martedì 5 ottobre 2004

Continua il dibattito su ateismo, fede e militanza
su "Liberazione"

una segnalazione di Roberto Altamura

(...) C'E' UN SECOLO DI DIALOGO E DI INTRECCIO FRA COMUNISMO E TESTIMONIANZA
CATTOLICA ?
Le lettere, "Liberazione" 5 ottobre 2004

Cara "Liberazione", c'è da rimanere stupefatti a leggere l'intervento di qualche compagno che proclama l'incompatibilità fra l'essere comunista e l'essere religioso. E' come se questo compagno si fosse risvegliato dopo un sonno durato almeno un secolo, nel quale il comunismo italiano ha definito la sua identità anche in questa materia. Dalla polemica dei giovani comunisti torinesi (Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca innanzitutto) contro l'anticlericalismo dell' "Asino" di Podrecca, al dialogo dell'era giovannea sul pericolo nucleare, al congresso del 1975 con Berlinguer che proclamava in una prima fase addirittura la centralità del cattolicesimo come dottrina riformatrice, ed altri compagni, primo fra tutti Ingrao, che gli ricordavano il valore delle confessioni minoritarie, come il vivace protestantesimo italiano. Certo, fede religiosa ed attivismo politico vanno tenuti in ambiti ben distinti: e questo vale sia contro i tanti cedimenti al clericalismo del centrosinistra di questi anni, sia contro un'antistorica discriminante antireligiosa, che rifiuto innanzitutto io, ateo e quindi libertario. Ma possiamo dimenticarci il grande contributo di quei movimenti, dalla Teologia della Liberazione ai Cristiani per il Socialismo, che hanno valorizzato il ruolo del pensiero religioso come fatto di liberazione sociale? Ci siamo dimenticati, per esempio, di Camillo Torres, prete e guerrigliero comunista? Dei quattro religiosi dirigenti sandinisti, perseguitati dall'integralismo del papato di Wojtila? Dei tanti nostri confratelli e consorelle comunisti e credenti di tante diverse fedi? Casomai, ai compagni "distratti", vorrei ricordare che è proprio in quella tradizione comunista italiana da rifondare che ci sono compromessi che, nel passato, hanno fatto scivolare il partito in una logica di moderazione e di cedimento politico, e che paghiamo ancor oggi. Oppure ci siamo tutti scordati che nel 1947 il Pci, a differenza delle altre forze della sinistra, ha votato per la costituzionalizzazione del Concordato nell'art. 7 ? In qualsiasi caso, proprio per porre il dibattito su giuste basi, che sono quelle del confronto ideale per rafforzare il nostro percorso di radicalità e rifondazione, perché il nostro quotidiano non ripubblica la mitica "Lettera a Pipetta" di don Dilani, scritta in un momento così insospettabile come il 1948 della vittoria democristiana e stella cometa, negli anni '70, per tanti giovani comunisti che hanno saputo lasciarsi alle spalle le antistoriche diatribe tra compagni credenti e non credenti?

Gian Luigi Bettoli, Pordenone

LA MILITANZA COMUNISTA E I "PERCORSI INTERIORI"

Caro Curzi, "religione oppio dei popoli", ateismo scientifico, alienazione religiosa, sono tutti concetti sui quali si fonda il pensiero del comunismo teorico elaborato da Marx. Tutto ciò è vero ma...poi l'uomo deve fare i conti con la sua coscienza, la sua finitezza, i suoi dubbi e le sue illusioni e allora, i conti non tornano più. Io credo fermamente che il comunismo debba salvaguardare la dignità umana in tutti i suoi aspetti, per cui non può non rispettare, con spirito libertario, il percorso interiore di ogni suo militante, al di là di qualsiasi dogmatismo settario. Se così non fosse, infatti, l'ideale comunista cadrebbe in una sostanziale contraddizione di fondo, poiché non farebbe altro che sovrapporre alle tanto odiate dottrine spirituali alla sua "religione" ateista, certamente altrettanto dogmatica. Ebbene, personalmente non potrei appartenere ad un partito così massimalista che si arroga il diritto ontologico delle scelte del mio cammino spirituale.

Francesco Sarli ,Roma

Simona

il manifesto.it 5 ottobre 2004
POLITICA O QUASI
Se Simona non fa rima con vittima
IDA DOMINIJANNI

«Sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero». Non c'è molto da aggiungere alle parole con cui il direttore dell'Unità Furio Colombo ha commentato domenica il linciaggio a cui Simona Pari e Simona Torretta sono state sottoposte sui giornali della destra (codiuvati, sia pure con toni più moderati, da alcune firme dei grandi giornali indipendenti) per avere osato sostenere, dopo il loro rilascio, che l'invasione dell'Iraq deve cessare, che le truppe willing vanno ritirate, che i sequestratori le hanno trattate con rispetto; per avere osato affermare che vogliono tornare ancora in Iraq; per avere osato ringraziare, oltre al governo, l'opposizione e le manifestazioni pacifiste. Il linciaggio, da cui lo stesso Silvio Berlusconi ha sentito il bisogno di prendere a un certo punto le distanze, ha avuto nei giorni scorsi - e ancora ieri, nell'editoriale del Tempo - toni di una volgarità insopportabile, di quella che di tanto in tanto spunta dalle viscere dell'Italia in transizione e dovrebbe farci interrogare sull'inciviltà che abita le nostre democrazie prima che sullo scontro di civiltà fra Occidente e Islam. Frasi come «se vogliono tornare in Iraq rispediamocele con due calci nel sedere», «la prossima volta si paghino da sole il ricatto», «tacciano e intanto ritiriamogli il passaporto» non depongono a favore né di chi le pronuncia né della sfera pubblica in cui circolano. Sono diventate pronunciabili nella sfera pubblica italiana anche o in primo luogo perché erano indirizzate a due donne? Credo di sì e non lo dico per alimentare il vittimismo femminile ma in senso esattamente contrario: tanta foga si è scatenata proprio perché le due Simone hanno smentito lo stereotipo della donna vittima. Se fossero state vittime e basta, vittime e morte, vittime e perse, vittime e vinte, vittime e piegate, vittime e stuprate, chiunque, compresi i direttori di Libero, del Giornale e della Padania nonché gli zelanti deputati leghisti che ne hanno seguito i suggerimenti, le avrebbero invece piante e compiante, commiserate e santificate. Ma così non è stato. Molti lati restano e resteranno oscuri del loro sequestro e del loro rilascio, motivi e modalità, ma un punto è chiaro ed è che le prime ad aver creato le condizioni per la propria liberazione sono state loro stesse, Simona e Simona: parlando con i sequestratori in una lingua che li ha saputi raggiungere, convincendoli che avevano preso un abbaglio, posizionandosi politicamente laddove stavano e stanno, cioè con e non contro la popolazione irachena. Il primo spazio di trattativa, senza nulla togliere a Berlusconi Frattini e Letta e Scelli, lo devono a se stesse, alla pratica politica che a Baghdad avevano costruito e all'esperienza e alla conoscenza dell'altro che avevano accumulato. Due donne libere, non due donne vittime. Due donne che fanno politica in prima persona, non o non solo due donne posta in gioco della politica istituzionale. Due donne amiche, non due donne in competizione fra loro. E' quanto basta per spiazzare tutti gli stereotipi che mezza Italia del terzo millennio - e non solo, ci si può giurare, il suo lato destro - non solo mantiene nelle sue viscere ma alimenta e rinverdisce.
Si aggiunge a questo la loro resistenza a diventare, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, l'icona vivente dell'unità nazionale sperimentata durante il loro sequestro. Ma qui siamo già nel regno della ragion politica; l'essenziale viene prima, su quel piano prepolitico, o forse postpolitico, su cui tutto l'essenziale della guerra in Iraq si sta giocando mettendo in scacco la ragion politica. Lo spiazzamento dei ruoli sessuali - in questo caso come in altri, compreso quello dolente e di segno opposto delle torturatrici di Abu Ghraib - continua a essere un segmento decisivo di questa guerra, combattuto senza esclusione di colpi.

Le mille e una notte

Repubblica 5.10.04
Ristabilita la versione originale con 282 racconti.
Mille e una notte senza Aladino
RISCOPERTO L'ORIGINALE ORA LE FAVOLE SONO SOLO 282
SPARISCONO ALADINO E SINBAD
Il testo originale era stato ampliato nel ´700 da Antoine Galland

di VANNA VANNUCCINI

Ci fu un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui l´Europa fu presa dalla febbre d´Oriente. C´era chi si faceva costruire edifici alla maniera dei sultani, come Augusto il Forte, elettore di Sassonia e re di Polonia, che abbellì Dresda perfino di un giardino alla turca. I salotti d´Europa si riempirono di tappeti e cuscini moreschi. I pittori come Delacroix dipingevano giganteschi interni di harem con le schiave seminude in pose lascive. Goethe compose il suo Divano occidentale-orientale. Mozart scrisse il Ratto dal Serraglio. Anche la letteratura popolare si riempì di libri d´avventure.
Si svolgevano nei bazar, nei caravanserragli, nei misteri di un mondo "di bagni, di profumi, di danze, di piaceri", come scrisse Chateaubriand. Da dove era venuta questa moda? Da un libro, il solo che ancora oggi rappresenta per noi l´Oriente. Le Mille e Una Notte. La prima traduzione di un volume di racconti che aveva ricevuto dalla Siria fu pubblicata dall´orientalista francese Antoine Galland nel 1704. Fu un successo inimmaginabile. Altri sei volumi seguirono fino al 1709 e poi ancora quattro, di cui l´ultimo uscì addirittura due anni dopo la morte di Galland. L´Oriente veniva fuori da quelle descrizioni come il regno dei sensi, la donna orientale era quanto ci poteva essere di più sensuale. Le sue arti erotiche erano impareggiabili. Un bipolarismo di sensualità e violenza, dice l´islamista Andreas Pflitsch nel libro appena uscito Mito Oriente (Herder, euro12,90). Dispotismo e lascivia. Perversione e voluttà. Anche allora ci s´inventava volentieri un mondo piuttosto che guardare la realtà. Sull´Oriente gli europei proiettavano i sogni, le fantasie, i fantasmi che in occidente erano tabù. Facevano ricadere tutta la decadenza sull´Oriente - così come oggi i fondamentalisti islamici la fanno ricadere sull´Ovest.
E´ stato così che Antoine Galland, archivista che aveva tentato senza molto successo di salire la scala sociale ed accreditarsi come diplomatico, ha formato per trecento anni la nostra immagine dell´Oriente. Anche quando sappiamo che nel mondo arabo ci sono tante cose di cui nemmeno i servizi segreti sanno nulla, almeno di una cosa siamo sempre stati certi: le Mille e una Notte sono la metafora dell´Oriente. Mille e una sono, come si sa, la somma di quelle notti in cui Sharazad, la più bella e la più saggia delle figlie del vizir, racconta al re Shahriyar una novella e quando arriva l´alba la interrompe sul momento culminante, e in questo modo ha salva la vita. Il re, curioso di conoscere la fine, rinvierà l´esecuzione all´indomani. Shahriyar, re di Persia e delle Indie, per punire la moglie infedele aveva infatti deciso di vendicarsi non solo sulla moglie (cui fece subito tagliare la testa) ma su tutte le donne. Ogni sera ne sceglieva una per farla poi decapitare al mattino. Sharazad riuscì però ad intrattenerlo per mille e una notte finché il re cambiò idea e la prese in sposa.
Questo sapevamo. E nessuno di noi immaginava che venisse fuori la storia che le Mille e una Notte potessero essere un costrutto occidentale. Ebbene, è così. Ce lo dice autorevolmente l´arabista Claudia Ott, che alla Fiera del Libro di Francoforte presenta la sua nuova traduzione della famosa raccolta di novelle (Beck, euro 29,90). Una traduzione che è soprattutto un restauro. Basandosi sulla edizione del 1984 dell´iracheno Muhsin Mahdi, professore a Harvard, Claudia Ott ha tolto alle Mille e una Notte tutti gli strati sovrapposti, riscoprendo l´originale: non 1001 novelle ma solo 282. Via Aladino e la sua lanterna, via Sinbad il marinaio, via Ali Baba e i quaranta ladroni e altre 719.
Tutte queste infatti, ci dicono Muhsin Mahdi e Cladia Ott, erano state aggiunte di suo pugno dall´orientalista francese Antoine Galland. Visto il successo, e per suggerimento dell´editore, si era preoccupato meno del testo originale e più del gusto dei salotti francesi dell´epoca. Aveva cominciato a esaltare i momenti più esotici del racconto, tralasciando gli altri. L´esotismo era evidentemente un modo per far entrare nelle case borghesi l´erotismo. Finì per creare un prodotto che rispondeva soprattutto ai cliché che l´Occidente si faceva dell´Oriente. Un cliché durato per trecento anni.

1604, quattrocento anni fa
la «stella nova»

Eco di Bergamo 5.10.04
Quella «stella nova» cambiò il cosmo
Nel 1604 la comparsa di un astro luminosissimo: era l'esplosione di una supernova L'evento descritto da Keplero e Galileo. L'evoluzione delle galassie ebbe meno segreti
Folco Claudi

Ci vuole una bella immaginazione per riconoscere nel cielo stellato le figure mitologiche o di animali che dall'antichità danno il nome alle costellazioni. Una delle più immaginifiche è quella di Ofiuco («colui che porta il serpente») o, con una dizione derivata dal latino e non dal greco, del Serpentario, che ricorda la leggendaria figura di Asclepio, il medico che dai serpenti imparò il segreto della vita e della morte.
Fu perciò Zeus a causarne la morte – con un fulmine, ovviamente – ma riconoscendone i meriti gli riservò un posto in cielo. Compresa nel catalogo celeste di Tolomeo, la costellazione di Ofiuco è rimasta anche nella catalogazione moderna. La sua importanza storica è legata però a un fenomeno di importanza straordinaria: l'apparizione di una «nuova stella» molto luminosa, avvenuta giusto 400 anni fa, nell'ottobre 1604. L'improvviso aumento di luminosità, ben visibile a occhio nudo in un punto non distante dalla stella Theta Ophiuchi fin dal 9 ottobre, fu osservato il giorno 17 nientemeno che da Johannes Kepler, meglio conosciuto come Keplero, una delle figure più importanti per la storia della scienza e dell'astronomia in particolare.
Keplero – che diede anche il nome alla stella – fece una descrizione in un'apposita opera, il trattato «De stella nova in pede Serpetarii. Sulla nuova stella nel piede del Serpentario» dato alle stampe nel 1606. Ma Keplero non era l'unico astronomo con il naso all'insù nelle nottate di quel fatidico anno. Ad alcune migliaia di chilometri di distanza, c'era anche un quarantenne docente di matematica dell'Università di Padova, Galileo Galilei, non ancora famoso, che restò profondamente impressionato dall'evento. Ne rimane testimonianza in un opuscolo scritto in dialetto patavino pubblicato nel 1605, il «Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nova».
Ma che cosa videro in cielo i due grandi scienziati fino all'estate del 1605? Le sorgenti variabili di luce nel cosmo sono oggi classificate come supernove. Dal punto di vista fisico si tratta di una stella di grande massa che, giunta alla fine del suo ciclo vitale, esplode «in grande stile». Mentre la maggior parte delle stelle termina la propria esistenza in modo tranquillo, l'esplosione di una supernova è un evento che uguaglia in luminosità quello di una galassia contenente miliardi di stelle. Un evento catastrofico, dunque, di una potenza difficilmente immaginabile, che però nell'evoluzione di una galassia, preannuncia nuove nascite, poiché permette la sintesi degli elementi più pesanti del ferro. L'enorme energia che accompagna l'esplosione di una supernova proietta questi elementi a grande distanza, disseminandoli nello spazio. Da questi mattoni fondamentali della materia potranno poi nascere altre stelle e galassie e, almeno nel caso del nostro pianeta, esseri viventi. Questo è ciò che sappiamo oggi dell'esplosione di una supernova. E sappiamo anche con certezza che nel 1604 si trattò proprio di un fenomeno di questo tipo, così nel caso di un analogo fenomeno avvenuto in cielo solo 32 anni prima, nel 1572. Per i contemporanei dell'evento, in particolare per Galileo, la faccenda assunse tutt'altro significato.
Secondo la visione del mondo ereditata dagli antichi, fondata sulla cosmologia di Tolomeo e sulla fisica di Aristotele, tutto ciò che abitava il cosmo doveva rientrare in due precise categorie: la prima includeva tutte le cose presenti sulla Terra e nello spazio compreso tra la Terra e l'orbita della Luna; la seconda tutti gli oggetti celesti presenti oltre il mondo sublunare. Ciò che distingueva i due insiemi era la possibilità di mutare: nella prima sfera tutto nasce, si trasforma e muore; pianeti e stelle erano invece creati da Dio con un'essenza celeste e posizionati secondo un ordine perfetto e soprattutto immutabile.
Dove collocare dunque la stella nova? La cultura dominante avrebbe preferito liquidarla come un misterioso evento meteorologico, dunque compreso all'interno dell'orbita lunare, com'era avvenuto nel 1572. Nelle aule dell'Università di Padova invece Galileo era deciso a dare battaglia, con l'arma della propria ragione. Egli, pur non essendo un esperto di misure astronomiche, aveva una sufficiente confidenza con gli strumenti da riuscire a determinare approssimativamente la distanza del corpo luminoso e a stabilire che esso non si muoveva rispetto alle stelle fisse e che quindi non poteva essere di natura sublunare. Già seguace di Copernico, che nel 1543 aveva proposto il suo sistema eliocentrico, Galileo colse l'occasione della stella nova per portare avanti due idee fondanti per il successivo sviluppo della scienza moderna: la prima sosteneva che le misurazioni erano da preferire alle idee, per quanto antiche e accettate, dei filosofi; la seconda sosteneva che gli astronomi non dovevano occuparsi soltanto di fare calcoli matematici, ma anche indagare l'essenza delle stelle. Il già citato «Dialogo de Cecco», di tono sarcastico, era solo l'inizio. Vennero altre osservazioni astronomiche, nel 1609 e nel 1613, effettuate con l'uso del telescopio da lui inventato, che portarono Galileo a sostenere il sistema copernicano e a subire il processo dell'Inquisizione. Ma il nuovo pensiero scientifico, nato sotto gli auspici della stella nova, non poteva essere fermato. Il mondo chiuso – per parafrasare il titolo di un famoso saggio – cedeva il passo all'universo infinito.

citato al Lunedì
i sogni nel Medioevo

Il Sole 24ore domenica 3.10.04, Pagina 33
Ad occhi chiusi
Sogni d'oro, Medioevo
Un'epoca in cui il sonno era una porta per vedere il futuro: da Elio Aristide a san Gerolamo, fino ai due santi Gregorio, il passaggio dal paganesimo al cristianesimo avvenne anche di notte
di Franco Cardini

Recensione di : Patricia Cox Miller, «il sogno nella tarda antichità», traduzione italiana di Francesco Zappa e RossellaLozzi, Jouvance, Roma 2004, pagg. 344, € 28

Il sogno ha sempre attratto il genere umano; l'età contemporanea, poi, vi si è immersa per quanto molti tra noi siano al contrario convinti di vivere in pieno stato di veglia, nella luce splendente del "Giorno della Ragione". Di rado si riflette su quanto la storia e la cultura contemporanee, nel XX secolo dominato dalla psicoanalisi e nel XXI egemonizzato dalla virtualità e ahimè dalla droga, siano fondamentalmente oniriche. Non a caso, quando noialtri parliamo di politica, ricorre sovente la parola "incubo". Che molto ha a che fare col sogno. E con la demonologia, naturalmente.
Di sogno, medici e psicanalisti a parte, si sono occupati storici, filologi e iconologi, soprattutto per l'antichità, il medioevo e la prima età moderna. Inutile far troppi nomi: ricordo, un po' alla rinfusa, Dario Del Corno, Jacques Le Goff, Tullio Gregory, Chiara Fragoni, Francesco Gandolfo. Nel Medioevo, molti scritti anche a carattere profetico, o giuridico e politologico, assumevano l'aspetto formale del sogno o prendevano avvio dal racconto "pretestuoso" di un sogno. Lo fanno anche il Roman de la rose e la Divina Commedia. Se uno voleva dire qualcosa sull'assetto politico del suo tempo, su come era malvagio e su come sarebbe stato auspicabile, ma temeva d'incorrere ciò dicendo nelle ire del suo sovrano o di attrarre l'attenzione dell'inquisitore più vicino, fingeva di essersi steso sull'erba di un verziere, una bella mattina di primavera, e di essersi fatto un sogno.
Dal sonno ci si aspetta di trarre informazioni per il nostro futuro. È un atteggiamento antico, che a suo tempo - come narra la Bibbia - fece la fortuna di Giuseppe figlio di Giacobbe presso il faraone. I sogni veridici, dicevano i Greci, escono da una porta di corno; quelli ingannevoli da una d'avorio. L'oniromanzia tradizionale assicura che i sogni più sicuramente portatori di verità si fanno verso il mattino. Chissà se quel che vale per le ore del giorno vale anche per le culture: ma purtroppo a questo riguardo qualunque analisi sarebbe viziata dal carattere convenzionale della nostra periodizzazione storica: quando delle "albe" e dei "tramonti", delle "primavere" e degli "autunni", delle età storiche, scadiamo in realtà arbitrariamente un tempo che d'altronde è tutto fuorché omogeneo.
Patricia Cox Miller, docente di materie religiose nella Syracuse University e studiosa di biografismo antico, si è occupata appunto di sogni in un libro uscito una decina d'anni fa presso la Princeton University Press, di sogni in quella che essa, con tutte le ragioni dal punto di vista della periodizzazione corrente, ha definito Late Antiquity: e indagando attraverso la scienza dell'interpretazione dei sogni - l'oniromanzia, appunto -, ha inteso indagare, come recita il sottotitolo del suo lavoro, sull'«immagination of a culture».
La ricerca della Cox Miller, che gli specialisti già conoscevano ma che ora grazie alla romana Jouvence viene posta a disposizione di un pubblico colto più vasto, parla davvero dei "sogni veridici", di quelli fatti in prossimità del mattino, se letta con gli occhi della medievistica: dal momento che la Tarda antichità può essere ben a ragione vista anche come l'alba del medioevo; e che questo libro, utile credo a comprendere alcuni aspetti della cultura antica, risulta al contrario utilissimo per capire quella medievale.
L'autrice indaga su alcuni testi scelti fra I e IV secolo, quindi in un lungo arco di tempo: e non bisogna certo farci ingannare, al riguardo, dall'effetto prospettico che induce sempre noi moderni a "schiacciare" il passato, in modo tale che, mentre ci sembra che (e abbiamo ragione) fra quel che siamo oggi e quel che eravamo trent'anni fa ci sia un abisso, consideriamo poi con disinvoltura come quasi coevi il Duecento e il Trecento, per non parlar dei secoli precedenti. C'era una bella differenza, fra l'età di Traiano e quella di Teodosio.
Eppure, un filo tenace univa quei tempi separati tra loro di quasi duecento anni. Si era esaurita la fede negli dèi tradizionali mentre la koiné culturale mediterraneo-orientale aveva creato nuove sintesi: erano affiorati bisogni nuovi, ci si era interrogati sempre più angosciosamente sul destino delle anime dopo la morte, si era affermata l'esigenza di divinità salvatrici, si era fatta strada l'idea già pitagorica e platonica (ma anche egizia: e, naturalmente, ebraica) di una divinità unica.
Studiando il Pastore di Erma, la Passio Perpetuae, i Discorsi sacri dedicati in pieno II secolo da Elio Aristide ai suoi sogni terapeutici, le esperienze oniriche di San Gerolamo e i sogni ascetici do Gregorio di Nazianzo e di Gregorio di Nissa nel IV secolo, la Cox Miller ci fa assistere non solo al «passaggio dal paganesimo al cristianesimo», bensì anche e soprattutto alla complessa e articolata inculturazione pagano-cristiana, alla molteplicità d'immagini e di concetti attraverso la quale le divinità elleniche e asiatiche si dissolvono e si risolvono nel biblico Jahvè che a "sua" volta assume tratti ellenistici, misterici e neoplatonici.
L'autrice non perde per fortuna tempo nel confutare vecchie posizioni, ancora di recente attardate sul discettare se la "credenza nei sogni" vada o meno considerata una "superstizione". Certo è che, nel tutt'altro che lineare passaggio dalle varie e fra loro diversissime forme di quella galassia di atteggiamenti filosofici e mistico-religiosi che noi rinchiudiamo stolidamente nella generica categoria del "paganesimo" al già più delimitato e rigoroso ambito del "cristianesimo" che vescovi e concilii cercavano disperatamente di precisare il più possibile, la letteratura dedicata non più tanto all'oniromanzia vera e propria quanto piuttosto al racconto (quanto fedele? E quanto consciamente fedele?) delle esperienze oniriche come fatto "significante" - dietro al quale scorgere una grazia divina o una tentazione diabolica - approdasse alla costruzione di un "linguaggio segnico" attraverso il quale diveniva possibile fornir concretezza, sotto il profilo dell'immaginazione e della comunicazione, a concetti quali il tempo, il cosmo, l'anima, l'identità personale. In questa ricerca convergono storia, filologia e semiologia per delineare un quadro ampio e profondo delle "risorse oniriche" della nascente cultura cristiana. Non oseremmo aggiungere: e del paganesimo al tramonto. Sia perché, appunto, la parola "paganesimo" è tanto generica da apparir grottesca; sia perché la discussione relativa al fatto che il paganesimo antico sia morto - se in tal caso se e fino a che punto anche per colpa o comunque a causa del cristianesimo - o si sia dissolto, o invece risolto se non metabolizzato al suo interno, salve poi facendo altre vere o false resurrezioni, è qualcosa che sembra lontana dall'essersi conclusa. Anzi: la discussione effettiva a tale riguardo è, forse, appena cominciata.

Marco Bellocchio:
l'uscita in Francia del dvd di "Buongiorno, notte"

parutionns.com 4.10.04
esce sul mercato d'oltralpe il dvd di Buongiorno, notte
questa la presentazione dal sito di parutions.com


Buongiorno, notte
de Marco Bellocchio
avec Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Roberto Herlitzka
Océans Films 2004 / 23 € - 150.65 ffr.
Durée film 105 mn.
Classification : Tous publics

Sortie Cinéma : 2003, Italie
Titre original : Buongiorno, notte

Version : DVD 9 / Zone 2
Format image : 1.66 - 16/9 ème compatible 4/3
Format audio : italien, Dolby Digital 5.1
Sous-titres : français

Bonus :
Même rage, même printemps, document inédit (65 min)
Entretien avec Marco Bellocchio par Michel Ciment (20 min)
Bandes annonces de Buongiorno, notte, et du Sourire de ma mère
Notes de production
Abécédaire des Brigades rouges
Biofilmographie de Marco Bellocchio et des comédiens
Catalogue DVD Océan

Printemps 1978 : Aldo Moro, président de la Démocratie chrétienne italienne, est enlevé par un groupe de brigadistes. Il sera séquestré deux mois avant d’être exécuté. Buongiorno, notte est le récit de cet emprisonnement dans un appartement romain, sorte de huis clos où à l’enfermement physique du leader politique correspondrait celui, idéologique, de ses jeunes ravisseurs.
Chiara (Maya Sansa), Mariano (Luigi Lo Cascio) et deux autres «camarades» sont les kidnappeurs, mais c’est essentiellement au travers du regard de la première, comme le suggère joliment l’affiche du film, que le drame est éprouvé. Regard jeune, fragile et en violence, qui exprime toutes les contradictions de ces activistes nourris aux mamelles d’un communisme italien prégnant depuis la Libération, mais ici fourvoyé. Regard mûri et radicalisé depuis le précédent printemps rouge, quand, en mai 68, toute une jeunesse exprima comme ailleurs, spontanément, ses idéaux et sa soif de liberté. Regard en doute, enfin, d’une jeune femme chez qui la ferveur communiste quasi-religieuse ne parvient pas à masquer l’horreur du meurtre.
Saluons le réalisateur, admirablement servi par son actrice (récemment remarquée en France dans l’excellentissime Nos meilleures années) et ses acteurs (Luigi Lo Cascio, tout aussi excellent, découvert dans ce même chef d’œuvre). Car il n’est certainement pas aisé de livrer un travail sur un événement encore si présent et enjeu de mémoire, de faire primer l’humain sur le politique tout en bridant tant que faire se peut ses propres opinions. Car aucun camp n’est choisi dans le film, sinon une sympathie générale pour des individus pris dans l’histoire, leurs choix et leurs impasses. Ses accointances avec les idéaux rouges, Bellocchio, un temps activiste maoïste, auteur des Poings dans la poche (1965), film précurseur de mai 68, ne les a jamais cachées. Tout comme, aujourd’hui, ses sentiments vont vers les militants altermondialistes, autre expression d’une jeunesse croyant toujours en les vertus du refus. Mais cette sympathie ne se veut pas complice et n’excuse en rien l’erreur terroriste, erreur morale avant que d’être vouée à l’échec.
Buongiorno, notte mêle intelligemment toute ces problématiques, mises en relief pas un jeu habile cousant ensemble le réel (des images d’époque et le sujet général du film) et l’onirisme (les escapades nocturnes du politicien dans l’appartement, quand ses ravisseurs sont assoupis, et la fuite finale). Preuve, s’il en est, et un bel enseignement pour une société française supportant mal son passé, que la meilleure façon de ne plus craindre ses propres fantômes, est de jouer avec eux.
Bellocchio y ajoute ses interrogations les plus intimes, sur la religion et son travers, le fanatisme. Les brigadistes ne sont-ils pas au communisme ce que l’islamisme est à l’islam ? : des poètes ayant mal tourné et préférant l’aveuglement à l’éclairement d’une religion sinon douce et maternelle. C’est ce que semble dire le banquet familial qui, au milieu du film, rassemble une Italie bourgeoise et ouvrière dans le chant du printemps rouge. Autre axe qui parcourt l’œuvre du cinéaste, le rapport aux parents. Après le procès en béatification dans Le Sourire de ma mère (2001), le réalisateur revient ici au père dont Aldo Moro peut être vu comme une incarnation.
Bref, un film riche en plus d’être beau et superbement joué. Les tons ocres, accentués par des contrastes poussés, concourent à renforcer, dans l’appartement du drame, une impression d’étouffement et de sortie du réel, scène où la nuit et le jour, antagonistes mais inséparables, combattent à armes égales… Pour finir de convaincre de se procurer ce film, ajoutons que le DVD est riche en bonus passionnants : un documentaire autour du réalisateur, de son œuvre et des Brigades rouges, un entretien sur France Inter, un abécédaire faisant clairement le point sur les B.R. et des biographies étoffées du réalisateur et des acteurs.