Adnkronos Cultura
A ROMA APPUNTAMENTO CON AMORE E PSICHE
Terzo appuntamento della rassegna "Al museo con il direttore", organizzata a Palazzo Braschi: il 19 febbraio, alle ore 16.00, il responsabile Maria Elisa Tittoni illustrerà gli affreschi di "Amore e Psiche" che decoravano, anticamente, la loggia di Palazzo Borghese a Montecavallo. Una dissertazione di mezzora per descrivere il mito cantato da Apuleio ne "l'Asino d'oro".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 18 febbraio 2005
Washington University
l'area del sesto senso
Ansa.it Salute 18.02.2005 - 10:02:11
Scoperta nel cervello l'origine del sesto senso
Silvia Nava
Il sesto senso esiste, e risiede nella corteccia cingolata anteriore del cervello, in una regione tra i due emisferi.
La scoperta, merito di un gruppo di scienziati della Washington University, potrebbe avere risvolti in ambito psichiatrico, spiegando l'origine neurologica di comportamenti anomali comuni nei pazienti schizofrenici e con disturbi ossessivo-conpulsivi.
I ricercatori infatti hanno dimostrato che la corteccia cingolata, oltre a essere sede decisionale del cervello, è in grado di avvertirci a livello inconscio che qualcosa non va, che una nostra azione potrebbe avere effetti deleteri o che l'ambiente in cui ci troviamo potrebbe regalarci qualche spiacevole sorpresa.
Per dimostrarlo gli esperti hanno coinvolto dei giovani sani in esercizi di rapidità con colori e frecce al computer.
Prova dopo prova i ragazzi hanno preso a sbagliare meno, come se il loro cervello avesse scoperto il trucco del gioco; dalla risonanza magnetica funzionale i ricercatori hanno notato un aumento di attività della corteccia cingolata anteriore.
Ciò significa che in caso di difficoltà la corteccia si mette in moto, senza che l’individuo se ne accorga, per migliorare i riflessi e sfuggire agli errori.
Negli schizofrenici alcune anomalie strutturali della corteccia potrebbero impedire questo meccanismo, e portare a comportamenti anomali. Viceversa, hanno concluso gli esperti, un eccessivo funzionamento di questo allarme inconscio potrebbe spiegare perché gli individui ossessivo-compulsivi vedono il pericolo laddove non esiste.
La Gazzetta del Mezzogiorno 18.2.05
«Il sesto senso è nella corteccia cingolata»
E' una sede decisionale del cervello, ovvero il circuito che ci aiuta a formulare scelte cruciali, ben ponderate perchè questa corteccia è crocevia tra ragione ed emozioni nonchè sede di ragionamenti complessi
ROMA - Il sesto senso esiste e risiede nel cervello in una regione tra i due emisferi.
La scoperta, riportata sulla rivista americana Science, è degli scienziati della Washington University a St. Louis e indica come sede del sesto senso la corteccia cingolata anteriore.
Qui risiede un sistema di allarme che ci avverte per tempo quando qualcosa non va o quando qualche nostra azione potrebbe compromettere la nostra incolumità, ha spiegato Joshua Brown; si tratta di un circuito che ci dà informazioni per aggiustare la rotta dei nostri comportamenti e metterci al riparo dai pericoli.
La scoperta può avere risvolti in ambito psichiatrico perchè potrebbe spiegare l'origine neurologica di comportamenti anomali comuni nei pazienti schizofrenici e con disturbi ossessivo-conpulsivi.
In effetti la corteccia cingolata è una vecchia conoscenza dei neurologi perchè in alcune malattie proprio come la schizofrenia e nei disturbi ossessivo-compulsivi può essere anatomicamente diversa rispetto alle persone sane.
Inoltre tempo addietro la corteccia cingolata è stata riconosciuta sede decisionale del cervello, ovvero il circuito che ci aiuta a formulare scelte cruciali, ben ponderate perchè questa corteccia è crocevia tra ragione ed emozioni nonchè sede di ragionamenti complessi.
In questo studio i ricercatori hanno dimostrato che la corteccia cingolata anteriore fa molto di più avvertendoci a livello inconscio che qualcosa non va, che una nostra azione potrebbe avere effetti deleteri o che l'ambiente in cui ci troviamo è in maniera anche impercettibile diverso dal solito e potrebbe regalarci qualche spiacevole sorpresa.
Per dimostrarlo gli esperti hanno coinvolto dei giovani sani. Di fronte a un computer gli individui dovevano guardare un pallino o bianco o blu divenire una freccia in un batter d'occhio. La freccia si poteva muovere sullo schermo in due direzioni opposte. Il compito dei ragazzi era di tenersi allerta e spingere un bottone a seconda della direzione presa dalla freccia. A complicare le cose di tanto in tanto faceva la sua comparsa una seconda freccia e in questi casi i giovani avevano il compito di indicare la direzione presa dalla prima freccia spingendo i pulsanti in maniera invertita rispetto al solito, pena l'errore.
Ma questa complicazione non era decisa per far venir loro il mal di testa, bensì per creare una situazione di conflitto.
Tra l'altro in tutto il gioco c'era un trucco di cui i giovani erano stati tenuti all'oscuro: quando il pallino iniziale era blu con molta probabilità sarebbe comparsa la seconda freccia di disturbo.
Ebbene, prova dopo prova, i ragazzi hanno preso a sbagliare di meno come se il loro cervello avesse scoperto il trucchetto del colore, anche se consciamente i ragazzi non se ne erano accorti. Via via che le loro performance miglioravano i ricercatori, che stavano spiando il cervello dei volontari con la risonanza magnetica funzionale, notavano un aumento di attività della corteccia cingolata anteriore in concomitanza della comparsa della freccia ingannatrice.
Ciò significa, ha dedotto Brown, che tale corteccia impara a sentire odore di inganno e si mette in moto avvertendo la persona di cambiare istantaneamente comportamento (in questo caso di spingere il bottone opposto).
L'individuo non prende coscienza di questo cambiamento imminente ma i suoi riflessi migliorano e questo nella vita reale significa che il sistema endogeno ha dato l'allarme in tempo per sfuggire a un errore.
Se, com'è possibile viste le anomalie strutturali di questa corteccia, negli schizofrenici ciò non avviene loro possono andare incontro a comportamenti anomali. Viceversa, hanno concluso gli esperti, un eccessivo funzionamento di questo allarme inconscio potrebbe spiegare perchè gli individui ossessivo-compulsivi vedono il pericolo laddove non esiste.
CERVELLO: STRATA, SESTO SENSO SPIEGA AZIONI SCHIZOFRENIA
Non voglio fare una cosa ma la faccio, perchè privo di un freno inibitorio: forse questa condizione, tipica di schizofrenici o persone con disturbi ossessivo-compulsivi, si basa su anomalie della corteccia cingolata.
E’ la possibilità che si intravede nella scoperta dell’area del sesto senso che la rivista Science pubblicherà domani, ha riferito in un commento alla notizia Piergiorgio Strata del Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Fisiologia, dell’Università di Torino.
La scoperta è dunque molto importante, ha concluso Strata, ma non è certo foriera di alcuna applicazione in campo medico nell’immediato; tuttavia potrebbe in futuro facilitare la diagnosi di certe malattie e indicare ai medici in quale regione del cervello dei pazienti concentrare l’attenzione alla ricerca di anomalie e disfunzioni. Ma a lungo termine, ha auspicato Strata, la scoperta americana potrebbe fornire le basi per nuove terapie che ripristinino il corretto funzionamento di questa regione corticale, sia farmacologicamente sia con la stimolazione magnetica transcraniale già oggi usata in alcuni centri mondiali per curare la depressione.
I ricercatori dell’Università di Washington hanno trovato che ci serviamo della corteccia cingolata anteriore per predire se compiremo un’azione sbagliata o giusta e quindi in un certo qual modo questa regione ci avverte di ciò che andremo a fare dandoci una chance in piu per correggerci prima che sia troppo tardi.
In alcuni individui schizofrenici, ha suggerito Strata, un’anomala attività della corteccia cingolata anteriore potrebbe impedire di valutare la bontà di certi comportamenti e lasciare che l’individuo agisca sulla base delle emozioni o come obbligato da un Io imperativo. Da queste situazioni potrebbero ad esempio scaturire atti criminosi.
Inoltre, ha aggiunto Strata, questa regione corticale ha un ruolo di collegamento tra ragionamento e risposte emotive, quindi a maggior ragione potrebbe essere importante per tenere a bada le reazioni istintive ed evitare comportamenti sbagliati e pericolosi dettati dall’impulso del momento
Scoperta nel cervello l'origine del sesto senso
Silvia Nava
Il sesto senso esiste, e risiede nella corteccia cingolata anteriore del cervello, in una regione tra i due emisferi.
La scoperta, merito di un gruppo di scienziati della Washington University, potrebbe avere risvolti in ambito psichiatrico, spiegando l'origine neurologica di comportamenti anomali comuni nei pazienti schizofrenici e con disturbi ossessivo-conpulsivi.
I ricercatori infatti hanno dimostrato che la corteccia cingolata, oltre a essere sede decisionale del cervello, è in grado di avvertirci a livello inconscio che qualcosa non va, che una nostra azione potrebbe avere effetti deleteri o che l'ambiente in cui ci troviamo potrebbe regalarci qualche spiacevole sorpresa.
Per dimostrarlo gli esperti hanno coinvolto dei giovani sani in esercizi di rapidità con colori e frecce al computer.
Prova dopo prova i ragazzi hanno preso a sbagliare meno, come se il loro cervello avesse scoperto il trucco del gioco; dalla risonanza magnetica funzionale i ricercatori hanno notato un aumento di attività della corteccia cingolata anteriore.
Ciò significa che in caso di difficoltà la corteccia si mette in moto, senza che l’individuo se ne accorga, per migliorare i riflessi e sfuggire agli errori.
Negli schizofrenici alcune anomalie strutturali della corteccia potrebbero impedire questo meccanismo, e portare a comportamenti anomali. Viceversa, hanno concluso gli esperti, un eccessivo funzionamento di questo allarme inconscio potrebbe spiegare perché gli individui ossessivo-compulsivi vedono il pericolo laddove non esiste.
La Gazzetta del Mezzogiorno 18.2.05
«Il sesto senso è nella corteccia cingolata»
E' una sede decisionale del cervello, ovvero il circuito che ci aiuta a formulare scelte cruciali, ben ponderate perchè questa corteccia è crocevia tra ragione ed emozioni nonchè sede di ragionamenti complessi
ROMA - Il sesto senso esiste e risiede nel cervello in una regione tra i due emisferi.
La scoperta, riportata sulla rivista americana Science, è degli scienziati della Washington University a St. Louis e indica come sede del sesto senso la corteccia cingolata anteriore.
Qui risiede un sistema di allarme che ci avverte per tempo quando qualcosa non va o quando qualche nostra azione potrebbe compromettere la nostra incolumità, ha spiegato Joshua Brown; si tratta di un circuito che ci dà informazioni per aggiustare la rotta dei nostri comportamenti e metterci al riparo dai pericoli.
La scoperta può avere risvolti in ambito psichiatrico perchè potrebbe spiegare l'origine neurologica di comportamenti anomali comuni nei pazienti schizofrenici e con disturbi ossessivo-conpulsivi.
In effetti la corteccia cingolata è una vecchia conoscenza dei neurologi perchè in alcune malattie proprio come la schizofrenia e nei disturbi ossessivo-compulsivi può essere anatomicamente diversa rispetto alle persone sane.
Inoltre tempo addietro la corteccia cingolata è stata riconosciuta sede decisionale del cervello, ovvero il circuito che ci aiuta a formulare scelte cruciali, ben ponderate perchè questa corteccia è crocevia tra ragione ed emozioni nonchè sede di ragionamenti complessi.
In questo studio i ricercatori hanno dimostrato che la corteccia cingolata anteriore fa molto di più avvertendoci a livello inconscio che qualcosa non va, che una nostra azione potrebbe avere effetti deleteri o che l'ambiente in cui ci troviamo è in maniera anche impercettibile diverso dal solito e potrebbe regalarci qualche spiacevole sorpresa.
Per dimostrarlo gli esperti hanno coinvolto dei giovani sani. Di fronte a un computer gli individui dovevano guardare un pallino o bianco o blu divenire una freccia in un batter d'occhio. La freccia si poteva muovere sullo schermo in due direzioni opposte. Il compito dei ragazzi era di tenersi allerta e spingere un bottone a seconda della direzione presa dalla freccia. A complicare le cose di tanto in tanto faceva la sua comparsa una seconda freccia e in questi casi i giovani avevano il compito di indicare la direzione presa dalla prima freccia spingendo i pulsanti in maniera invertita rispetto al solito, pena l'errore.
Ma questa complicazione non era decisa per far venir loro il mal di testa, bensì per creare una situazione di conflitto.
Tra l'altro in tutto il gioco c'era un trucco di cui i giovani erano stati tenuti all'oscuro: quando il pallino iniziale era blu con molta probabilità sarebbe comparsa la seconda freccia di disturbo.
Ebbene, prova dopo prova, i ragazzi hanno preso a sbagliare di meno come se il loro cervello avesse scoperto il trucchetto del colore, anche se consciamente i ragazzi non se ne erano accorti. Via via che le loro performance miglioravano i ricercatori, che stavano spiando il cervello dei volontari con la risonanza magnetica funzionale, notavano un aumento di attività della corteccia cingolata anteriore in concomitanza della comparsa della freccia ingannatrice.
Ciò significa, ha dedotto Brown, che tale corteccia impara a sentire odore di inganno e si mette in moto avvertendo la persona di cambiare istantaneamente comportamento (in questo caso di spingere il bottone opposto).
L'individuo non prende coscienza di questo cambiamento imminente ma i suoi riflessi migliorano e questo nella vita reale significa che il sistema endogeno ha dato l'allarme in tempo per sfuggire a un errore.
Se, com'è possibile viste le anomalie strutturali di questa corteccia, negli schizofrenici ciò non avviene loro possono andare incontro a comportamenti anomali. Viceversa, hanno concluso gli esperti, un eccessivo funzionamento di questo allarme inconscio potrebbe spiegare perchè gli individui ossessivo-compulsivi vedono il pericolo laddove non esiste.
CERVELLO: STRATA, SESTO SENSO SPIEGA AZIONI SCHIZOFRENIA
Non voglio fare una cosa ma la faccio, perchè privo di un freno inibitorio: forse questa condizione, tipica di schizofrenici o persone con disturbi ossessivo-compulsivi, si basa su anomalie della corteccia cingolata.
E’ la possibilità che si intravede nella scoperta dell’area del sesto senso che la rivista Science pubblicherà domani, ha riferito in un commento alla notizia Piergiorgio Strata del Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Fisiologia, dell’Università di Torino.
La scoperta è dunque molto importante, ha concluso Strata, ma non è certo foriera di alcuna applicazione in campo medico nell’immediato; tuttavia potrebbe in futuro facilitare la diagnosi di certe malattie e indicare ai medici in quale regione del cervello dei pazienti concentrare l’attenzione alla ricerca di anomalie e disfunzioni. Ma a lungo termine, ha auspicato Strata, la scoperta americana potrebbe fornire le basi per nuove terapie che ripristinino il corretto funzionamento di questa regione corticale, sia farmacologicamente sia con la stimolazione magnetica transcraniale già oggi usata in alcuni centri mondiali per curare la depressione.
I ricercatori dell’Università di Washington hanno trovato che ci serviamo della corteccia cingolata anteriore per predire se compiremo un’azione sbagliata o giusta e quindi in un certo qual modo questa regione ci avverte di ciò che andremo a fare dandoci una chance in piu per correggerci prima che sia troppo tardi.
In alcuni individui schizofrenici, ha suggerito Strata, un’anomala attività della corteccia cingolata anteriore potrebbe impedire di valutare la bontà di certi comportamenti e lasciare che l’individuo agisca sulla base delle emozioni o come obbligato da un Io imperativo. Da queste situazioni potrebbero ad esempio scaturire atti criminosi.
Inoltre, ha aggiunto Strata, questa regione corticale ha un ruolo di collegamento tra ragionamento e risposte emotive, quindi a maggior ragione potrebbe essere importante per tenere a bada le reazioni istintive ed evitare comportamenti sbagliati e pericolosi dettati dall’impulso del momento
dall'OPG di Castiglione dello Stiviere
La Provincia di Como 18.2.05
Il caso E nella prima visita racconta: «Ho sofferto tanto, mi sono sentita a disagio e non all'altezza fin da quando ero piccola» Caleffi: isolata anche nel centro senza celle L'avvocato Papa: «Pensava di essere trattata come gli altri pazienti. E' chiusa in stanza come al Sant'Anna»
Sonya Caleffi ha confessato di aver ucciso 4 pazienti all'ospedale di Lecco. Ma le procure di Lecco e Como indagano anche su altri casi
di Anna Savini
Sonya sta male anche a Castiglion delle Stiviere. Le avevano detto che il centro aveva la piscina, che poteva avere il parrucchiere gratis, che sarebbe andata in gita quasi tutti i giorni, che avrebbe potuto dipingere e frequentare i corsi dell'atelier, andare al ristorante e al bar, che avrebbe insomma potuto usufruire di tutti i servizi dell'ospedale psichiatrico giudiziario compatibilmente alla scansione dei ritmi e dei tempi delle terapie. Ma Sonya non è una paziente come tutti gli altri, Sonya è all'ospedale psichiatrico giudiziario con un permesso speciale non per una sentenza definitiva che l'ha dichiarata inferma di mente. Di solito che viene internato nel centro immerso nel verde delle colline mantovane è già passato attraverso un processo, o meglio da una sentenza che ha stabilito la sua colpevolezza ma anche l'incapacità di intendere e volere al momento dei fatti. L'infermiera è lì perché la giustizia deve ancora fare il suo corso, deve stabilire quante sono le morti che ha causato ma soprattutto se c'era premeditazione oppure se l'unica ragione per cui ha ucciso era la follia. Quella sorta di delirio che la portava a pensare che solo causando crisi nei pazienti che erano sotto la sua responsabilità avrebbe potuto in qualche modo far vedere quanto fosse brava a cercare di risolverle. Sonya è lì perché i 7 psichiatri che la visiteranno in questi mesi - Ugo Fornari, nominato dalla procura, Massimo Picozzi, ingaggiato dalla famiglia, e gli altri 5 consulenti nominati dalle vittime - non potevano starci tutti nella stanzetta al settimo piano del Sant'Anna dove l'infermiera di Tavernerio è rimasta rinchiusa per quasi due mesi. L'unico centro adatto al suo ricovero e a ricevere l'equipe di psichiatri, più i legali della Caleffi Claudio Rea e Renato Papa, era Castiglione delle Stiviere. Ma questo non basta per fare di Sonya una paziente come tutti gli altri. «Ma di questo - dice l'avvocato Papa - se ne è accorta solo durante la prima visita della perizia psichiatrica. L'abbiamo trovata scoraggiata e giù di morale e noi stessi siamo rimasti sorpresi di trovarla in una stanza isolata dalla quale può uscire solo chiedendo il permesso. L'unica sotto sorveglianza nel carcere famoso per non avere né celle né carcerieri». Dal primo colloquio con gli psichiatri è emerso che Sonya è sempre stata male, fin da piccolina. L'infermiera ha raccontato che aveva paura che la madre morisse e ha ricordato che si svegliava nel cuore della notte per controllare che fosse ancora viva. A questa infanzia carica di angosce è seguita un'adolescenza piena di frustrazioni. Perché Sonya, che è molto alta, all'epoca era anche robusta e i compagni usavano il suo aspetto fisico per ferirla. «Mi chiamavano pallone, bomba e io ne soffrivo - ha raccontato ai periti -. L'anoressia è nata da lì». Il rifiuto del cibo e il controllo del peso non hanno fatto altro che peggiorare il suo malessere perché ora Sonya piaceva ai ragazzi ma non riusciva mai ad amare nessuno di loro fino in fondo. «Anche quando credette di aver trovato l'uomo della sua vita e si sposò giovane fu come una fuga dalla famiglia per diventare indipendente - racconta Papa -, ma poi andò a vivere vicino alla suocera e il matrimonio naufragò peggiorando quel senso di inadeguatezza, di frustrazione, insicurezza che è un punto ricorrente della vita di questa ragazza». Questo ha colpito i periti, il fatto che Sonya alternava momenti di entusiasmo in cui si lanciava a capofitto nei suoi obiettivi «con una ricerca spasmodica di una posizione sociale che la facesse sentire più forte, realizzata e all'altezza degli altri» e crisi di depressione profonda quando l'obiettivo era stato centrato. E' in questo stato che la Caleffi è arrivata al suo girovagare negli ospedali alla ricerca di un lavoro per uscire dalla depressione e subito dopo senza più un lavoro perso a causa della sua ansia di strafare e dalle sue assenze dovute alla depressione. Ma questo è un capitolo ancora inesplorato che sarà affrontato nella seconda visita, fissata per il 19 marzo.
Il caso E nella prima visita racconta: «Ho sofferto tanto, mi sono sentita a disagio e non all'altezza fin da quando ero piccola» Caleffi: isolata anche nel centro senza celle L'avvocato Papa: «Pensava di essere trattata come gli altri pazienti. E' chiusa in stanza come al Sant'Anna»
Sonya Caleffi ha confessato di aver ucciso 4 pazienti all'ospedale di Lecco. Ma le procure di Lecco e Como indagano anche su altri casi
di Anna Savini
Sonya sta male anche a Castiglion delle Stiviere. Le avevano detto che il centro aveva la piscina, che poteva avere il parrucchiere gratis, che sarebbe andata in gita quasi tutti i giorni, che avrebbe potuto dipingere e frequentare i corsi dell'atelier, andare al ristorante e al bar, che avrebbe insomma potuto usufruire di tutti i servizi dell'ospedale psichiatrico giudiziario compatibilmente alla scansione dei ritmi e dei tempi delle terapie. Ma Sonya non è una paziente come tutti gli altri, Sonya è all'ospedale psichiatrico giudiziario con un permesso speciale non per una sentenza definitiva che l'ha dichiarata inferma di mente. Di solito che viene internato nel centro immerso nel verde delle colline mantovane è già passato attraverso un processo, o meglio da una sentenza che ha stabilito la sua colpevolezza ma anche l'incapacità di intendere e volere al momento dei fatti. L'infermiera è lì perché la giustizia deve ancora fare il suo corso, deve stabilire quante sono le morti che ha causato ma soprattutto se c'era premeditazione oppure se l'unica ragione per cui ha ucciso era la follia. Quella sorta di delirio che la portava a pensare che solo causando crisi nei pazienti che erano sotto la sua responsabilità avrebbe potuto in qualche modo far vedere quanto fosse brava a cercare di risolverle. Sonya è lì perché i 7 psichiatri che la visiteranno in questi mesi - Ugo Fornari, nominato dalla procura, Massimo Picozzi, ingaggiato dalla famiglia, e gli altri 5 consulenti nominati dalle vittime - non potevano starci tutti nella stanzetta al settimo piano del Sant'Anna dove l'infermiera di Tavernerio è rimasta rinchiusa per quasi due mesi. L'unico centro adatto al suo ricovero e a ricevere l'equipe di psichiatri, più i legali della Caleffi Claudio Rea e Renato Papa, era Castiglione delle Stiviere. Ma questo non basta per fare di Sonya una paziente come tutti gli altri. «Ma di questo - dice l'avvocato Papa - se ne è accorta solo durante la prima visita della perizia psichiatrica. L'abbiamo trovata scoraggiata e giù di morale e noi stessi siamo rimasti sorpresi di trovarla in una stanza isolata dalla quale può uscire solo chiedendo il permesso. L'unica sotto sorveglianza nel carcere famoso per non avere né celle né carcerieri». Dal primo colloquio con gli psichiatri è emerso che Sonya è sempre stata male, fin da piccolina. L'infermiera ha raccontato che aveva paura che la madre morisse e ha ricordato che si svegliava nel cuore della notte per controllare che fosse ancora viva. A questa infanzia carica di angosce è seguita un'adolescenza piena di frustrazioni. Perché Sonya, che è molto alta, all'epoca era anche robusta e i compagni usavano il suo aspetto fisico per ferirla. «Mi chiamavano pallone, bomba e io ne soffrivo - ha raccontato ai periti -. L'anoressia è nata da lì». Il rifiuto del cibo e il controllo del peso non hanno fatto altro che peggiorare il suo malessere perché ora Sonya piaceva ai ragazzi ma non riusciva mai ad amare nessuno di loro fino in fondo. «Anche quando credette di aver trovato l'uomo della sua vita e si sposò giovane fu come una fuga dalla famiglia per diventare indipendente - racconta Papa -, ma poi andò a vivere vicino alla suocera e il matrimonio naufragò peggiorando quel senso di inadeguatezza, di frustrazione, insicurezza che è un punto ricorrente della vita di questa ragazza». Questo ha colpito i periti, il fatto che Sonya alternava momenti di entusiasmo in cui si lanciava a capofitto nei suoi obiettivi «con una ricerca spasmodica di una posizione sociale che la facesse sentire più forte, realizzata e all'altezza degli altri» e crisi di depressione profonda quando l'obiettivo era stato centrato. E' in questo stato che la Caleffi è arrivata al suo girovagare negli ospedali alla ricerca di un lavoro per uscire dalla depressione e subito dopo senza più un lavoro perso a causa della sua ansia di strafare e dalle sue assenze dovute alla depressione. Ma questo è un capitolo ancora inesplorato che sarà affrontato nella seconda visita, fissata per il 19 marzo.
la ricerca britannica
la pillola
Yahoo! Salute giovedì 17 febbraio 2005
Ginecologia
La pillola? Cambia i gusti in fatto di uomini
Il Pensiero Scientifico Editore
David Frati
L'uso della pillola anticoncezionale? Secondo alcuni studiosi cambia i gusti delle donne in fatto di uomini. Gli psicologi dell'University of St. Andrews in Scozia hanno chiesto a 1570 giovani donne che usavano un contraccettivo orale e a 1325 che non ne usavano di scegliere tra una serie di immagini di volti maschili, prima presentate con una luce che li faceva sembrare in buona salute e coloriti, e poi con una luce che li faceva sembrare pallidi ed emaciati.
Considerando le ragazze nel loro complesso, hanno scelto in maggioranza i volti più 'in salute', ma tra le donne che fanno uso di contraccettivi orali la percentuale è salita alle stelle: "Hanno espresso un'attrazione più forte per la salute", notano i ricercatori.
E questo approccio, secondo i dati di Ben Jones e David Perrett, leader del team, è più marcato durante la fase di post-ovulazione del ciclo mestruale o durante la gravidanza: "Nel complesso, questi dati suggeriscono che l'aumento dell'attrazione verso le facce apparentemente in salute coincide con condizioni che sono caratterizzate da alti livelli di progesterone, più che da condizioni di elevata fertilità".
La tesi suggerita dagli scienziati scozzesi è che le donne potrebbero aver evoluto delle strategie comportamentali, indotte da livelli elevati di progesterone, per ridurre il rischio di infezioni che possano essere pericolose per il feto che durante il suo sviluppo ha un sistema immunitario molto fragile.
Ginecologia
La pillola? Cambia i gusti in fatto di uomini
Il Pensiero Scientifico Editore
David Frati
L'uso della pillola anticoncezionale? Secondo alcuni studiosi cambia i gusti delle donne in fatto di uomini. Gli psicologi dell'University of St. Andrews in Scozia hanno chiesto a 1570 giovani donne che usavano un contraccettivo orale e a 1325 che non ne usavano di scegliere tra una serie di immagini di volti maschili, prima presentate con una luce che li faceva sembrare in buona salute e coloriti, e poi con una luce che li faceva sembrare pallidi ed emaciati.
Considerando le ragazze nel loro complesso, hanno scelto in maggioranza i volti più 'in salute', ma tra le donne che fanno uso di contraccettivi orali la percentuale è salita alle stelle: "Hanno espresso un'attrazione più forte per la salute", notano i ricercatori.
E questo approccio, secondo i dati di Ben Jones e David Perrett, leader del team, è più marcato durante la fase di post-ovulazione del ciclo mestruale o durante la gravidanza: "Nel complesso, questi dati suggeriscono che l'aumento dell'attrazione verso le facce apparentemente in salute coincide con condizioni che sono caratterizzate da alti livelli di progesterone, più che da condizioni di elevata fertilità".
La tesi suggerita dagli scienziati scozzesi è che le donne potrebbero aver evoluto delle strategie comportamentali, indotte da livelli elevati di progesterone, per ridurre il rischio di infezioni che possano essere pericolose per il feto che durante il suo sviluppo ha un sistema immunitario molto fragile.
Fonte: University of St. Andrews
SU RADIORAI 1 OGGI ALLE 15.37
un'intervista radiofonica di Fausto Bertinotti
Il ComuniCattivo comunica
Radio 1 Rai: Fausto Bertinotti al “Confessionale del ComuniCattivo”
“Se penso ai miei maestri sento la distanza”
Anticipa anche il suo nuovo libro sull’Europa in uscita entro l’autunno
È difficile una separazione così netta, perché quando la politica entra così a caratterizzare una vita intera, è evidente che è non è semplice dire cosa c’è al di là. Persino gli affetti, gli amori, i figli sono segnati in qualche modo da questo elemento così pervasivo e, quindi, anche gli interessi. In ogni caso, se proprio dovessi provare a dire qualcosa, certamente la lettura anche perché da generazioni la lettura e la scrittura sono gli elementi fondamentali della comunicazione. Anche proprio nella densità di un oggetto, non solo per quello che c’è scritto. Questa scrittura segna così tanto un’esperienza che io ancora oggi uso matita e penna stilografica. Per dire appunto che c’è un carattere anche tattile che riguarda il libro e gli strumenti della scrittura. Quindi il libro certamente.
Che tipo di libri?
Sono letture disordinatissime. Sempre per tratto generazionale io sono per la scelta del libro nella bancarella, nella libreria sfogliandolo, guardandolo. Le ragioni dell’attrazione sono così numerose e complesse che è difficile codificarle. Poi molti anni fa dopo un dibattito con un teologo, che mi aveva sempre impressionato per livello culturale e per capacità di interpretazione e di analisi, camminavamo e mi disse “noi abbiamo la fortuna di poter leggere senza dover pensare all’utilizzo della lettura” cioè, direi io, leggere sprecando. E questo secondo me è l’unico modo che conosco, ce ne sono altri scientificamente costruiti ma il mio modo è questo. Invidio chi legge disinteressatamente.
Le piace anche scrivere. Che cosa scrive?
Scrivo molto, ho scritto molto, però sempre con fatica. Da questo punto di vista appartengo di più agli animali orali.
Sta preparando qualcosa?
Stiamo lavorando adesso con Alfonso Giani a un libro sull’Europa.
Quando uscirà?
Questo lo deciderà un po’ l’editore. Credo tra l’estate e i primi d’autunno. E’ edito da “Le Grazie” del gruppo Longanesi.
Di che cosa parlerà questo libro?
Dell’Europa che vorrei, della critica all’Europa così com’è, del grande bisogno di Europa che incontri nella tua vita quotidiana. Noi qui e io penso anche quelli di là negli altri mondi. Un’Europa che sia una specie di grande ponte nel mondo, un luogo della traduzione delle lingue, un’Europa di pace e di un altro modello sociale. Fare qualche ragionamento perché la politica non sia semplicemente uno scontro di schieramenti.
Dove va e che cosa fa quando vuole isolarsi per meditare?
No, non esiste. Ho sempre lavorato e scritto in mezzo a relazioni. Lo studio ottocentesco separato dal gruppo familiare oltre che dalla società non dico che non mi piacerebbe, ma anche quando dispongo di uno spazio è difficile che sia quello il luogo della scrittura.
Quindi non andrebbe sull’Himalaya?
No, assolutamente. Poi da questo punto di vista nella scherzosa diatriba duale tra montagna e mare io appartengo a quelli del mare.
Qual è l’uomo politico attuale che più stima?
Per disciplina mentale non faccio gerarchie. Appartengo a una cultura che ha una vocazione egualitaria.
Il politico attuale con cui è più in disaccordo non glielo chiedo perché penso di saperlo…
Ma sì, ma solo perché è così noto non è neanche detto che sia lui. Può essere che ce ne siano persino di più, naturalmente da quelle parti.
Soltanto che sono meno noti…
Sì, e comunque quello è un punto di rilevante contrapposizione politica. Non tanto per i singoli atti ma per una sorta di idea generale del mondo della politica e degli uomini. Sempre in questo solco appartengo a chi pensa che la politica sia fatta di grandi scelte e il discrimine tra destra e sinistra secondo me ancora oggi è molto significativo.
Quali sono i rischi della personalizzazione della politica?
Un cumulo di rischi. Il peggiore credo sia quello di distrarsi dal fatto che la politica, quando è alta, è vissuta e partecipata da un grande numero di persone. E la personalizzazione della politica può indirizzare invece verso l’idea della delega, verso il fatto che si possa in qualche modo supplire alla partecipazione di massa attraverso “l’intervento” superiore di un’entità dotata di soldi, di carisma. Qualsiasi cosa lo connoti personalisticamente è, secondo me, una ferita alla politica. Naturalmente non lo dico soltanto perché per un lungo periodo ho militato sulla tesi che la storia fosse leggibile soltanto come lotta di classe, come grandi rivolgimenti, necessità storiche che si affacciano. Penso ora che anche le persone, e quindi le personalità nella storia, abbiano un’incidenza ma penso che la partecipazione alla democrazia debba sorvegliare criticamente ogni forma di potere che si erige sopra di essa.
Sul politico che più stima non mi ha risposto però…
No, si può parlare solo di quelli morti.
Si fa sempre così…
Anche in un confessionale laico della politica non saprei dirlo, non è soltanto un elemento di prudenza. È che proprio non saprei perché non capisco la stessa gerarchia.
Con chi non andrebbe mai a cena?
Il Concilio Vaticano II è stato molto importante. Ha insegnato a distinguere tra l’errore e l’errante. E quindi con l’errante si può convivere, si può anche prendere un caffè. Ecco forse la cena è troppo.
Rischia di andare tutto per traverso…
A cena non sceglierei per via di politica ma per via di amicizia. Andrei a cena, come vado, con persone che non sono note nella scena politica ma che sono miei amici o amiche.
Che impressione le fa essere un modello della sinistra?
No, modello no. Una cosa gliela dico, per scherzo ma neanche tanto. “Siamo nani seduti sulle spalle dei giganti” diceva Bernard. E Dio solo sa quanto noi di questi tempi siamo nani seduti sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto che erano stati selezionati un altro periodo storico. Dalla Resistenza, dal Fascismo, da questo secondo dopoguerra straordinario, carico di passioni, di costituzioni vere, di veri scontri politici. Se io penso ai miei maestri, lo dico senza alcuna civetteria, sento la distanza. Potrei fare dei nomi da Riccardo Lombardi a Pietro Ingrao, per non parlare di Vittorio Foa, Palmiro Togliatti. Lì c’era una dimensione della politica che faceva impressione. Noi abbiamo avuto almeno questa fortuna: che siamo andati a scuola da questi giganti e adesso un po’ scherzando potrei dire che nel mondo dei ciechi l’orbo è un re. Quindi se uno è un protagonista di questa fase della vita politica non deve prendersi molto sul serio.
Quali sono le differenze politiche tra lei e i no global di Casarini e Caruso che lei appoggia?
Intanto i no global sono, come dice un filosofo, una moltitudine. Sono un movimento molto ampio. Lei ha citato alcuni nomi, peraltro molto diversi tra loro; ne potrei citare degli altri. La caratteristica fondamentale di questo movimento è stata quella di fare una specie di rivoluzione culturale. Si è pensato per un lungo periodo che per stare insieme bisognasse essere unitari cioè sostanzialmente portare un denominatore comune, una piattaforma di valori e obiettivi economico-sociali su cui organizzare la partecipazione. La rivoluzione culturale del movimento è che invece si sta insieme soltanto sulla base del fatto che io sono compatibile con te. Abbiamo obiettivi comuni, che per esempio la pace contro la guerra, e abbiamo anche forme di lotta comuni ma anche diverse. Il punto è che in questo raggio d’azione in cui stiamo tutti accettiamo la reciproca compatibilità. Nasce a Genova, in quelle straordinarie giornate in cui un movimento di giovani ha reagito pacificamente a una repressione di una violenza inaudita e sistematica. E lì si vedeva che potevano stare insieme le tute bianche, allora non si chiamavano disobbedienti ma tute bianche, e la suora che pregava a Bocca D’Asse. Perché l’uno sentiva l’altro come parte dello stesso movimento e viceversa. In questo senso io appartengo allo stesso movimento di quelli che lei ha citato seppure con diversità che sono evidenti.
Che cosa vuol dire essere alternativi oggi?
Io posso dire cosa vuol dire per me essere alternativi. Per me che appartengo a una lunga storia vuol dire essere contro il capitalismo, non soltanto contro i suoi effetti. Cioè risalire dagli effetti, come la precarietà, la disoccupazione, il disagio sociale, la mancanza di diritti, l’incertezza in un mondo violentato dalla guerra preventiva e dal terrorismo, la povertà tragica, i maremoti e le conseguenze così assurde che producono rispetto al possibile dispiegamento di tecniche, di scienze e tecnologie del tempo in cui viviamo, capire la causa motrice di questa ingiustizia. Secondo me la causa motrice è questo sistema, di cui la globalizzazione neo-liberista è oggi la sua espressione. Essere alternativi secondo me vuol dire avere l’ambizione di considerare questa società capitalistica come finita. Finita nel senso che può finire e che può un nuovo ordine sociale seguire a questa. Ed essere alternativi vuol dire lavorare a questo superamento. Per me naturalmente.
Come ha fatto a farsi accettare dalla massa operaia così com’è dai modi e dall’eloquio elegante e dall’abbigliamento firmato? Non c’è contraddizione tra ciò che professa e ciò che è?
Intanto c’è una storia. Io vengo da una famiglia operaia. Il mio papà era un macchinista delle ferrovie sulle macchine a vapore. Sono nato e cresciuto in un quartiere proletario nell’estrema periferia di Milano, dove Milano sfuma verso Sesto San Giovanni che allora si chiamava la Stalingrado d’Italia. E in quei prati dentro cui si costruivano fabbriche e in cui si incontravano soltanto facce di operai, delle loro e dei loro figli, io sono cresciuto. Quindi la mia storia è la storia di questo popolo. Mio padre era uno splendido vecchio socialista di tradizioni anarchiche e portava come segno distintivo una sobria ma coltivata eleganza pure attraverso i mezzi poverissimi di cui disponeva. Ricordo la sua scintillante nera valièr sulla camicia bianca incontaminata. E questo tratto ero lo stesso Di Vittorio il quale ai cafoni e ai braccianti delle Puglie disse “basta smettete il tabarro mettete il cappotto, fate vedere ai borghesi che potete portarlo con voi, con la dignità che vi compete”. E io penso che questa misura è assolutamente capita. La mia gente per molto tempo, prima della rivolta operaia studentesca del ‘68-’69 andava alle manifestazioni col vestito della festa.
Nell’era di Internet e della globalizzazione dei mercati che ruolo potrebbe avere il comunismo ora che anche la Cina ha aperto le frontiere ai commerci?
Noi abbiamo smesso di credere che il socialismo, il comunismo si potesse fare in un solo Paese. E dopo il crollo dei regimi dell’Est, indotto non solo da cause esterne alla competizione capitalistica ma anche da cause interne, da errori drammatici, si figuri se possiamo cadere nel tranello intellettuale di considerare la Cina piuttosto che un altro Paese depositario di questa prospettiva. L’altro mondo possibile di cui parla il movimento non si invera in una costruzione statuale, bensì in un movimento mondiale che nelle forme concrete che questo movimento sta prendendo lavora alla critica del potere statuale, come del mercato.
Che vuol dire oggi essere utopisti?
L’utopia può essere molte cose. Può essere una specie di consolazione per l’accettazione di una società altrimenti intollerabile oppure può essere una componente di un disegno di liberazione di sé di quelli con cui si vive, dell’umanità. L’utopia come premonizione, come segno, come sogno che, tuttavia, si poggia sulla concretezza di una vita e di una pratica sociale di critica dell’esistente, di collegamento con altre persone, di costruzioni di coalizioni, di persone, di lavoratori, di lavoratrici per cambiare le cose esistenti. In questo caso l’utopia io penso che possa accompagnare utilmente una crescita verso la liberazione. Così come il mito.
Chi sono i voltagabbana della politica?
Per definizione Davide Laiolo, un partigiano delle Langhe che fu anche direttore de “L’Unità”, scrisse un libro che si intitolava “Il voltagabbana”. Parlava di sé perché era stato combattente in Spagna, ma dalla parte dei franchisti, e poi combattente in Italia invece nelle fila della liberazione della resistenza dei partigiani, in un modo anche drammaticamente autoironico. In termini descrittivi, se non lo si dà come giudizio di valore tutti coloro che cambiano di campo.
Che cosa pensa degli adulatori?
Ovviamente penso molto male dell’adulazione. Ritorno sul punto di prima della divisione dell’errore e dell’errante. Dell’adulatore penso che sia una persona molto debole che cerca in qualche modo di entrare in un circuito per compensare le fragilità e le debolezze della sua vita. Non lo giustifico naturalmente; l’adulazione fa un po’ schifo, con l’adulatore invece bisogna cercare di capire da dove derivi questa fragilità e questa dipendenza.
Com’è il suo rapporto con i media?
Un bel combattimento; un corpo a corpo sempre vissuto a occhi spalancati perché appartengo a chi pensa che la tecnica e la scienza non siano neutrali. In questo sono molto segnato dalla cultura ‘68-’69, dalla scuola francofortese e, perché no, dalla straordinaria esperienza delle lotte dell’operaio comune di serie, dalla critica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Ho un atteggiamento molto critico nei confronti della scienza e della tecnica perché ne vedo, come nella macchina, il segno di dominio in cui essere incorporato. E quindi non mi sfugge che anche le tecniche della comunicazione possano sussumerti dentro, o almeno cercare, quella logica e quel linguaggio. Perciò è un corpo a corpo perché c’è sempre un residuo, ciò che resta fuori da questa fagocitazione, che è il lato creativo e uno cerca di svilupparlo più che più.
Trova che l’informazione sia troppo ossequiosa con i potenti come pensa il presidente Ciampi?
Secondo me lo è di più. Ma di più in un modo che forse non mi vede d’accordo con il presidente. Sono d’accordo con lui su questo tratto di ossequio nei confronti dei potenti, ma vorrei usare una categoria che oggi è meno pregnante perché è stata scossa dalle crescita dei movimenti di contestazione: quella che “Le Monde diplomatique” chiamava il pensiero unico. In un periodo come quello degli anni Novanta il pensiero unico è l’omologazione dei punti di vista, sostanzialmente tutti subalterni, a un’idea apologetica di quella rivoluzione capitalistica restauratrice che si chiama la globalizzazione. Ecco in quel caso non è semplicemente un ossequio dei potenti. È una dipendenza dai meccanismi di accumulazione, di appropriazione, di produzione e di dominio.
Che cos’è il potere?
Questa organizzazione dell’egemonia o del dominio di una classe sulle altre.
Crede nel destino?
No e potrei fermarmi.
Non è molto convinto…
No, perché sento sempre una problematicità, non l’elemento della predestinazione ma in qualche modo sotto traccia vivono anche degli elementi che non consentono di pensare come totalmente a disposizione della traiettoria della propria vita.
Qual è il suo rapporto con il tempo che passa?
Molto tranquillo e molto sereno. Naturalmente ci sono dei lampi o degli sprazzi di nostalgia, anche coltivata, per momenti della vita vissuta. Io potrei ricordare con stavo con mio padre e con mia madre, oppure con mia moglie e mio figlio in un particolare momento. Oppure quella straordinaria lotta con gli uomini e con le donne con cui hai combattuto quella battaglia vinta o persa. Comunque io penso che questi brandelli di memoria vadano coltivati, portati con sé, come un grande bagaglio o un libro da sfogliare perché poi questi momento possono essere diversi da un giorno all’altro proprio come la pagine di un libro che hai già letto e che puoi risfogliare. Questo bagaglio aiuta la serenità dello scorrere del tempo. Io la vedo così non sono per nulla inquieto nei confronti dell’invecchiamento, anche delle manifestazioni fisiche.
Com’è Bertinotti nel privato?
Spero, spero, spero fortissimamente che si possa dire di lui che è una persona tenera.
Agli inizi della sua carriera fin dove pensava di arrivare?
Da nessuna parte, assolutamente da nessuna parte. Avevo toccato il cielo con un dito quando mi chiamarono a Novara. Sa io quelle scale dove avevano calcato i piedi, e ancora li calcavano, leggendari comandanti partigiani che erano diventati prosaicamente segretari di una federazione di categoria, come di chi entra nel mondo degli eletti, quindi francamente mi basta e mi avanzava quella fortuna.
Chi è il suo migliore amico?
Non si dice, questo non si dice.
Il suo passatempo preferito?
Leggere, ma anche nuotare. Il rapporto con l’acqua è una cosa davvero fantastica. È l’accesso all’altro mondo.
Molto indiana come filosofia.
Purtroppo sei sempre lì che vorresti provare a essere capace di starci come un pesce in questo punto che non scavalchi mai, per quanto sott’acqua tu possa stare.
Che cosa non sopporta in televisione?
Il mezzo. La radio è una grande produzione. Noi stiamo chiacchierando e io mi sento relativamente libero. Se avessi un faro davanti agli occhi sarei più contratto. La radio è quasi, anzi, è più diretta del telefono. La radio è adorabile. Ecco un’altra che farei sempre è ascoltare la radio. Potrei stare in una casa senza televisione, lo dico senza alcun elitismo perché poi è uno strumento poderosissimo, guai a essere aristocraticamente supponenti. Però diciamo di mia pelle potrei starci in una casa senza tv, ma non senza la radio.
Qual è il suo sogno che vorrebbe realizzare?
Quello di sempre: liberi e uguali.
Radio 1 Rai: Fausto Bertinotti al “Confessionale del ComuniCattivo”
“Se penso ai miei maestri sento la distanza”
Anticipa anche il suo nuovo libro sull’Europa in uscita entro l’autunno
Il leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti interverrà oggi, venerdì 18 febbraio alle 15.37 su Radio 1 Rai al “Confessionale del ComuniCattivo” di Igor Righetti.Lei ha cominciato la sua attività politica da giovanissimo operando nella Cgil. È stato a lungo un sindacalista a tempo pieno. Ma al di là della politica che cosa l’appassiona?
Ecco un estratto dell’intervista.
È difficile una separazione così netta, perché quando la politica entra così a caratterizzare una vita intera, è evidente che è non è semplice dire cosa c’è al di là. Persino gli affetti, gli amori, i figli sono segnati in qualche modo da questo elemento così pervasivo e, quindi, anche gli interessi. In ogni caso, se proprio dovessi provare a dire qualcosa, certamente la lettura anche perché da generazioni la lettura e la scrittura sono gli elementi fondamentali della comunicazione. Anche proprio nella densità di un oggetto, non solo per quello che c’è scritto. Questa scrittura segna così tanto un’esperienza che io ancora oggi uso matita e penna stilografica. Per dire appunto che c’è un carattere anche tattile che riguarda il libro e gli strumenti della scrittura. Quindi il libro certamente.
Che tipo di libri?
Sono letture disordinatissime. Sempre per tratto generazionale io sono per la scelta del libro nella bancarella, nella libreria sfogliandolo, guardandolo. Le ragioni dell’attrazione sono così numerose e complesse che è difficile codificarle. Poi molti anni fa dopo un dibattito con un teologo, che mi aveva sempre impressionato per livello culturale e per capacità di interpretazione e di analisi, camminavamo e mi disse “noi abbiamo la fortuna di poter leggere senza dover pensare all’utilizzo della lettura” cioè, direi io, leggere sprecando. E questo secondo me è l’unico modo che conosco, ce ne sono altri scientificamente costruiti ma il mio modo è questo. Invidio chi legge disinteressatamente.
Le piace anche scrivere. Che cosa scrive?
Scrivo molto, ho scritto molto, però sempre con fatica. Da questo punto di vista appartengo di più agli animali orali.
Sta preparando qualcosa?
Stiamo lavorando adesso con Alfonso Giani a un libro sull’Europa.
Quando uscirà?
Questo lo deciderà un po’ l’editore. Credo tra l’estate e i primi d’autunno. E’ edito da “Le Grazie” del gruppo Longanesi.
Di che cosa parlerà questo libro?
Dell’Europa che vorrei, della critica all’Europa così com’è, del grande bisogno di Europa che incontri nella tua vita quotidiana. Noi qui e io penso anche quelli di là negli altri mondi. Un’Europa che sia una specie di grande ponte nel mondo, un luogo della traduzione delle lingue, un’Europa di pace e di un altro modello sociale. Fare qualche ragionamento perché la politica non sia semplicemente uno scontro di schieramenti.
Dove va e che cosa fa quando vuole isolarsi per meditare?
No, non esiste. Ho sempre lavorato e scritto in mezzo a relazioni. Lo studio ottocentesco separato dal gruppo familiare oltre che dalla società non dico che non mi piacerebbe, ma anche quando dispongo di uno spazio è difficile che sia quello il luogo della scrittura.
Quindi non andrebbe sull’Himalaya?
No, assolutamente. Poi da questo punto di vista nella scherzosa diatriba duale tra montagna e mare io appartengo a quelli del mare.
Qual è l’uomo politico attuale che più stima?
Per disciplina mentale non faccio gerarchie. Appartengo a una cultura che ha una vocazione egualitaria.
Il politico attuale con cui è più in disaccordo non glielo chiedo perché penso di saperlo…
Ma sì, ma solo perché è così noto non è neanche detto che sia lui. Può essere che ce ne siano persino di più, naturalmente da quelle parti.
Soltanto che sono meno noti…
Sì, e comunque quello è un punto di rilevante contrapposizione politica. Non tanto per i singoli atti ma per una sorta di idea generale del mondo della politica e degli uomini. Sempre in questo solco appartengo a chi pensa che la politica sia fatta di grandi scelte e il discrimine tra destra e sinistra secondo me ancora oggi è molto significativo.
Quali sono i rischi della personalizzazione della politica?
Un cumulo di rischi. Il peggiore credo sia quello di distrarsi dal fatto che la politica, quando è alta, è vissuta e partecipata da un grande numero di persone. E la personalizzazione della politica può indirizzare invece verso l’idea della delega, verso il fatto che si possa in qualche modo supplire alla partecipazione di massa attraverso “l’intervento” superiore di un’entità dotata di soldi, di carisma. Qualsiasi cosa lo connoti personalisticamente è, secondo me, una ferita alla politica. Naturalmente non lo dico soltanto perché per un lungo periodo ho militato sulla tesi che la storia fosse leggibile soltanto come lotta di classe, come grandi rivolgimenti, necessità storiche che si affacciano. Penso ora che anche le persone, e quindi le personalità nella storia, abbiano un’incidenza ma penso che la partecipazione alla democrazia debba sorvegliare criticamente ogni forma di potere che si erige sopra di essa.
Sul politico che più stima non mi ha risposto però…
No, si può parlare solo di quelli morti.
Si fa sempre così…
Anche in un confessionale laico della politica non saprei dirlo, non è soltanto un elemento di prudenza. È che proprio non saprei perché non capisco la stessa gerarchia.
Con chi non andrebbe mai a cena?
Il Concilio Vaticano II è stato molto importante. Ha insegnato a distinguere tra l’errore e l’errante. E quindi con l’errante si può convivere, si può anche prendere un caffè. Ecco forse la cena è troppo.
Rischia di andare tutto per traverso…
A cena non sceglierei per via di politica ma per via di amicizia. Andrei a cena, come vado, con persone che non sono note nella scena politica ma che sono miei amici o amiche.
Che impressione le fa essere un modello della sinistra?
No, modello no. Una cosa gliela dico, per scherzo ma neanche tanto. “Siamo nani seduti sulle spalle dei giganti” diceva Bernard. E Dio solo sa quanto noi di questi tempi siamo nani seduti sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto che erano stati selezionati un altro periodo storico. Dalla Resistenza, dal Fascismo, da questo secondo dopoguerra straordinario, carico di passioni, di costituzioni vere, di veri scontri politici. Se io penso ai miei maestri, lo dico senza alcuna civetteria, sento la distanza. Potrei fare dei nomi da Riccardo Lombardi a Pietro Ingrao, per non parlare di Vittorio Foa, Palmiro Togliatti. Lì c’era una dimensione della politica che faceva impressione. Noi abbiamo avuto almeno questa fortuna: che siamo andati a scuola da questi giganti e adesso un po’ scherzando potrei dire che nel mondo dei ciechi l’orbo è un re. Quindi se uno è un protagonista di questa fase della vita politica non deve prendersi molto sul serio.
Quali sono le differenze politiche tra lei e i no global di Casarini e Caruso che lei appoggia?
Intanto i no global sono, come dice un filosofo, una moltitudine. Sono un movimento molto ampio. Lei ha citato alcuni nomi, peraltro molto diversi tra loro; ne potrei citare degli altri. La caratteristica fondamentale di questo movimento è stata quella di fare una specie di rivoluzione culturale. Si è pensato per un lungo periodo che per stare insieme bisognasse essere unitari cioè sostanzialmente portare un denominatore comune, una piattaforma di valori e obiettivi economico-sociali su cui organizzare la partecipazione. La rivoluzione culturale del movimento è che invece si sta insieme soltanto sulla base del fatto che io sono compatibile con te. Abbiamo obiettivi comuni, che per esempio la pace contro la guerra, e abbiamo anche forme di lotta comuni ma anche diverse. Il punto è che in questo raggio d’azione in cui stiamo tutti accettiamo la reciproca compatibilità. Nasce a Genova, in quelle straordinarie giornate in cui un movimento di giovani ha reagito pacificamente a una repressione di una violenza inaudita e sistematica. E lì si vedeva che potevano stare insieme le tute bianche, allora non si chiamavano disobbedienti ma tute bianche, e la suora che pregava a Bocca D’Asse. Perché l’uno sentiva l’altro come parte dello stesso movimento e viceversa. In questo senso io appartengo allo stesso movimento di quelli che lei ha citato seppure con diversità che sono evidenti.
Che cosa vuol dire essere alternativi oggi?
Io posso dire cosa vuol dire per me essere alternativi. Per me che appartengo a una lunga storia vuol dire essere contro il capitalismo, non soltanto contro i suoi effetti. Cioè risalire dagli effetti, come la precarietà, la disoccupazione, il disagio sociale, la mancanza di diritti, l’incertezza in un mondo violentato dalla guerra preventiva e dal terrorismo, la povertà tragica, i maremoti e le conseguenze così assurde che producono rispetto al possibile dispiegamento di tecniche, di scienze e tecnologie del tempo in cui viviamo, capire la causa motrice di questa ingiustizia. Secondo me la causa motrice è questo sistema, di cui la globalizzazione neo-liberista è oggi la sua espressione. Essere alternativi secondo me vuol dire avere l’ambizione di considerare questa società capitalistica come finita. Finita nel senso che può finire e che può un nuovo ordine sociale seguire a questa. Ed essere alternativi vuol dire lavorare a questo superamento. Per me naturalmente.
Come ha fatto a farsi accettare dalla massa operaia così com’è dai modi e dall’eloquio elegante e dall’abbigliamento firmato? Non c’è contraddizione tra ciò che professa e ciò che è?
Intanto c’è una storia. Io vengo da una famiglia operaia. Il mio papà era un macchinista delle ferrovie sulle macchine a vapore. Sono nato e cresciuto in un quartiere proletario nell’estrema periferia di Milano, dove Milano sfuma verso Sesto San Giovanni che allora si chiamava la Stalingrado d’Italia. E in quei prati dentro cui si costruivano fabbriche e in cui si incontravano soltanto facce di operai, delle loro e dei loro figli, io sono cresciuto. Quindi la mia storia è la storia di questo popolo. Mio padre era uno splendido vecchio socialista di tradizioni anarchiche e portava come segno distintivo una sobria ma coltivata eleganza pure attraverso i mezzi poverissimi di cui disponeva. Ricordo la sua scintillante nera valièr sulla camicia bianca incontaminata. E questo tratto ero lo stesso Di Vittorio il quale ai cafoni e ai braccianti delle Puglie disse “basta smettete il tabarro mettete il cappotto, fate vedere ai borghesi che potete portarlo con voi, con la dignità che vi compete”. E io penso che questa misura è assolutamente capita. La mia gente per molto tempo, prima della rivolta operaia studentesca del ‘68-’69 andava alle manifestazioni col vestito della festa.
Nell’era di Internet e della globalizzazione dei mercati che ruolo potrebbe avere il comunismo ora che anche la Cina ha aperto le frontiere ai commerci?
Noi abbiamo smesso di credere che il socialismo, il comunismo si potesse fare in un solo Paese. E dopo il crollo dei regimi dell’Est, indotto non solo da cause esterne alla competizione capitalistica ma anche da cause interne, da errori drammatici, si figuri se possiamo cadere nel tranello intellettuale di considerare la Cina piuttosto che un altro Paese depositario di questa prospettiva. L’altro mondo possibile di cui parla il movimento non si invera in una costruzione statuale, bensì in un movimento mondiale che nelle forme concrete che questo movimento sta prendendo lavora alla critica del potere statuale, come del mercato.
Che vuol dire oggi essere utopisti?
L’utopia può essere molte cose. Può essere una specie di consolazione per l’accettazione di una società altrimenti intollerabile oppure può essere una componente di un disegno di liberazione di sé di quelli con cui si vive, dell’umanità. L’utopia come premonizione, come segno, come sogno che, tuttavia, si poggia sulla concretezza di una vita e di una pratica sociale di critica dell’esistente, di collegamento con altre persone, di costruzioni di coalizioni, di persone, di lavoratori, di lavoratrici per cambiare le cose esistenti. In questo caso l’utopia io penso che possa accompagnare utilmente una crescita verso la liberazione. Così come il mito.
Chi sono i voltagabbana della politica?
Per definizione Davide Laiolo, un partigiano delle Langhe che fu anche direttore de “L’Unità”, scrisse un libro che si intitolava “Il voltagabbana”. Parlava di sé perché era stato combattente in Spagna, ma dalla parte dei franchisti, e poi combattente in Italia invece nelle fila della liberazione della resistenza dei partigiani, in un modo anche drammaticamente autoironico. In termini descrittivi, se non lo si dà come giudizio di valore tutti coloro che cambiano di campo.
Che cosa pensa degli adulatori?
Ovviamente penso molto male dell’adulazione. Ritorno sul punto di prima della divisione dell’errore e dell’errante. Dell’adulatore penso che sia una persona molto debole che cerca in qualche modo di entrare in un circuito per compensare le fragilità e le debolezze della sua vita. Non lo giustifico naturalmente; l’adulazione fa un po’ schifo, con l’adulatore invece bisogna cercare di capire da dove derivi questa fragilità e questa dipendenza.
Com’è il suo rapporto con i media?
Un bel combattimento; un corpo a corpo sempre vissuto a occhi spalancati perché appartengo a chi pensa che la tecnica e la scienza non siano neutrali. In questo sono molto segnato dalla cultura ‘68-’69, dalla scuola francofortese e, perché no, dalla straordinaria esperienza delle lotte dell’operaio comune di serie, dalla critica dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Ho un atteggiamento molto critico nei confronti della scienza e della tecnica perché ne vedo, come nella macchina, il segno di dominio in cui essere incorporato. E quindi non mi sfugge che anche le tecniche della comunicazione possano sussumerti dentro, o almeno cercare, quella logica e quel linguaggio. Perciò è un corpo a corpo perché c’è sempre un residuo, ciò che resta fuori da questa fagocitazione, che è il lato creativo e uno cerca di svilupparlo più che più.
Trova che l’informazione sia troppo ossequiosa con i potenti come pensa il presidente Ciampi?
Secondo me lo è di più. Ma di più in un modo che forse non mi vede d’accordo con il presidente. Sono d’accordo con lui su questo tratto di ossequio nei confronti dei potenti, ma vorrei usare una categoria che oggi è meno pregnante perché è stata scossa dalle crescita dei movimenti di contestazione: quella che “Le Monde diplomatique” chiamava il pensiero unico. In un periodo come quello degli anni Novanta il pensiero unico è l’omologazione dei punti di vista, sostanzialmente tutti subalterni, a un’idea apologetica di quella rivoluzione capitalistica restauratrice che si chiama la globalizzazione. Ecco in quel caso non è semplicemente un ossequio dei potenti. È una dipendenza dai meccanismi di accumulazione, di appropriazione, di produzione e di dominio.
Che cos’è il potere?
Questa organizzazione dell’egemonia o del dominio di una classe sulle altre.
Crede nel destino?
No e potrei fermarmi.
Non è molto convinto…
No, perché sento sempre una problematicità, non l’elemento della predestinazione ma in qualche modo sotto traccia vivono anche degli elementi che non consentono di pensare come totalmente a disposizione della traiettoria della propria vita.
Qual è il suo rapporto con il tempo che passa?
Molto tranquillo e molto sereno. Naturalmente ci sono dei lampi o degli sprazzi di nostalgia, anche coltivata, per momenti della vita vissuta. Io potrei ricordare con stavo con mio padre e con mia madre, oppure con mia moglie e mio figlio in un particolare momento. Oppure quella straordinaria lotta con gli uomini e con le donne con cui hai combattuto quella battaglia vinta o persa. Comunque io penso che questi brandelli di memoria vadano coltivati, portati con sé, come un grande bagaglio o un libro da sfogliare perché poi questi momento possono essere diversi da un giorno all’altro proprio come la pagine di un libro che hai già letto e che puoi risfogliare. Questo bagaglio aiuta la serenità dello scorrere del tempo. Io la vedo così non sono per nulla inquieto nei confronti dell’invecchiamento, anche delle manifestazioni fisiche.
Com’è Bertinotti nel privato?
Spero, spero, spero fortissimamente che si possa dire di lui che è una persona tenera.
Agli inizi della sua carriera fin dove pensava di arrivare?
Da nessuna parte, assolutamente da nessuna parte. Avevo toccato il cielo con un dito quando mi chiamarono a Novara. Sa io quelle scale dove avevano calcato i piedi, e ancora li calcavano, leggendari comandanti partigiani che erano diventati prosaicamente segretari di una federazione di categoria, come di chi entra nel mondo degli eletti, quindi francamente mi basta e mi avanzava quella fortuna.
Chi è il suo migliore amico?
Non si dice, questo non si dice.
Il suo passatempo preferito?
Leggere, ma anche nuotare. Il rapporto con l’acqua è una cosa davvero fantastica. È l’accesso all’altro mondo.
Molto indiana come filosofia.
Purtroppo sei sempre lì che vorresti provare a essere capace di starci come un pesce in questo punto che non scavalchi mai, per quanto sott’acqua tu possa stare.
Che cosa non sopporta in televisione?
Il mezzo. La radio è una grande produzione. Noi stiamo chiacchierando e io mi sento relativamente libero. Se avessi un faro davanti agli occhi sarei più contratto. La radio è quasi, anzi, è più diretta del telefono. La radio è adorabile. Ecco un’altra che farei sempre è ascoltare la radio. Potrei stare in una casa senza televisione, lo dico senza alcun elitismo perché poi è uno strumento poderosissimo, guai a essere aristocraticamente supponenti. Però diciamo di mia pelle potrei starci in una casa senza tv, ma non senza la radio.
Qual è il suo sogno che vorrebbe realizzare?
Quello di sempre: liberi e uguali.
Roma, 17 febbraio 2005
Per informazioni:
Ufficio stampa “Il ComuniCattivo”
Carla Pagliai
Tel. 06 8535.8985 - 06 8554.731
Fax 06 8583.1547
E-mail: ilcomunicattivo@rai.it
psicofarmaci e crimine
chi è «sano di mente»?
La Stampa Cultura 18 Febbraio 2005
BABY-KILLER, 30 ANNI DI GALERA
Chi è più sano (mentalmente) di Christopher?
Ermanno Bencivenga
NEL novembre 2001 Christopher Pittman, un ragazzino di dodici anni che all'epoca viveva con i nonni a Chester, una comunità rurale della Carolina del Sud, entrò nella camera da letto di questi ultimi armato di un fucile a pompa che gli era stato da poco regalato dal padre e li uccise nel sonno con quattro colpi; quindi diede fuoco alla casa e scappò. In questi giorni Christopher è stato processato come adulto, giudicato colpevole e condannato a trent'anni di galera.
Prima del duplice omicidio, Christopher aveva chiaramente manifestato dei problemi: era fuggito dalla casa del padre e aveva minacciato il suicidio. La cura prescritta dai medici per le sue turbe psichiche era stata un potente antidepressivo di nome Zoloft, prodotto dal gigante farmaceutico Pfizer. Esistono studi, pubblicati nel 2000, che collegano l'uso dello Zoloft in bambini e adolescenti ad allucinazioni ed episodi di violenza; e l'ente federale preposto al controllo dei medicinali, la Food and Drug Administration, ne aveva tratto un avvertimento pubblico che proprio due settimane fa, sotto pressione delle lobbies, ha provveduto a riformulare in termini più cauti. Nella nuova versione, lo Zoloft non causa più comportamenti devianti ma ne aumenta il rischio.
Non c'è nessun dubbio che Christopher abbia ammazzato i nonni; i suoi difensori hanno cercato di convincere la giuria, senza successo, che non era in grado di intendere e di volere per effetto della medicina. Il pubblico ministero, intanto, lanciava strali biblici contro la sua malizia, la sua cattiveria e la sua premeditazione; insisteva, per esempio, che per sparare quattro colpi aveva dovuto ricaricare il fucile. Il meglio che poteva capitare a questo sciagurato quindicenne, dunque, era di essere dichiarato almeno temporaneamente pazzo. Forse però sarebbe il caso di interrogarsi sulla follia collettiva che fa da sfondo al suo crimine.
È sano di mente chi prescrive a un ragazzo inquieto dosi massicce di una medicina che non è stata neanche approvata specificamente per persone della sua età (ma, quando una medicina è sul mercato, tutti la possono usare) e che sembra provocare più guai di quanti ne risolva? Sono sani di mente i dirigenti di una compagnia farmaceutica che, quando emerge un problema con un loro prodotto, pagano fior di quattrini per ottenerne una descrizione più benevola invece di affrontarlo e risolverlo? È sano di mente un padre che a un figlio con tendenze suicide regala un fucile a pompa? Lo è una «giustizia» che, di fronte a una sventura del genere, scalpita per chiudere il «responsabile» in una cella e buttar via la chiave? In un mondo di simili pazzi, non è strano che Christopher sia stato dichiarato ufficialmente savio.
BABY-KILLER, 30 ANNI DI GALERA
Chi è più sano (mentalmente) di Christopher?
Ermanno Bencivenga
NEL novembre 2001 Christopher Pittman, un ragazzino di dodici anni che all'epoca viveva con i nonni a Chester, una comunità rurale della Carolina del Sud, entrò nella camera da letto di questi ultimi armato di un fucile a pompa che gli era stato da poco regalato dal padre e li uccise nel sonno con quattro colpi; quindi diede fuoco alla casa e scappò. In questi giorni Christopher è stato processato come adulto, giudicato colpevole e condannato a trent'anni di galera.
Prima del duplice omicidio, Christopher aveva chiaramente manifestato dei problemi: era fuggito dalla casa del padre e aveva minacciato il suicidio. La cura prescritta dai medici per le sue turbe psichiche era stata un potente antidepressivo di nome Zoloft, prodotto dal gigante farmaceutico Pfizer. Esistono studi, pubblicati nel 2000, che collegano l'uso dello Zoloft in bambini e adolescenti ad allucinazioni ed episodi di violenza; e l'ente federale preposto al controllo dei medicinali, la Food and Drug Administration, ne aveva tratto un avvertimento pubblico che proprio due settimane fa, sotto pressione delle lobbies, ha provveduto a riformulare in termini più cauti. Nella nuova versione, lo Zoloft non causa più comportamenti devianti ma ne aumenta il rischio.
Non c'è nessun dubbio che Christopher abbia ammazzato i nonni; i suoi difensori hanno cercato di convincere la giuria, senza successo, che non era in grado di intendere e di volere per effetto della medicina. Il pubblico ministero, intanto, lanciava strali biblici contro la sua malizia, la sua cattiveria e la sua premeditazione; insisteva, per esempio, che per sparare quattro colpi aveva dovuto ricaricare il fucile. Il meglio che poteva capitare a questo sciagurato quindicenne, dunque, era di essere dichiarato almeno temporaneamente pazzo. Forse però sarebbe il caso di interrogarsi sulla follia collettiva che fa da sfondo al suo crimine.
È sano di mente chi prescrive a un ragazzo inquieto dosi massicce di una medicina che non è stata neanche approvata specificamente per persone della sua età (ma, quando una medicina è sul mercato, tutti la possono usare) e che sembra provocare più guai di quanti ne risolva? Sono sani di mente i dirigenti di una compagnia farmaceutica che, quando emerge un problema con un loro prodotto, pagano fior di quattrini per ottenerne una descrizione più benevola invece di affrontarlo e risolverlo? È sano di mente un padre che a un figlio con tendenze suicide regala un fucile a pompa? Lo è una «giustizia» che, di fronte a una sventura del genere, scalpita per chiudere il «responsabile» in una cella e buttar via la chiave? In un mondo di simili pazzi, non è strano che Christopher sia stato dichiarato ufficialmente savio.
XXI secolo?
tutti contro Satana...
Corriere della Sera 18.2.05
Un ateneo pontificio invita in cattedra esorcisti, psicologi, sociologi e persino un poliziotto per «addestrare» i sacerdoti
Vaticano, primo corso contro il maligno
Lezioni in videoconferenza, 120 iscritti. «Tra i giovani cresce un satanismo fai da te, colpa anche dei giochi di ruolo»
Luigi Accattoli
ROMA - «Se Dio cresce / il diavolo aumenta», cantava il poeta Clemente Rebora. Ma se a crescere è il satanismo - cioè il «culto» di Satana - tocca alla Chiesa prendere contromisure, tipo il corso di aggiornamento per sacerdoti su «esorcismo e preghiera di liberazione», che è partito ieri presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. Il corso è un’iniziativa senza precedenti, che l’Università dei Legionari di Cristo ha promosso in collaborazione con il Gris, Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa, specializzato nel tenere sotto controllo il fenomeno culturale del satanismo. Le sette lezioni vengono tenute da quattro esorcisti, un teologo, un giornalista, una psichiatra, uno psicologo-poliziotto e un antropologo. Tutti sono chiamati ad «analizzare il tema della possessione diabolica alla luce della sempre maggiore diffusione del satanismo tra i giovani di oggi» e a dare suggerimenti ai futuri esorcisti.
Il sociologo Carlo Climati nella lezione introduttiva ha parlato di un «satanismo casereccio» che dilaga tra i giovani di oggi, soprattutto attraverso la «visitazione dei siti internet che inneggiano a Satana». Le vere e proprie sette sataniche in Italia sarebbero una trentina, con un giro di gente che arriverebbe alle centomila persone, di cui il 72 per cento giovani tra i 17 e i 28 anni.
Per riconoscere in tempo l’attrattiva satanista nei ragazzi, Climati dà dieci consigli ai genitori: dialogo, fare conversazione a tavola spegnendo il televisore, osservare il comportamento, il corpo (tatuaggi, ferite), l’abbigliamento (abiti neri, magliette con immagini blasfeme), le letture, la musica che ascoltano, le copertine dei compact (se hanno «immagini blasfeme, sanguinarie o se raffigurano simboli satanici»), fasi di mutismo, necessità di ricevere «iniezioni di ottimismo».
Climati ha appena pubblicato una ricerca intitolata «I giochi estremi dei giovani» (Edizioni Paoline), dove segnala che i «giochi di ruolo» possono avviare i giovani a «familiarizzare» con lo spiritismo e con «fantasie» di possessione diabolica e di reincarnazione.
Per indicare ai corsisti le tracce del satanismo nella cultura giovanile, Climati terrà lezioni multimediali, utilizzando video musicali, testi di canzoni, interviste di giovani. La stessa organizzazione del corso è tra le più moderne: gli iscritti sono 120 (sacerdoti e chierici), 70 dei quali presenti in aula e 50 che seguono in videoconferenza da Bologna, Perugia e Caserta.
Tra i quattro esorcisti che portano la loro «testimonianza» ai corsisti, c’è padre Francesco Bamonte, della diocesi di Roma, che concorda con Climati sulla «crescita» del fenomeno del satanismo, motivata dal «desiderio di toccare il mondo dell’aldilà per vie false» e magari «pericolose». Per esempio le sedute spiritiche possono essere un gioco, nell’intenzione di chi vi partecipa, ma «possono dare spazio all’azione occulta di uno spirito demoniaco che si finge anima dell’aldilà per colpire meglio chi sta facendo la seduta».
Il fascino dell’occulto può «irretire» le menti e portare persone immature «a compiere gesti estremi, persino dei delitti», intesi come «omaggio a Satana», dice Climati. Su questo aspetto del fenomeno satanista viene consigliato agli iscritti al corso la lettura di un’inchiesta appena pubblicata da due giornalisti, Fabio di Chio e David Murgia, intitolata «Satana in tribunale» (Edizioni San Paolo): sostiene che «in poco più di dieci anni i crimini satanici e quelli legati a sette dell’occulto sono più che raddoppiati in Italia».
Entusiasta del corso è il decano degli esorcisti italiani, don Gabriele Amorth: «Ho sempre desiderato che si aprissero delle scuole per preparare i giovani preti a questo ministero difficile e indispensabile».
Amorth ha sostenuto anni addietro che il nuovo rito degli esorcismi ha formule «deboli» rispetto al rito tradizionale, ma oggi ha cambiato opinione, perché - dice - «ho conosciuto meglio la nuova formula». Concorda un altro esorcista, docente al corso, don Gabriele Nanni: «Il nuovo rito è meno colorito, ma l’efficacia non dipende dalle formule, quanto piuttosto dall’azione di Cristo che si prolunga in quella del sacerdote. E forse si può dire che la formula usata da Gesù nei Vangeli - "Taci! Esci da quest’uomo" - era anche più sobria di quella attuale».
Liberazione 18.2.05
L'università dei "Legionari di Cristo" fa scuola ai sacerdoti con antropologi e psichiatri
Vaticano, satana ed esorcismi.
Il corso per i preti anti-diavolo
Fulvio Fania
Città del Vaticano. Alle prese con Satana, il protagonista alla moda tra i "satanisti" oppure il vecchio diavolo che possiede gli indemoniati. L'esorcismo collocato in mezzo alle valutazioni del sociologo, dell'antropologa, dello psichiatra e del criminologo; la pratica liturgica del "vade retro" accanto all'indagine sul fascino che i riti satanici esercitano su gruppi di giovani spesso associati a ideologie razziste e violente; molte raccomandazioni alla cautela - «non vogliamo favorire forme di superstizione e pratiche magiche» -, ma in definitiva la ferma volontà di riaffermare che in qualche caso per scacciare il demonio ci vuole il prete.
E' questo il corso di formazione per sacerdoti e seminaristi "Esorcismo e preghiera di liberazione" che si è inaugurato ieri all'Università pontificia Regina Apostolorum, l'ateneo gestito dai Legionari di Cristo, una congregazione cattolica di impronta tradizionalista fondata nel 1941 da Marcial Maciel Degollado, che dopo essersi trascinato per decenni antiche accuse di abuso sessuale, ha recentemente ceduto la guida dell'organizzazione al messicano Alvaro Corcuera Martinez del Rio.
Al corso del "Regina Apostolorum" Satana non appare come un generico "Mysterium iniquitatis", ormai ridotto a poco più che una metafora del male, ma come «tanti demoni», cioè «angeli creati buoni da Dio» che si sono però «trasformati in malvagi e agiscono nel mondo per odio contro Dio». Così li "personifica" Francesco Bamonte, uno dei quattro esorcisti che terranno lezione ai centoventi partecipanti, tutti sacerdoti o seminaristi che vivono in Italia, pur provenendo anche da altri paesi; soltanto alcuni sono aderenti ai "Legionari" mentre gli organizzatori riferiscono che molti altri avrebbero voluto partecipare dall'estero e per questo si sta pensando ad ulteriori corsi intensivi.
A preoccupare Cecilia Gatto Trocchi, da anni impegnata con il Gris (Gruppo ricerca informazione socio-religiosa) a indagare il fenomeno delle nuove forme di religione, pure quelle del diavolo, non sono tanto le sette sataniche più note e crudeli, Bestie o Bambini di Satana, quanto il diffondersi di satanismi fatti in casa da piccoli circoli giovanili, non più misteriosamente rifugiati nei boschi ma spesso collegati via web. Ne parla anche Marco Strano, criminologo della Polizia di Stato. Sul versante opposto, secondo l'esorcista Gabriele Nanni, aumentano i cattolici che corrono dal sacerdote ritenendosi posseduti dal diavolo. Magari - riconosce il prete - hanno piuttosto bisogno dello psichiatra ma rifiutano la propria malattia mentale. Ciononostante - sostiene sempre Bamonte - su 200 o 300 casi una ventina denoterebbe l'effettiva presenza di Satana. Ecco allora che scende in campo l'esorcista e, a questo punto, i Legionari lo vogliono molto preparato a distinguere e ad agire.
Carlo Climati, che nella sua relazione suggerisce ai genitori alcuni "segni" in base ai quali possono individuare se il loro figlio è stato tentato da mode sataniche, ci spiega che il corso del Regina Apostolorum vuole liberare l'esorcismo dal cliché cinematografico dei corpi indemoniati che vomitano fiele. Da parte sua, don Nanni richiama i colleghi a non "inventare i riti" attenendosi invece al Rituale ufficiale che la Santa sede ha aggiornato nel '99 e ripubblicato lo scorso anno. Insomma, un esorcismo rivisitato e tuttavia pur sempre un esorcismo, proprio nel momento in cui la Chiesa si mostra allarmata dalla diffusione di ritualità magiche, di sincretismi religiosi, di nuove forme di irrazionalità, che in varie parti del mondo allontanano molti fedeli dalle più classiche parrocchie.
Un ateneo pontificio invita in cattedra esorcisti, psicologi, sociologi e persino un poliziotto per «addestrare» i sacerdoti
Vaticano, primo corso contro il maligno
Lezioni in videoconferenza, 120 iscritti. «Tra i giovani cresce un satanismo fai da te, colpa anche dei giochi di ruolo»
Luigi Accattoli
ROMA - «Se Dio cresce / il diavolo aumenta», cantava il poeta Clemente Rebora. Ma se a crescere è il satanismo - cioè il «culto» di Satana - tocca alla Chiesa prendere contromisure, tipo il corso di aggiornamento per sacerdoti su «esorcismo e preghiera di liberazione», che è partito ieri presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. Il corso è un’iniziativa senza precedenti, che l’Università dei Legionari di Cristo ha promosso in collaborazione con il Gris, Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa, specializzato nel tenere sotto controllo il fenomeno culturale del satanismo. Le sette lezioni vengono tenute da quattro esorcisti, un teologo, un giornalista, una psichiatra, uno psicologo-poliziotto e un antropologo. Tutti sono chiamati ad «analizzare il tema della possessione diabolica alla luce della sempre maggiore diffusione del satanismo tra i giovani di oggi» e a dare suggerimenti ai futuri esorcisti.
Il sociologo Carlo Climati nella lezione introduttiva ha parlato di un «satanismo casereccio» che dilaga tra i giovani di oggi, soprattutto attraverso la «visitazione dei siti internet che inneggiano a Satana». Le vere e proprie sette sataniche in Italia sarebbero una trentina, con un giro di gente che arriverebbe alle centomila persone, di cui il 72 per cento giovani tra i 17 e i 28 anni.
Per riconoscere in tempo l’attrattiva satanista nei ragazzi, Climati dà dieci consigli ai genitori: dialogo, fare conversazione a tavola spegnendo il televisore, osservare il comportamento, il corpo (tatuaggi, ferite), l’abbigliamento (abiti neri, magliette con immagini blasfeme), le letture, la musica che ascoltano, le copertine dei compact (se hanno «immagini blasfeme, sanguinarie o se raffigurano simboli satanici»), fasi di mutismo, necessità di ricevere «iniezioni di ottimismo».
Climati ha appena pubblicato una ricerca intitolata «I giochi estremi dei giovani» (Edizioni Paoline), dove segnala che i «giochi di ruolo» possono avviare i giovani a «familiarizzare» con lo spiritismo e con «fantasie» di possessione diabolica e di reincarnazione.
Per indicare ai corsisti le tracce del satanismo nella cultura giovanile, Climati terrà lezioni multimediali, utilizzando video musicali, testi di canzoni, interviste di giovani. La stessa organizzazione del corso è tra le più moderne: gli iscritti sono 120 (sacerdoti e chierici), 70 dei quali presenti in aula e 50 che seguono in videoconferenza da Bologna, Perugia e Caserta.
Tra i quattro esorcisti che portano la loro «testimonianza» ai corsisti, c’è padre Francesco Bamonte, della diocesi di Roma, che concorda con Climati sulla «crescita» del fenomeno del satanismo, motivata dal «desiderio di toccare il mondo dell’aldilà per vie false» e magari «pericolose». Per esempio le sedute spiritiche possono essere un gioco, nell’intenzione di chi vi partecipa, ma «possono dare spazio all’azione occulta di uno spirito demoniaco che si finge anima dell’aldilà per colpire meglio chi sta facendo la seduta».
Il fascino dell’occulto può «irretire» le menti e portare persone immature «a compiere gesti estremi, persino dei delitti», intesi come «omaggio a Satana», dice Climati. Su questo aspetto del fenomeno satanista viene consigliato agli iscritti al corso la lettura di un’inchiesta appena pubblicata da due giornalisti, Fabio di Chio e David Murgia, intitolata «Satana in tribunale» (Edizioni San Paolo): sostiene che «in poco più di dieci anni i crimini satanici e quelli legati a sette dell’occulto sono più che raddoppiati in Italia».
Entusiasta del corso è il decano degli esorcisti italiani, don Gabriele Amorth: «Ho sempre desiderato che si aprissero delle scuole per preparare i giovani preti a questo ministero difficile e indispensabile».
Amorth ha sostenuto anni addietro che il nuovo rito degli esorcismi ha formule «deboli» rispetto al rito tradizionale, ma oggi ha cambiato opinione, perché - dice - «ho conosciuto meglio la nuova formula». Concorda un altro esorcista, docente al corso, don Gabriele Nanni: «Il nuovo rito è meno colorito, ma l’efficacia non dipende dalle formule, quanto piuttosto dall’azione di Cristo che si prolunga in quella del sacerdote. E forse si può dire che la formula usata da Gesù nei Vangeli - "Taci! Esci da quest’uomo" - era anche più sobria di quella attuale».
Liberazione 18.2.05
L'università dei "Legionari di Cristo" fa scuola ai sacerdoti con antropologi e psichiatri
Vaticano, satana ed esorcismi.
Il corso per i preti anti-diavolo
Fulvio Fania
Città del Vaticano. Alle prese con Satana, il protagonista alla moda tra i "satanisti" oppure il vecchio diavolo che possiede gli indemoniati. L'esorcismo collocato in mezzo alle valutazioni del sociologo, dell'antropologa, dello psichiatra e del criminologo; la pratica liturgica del "vade retro" accanto all'indagine sul fascino che i riti satanici esercitano su gruppi di giovani spesso associati a ideologie razziste e violente; molte raccomandazioni alla cautela - «non vogliamo favorire forme di superstizione e pratiche magiche» -, ma in definitiva la ferma volontà di riaffermare che in qualche caso per scacciare il demonio ci vuole il prete.
E' questo il corso di formazione per sacerdoti e seminaristi "Esorcismo e preghiera di liberazione" che si è inaugurato ieri all'Università pontificia Regina Apostolorum, l'ateneo gestito dai Legionari di Cristo, una congregazione cattolica di impronta tradizionalista fondata nel 1941 da Marcial Maciel Degollado, che dopo essersi trascinato per decenni antiche accuse di abuso sessuale, ha recentemente ceduto la guida dell'organizzazione al messicano Alvaro Corcuera Martinez del Rio.
Al corso del "Regina Apostolorum" Satana non appare come un generico "Mysterium iniquitatis", ormai ridotto a poco più che una metafora del male, ma come «tanti demoni», cioè «angeli creati buoni da Dio» che si sono però «trasformati in malvagi e agiscono nel mondo per odio contro Dio». Così li "personifica" Francesco Bamonte, uno dei quattro esorcisti che terranno lezione ai centoventi partecipanti, tutti sacerdoti o seminaristi che vivono in Italia, pur provenendo anche da altri paesi; soltanto alcuni sono aderenti ai "Legionari" mentre gli organizzatori riferiscono che molti altri avrebbero voluto partecipare dall'estero e per questo si sta pensando ad ulteriori corsi intensivi.
A preoccupare Cecilia Gatto Trocchi, da anni impegnata con il Gris (Gruppo ricerca informazione socio-religiosa) a indagare il fenomeno delle nuove forme di religione, pure quelle del diavolo, non sono tanto le sette sataniche più note e crudeli, Bestie o Bambini di Satana, quanto il diffondersi di satanismi fatti in casa da piccoli circoli giovanili, non più misteriosamente rifugiati nei boschi ma spesso collegati via web. Ne parla anche Marco Strano, criminologo della Polizia di Stato. Sul versante opposto, secondo l'esorcista Gabriele Nanni, aumentano i cattolici che corrono dal sacerdote ritenendosi posseduti dal diavolo. Magari - riconosce il prete - hanno piuttosto bisogno dello psichiatra ma rifiutano la propria malattia mentale. Ciononostante - sostiene sempre Bamonte - su 200 o 300 casi una ventina denoterebbe l'effettiva presenza di Satana. Ecco allora che scende in campo l'esorcista e, a questo punto, i Legionari lo vogliono molto preparato a distinguere e ad agire.
Carlo Climati, che nella sua relazione suggerisce ai genitori alcuni "segni" in base ai quali possono individuare se il loro figlio è stato tentato da mode sataniche, ci spiega che il corso del Regina Apostolorum vuole liberare l'esorcismo dal cliché cinematografico dei corpi indemoniati che vomitano fiele. Da parte sua, don Nanni richiama i colleghi a non "inventare i riti" attenendosi invece al Rituale ufficiale che la Santa sede ha aggiornato nel '99 e ripubblicato lo scorso anno. Insomma, un esorcismo rivisitato e tuttavia pur sempre un esorcismo, proprio nel momento in cui la Chiesa si mostra allarmata dalla diffusione di ritualità magiche, di sincretismi religiosi, di nuove forme di irrazionalità, che in varie parti del mondo allontanano molti fedeli dalle più classiche parrocchie.
Luciana Sica
si rispolvera Lacan...
Repubblica 18.2.05
ESCE IN ITALIA IL PRIMO DIZIONARIO LACANIANO
VEDI ALLA VOCE DESIDERIO
Lo sforzo di divulgare un lessico spesso oscuro
Da "Fallo" a "la cosa" al "Nome del padre"
LUCIANA SICA
ROMA. Vedi alla voce: "inconscio", l'ipotesi su cui si fonda tutta la psicoanalisi. O "fallo", simbolo della libido per entrambi i sessi, o "desiderio" e dunque "mancanza" per la singolare impossibilità di afferrare l'oggetto desiderato.
Vedi alla voce: "Edipo", "Altro", "fantasma", o anche "la Cosa" e il "Nome-del-Padre". Concetti molto sofisticati, che appartengono a un sapere solo all´apparenza un po' alla portata di tutti, e al contrario - nel suo complesso impianto teorico - poco accessibile a un pubblico ampio, anche colto ma comunque non specialistico.
È almeno questa la sensazione che si prova scorrendo le voci non sempre leggibilissime, nonostante l'evidente sforzo divulgativo, di questo nuovo Dizionario di Psicanalisi che ha pubblicato Gremese (pagg. 370, euro 30) e sarà presentato alle 18 di oggi a Roma: da Simona Argentieri, Delphine Borione, Roland Chemama, Muriel Drazien, Giacomo Marramao e Jacqueline Risset (Palazzo Capizzucchi, piazza Campitelli 3).
Già solo dalla titolazione - dall'assenza della "o" nel termine psicoanalisi, vezzo molto francese - s'intende la novità di quest'opera di consultazione che vuol essere anche un agile strumento di lavoro: si tratta infatti del primo dizionario lacaniano, almeno per il nostro Paese. A Parigi la prima edizione del Dictionnaire de la Psychanalyse fece la sua comparsa nel '98 (da Larousse), poi ristampata fino all'ultima versione che risulta raddoppiata, abbracciando il campo della clinica oltre che della "formalizzazione". I curatori del volume sono due: Roland Chemama, allievo diretto di Jacques Lacan e docente (agrégé) di filosofia, affiancato da Bernard Vandermersch, psichiatra e psicoanalista. Alla Association Lacanienne Internationale appartengono gli autori delle voci, un'équipe molto qualificata che negli anni si è fatta via via più ampia.
Ma forse sarà meglio chiarire cos'è un dizionario che si rifà all'insegnamento di Lacan, il fondatore dell'Ecole freudienne scomparso nell'81, intellettuale raffinato ed eccentrico, venerato fino all'esaltazione e disprezzato fino all'insulto. A dispetto della provenienza medica, Lacan sfugge a certi recinti asfittici della clinica e "pensa" la psicoanalisi in un dialogo originalissimo con la filosofia, la linguistica, l'antropologia, la logica, la letteratura. Il fascino esercitato su di lui dalla follia ha qualcosa d'inquietante, e comunque non prescinderà mai dalla lezione della psichiatria fenomenologica, da Jaspers a Binswanger.
Lacan rimarrà per tutta la vita un freudiano, ma del culto di Freud è stato un sacerdote conflittuale, l'unico - nel variegato universo dei "post" - a riconsiderarne il sistema complessivo di pensiero, a rileggerne i concetti principali, e con uno stile personalissimo che rende la sua opera - assai più socratica, orale, che scritta - difficilissima da comprendere, da interpretare.
E ovviamente da tradurre: un problema non di poco conto, che ha messo duramente alla prova i curatori italiani del dizionario nato in francese, nel lessico spesso enigmatico di Lacan. «Un lavoro di équipe durato circa due anni, fra tradurre e tradire, cancellare, criticare, inventare...», così scrive Muriel Drazien, allieva a Parigi del protagonista dei Seminari, oggi direttrice del Laboratorio Freudiano, presentando l´edizione italiana del dizionario. È stata lei a coordinare il gruppo di studio che ha lavorato al progetto di traduzione (formato da Carlo Albarello, Luigi Burzotta, Cristiana Fanelli, Marisa Fiumanò, Janja Jerkov, Stefania Paparello, Johanna Vennemann).
«L'autorevole Enciclopedia di Laplanche e Pontalis risale ormai al '67», fa notare la Drazien. «Da allora, molti altri concetti - spesso presi in prestito da discipline affini alla psicanalisi - si sono resi indispensabili, accanto a quelli "classici", per rendere conto delle complesse formazioni dell'inconscio». E ancora: «Questo dizionario è un invito al dialogo per gli analisti di ogni scuola. Del resto, oggi la psicanalisi si può dire lacaniana, nel senso che nessuno può "rimuovere" una terminologia e un pensiero ormai di uso comune tra gli specialisti».
Si è a lungo discusso sulla rilettura di Freud che opera Lacan, se si tratti cioè di una continuazione o di una rifondazione. A leggere anche solo alcune delle voci del dizionario, si comprende meglio come stanno le cose. Lacan introduce questioni squisitamente filosofiche, costruisce - ad esempio - una teoria del soggetto che in Freud quasi non esiste, ripensa il "desiderio" in termini molto hegeliani, mettendo l'accento sulla negatività, riformula alcuni interrogativi, partendo da un modello linguistico e non più biologico.
Vedi alla voce: inconscio, "strutturato come un linguaggio". Forse una delle espressioni più note di Lacan, che - con Freud - rifugge dalle tenebre romantiche, dai miti archetipici, da certe volontà primordiali e oscure. L'inconscio si manifesta piuttosto negli zoppicamenti del discorso cosciente, come «intoppo, mancamento, fessura», in quella «discontinuità» che rivelano i sogni, gli atti mancati, le sbadataggini, i lapsus, le dimenticanze.
Ma non è tutto. Da pensatore geniale, Lacan va oltre Freud: per lui l'inconscio non è più soltanto il già dato nell'infanzia, il già scritto in un passato più o meno remoto che tende a riattualizzarsi. È anche il «non realizzato», un destino anche disgiunto dalla memoria, un "qualcosa" che può ancora compiersi e che anzi chiede sia compiuto.
Guai, però, a leggere Lacan senza rifarsi al vecchio Freud: un rischio in cui non incorre questo Dizionario di Psicanalisi, a differenza di certi lacaniani dogmatici, seguaci ancora in vena di una risibile idolatria inclini a dimenticare che Lacan è comunque un freudiano, e a Freud si è vistosamente richiamato fino alla fine dei suoi giorni.
ESCE IN ITALIA IL PRIMO DIZIONARIO LACANIANO
VEDI ALLA VOCE DESIDERIO
Lo sforzo di divulgare un lessico spesso oscuro
Da "Fallo" a "la cosa" al "Nome del padre"
LUCIANA SICA
ROMA. Vedi alla voce: "inconscio", l'ipotesi su cui si fonda tutta la psicoanalisi. O "fallo", simbolo della libido per entrambi i sessi, o "desiderio" e dunque "mancanza" per la singolare impossibilità di afferrare l'oggetto desiderato.
Vedi alla voce: "Edipo", "Altro", "fantasma", o anche "la Cosa" e il "Nome-del-Padre". Concetti molto sofisticati, che appartengono a un sapere solo all´apparenza un po' alla portata di tutti, e al contrario - nel suo complesso impianto teorico - poco accessibile a un pubblico ampio, anche colto ma comunque non specialistico.
È almeno questa la sensazione che si prova scorrendo le voci non sempre leggibilissime, nonostante l'evidente sforzo divulgativo, di questo nuovo Dizionario di Psicanalisi che ha pubblicato Gremese (pagg. 370, euro 30) e sarà presentato alle 18 di oggi a Roma: da Simona Argentieri, Delphine Borione, Roland Chemama, Muriel Drazien, Giacomo Marramao e Jacqueline Risset (Palazzo Capizzucchi, piazza Campitelli 3).
Già solo dalla titolazione - dall'assenza della "o" nel termine psicoanalisi, vezzo molto francese - s'intende la novità di quest'opera di consultazione che vuol essere anche un agile strumento di lavoro: si tratta infatti del primo dizionario lacaniano, almeno per il nostro Paese. A Parigi la prima edizione del Dictionnaire de la Psychanalyse fece la sua comparsa nel '98 (da Larousse), poi ristampata fino all'ultima versione che risulta raddoppiata, abbracciando il campo della clinica oltre che della "formalizzazione". I curatori del volume sono due: Roland Chemama, allievo diretto di Jacques Lacan e docente (agrégé) di filosofia, affiancato da Bernard Vandermersch, psichiatra e psicoanalista. Alla Association Lacanienne Internationale appartengono gli autori delle voci, un'équipe molto qualificata che negli anni si è fatta via via più ampia.
Ma forse sarà meglio chiarire cos'è un dizionario che si rifà all'insegnamento di Lacan, il fondatore dell'Ecole freudienne scomparso nell'81, intellettuale raffinato ed eccentrico, venerato fino all'esaltazione e disprezzato fino all'insulto. A dispetto della provenienza medica, Lacan sfugge a certi recinti asfittici della clinica e "pensa" la psicoanalisi in un dialogo originalissimo con la filosofia, la linguistica, l'antropologia, la logica, la letteratura. Il fascino esercitato su di lui dalla follia ha qualcosa d'inquietante, e comunque non prescinderà mai dalla lezione della psichiatria fenomenologica, da Jaspers a Binswanger.
Lacan rimarrà per tutta la vita un freudiano, ma del culto di Freud è stato un sacerdote conflittuale, l'unico - nel variegato universo dei "post" - a riconsiderarne il sistema complessivo di pensiero, a rileggerne i concetti principali, e con uno stile personalissimo che rende la sua opera - assai più socratica, orale, che scritta - difficilissima da comprendere, da interpretare.
E ovviamente da tradurre: un problema non di poco conto, che ha messo duramente alla prova i curatori italiani del dizionario nato in francese, nel lessico spesso enigmatico di Lacan. «Un lavoro di équipe durato circa due anni, fra tradurre e tradire, cancellare, criticare, inventare...», così scrive Muriel Drazien, allieva a Parigi del protagonista dei Seminari, oggi direttrice del Laboratorio Freudiano, presentando l´edizione italiana del dizionario. È stata lei a coordinare il gruppo di studio che ha lavorato al progetto di traduzione (formato da Carlo Albarello, Luigi Burzotta, Cristiana Fanelli, Marisa Fiumanò, Janja Jerkov, Stefania Paparello, Johanna Vennemann).
«L'autorevole Enciclopedia di Laplanche e Pontalis risale ormai al '67», fa notare la Drazien. «Da allora, molti altri concetti - spesso presi in prestito da discipline affini alla psicanalisi - si sono resi indispensabili, accanto a quelli "classici", per rendere conto delle complesse formazioni dell'inconscio». E ancora: «Questo dizionario è un invito al dialogo per gli analisti di ogni scuola. Del resto, oggi la psicanalisi si può dire lacaniana, nel senso che nessuno può "rimuovere" una terminologia e un pensiero ormai di uso comune tra gli specialisti».
Si è a lungo discusso sulla rilettura di Freud che opera Lacan, se si tratti cioè di una continuazione o di una rifondazione. A leggere anche solo alcune delle voci del dizionario, si comprende meglio come stanno le cose. Lacan introduce questioni squisitamente filosofiche, costruisce - ad esempio - una teoria del soggetto che in Freud quasi non esiste, ripensa il "desiderio" in termini molto hegeliani, mettendo l'accento sulla negatività, riformula alcuni interrogativi, partendo da un modello linguistico e non più biologico.
Vedi alla voce: inconscio, "strutturato come un linguaggio". Forse una delle espressioni più note di Lacan, che - con Freud - rifugge dalle tenebre romantiche, dai miti archetipici, da certe volontà primordiali e oscure. L'inconscio si manifesta piuttosto negli zoppicamenti del discorso cosciente, come «intoppo, mancamento, fessura», in quella «discontinuità» che rivelano i sogni, gli atti mancati, le sbadataggini, i lapsus, le dimenticanze.
Ma non è tutto. Da pensatore geniale, Lacan va oltre Freud: per lui l'inconscio non è più soltanto il già dato nell'infanzia, il già scritto in un passato più o meno remoto che tende a riattualizzarsi. È anche il «non realizzato», un destino anche disgiunto dalla memoria, un "qualcosa" che può ancora compiersi e che anzi chiede sia compiuto.
Guai, però, a leggere Lacan senza rifarsi al vecchio Freud: un rischio in cui non incorre questo Dizionario di Psicanalisi, a differenza di certi lacaniani dogmatici, seguaci ancora in vena di una risibile idolatria inclini a dimenticare che Lacan è comunque un freudiano, e a Freud si è vistosamente richiamato fino alla fine dei suoi giorni.
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