elettriche rischiano il blackout perché il carbone dal nord non arriva in tempo. In alcuni porti, montagne di minerali di ferro scaricate dalle navi non sono trasportate a destinazione perché mancano i camion. E la situazione è peggiorata da speculatori che, vista la continua crescita dei prezzi, lasciano l'acciaio il più a lungo possibile nei porti sperando in prezzi sempre migliori.
Insomma, siamo all'incubo logistico, in Cina ma anche nel resto del mondo, una situazione senza precedenti. Con il rischio, dicono nel settore, che si creino due bolle, una di prezzi e una che finirà tra qualche anno in un eccesso di capacità portuali e di cargo. Ogni rallentamento della corsa indotto da Wen e dai mandarini di Pechino è benvenuto

Ansa.it 06/03/2004 - 08:51
Cina: aumentano dell'11% le spese militari
Rapporto presentato all'Assemblea Nazionale del Popolo


(ANSA) - PECHINO, 6 MAR - Nel 2004 la Cina aumentera' dell'11,6% le spese militari, secondo il rapporto presentato oggi all'Assemblea Nazionale del Popolo. L'aumento e' significativo perche' avviene in un momento nel quale gli sforzi sono concentrati sulla sicurezza sociale e sulla riduzione degli squilibri tra citta' e campagna creati dall'impetuoso sviluppo economico degli anni passati.
copyright @ 2004 ANSA